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Regime probatorio della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato

Nota a Corte di Cassazione - Sezioni Unite, Sentenza 17 novembre 2008, n. 27310
Con riferimento al regime probatorio proprio della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato, si è di recente pronunciata la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con Sentenza 17 novembre 2008, n. 27310.

Con essa il Giudice di legittimità stabilisce che, anche sotto il vigore dell’art. 1 del d. l. n. 416 del 1989, convertito in legge n. 39/1990, i principi regolatori dell’onere della prova devono essere interpretati alla luce della Direttiva comunitaria 2004/83/CE, anche se questa non era stata ancora recepita dall’ordinamento italiano.

In specie la Suprema Corte era chiamata a decidere su un ricorso avverso una pronuncia che negava la concessione di status di rifugiato ad un cittadino iracheno di etnia curda e di religione musulmana. Il soggetto in questione, infatti, aveva impugnato in data 15 ottobre 2002 innanzi al Tribunale di Firenze la decisione della Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato del 13 giungo 2002, nonché il conseguente provvedimento del questore il quale in data 2 luglio 2002 gli aveva ritirato il permesso di soggiorno temporaneo per asilo e lo aveva invitato a lasciare il territorio nazionale in un termine di quindici giorni.

La Cassazione precisa che la vicenda debba essere regolata ratione temporis sotto il profilo processuale e procedimentale dalla disciplina contenuta nell’art. 1 del d. l. 30 dicembre 1989, n. 416, convertito in legge 28 febbraio 1990, n. 39. Essa, infatti, costituisce la prima fonte interna che regola lo status di rifugiato, anche sotto il profilo procedimentale, successiva alla legge di attuazione della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata con legge 24 giugno 1954, n. 722, ed al Protocollo di New York del 31 gennaio 1967.

Osserva la Corte che nonostante il legislatore fosse intervenuto con il d. lgs. n. 286 de 1998, con in quale ha abrogato gli artt. 2 e ss. della normativa suindicata, ha fatto salvo l’art. 1 il quale pertanto rimane in vigore. Inoltre, alla vicenda in esame non può essere applicata la disciplina contenuta nell’art. 32 della legge 30 luglio 2002, n. 189, con la quale si sono inseriti dopo l’art. 1 d. l. 416/1989 come convertito, gli artt. da 1 bis a 1 septies contenenti significative innovazioni sul piano del procedimento e su quello sostanziale, in quanto tali artt. entrarono in vigore solo a partire dal 20 aprile 2005, mentre la decisione della Commissione centrale impugnata è del 13 giugno 2002.

Alla luce di ciò, pur in difetto di una specifica regolamentazione del rito, la lettura dell’art. 1 co. 6 della legge n. 39/1990 consente di ravvisare la preferenza del legislatore per il modello camerale, procedura ribadita recentemente dall’art. 35 del d. lgs. 28 gennaio 2008, n. 25 il quale motiva tale scelta con esigenze di celerità e di semplicità della materia (correttamente nella specie la Corte di Appello ebbe a disporre il mutamento del rito da quello ordinario a quello camerale, con conseguente rigetto del secondo motivo di ricorso incidentale condizionato del Ministero dell’Interno).

Con riferimento all’onere probatorio vige l’orientamento giurisprudenziale il quale ritiene che devono considerarsi norme processuali, in quanto soggette al principio del tempus regit actum, quelle che attengono ai modi ed ai termini di assunzione delle prove.

È stabilito ai sensi dell’art. 1 co. 5 legge 416/1990 che lo straniero deve rivolgere istanza motivata e, in quanto possibile, documentata all’ufficio di polizia di frontiera. Tale norma è stata interpretata dalla giurisprudenza della Suprema Corte nel senso che la prova debba essere fornita dal soggetto istante, secondo i criteri generali di riparto posti dall’art. 2697 c.c., tenendo conto però delle difficoltà determinate da un allontanamento forzato e segreto, tali da rendere normalmente necessario il ricorso alla presunzione.

