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Un medico come si difende? il nesso causale in sede penale e in sede civile: differenze

Nel campo della responsabilità medica, particolarmente in tema di condotta omissiva del sanitario, la tematica del nesso causale ha una rilevanza particolare. Ciò per le rilevanti implicazioni che, sotto il profilo pratico, assumono le opzioni interpretative, cui ha condotto l’evoluzione della cultura giuridica contemporanea. Senza alcuna pretesa di completezza si offrono, qui di seguito, alcuni spunti di riflessione.

IL NESSO CAUSALE IN SEDE CIVILE

La Cassazione civile, sezione III , chiamata ad esprimersi, nella sentenza n. 21619 del 16/10/2007 e in un caso di responsabilità professionale medica, sull’”applicabilità, o meno, in sede di giudizio civile, dei principi affermati dalle Sezioni Unite penali della Corte di legittimità con riferimento al reato omissivo c. improprio”, rileva: “gli orientamenti espressi nel passato in subiecta materia dal giudice di legittimità in sede penale risultano essere stati tre: il primo, maggioritario e oggi disatteso dalle sezioni unite, che riconnetteva al concetto di nesso causale il criterio delle serie e apprezzabili possibilità di successo della condotta impeditiva omessa; il secondo, minoritario, fondato sul criterio della probabilità coincidente o prossima alla certezza; il terzo, infine, fatto proprio in sede di risoluzione di contrasto, dell’elevato grado di credenza razionale. In particolare, le sezioni unite penali, nella sentenza F., evidenziano come lo schema condizionalistico disegnato dagli artt. 40 e 41 c.p. vada ad integrarsi con il criterio della sussunzione sotto leggi scientifiche, onde fornire garanzie di determinatezza alla fattispecie mercè la ricerca e l’approdo ad un indissolubile legame della causalità con i dati oggettivi che discendono dalle leggi scientifiche stesse. Disattesa, così, la ricostruzione della causalità in termini di ‘serie e apprezzabili possibilità di successo’ (che viene definita ‘nozione debole della causalità giuridica’), dacchè una verifica siffatta verrebbe a sostituire all’oggettivo accertamento del nesso di causa un mero accertamento dell’aumento del rischio, trasformando i reati omissivi impropri in reati di pericolo o di mera condotta (e così violando i principi di legalità, tassatività e tipicità delle fattispecie criminose), e prese le distanze dall’orientamento della ‘probabilità prossima alla certezza’ (perchè una spiegazione causale di tipo deterministico e non induttivo secondo criteri di utopistica certezza assoluta finirebbe con il frustrare gli scopi preventivo-repressivi del processo penale), le ss.uu. adottano, nella sostanza, l’orientamento intermedio dell’elevato grado di credibilità razionale dell’accertamento giudiziale; così tracciando definitivamente il confine tra probabilità statistica e probabilità logica: (‘non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma o meno dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poichè il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza probatoria, disponibile’)”.

La Suprema Corte, “premessa la indiscutibile condivisibilità (e applicabilità tout court) del generalissimo principio che vuole preservato, in capo al giudice, quel margine irrinunciabile quanto inevitabile di verifica "logica" del rapporto di causalità al di fuori dei coefficienti meramente statistici e di altre valutazioni provenienti dagli accertamenti tecnico-scientifici”, si domanda però se tale interpretazione del nesso causale possa applicarsi in modo analogo anche in in sede di responsabilità civile. Invero, il dubbio si pone ove si consideri la diversità tra l’illecito penale e l’illecito civile, e ciò sia sotto il profilo morfologico – in ambito penale, infatti, il profilo causale del fatto è sempre rivolto verso l’autore del reato/soggetto responsabile, mentre l’illecito civile ruota attorno alla figura del danneggiato, e inoltre, nel settore penale, alla “peculiare tipicità del fatto reato” fa, in quello civile, “da speculare contralto il sistema aperto ed atipico dell’illecito civile” – e sia sotto quello funzionale – dacchè “la valutazione del nesso di causa, fondata esclusivamente sul semplice accertamento di un aumento (o di una speculare, mancata diminuzione) del rischio in conseguenza della condotta omessa, è criterio ermeneutico che inquieta l’interprete penale, poiché realmente trasforma surrettiziamente la fattispecie del reato omissivo improprio da vicenda di danno in reato di pericolo, mentre la stessa preoccupazione non pare esportabile in sede civile” e atteso altresì che “conseguenza della atipicità dell’illecito è la sua interazione con altre discipline (economiche e sociali, e non necessariamente solo scientifiche, funzionali, queste, in sede penale, a svolgere il compito di ‘legge di copertura’), onde pervenire al risultato finale di costruire una credibile teoria della prevenzione efficiente del costo sociale dei danni, allocando la responsabilità (anche) secondo criteri elastici che si strutturano (ormai da almeno un trentennio) seguendo una sempre più notevole ed accurata individuazione (specie in campo medico - professionale) delle tecniche giuridiche attraverso le quali pervenire ad una più articolata e complessa distribuzione dei rischi comunque e sempre collegati a tale attività (…)”, una questione, in sostanza, “di diritto vivente da rielaborare incessantemente secondo modelli dettati dalle complesse istanze sociali, in funzione della ricerca di criteri sempre più articolati di attribuzione di un determinato ‘costo’ sociale, da allocarsi di volta in volta presso il danneggiato ovvero da trasferire ad altri soggetti (sempre più spesso, non necessariamente i diretti danneggianti)”. Tenuto conto poi che “nulla di realmente definito parrebbe emergere dalle fonti legislative, penali e civili, sul tema della causalità in sé considerata” e anche che “nel sistema della responsabilità civile, la causalità assolve, comunque, alla duplice finalità di fungere da criterio di imputazione del fatto illecito e di regola operativa per il successivo accertamento dell’entità delle conseguenze pregiudizievoli del fatto che si traducono in danno risarcibile”, tanto che, secondo l’opinione largamente prevalente, la causalità va scomposta “nelle due fasi corrispondenti al giudizio sull’illecito (nesso condotta/evento) e al giudizio sul danno da risarcire (nesso evento/danno)”, la Cassazione afferma che “deve pertanto concludersi sul tema del nesso causale, che, in sede civile, esso è destinato inevitabilmente a risolversi entro i (più pragmatici) confini di una dimensione ‘storica’, o, se si vuole, di politica del diritto”. Arrivando quindi a sostenere che non sia “illegittimo immaginare, allora, una ‘scala discendente’, così strutturata:

1) in una diversa dimensione di analisi sovrastrutturale del (medesimo) fatto, la causalità civile "ordinaria", attestata sul versante della probabilità relativa (o ‘variabile’), caratterizzata, specie in ipotesi di reato commissivo dall’accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale, secondo modalità semantiche che, specie in sede di perizia medico-legale, possono assumere molteplici forme espressive (‘serie ed apprezzabili possibilità’, ‘ragionevole probabilità’ ecc.), senza che questo debba, peraltro, vincolare il giudice ad una formula peritale, senza che egli perda la sua funzione di operare una selezione di scelte giuridicamente opportune in un dato momento storico: senza trasformare il processo civile (e la verifica processuale in ordine all’esistenza del nesso di causa) in una questione di verifica (solo) scientifica demandabile tout court al consulente tecnico: la causalità civile, in definitiva, obbedisce alla logica del ‘più probabile che non’;

2) in una diversa dimensione, sempre nell’orbita del sottosistema civilistico, la causalità da perdita di chance, attestata tout court sul versante della mera possibilità di conseguimento di un diverso risultato terapeutico, da intendersi, rettamente, non come mancato conseguimento di un risultato soltanto possibile, bensì come sacrificio della possibilità di conseguirlo, inteso tale aspettativa (la guarigione da parte del paziente) come ‘bene’, come diritto attuale, autonomo e diverso rispetto a quello alla salute. Quasi certezza (ovvero altro grado di credibilità razionale), probabilità relativa e possibilità sono, dunque, in conclusione, le tre categorie concettuali che, oggi, presiedono all’indagine sul nesso causale nei vari rami dell’ordinamento”.

Le Sezioni Unite della Cassazione Unite, nella sentenza 11.01.2008 n. 581 , rilevano “l’insufficienza del tradizionale recepimento in sede civile dell’elaborazione penalistica in tema di nesso causale”, la quale “è emersa con chiarezza nelle concezioni moderne della responsabilità civile, che costruiscono la struttura della responsabilità aquiliana intorno al danno ingiusto, anziché al "fatto illecito", divenuto ‘fatto dannoso"’.

In effetti, mentre ai fini della sanzione penale si imputa al reo il fatto-reato (il cui elemento materiale è appunto costituito da condotta, nesso causale, ed evento naturalistico o giuridico) , ai fini della responsabilità civile ciò che si imputa è il danno e non il fatto in quanto tale”. “E tuttavia – sottolineano – un ‘fatto’ è pur sempre necessario perché la responsabilità sorga giacché l’imputazione del danno presuppone l’esistenza di una delle fattispecie normative di cui agli artt. 2043 e segg. ce, le quali tutte si risolvono nella descrizione di un nesso, che leghi storicamente un evento o ad una condotta o a cose o a fatti di altra natura, che si trovino in una particolare relazione con il soggetto chiamato a rispondere”. Il danno rileva così sotto due diversi profili: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica. “Si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea, l’idea (…) che esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell’intero danno cagionato, che costituisce l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria”. Sotto il profilo della causalità materiale nell’ambito della responsabilità aquiliana, prosegue la Suprema Corte, “la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p.,ritengono che un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).

Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p, in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal secondo comma dell’art. 41 c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti,ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268)”. Però, aggiunge, “nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c. d. causalità adeguata o quella similare della ed. regolarità causale (ex multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962)”.

In conseguenza, “per la teoria della regolarità causale, ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti di common law, ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili”. Sulle modalità, poi, con cui si compie il giudizio di adeguatezza, e cioè se con valutazione ex ante, e quindi al momento della condotta, o ex post e perciò a quello del verificarsi delle conseguenze dannose, le Sezioni Unite optano per la valutazione ex ante, con ‘prognosi postuma’, affermando che “si deve accertare se, al momento in cui è avvenuta l’azione, era del tutto imprevedibile che ne sarebbe potuta discendere una data conseguenza”. “Ciò che rileva – si dichiara - è che l’evento sia prevedibile non da parte dell’agente, ma (per così dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende da parte delle stesse un giudizio di non improbabilità dell’evento. Il principio della regolarità causale diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad iscriversi entro l’elemento soggettivo (la colpevolezza) dell’illecito”. Nell’imputazione per omissione colposa, il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004; Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n.15789): rilievo, osserva la Corte, che si traduce nell’affermazione che il danno sia una concretizzazione del rischio, che la norma di condotta violata tendeva a prevenire. “Poiché l’omissione di un certo comportamento, rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell’evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l’omissione, siccome implicante l’esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell’evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell’impedimento di quell’evento, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì postula la preventiva individuazione dell’obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto.

L’individuazione di tale obbligo si connota come preliminare per l’apprezzamento di una condotta omissiva sul piano della causalità, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non è possibile apprezzare l’omissione del comportamento sul piano causale”.

La domanda cui si deve rispondere è: l’azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe impedito l’evento? “In altri termini non può riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l’evento prospettato: la responsabilità non sorge non perché non vi sia stato un comportamento antigiuridico (l’omissione di un comportamento dovuto è di per sé un comportamento antigiuridico), ma perchè quell’omissione non è causa del danno lamentato”. Il giudice, perciò, “è tenuto ad accertare se l’evento sia ricollegabile all’omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l’agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi.

L’accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l’enunciato "controfattuale"”. E in ambito civile? “Si deve ritenere - affermano le Sezioni Unite - che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p e dalla "regolarità causale", in assenza di altre norme nell’ordinamento in tema di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di esperienza”. “Dovendosi solo specificare – precisano - che l’applicazione dei principi generali di cui agli artt. 40 e 41 cp., temperati dalla ‘regolarità causale’, ai fini della ricostruzione del nesso eziologico va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile (…) E’ vero che la responsabilità civile orbita intorno alla figura del danneggiato, mentre quella penale intorno alla figura dell’autore del reato, ma come è stato acutamente rilevato, un responsabile è pur sempre necessario, se non si vuole trasformare la responsabilità civile in un’assicurazione contro i danni, peraltro in assenza di premio (…) E’ vero, altresì, che, contrariamente alla responsabilità penale, il criterio di imputazione della responsabilità civile non sempre è una condotta colpevole; ciò comporta solo una varietà di tali criteri di imputazione, ma da una parte non elimina la necessità del nesso di causalità di fatto e dall’altra non modifica le regole giuridico-logiche che presiedono all’esistenza del rapporto eziologico”. E aggiungono: “In assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, ancora occorre far riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con la particolarità che in questo caso il nesso eziologico andrà valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere, ma tra l’elemento individuato dal criterio di imputazione e l’evento dannoso. In altri termini, mentre nella responsabilità penale il rapporto eziologico ha sempre come punto di riferimento iniziale la condotta dell’agente, in tema di responsabilità civile extracontrattuale il punto di partenza del segmento causale rilevante può essere anche altro, se in questi termini la norma fissa il criterio di imputazione, ma le regole per ritenere sussistente, concorrente, insussistente o interrotto il nesso causale tra tale elemento e l’evento dannoso, in assenza di altre disposizioni normative, rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e 41 c.p.. Il rischio o il pericolo, considerati eventualmente dal la ratio dello specifico paradigma normativo ai fini dell’allocazione del costo del danno, possono sorreggere la motivazione che porta ad accertare la causalità di fatto, ma restano categorie di mero supporto che da sole non valgono a costruire autonomamente una teoria della causalità nell’illecito civile”.

Ma una differenza fra ambito civile e penale però esiste e non può non esserci. Ciò che muta sostanzialmente fra il processo penale e quello civile “la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o "del più probabile che non", stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti”. “Detto standard di ‘certezza probabilistica’ in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (cd. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (cd. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (cd. evidence and inference nei sistemi anglosassoni)”.