Spiega la Suprema Corte: “Si è al riguardo precisato che il pur limitato o attenuato onere probatorio, in ragiona del ridotto grado di disponibilità obiettiva della prove, riconosciuto dall’inciso in quanto possibile, non vale a configurare un diritto al beneficio del dubbio, né un obbligo dell’amministrazione di smentire con argomenti contrari le ragioni addotte dall’istante, né può indurre a ritenere sufficienti le attestazioni provenienti da terzi estranei al giudizio o i richiami al notorio circa situazioni politico-economiche di dissesto del Paese di origine o circa persecuzioni nei confronti di non specificate etnie di appartenenza”.

In sostanza il richiedente deve provare, quanto meno in via presuntiva, il concreto pericolo cui andrebbe incontro con il rimpatrio, precisando l’effettività e l’attualità di esso.

Inoltre il richiedente deve dimostrare di essere credibile, assolvendo al relativo onere probatorio secondo le regole del nostro ordinamento, non trovando applicazione le indicazioni contenute nel “Manuale sulle procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato” adottato dall’Alto commissariato della Nazioni Unita per i rifugiati, in quanto esse hanno il carattere di mere linee guida ma risultano prive di valore normativo.

In ordine alla valutazione delle prove è intervenuta la direttiva 2004/83/CE, la quale all’art. 4 co. 3 dispone che lo Stato membro è tenuto, in cooperazione con il richiedente, ad esaminare tutti gli elementi significativi della domanda di protezione internazionale. L’esame della domanda deve essere fatto su base individuale, attraverso la valutazione:

a) di tutti i fatti pertinenti che riguardano il paese d’origine al momento dell’adozione della decisione in merito alla domanda, comprese le disposizioni legislative e regolamentari del Paese d’origine e relative modalità di applicazione;

b) della dichiarazione e della documentazione pertinenti presentate dal richiedente che deve anche render noto se ha già subito o rischia di subire persecuzioni o danni gravi;

c) della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, in particolare l’estrazione, il sesso e l’età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave;

d) dell’eventualità che le attività svolte dal richiedente dopo aver lasciato il paese d’origine abbiano mirato esclusivamente o principalmente a creare le condizioni necessarie alla presentazione di una domanda di protezione internazionale, al fine di stabilire se dette attività espongano il richiedente a persecuzione o a danno grave in caso di rientro nel paese;

e) dell’eventualità che ci si possa ragionevolmente attendere dal richiedente un ricorso alla protezione di un altro paese di cui potrebbe dichiararsi cittadino.

Tale elencazione è collegata con la previsione del comma 5 del medesimo articolo in cui si afferma che il richiedente è tenuto a motivare la domanda di protezione internazionale, ma qualora taluni aspetti delle sue dichiarazioni non siano suffragati da prove documentali o di altro tipo, la loro conferma non è comunque necessaria se sono soddisfatte alcune condizioni le quali ricorrono quando:

a) il richiedente ha compiuto sinceri sforzi per circostanziare la domanda;

b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una spiegazione soddisfacente dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi;

c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso di cui si dispone;

d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto buoni motivi per ritardarla;

e) è accertato che il richiedente è in generale attendibile.

Da ciò deriva una forte valorizzazione dei poteri istruttori officiosi della Commissione e del giudice, ai quali spetta il compito di cooperare nell’accertamento di tali condizioni, acquisendo anche d’ufficio le informazioni necessarie a conoscere l’ordinamento giuridico e la situazione politica del Paese d’origine.

“In tale prospettiva la diligenza e la buona fede del richiedente si sostanziano in elementi di integrazione dell’insufficiente quadro probatorio, con un chiaro rivolgimento delle regole ordinarie sull’onere probatorio dettate dalla normativa codicistica vigente in Italia”.

Tale disciplina è stata recepita in Italia dal d. lgs. 19 novembre 2007, n. 251, successivamente modificato dai d.lgs. n. 25/2008 e 159/2008. Nel d. lgs. 251/2007 è prevista la presentazione a carico dello straniero di un’unica domanda di protezione internazionale ad oggetto indistinto. Spetta all’autorità dello Stato individuare la tipologia di protezione adottabile (riconoscimento dello status di rifugiato, concessione della protezione sussidiaria, soggiorno per motivi umanitari, protezione temporanea).

Il mancato riconoscimento dello status di rifugiato politico non impedisce, infatti, all’amministrazione competente di rilasciare il permesso di soggiorno allo stranero qualora sussistano altre valide ragioni che consentono di concederlo. In questo modo si è pronunciato il Tar del Lazio lo scorso 20 ottobre con sent. 8831/2008 su ricorso di uno straniero che lamentava la carenza di motivazione del provvedimento del Questore il quale avrebbe respinto la sua domanda in via automatica, considerando il diniego di permesso di soggiorno per asilo politico come meramente consequenziale al diniego del riconoscimento dello status di rifugiato, senza considerare, invece, se potesse essere accolta la sua domanda tenendo conto della particolare situazione nella quale egli si sarebbe venuto a trovare una volta rientrato nel suo Paese, e tenendo altresì conto del fatto che in Italia egli non sarebbe privo di mezzi di sostentamento.

Secondo il giudice amministrativo il ricorso è fondato in quanto la Amministrazione avrebbe dovuto accertare l’esistenza di altri elementi che consentissero di rilasciare il permesso di soggiorno ad altri titolo.

L’autorità esaminante ha, infatti, un ruolo attivo ed integrativo nell’istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, con la possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione reperibile per verificare la sussistenza delle condizioni per la concessione della protezione internazionale.

Deve inoltre escludersi, come afferma la Cassazione nella sent. 27310/2008, che per la ammissibilità delle prove testimoniali dedotte dal richiedente sia necessaria l’articolazione in capitoli separati e specifici o che la valutazione della loro ammissibilità e rilevanza si svolga secondo i criteri propri del codice di rito, dovendo per contro l’apprezzamento preventivo del giudice tendenzialmente orientarsi per l’ammissibilità del mezzo istruttorio invocato in ogni caso in cui senza il suo espletamento il materiale istruttorio acquisito si profili insufficiente.

Ciò è confermato dall’art. 8 co. 3 del d. lgs. 28 gennaio 2008 n. 25 di recente modificato con d. lgs. 159/2008, in cui è stabilito che ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paese in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’ACNUR, dal Ministero degli affari esteri, o comunque acquisite dalla Commissione stessa, la quale ha il compito di assicurare che tali informazioni, costantemente aggiornate, siano fornite agli organi giurisdizionali chiamati a pronunciarsi sulle impugnazioni delle decisioni negative.

Lo scorso 24 giugno il Tar Puglia si è pronunciato con la Sentenza n. 1870/2008 nella quale, chiamato ad esprimersi circa un provvedimento di trasferimento in Grecia (paese considerato una delle principali porte d’ingresso dei migranti provenienti da Pakistan, Turchia, Iraq, Afganistan, Cina e Somalia) emesso dal Ministero dell’Interno nei confronti di un richiedente asilo iracheno che ha presentato ricorso a motivo delle gravi violazioni dei diritti umani, ha affermato in modo in equivoco che l’Amministrazione è tenuta a valutare le condizioni che negano il permesso di soggiorno anche alla luce non solo delle disposizioni della Convenzione Dublino II, la quale dispone che il Paese deputato all’esame della richiesta di asilo sia il primo Paese europeo attraversato dal richiedente asilo, ma anche tenendo conto delle denunce di gravi violazioni dei diritti umani da parte della Grecia presentate da ACNUR ed altre organizzazioni internazionali (nel caso di specie esisteva inoltre una risoluzione del Parlamento Europeo, adottata il 11 luglio 2007, che invitava gli Stati membri, in considerazione della gravissima crisi umanitaria che coinvolge i rifugiati iracheni, a non procedere a trasferimenti o respingimenti verso quegli Stati nei quali vi è certezza che le domande dei richiedenti asilo iracheni non verranno esaminate correttamente, come nel caso della Grecia).