LA RESPONSABILITA’ DEL MEDICO E DELLA STRUTTURA SANITARIA: NATURA E RIPARTO DELL’ONERE DELLA PROVA

In tale contesto, dove il nesso causale nell’illecito civile viene ricostruito secondo i modelli sopra prospettati, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, nella sentenza 11.1.2008 n. 577 , ricostruisce la responsabilità medica e la responsabilità della struttura sanitaria quale responsabilità contrattuale. E, in conseguenza, ripartisce l’onere della prova. “Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (Cass. n. 1698 del 2006; Cass. n. 9085 del 2006; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316). A sua volta anche l’obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul ‘contatto sociale’, ha natura contrattuale (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589; Cass. 29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. n. 9085 del 2006)”. Dopo aver rilevato che per diverso tempo tale legame contrattuale è stato interpretato con il modello del contratto di prestazione d’opera intellettuale fra medico e paziente, con conseguente appiattimento della responsabilità della struttura su quella del medico, le Sezioni Unite optano invece per una riconsiderazione del rapporto struttura sanitaria – paziente con connotati di autonomia e di atipicità, cui applicare le regole ordinarie sull’inadempimento fissate dall’art. 1218 c.c. “Da ciò consegue l’apertura a forme di responsabilità autonome dell’ente, che prescindono dall’accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, e trovano invece la propria fonte nell’inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all’ente.

Questo percorso interpretativo, anticipato dalla giurisprudenza di merito, ha trovato conferma in una sentenza di queste Sezioni Unite (1.7.2002, n. 9556, seguita poi da altre delle sezioni semplici, Cass. n. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006) che si è espressa in favore di una lettura del rapporto tra paziente e struttura (anche in quel caso, privata) che valorizzi la complessità e l’atipicità del legame che si instaura, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l’apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni. In virtù del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di ‘assistenza sanitaria’, che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi cd. di protezione ed accessori”.

Così ricostruita la responsabilità della struttura sanitaria, ne deriva, da un lato, che per le obbligazioni mediche che essa struttura svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, ne risponderà secondo il paradigma dell’art. 1228 c.c., e, dall’altro, che si possa avere una responsabilità della struttura non solo per il fatto del personale medico ma anche del personale ausiliario nonché della struttura stessa (per insufficiente o inidonea organizzazione). Non assume rilevanza, in tale contesto, precisa la Suprema Corte, se la struttura cui il paziente si è rivolto faccia parte del Servizio sanitario nazionale o sia struttura convenzionata o invece privata, in quanto “sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di struttura verso il fruitore dei servizi”. Però, osservano le Sezioni Unite, “inquadrata nell’ambito contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria e del medico, nel rapporto con il paziente, il problema del riparto dell’onere probatorio deve seguire i criteri fissati in materia contrattuale, alla luce del principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento.

Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio - condiviso da questo Collegio - secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento. Analogo principio è stato enunciato con riguardo all’inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento”.

Applicando tale principio nel campo della responsabilità professionale del medico, la giurisprudenza delle sezioni semplici della Corte, ha ritenuto che “gravasse sull’attore (paziente danneggiato che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria) oltre alla prova del contratto, anche quella dell’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie nonché la prova del nesso di causalità tra l’azione o l’omissione del debitore e tale evento dannoso, allegando il solo inadempimento del sanitario. Resta a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento, cioè di aver tenuto un comportamento diligente (Cass. n. 12362 del 2006; Cass. 11.11.2005, n. 22894; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 3.8.2004, n. 14812)”. Anche la distinzione fra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato può dirsi, a parere delle Sezioni Unite, “dogmaticamente superata”. Infatti, “questa Corte (sent. n. 13533/2001) ha affermato che il meccanismo di ripartizione dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c. in materia di responsabilità contrattuale (in conformità a criteri di ragionevolezza per identità di situazioni probatorie, di riferibilità in concreto dell’onere probatorio alla sfera di azione dei singoli soggetti e di distinzione strutturale tra responsabilità contrattuale e da fatto illecito) è identico, sia che il creditore agisca per l’adempimento dell’obbligazione, ex art. 1453 cc., sia che domandi il risarcimento per l’inadempimento contrattuale, ex art. 1218 cc., senza richiamarsi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato”.

E continuano: “Prestata piena adesione al principio espresso dalla pronunzia suddetta, ritengono queste S.U. che l’inadempimento rilevante nell’ambito dell’azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno”. Tra il medico e il paziente il rapporto, di natura contrattuale, trova, secondo la cultura giuridica contemporanea , fonte nel ‘contatto sociale’, inteso come una relazione caratterizzata da un affidamento.