Con riferimento al regime probatorio proprio della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato, si è di recente pronunciata la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con Sentenza 17 novembre 2008, n. 27310.

Con essa il Giudice di legittimità stabilisce che, anche sotto il vigore dell’art. 1 del d. l. n. 416 del 1989, convertito in legge n. 39/1990, i principi regolatori dell’onere della prova devono essere interpretati alla luce della Direttiva comunitaria 2004/83/CE, anche se questa non era stata ancora recepita dall’ordinamento italiano.

In specie la Suprema Corte era chiamata a decidere su un ricorso avverso una pronuncia che negava la concessione di status di rifugiato ad un cittadino iracheno di etnia curda e di religione musulmana. Il soggetto in questione, infatti, aveva impugnato in data 15 ottobre 2002 innanzi al Tribunale di Firenze la decisione della Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato del 13 giungo 2002, nonché il conseguente provvedimento del questore il quale in data 2 luglio 2002 gli aveva ritirato il permesso di soggiorno temporaneo per asilo e lo aveva invitato a lasciare il territorio nazionale in un termine di quindici giorni.

La Cassazione precisa che la vicenda debba essere regolata ratione temporis sotto il profilo processuale e procedimentale dalla disciplina contenuta nell’art. 1 del d. l. 30 dicembre 1989, n. 416, convertito in legge 28 febbraio 1990, n. 39. Essa, infatti, costituisce la prima fonte interna che regola lo status di rifugiato, anche sotto il profilo procedimentale, successiva alla legge di attuazione della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata con legge 24 giugno 1954, n. 722, ed al Protocollo di New York del 31 gennaio 1967.

Osserva la Corte che nonostante il legislatore fosse intervenuto con il d. lgs. n. 286 de 1998, con in quale ha abrogato gli artt. 2 e ss. della normativa suindicata, ha fatto salvo l’art. 1 il quale pertanto rimane in vigore. Inoltre, alla vicenda in esame non può essere applicata la disciplina contenuta nell’art. 32 della legge 30 luglio 2002, n. 189, con la quale si sono inseriti dopo l’art. 1 d. l. 416/1989 come convertito, gli artt. da 1 bis a 1 septies contenenti significative innovazioni sul piano del procedimento e su quello sostanziale, in quanto tali artt. entrarono in vigore solo a partire dal 20 aprile 2005, mentre la decisione della Commissione centrale impugnata è del 13 giugno 2002.

Alla luce di ciò, pur in difetto di una specifica regolamentazione del rito, la lettura dell’art. 1 co. 6 della legge n. 39/1990 consente di ravvisare la preferenza del legislatore per il modello camerale, procedura ribadita recentemente dall’art. 35 del d. lgs. 28 gennaio 2008, n. 25 il quale motiva tale scelta con esigenze di celerità e di semplicità della materia (correttamente nella specie la Corte di Appello ebbe a disporre il mutamento del rito da quello ordinario a quello camerale, con conseguente rigetto del secondo motivo di ricorso incidentale condizionato del Ministero dell’Interno).

Con riferimento all’onere probatorio vige l’orientamento giurisprudenziale il quale ritiene che devono considerarsi norme processuali, in quanto soggette al principio del tempus regit actum, quelle che attengono ai modi ed ai termini di assunzione delle prove.

È stabilito ai sensi dell’art. 1 co. 5 legge 416/1990 che lo straniero deve rivolgere istanza motivata e, in quanto possibile, documentata all’ufficio di polizia di frontiera. Tale norma è stata interpretata dalla giurisprudenza della Suprema Corte nel senso che la prova debba essere fornita dal soggetto istante, secondo i criteri generali di riparto posti dall’art. 2697 c.c., tenendo conto però delle difficoltà determinate da un allontanamento forzato e segreto, tali da rendere normalmente necessario il ricorso alla presunzione.

Spiega la Suprema Corte: “Si è al riguardo precisato che il pur limitato o attenuato onere probatorio, in ragiona del ridotto grado di disponibilità obiettiva della prove, riconosciuto dall’inciso in quanto possibile, non vale a configurare un diritto al beneficio del dubbio, né un obbligo dell’amministrazione di smentire con argomenti contrari le ragioni addotte dall’istante, né può indurre a ritenere sufficienti le attestazioni provenienti da terzi estranei al giudizio o i richiami al notorio circa situazioni politico-economiche di dissesto del Paese di origine o circa persecuzioni nei confronti di non specificate etnie di appartenenza”.

In sostanza il richiedente deve provare, quanto meno in via presuntiva, il concreto pericolo cui andrebbe incontro con il rimpatrio, precisando l’effettività e l’attualità di esso.

Inoltre il richiedente deve dimostrare di essere credibile, assolvendo al relativo onere probatorio secondo le regole del nostro ordinamento, non trovando applicazione le indicazioni contenute nel “Manuale sulle procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato” adottato dall’Alto commissariato della Nazioni Unita per i rifugiati, in quanto esse hanno il carattere di mere linee guida ma risultano prive di valore normativo.

In ordine alla valutazione delle prove è intervenuta la direttiva 2004/83/CE, la quale all’art. 4 co. 3 dispone che lo Stato membro è tenuto, in cooperazione con il richiedente, ad esaminare tutti gli elementi significativi della domanda di protezione internazionale. L’esame della domanda deve essere fatto su base individuale, attraverso la valutazione:

a) di tutti i fatti pertinenti che riguardano il paese d’origine al momento dell’adozione della decisione in merito alla domanda, comprese le disposizioni legislative e regolamentari del Paese d’origine e relative modalità di applicazione;

b) della dichiarazione e della documentazione pertinenti presentate dal richiedente che deve anche render noto se ha già subito o rischia di subire persecuzioni o danni gravi;

c) della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, in particolare l’estrazione, il sesso e l’età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave;

d) dell’eventualità che le attività svolte dal richiedente dopo aver lasciato il paese d’origine abbiano mirato esclusivamente o principalmente a creare le condizioni necessarie alla presentazione di una domanda di protezione internazionale, al fine di stabilire se dette attività espongano il richiedente a persecuzione o a danno grave in caso di rientro nel paese;

e) dell’eventualità che ci si possa ragionevolmente attendere dal richiedente un ricorso alla protezione di un altro paese di cui potrebbe dichiararsi cittadino.

Tale elencazione è collegata con la previsione del comma 5 del medesimo articolo in cui si afferma che il richiedente è tenuto a motivare la domanda di protezione internazionale, ma qualora taluni aspetti delle sue dichiarazioni non siano suffragati da prove documentali o di altro tipo, la loro conferma non è comunque necessaria se sono soddisfatte alcune condizioni le quali ricorrono quando:

a) il richiedente ha compiuto sinceri sforzi per circostanziare la domanda;

b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una spiegazione soddisfacente dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi;

c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso di cui si dispone;

d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto buoni motivi per ritardarla;

e) è accertato che il richiedente è in generale attendibile.

Da ciò deriva una forte valorizzazione dei poteri istruttori officiosi della Commissione e del giudice, ai quali spetta il compito di cooperare nell’accertamento di tali condizioni, acquisendo anche d’ufficio le informazioni necessarie a conoscere l’ordinamento giuridico e la situazione politica del Paese d’origine.

“In tale prospettiva la diligenza e la buona fede del richiedente si sostanziano in elementi di integrazione dell’insufficiente quadro probatorio, con un chiaro rivolgimento delle regole ordinarie sull’onere probatorio dettate dalla normativa codicistica vigente in Italia”.

Tale disciplina è stata recepita in Italia dal d. lgs. 19 novembre 2007, n. 251, successivamente modificato dai d.lgs. n. 25/2008 e 159/2008. Nel d. lgs. 251/2007 è prevista la presentazione a carico dello straniero di un’unica domanda di protezione internazionale ad oggetto indistinto. Spetta all’autorità dello Stato individuare la tipologia di protezione adottabile (riconoscimento dello status di rifugiato, concessione della protezione sussidiaria, soggiorno per motivi umanitari, protezione temporanea).