Che, nella fattispecie, viene individuato nell’affidamento del paziente nella professionalità del medico, il quale è tenuto a svolgere la propria prestazione secondo i parametri della sua categoria professionale e tenuto conto anche di eventuali specializzazioni conseguite. E’ stato molto acutamente osservato in dottrina che la tesi del ‘contatto sociale’ si aggancia al concetto di contratto di fatto, definito come fonte di un rapporto, nonostante l’assenza di un accordo e la presenza soltanto di una relazione socialmente rilevante.

SPUNTI DI RIFLESSIONE … E DUBBI

Nell’evoluzione attuale della riflessione giuridica, la responsabilità medica e la responsabilità della struttura sanitaria vengono prevalentemente inquadrate nell’ambito della responsabilità contrattuale.

La conseguenza più rilevante di ciò è l’applicazione della relativa disciplina, come interpretata dalla Sezioni Unite, in materia di inadempimento e di riparto dell’onere della prova fra le parti. Invero, nell’interpretazione offerta dalla giurisprudenza sopra evidenziata in tema di riparto dell’onere probatorio, si ravvisa una presunzione di responsabilità a carico del medico e della struttura sanitaria nei confronti del paziente. Una presunzione che viene delineata con i caratteri della presunzione semplice, dacchè è fatta salva la possibilità per il medico e per la struttura sanitaria di dimostrare l’assenza dell’inadempimento o del nesso causale fra l’inadempimento e il danno sofferto dal paziente. In questa prospettiva, il malato è tenuto a provare, in primo luogo, il contratto con la struttura sanitaria o con il medico. Il che significa, in altri termini, che il paziente deve provare di essere stato accettato come tale, e quindi come destinatario dei trattamenti sanitari, dalla struttura, essendosi ad essa rivolto con le modalità previste per l’accettazione dell’utente. In ipotesi di rapporto con un medico, il malato deve dimostrare di essersi rivolto al medico stesso al fine di riceverne le sue prestazioni professionali: questa condotta, da parte del paziente, infatti determina il ‘contatto sociale’ che crea affidamento.

La responsabilità che così sorge può inquadrarsi nel paradigma della responsabilità contrattuale. Conseguenza ne è che il paziente, il quale si dolga dell’inadempimento della struttura sanitaria o del medico, deve allegare la sussistenza di “un inadempimento qualificato”, per usare le parole delle Sezioni Unite, e cioè di una condotta “astrattamente efficiente alla produzione del danno”, oltre ovviamente a dover dimostrare il danno sofferto. E tanto sia nell’ipotesi in cui egli agisca per il risarcimento del danno medesimo o in quella in cui chieda l’adempimento. Deve allegare perciò una condotta che, quantomeno in astratto, possa produrre il danno lamentato. Secondo i dettami della Suprema Corte, spetta poi al medico o alla struttura sanitaria provare che l’inadempimento non vi sia stato o che, pur essendovi l’inadempimento, esso non fosse eziologicamente rilevante nella determinazione del danno sofferto dal malato. E se il medico o la struttura non ha successo in ciò, scatta la presunzione relativa di responsabilità a suo carico. In altri termini: in assenza di detta prova liberatoria, il medico o la struttura sono responsabili.

L’onere della prova nella responsabilità contrattuale infatti è invertito ed è a carico del sanitario dar la prova liberatoria e non è onere del paziente dar prova della causalità dell’inadempimento nell’eziologia del suo pregiudizio. E qui viene il punto. O meglio, gli spunti su cui riflettere. Cosa, in concreto, deve provare il medico per liberarsi della presunzione che la sua condotta abbia cagionato la patologia nel paziente o il suo aggravamento? Invero, la sussistenza di un ‘ragionevole dubbio’ sul fatto che la sua condotta abbia cagionato il danno al paziente, secondo i criteri indicati dalle S.U. 581/2008 e S.U. 21619/2007, non parrebbe sufficiente a vincere tale presunzione. Con conseguente dichiarazione di responsabilità del sanitario. Se però, per converso, si fosse non nell’ambito di un giudizio civile volto al risarcimento del danno a carico del medico, ma in un procedimento penale, dove quel medesimo sanitario è imputato di un reato in conseguenza della medesima sua condotta, in virtù degli stessi principi autorevolmente proposti, il suo stesso operato non dovrebbe poter essere censurato, e ciò proprio per la sussistenza di un ‘ragionevole dubbio’ sull’esistenza del nesso causale fra la sua condotta e il danno sofferto. Ma, sempre restando in sede civile, e immaginando una causa intentata dal paziente verso il medico per conseguire il risarcimento del danno patito, cosa dovrebbe provare allora detto medico per liberarsi della presunzione di responsabilità? Secondo i parametri indicati dalle medesime SS.UU., sembrerebbe dover provare l’insussistenza del “più probabile che non”.

Ma che significa, in concreto? Cosa deve riuscire a dimostrare, in effetti, quel medico? Dovrebbe dimostrare forse che ‘non è più probabile che’ la sua condotta abbia cagionato il danno al paziente? Dovrebbe provare quindi che ‘è improbabile’ che la sua omissione abbia cagionato il danno? Danno che, ricordiamolo, ben può essere individuato anche come perdita di chances, vale a dire, per dirla come le SS.UU., quale il sacrificio delle possibilità di conseguire un diverso risultato terapeutico. E allora, le difficoltà nell’intendere, sotto il profilo pratico, i concetti dogmatici in questione diventano di lampante e palese evidenza. Il medico dovrebbe dimostrare positivamente che è più probabile che la sua condotta, anche omissiva, non abbia avuto influenza sulla possibilità di conseguire un risultato diverso? O sarebbe sufficiente la dimostrazione negativa, e cioè che vi è comunque un ragionevole dubbio in tutto ciò? Ma, così inteso, non vi sarebbe allora il rischio di ricadere nell’area del ragionevole dubbio, che però è stata ritenuta inadeguata nell’ambito civile?

Si ricorda che la conseguenza della mancata prova, da parte del medico, è la sua responsabilità nei confronti del paziente. Ma allora, in definitiva, cosa deve provare, in concreto, il medico per non essere dichiarato responsabile? Il disagio nel trovare una risposta adeguata, da parte dell’operatore del diritto, diventa ancora più invadente ove si consideri la frequente inferenza che, nella prassi quotidiana, assumono il procedimento penale e quello civile, i quali ben accade che si sviluppino attorno alla medesima condotta tenuta dal sanitario. Il difensore del sanitario potrebbe invero sperare, in sede di accertamento penale e proprio in considerazione delle ‘maglie più larghe’ del ‘ragionevole dubbio’, in un’assoluzione, da produrre poi nel giudizio civile, al fine di avere un elemento in più per conseguire, in tal sede, il rigetto delle pretese risarcitorie svolte dal paziente. Il difensore del paziente potrebbe invece avere uno speculare e contrario interesse.

Ciò senza dire delle difficoltà che si trova a dover inevitabilmente affrontare il giudice nell’ipotesi in cui il paziente abbia esercitato l’azione civile nel procedimento penale, costituendosi parte civile. Vi è certamente materia per riflettere. E per vedere le soluzioni che la giurisprudenza, specialmente di merito, saprà elaborare in questa delicata materia, dove accanto ad esigenze sacrosante di tutela del diritto alla salute del paziente si affiancano esigenze di certezza e tutela del diritto di difesa del medico.

Nel campo della responsabilità medica, particolarmente in tema di condotta omissiva del sanitario, la tematica del nesso causale ha una rilevanza particolare. Ciò per le rilevanti implicazioni che, sotto il profilo pratico, assumono le opzioni interpretative, cui ha condotto l’evoluzione della cultura giuridica contemporanea. Senza alcuna pretesa di completezza si offrono, qui di seguito, alcuni spunti di riflessione.

IL NESSO CAUSALE IN SEDE CIVILE

La Cassazione civile, sezione III , chiamata ad esprimersi, nella sentenza n. 21619 del 16/10/2007 e in un caso di responsabilità professionale medica, sull’”applicabilità, o meno, in sede di giudizio civile, dei principi affermati dalle Sezioni Unite penali della Corte di legittimità con riferimento al reato omissivo c. improprio”, rileva: “gli orientamenti espressi nel passato in subiecta materia dal giudice di legittimità in sede penale risultano essere stati tre: il primo, maggioritario e oggi disatteso dalle sezioni unite, che riconnetteva al concetto di nesso causale il criterio delle serie e apprezzabili possibilità di successo della condotta impeditiva omessa; il secondo, minoritario, fondato sul criterio della probabilità coincidente o prossima alla certezza; il terzo, infine, fatto proprio in sede di risoluzione di contrasto, dell’elevato grado di credenza razionale. In particolare, le sezioni unite penali, nella sentenza F., evidenziano come lo schema condizionalistico disegnato dagli artt. 40 e 41 c.p. vada ad integrarsi con il criterio della sussunzione sotto leggi scientifiche, onde fornire garanzie di determinatezza alla fattispecie mercè la ricerca e l’approdo ad un indissolubile legame della causalità con i dati oggettivi che discendono dalle leggi scientifiche stesse. Disattesa, così, la ricostruzione della causalità in termini di ‘serie e apprezzabili possibilità di successo’ (che viene definita ‘nozione debole della causalità giuridica’), dacchè una verifica siffatta verrebbe a sostituire all’oggettivo accertamento del nesso di causa un mero accertamento dell’aumento del rischio, trasformando i reati omissivi impropri in reati di pericolo o di mera condotta (e così violando i principi di legalità, tassatività e tipicità delle fattispecie criminose), e prese le distanze dall’orientamento della ‘probabilità prossima alla certezza’ (perchè una spiegazione causale di tipo deterministico e non induttivo secondo criteri di utopistica certezza assoluta finirebbe con il frustrare gli scopi preventivo-repressivi del processo penale), le ss.uu. adottano, nella sostanza, l’orientamento intermedio dell’elevato grado di credibilità razionale dell’accertamento giudiziale; così tracciando definitivamente il confine tra probabilità statistica e probabilità logica: (‘non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma o meno dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poichè il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza probatoria, disponibile’)”.