Il mancato riconoscimento dello status di rifugiato politico non impedisce, infatti, all’amministrazione competente di rilasciare il permesso di soggiorno allo stranero qualora sussistano altre valide ragioni che consentono di concederlo. In questo modo si è pronunciato il Tar del Lazio lo scorso 20 ottobre con sent. 8831/2008 su ricorso di uno straniero che lamentava la carenza di motivazione del provvedimento del Questore il quale avrebbe respinto la sua domanda in via automatica, considerando il diniego di permesso di soggiorno per asilo politico come meramente consequenziale al diniego del riconoscimento dello status di rifugiato, senza considerare, invece, se potesse essere accolta la sua domanda tenendo conto della particolare situazione nella quale egli si sarebbe venuto a trovare una volta rientrato nel suo Paese, e tenendo altresì conto del fatto che in Italia egli non sarebbe privo di mezzi di sostentamento.

Secondo il giudice amministrativo il ricorso è fondato in quanto la Amministrazione avrebbe dovuto accertare l’esistenza di altri elementi che consentissero di rilasciare il permesso di soggiorno ad altri titolo.

L’autorità esaminante ha, infatti, un ruolo attivo ed integrativo nell’istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, con la possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione reperibile per verificare la sussistenza delle condizioni per la concessione della protezione internazionale.

Deve inoltre escludersi, come afferma la Cassazione nella sent. 27310/2008, che per la ammissibilità delle prove testimoniali dedotte dal richiedente sia necessaria l’articolazione in capitoli separati e specifici o che la valutazione della loro ammissibilità e rilevanza si svolga secondo i criteri propri del codice di rito, dovendo per contro l’apprezzamento preventivo del giudice tendenzialmente orientarsi per l’ammissibilità del mezzo istruttorio invocato in ogni caso in cui senza il suo espletamento il materiale istruttorio acquisito si profili insufficiente.

Ciò è confermato dall’art. 8 co. 3 del d. lgs. 28 gennaio 2008 n. 25 di recente modificato con d. lgs. 159/2008, in cui è stabilito che ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paese in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’ACNUR, dal Ministero degli affari esteri, o comunque acquisite dalla Commissione stessa, la quale ha il compito di assicurare che tali informazioni, costantemente aggiornate, siano fornite agli organi giurisdizionali chiamati a pronunciarsi sulle impugnazioni delle decisioni negative.

Lo scorso 24 giugno il Tar Puglia si è pronunciato con la Sentenza n. 1870/2008 nella quale, chiamato ad esprimersi circa un provvedimento di trasferimento in Grecia (paese considerato una delle principali porte d’ingresso dei migranti provenienti da Pakistan, Turchia, Iraq, Afganistan, Cina e Somalia) emesso dal Ministero dell’Interno nei confronti di un richiedente asilo iracheno che ha presentato ricorso a motivo delle gravi violazioni dei diritti umani, ha affermato in modo in equivoco che l’Amministrazione è tenuta a valutare le condizioni che negano il permesso di soggiorno anche alla luce non solo delle disposizioni della Convenzione Dublino II, la quale dispone che il Paese deputato all’esame della richiesta di asilo sia il primo Paese europeo attraversato dal richiedente asilo, ma anche tenendo conto delle denunce di gravi violazioni dei diritti umani da parte della Grecia presentate da ACNUR ed altre organizzazioni internazionali (nel caso di specie esisteva inoltre una risoluzione del Parlamento Europeo, adottata il 11 luglio 2007, che invitava gli Stati membri, in considerazione della gravissima crisi umanitaria che coinvolge i rifugiati iracheni, a non procedere a trasferimenti o respingimenti verso quegli Stati nei quali vi è certezza che le domande dei richiedenti asilo iracheni non verranno esaminate correttamente, come nel caso della Grecia).