La Suprema Corte, “premessa la indiscutibile condivisibilità (e applicabilità tout court) del generalissimo principio che vuole preservato, in capo al giudice, quel margine irrinunciabile quanto inevitabile di verifica "logica" del rapporto di causalità al di fuori dei coefficienti meramente statistici e di altre valutazioni provenienti dagli accertamenti tecnico-scientifici”, si domanda però se tale interpretazione del nesso causale possa applicarsi in modo analogo anche in in sede di responsabilità civile. Invero, il dubbio si pone ove si consideri la diversità tra l’illecito penale e l’illecito civile, e ciò sia sotto il profilo morfologico – in ambito penale, infatti, il profilo causale del fatto è sempre rivolto verso l’autore del reato/soggetto responsabile, mentre l’illecito civile ruota attorno alla figura del danneggiato, e inoltre, nel settore penale, alla “peculiare tipicità del fatto reato” fa, in quello civile, “da speculare contralto il sistema aperto ed atipico dell’illecito civile” – e sia sotto quello funzionale – dacchè “la valutazione del nesso di causa, fondata esclusivamente sul semplice accertamento di un aumento (o di una speculare, mancata diminuzione) del rischio in conseguenza della condotta omessa, è criterio ermeneutico che inquieta l’interprete penale, poiché realmente trasforma surrettiziamente la fattispecie del reato omissivo improprio da vicenda di danno in reato di pericolo, mentre la stessa preoccupazione non pare esportabile in sede civile” e atteso altresì che “conseguenza della atipicità dell’illecito è la sua interazione con altre discipline (economiche e sociali, e non necessariamente solo scientifiche, funzionali, queste, in sede penale, a svolgere il compito di ‘legge di copertura’), onde pervenire al risultato finale di costruire una credibile teoria della prevenzione efficiente del costo sociale dei danni, allocando la responsabilità (anche) secondo criteri elastici che si strutturano (ormai da almeno un trentennio) seguendo una sempre più notevole ed accurata individuazione (specie in campo medico - professionale) delle tecniche giuridiche attraverso le quali pervenire ad una più articolata e complessa distribuzione dei rischi comunque e sempre collegati a tale attività (…)”, una questione, in sostanza, “di diritto vivente da rielaborare incessantemente secondo modelli dettati dalle complesse istanze sociali, in funzione della ricerca di criteri sempre più articolati di attribuzione di un determinato ‘costo’ sociale, da allocarsi di volta in volta presso il danneggiato ovvero da trasferire ad altri soggetti (sempre più spesso, non necessariamente i diretti danneggianti)”. Tenuto conto poi che “nulla di realmente definito parrebbe emergere dalle fonti legislative, penali e civili, sul tema della causalità in sé considerata” e anche che “nel sistema della responsabilità civile, la causalità assolve, comunque, alla duplice finalità di fungere da criterio di imputazione del fatto illecito e di regola operativa per il successivo accertamento dell’entità delle conseguenze pregiudizievoli del fatto che si traducono in danno risarcibile”, tanto che, secondo l’opinione largamente prevalente, la causalità va scomposta “nelle due fasi corrispondenti al giudizio sull’illecito (nesso condotta/evento) e al giudizio sul danno da risarcire (nesso evento/danno)”, la Cassazione afferma che “deve pertanto concludersi sul tema del nesso causale, che, in sede civile, esso è destinato inevitabilmente a risolversi entro i (più pragmatici) confini di una dimensione ‘storica’, o, se si vuole, di politica del diritto”. Arrivando quindi a sostenere che non sia “illegittimo immaginare, allora, una ‘scala discendente’, così strutturata:

1) in una diversa dimensione di analisi sovrastrutturale del (medesimo) fatto, la causalità civile "ordinaria", attestata sul versante della probabilità relativa (o ‘variabile’), caratterizzata, specie in ipotesi di reato commissivo dall’accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale, secondo modalità semantiche che, specie in sede di perizia medico-legale, possono assumere molteplici forme espressive (‘serie ed apprezzabili possibilità’, ‘ragionevole probabilità’ ecc.), senza che questo debba, peraltro, vincolare il giudice ad una formula peritale, senza che egli perda la sua funzione di operare una selezione di scelte giuridicamente opportune in un dato momento storico: senza trasformare il processo civile (e la verifica processuale in ordine all’esistenza del nesso di causa) in una questione di verifica (solo) scientifica demandabile tout court al consulente tecnico: la causalità civile, in definitiva, obbedisce alla logica del ‘più probabile che non’;

2) in una diversa dimensione, sempre nell’orbita del sottosistema civilistico, la causalità da perdita di chance, attestata tout court sul versante della mera possibilità di conseguimento di un diverso risultato terapeutico, da intendersi, rettamente, non come mancato conseguimento di un risultato soltanto possibile, bensì come sacrificio della possibilità di conseguirlo, inteso tale aspettativa (la guarigione da parte del paziente) come ‘bene’, come diritto attuale, autonomo e diverso rispetto a quello alla salute. Quasi certezza (ovvero altro grado di credibilità razionale), probabilità relativa e possibilità sono, dunque, in conclusione, le tre categorie concettuali che, oggi, presiedono all’indagine sul nesso causale nei vari rami dell’ordinamento”.

Le Sezioni Unite della Cassazione Unite, nella sentenza 11.01.2008 n. 581 , rilevano “l’insufficienza del tradizionale recepimento in sede civile dell’elaborazione penalistica in tema di nesso causale”, la quale “è emersa con chiarezza nelle concezioni moderne della responsabilità civile, che costruiscono la struttura della responsabilità aquiliana intorno al danno ingiusto, anziché al "fatto illecito", divenuto ‘fatto dannoso"’.

In effetti, mentre ai fini della sanzione penale si imputa al reo il fatto-reato (il cui elemento materiale è appunto costituito da condotta, nesso causale, ed evento naturalistico o giuridico) , ai fini della responsabilità civile ciò che si imputa è il danno e non il fatto in quanto tale”. “E tuttavia – sottolineano – un ‘fatto’ è pur sempre necessario perché la responsabilità sorga giacché l’imputazione del danno presuppone l’esistenza di una delle fattispecie normative di cui agli artt. 2043 e segg. ce, le quali tutte si risolvono nella descrizione di un nesso, che leghi storicamente un evento o ad una condotta o a cose o a fatti di altra natura, che si trovino in una particolare relazione con il soggetto chiamato a rispondere”. Il danno rileva così sotto due diversi profili: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica. “Si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea, l’idea (…) che esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell’intero danno cagionato, che costituisce l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria”. Sotto il profilo della causalità materiale nell’ambito della responsabilità aquiliana, prosegue la Suprema Corte, “la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p.,ritengono che un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).

Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p, in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal secondo comma dell’art. 41 c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti,ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268)”. Però, aggiunge, “nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c. d. causalità adeguata o quella similare della ed. regolarità causale (ex multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962)”.

In conseguenza, “per la teoria della regolarità causale, ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti di common law, ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili”. Sulle modalità, poi, con cui si compie il giudizio di adeguatezza, e cioè se con valutazione ex ante, e quindi al momento della condotta, o ex post e perciò a quello del verificarsi delle conseguenze dannose, le Sezioni Unite optano per la valutazione ex ante, con ‘prognosi postuma’, affermando che “si deve accertare se, al momento in cui è avvenuta l’azione, era del tutto imprevedibile che ne sarebbe potuta discendere una data conseguenza”. “Ciò che rileva – si dichiara - è che l’evento sia prevedibile non da parte dell’agente, ma (per così dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende da parte delle stesse un giudizio di non improbabilità dell’evento. Il principio della regolarità causale diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad iscriversi entro l’elemento soggettivo (la colpevolezza) dell’illecito”. Nell’imputazione per omissione colposa, il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004; Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n.15789): rilievo, osserva la Corte, che si traduce nell’affermazione che il danno sia una concretizzazione del rischio, che la norma di condotta violata tendeva a prevenire. “Poiché l’omissione di un certo comportamento, rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell’evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l’omissione, siccome implicante l’esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell’evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell’impedimento di quell’evento, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì postula la preventiva individuazione dell’obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto.

L’individuazione di tale obbligo si connota come preliminare per l’apprezzamento di una condotta omissiva sul piano della causalità, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non è possibile apprezzare l’omissione del comportamento sul piano causale”.

La domanda cui si deve rispondere è: l’azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe impedito l’evento? “In altri termini non può riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l’evento prospettato: la responsabilità non sorge non perché non vi sia stato un comportamento antigiuridico (l’omissione di un comportamento dovuto è di per sé un comportamento antigiuridico), ma perchè quell’omissione non è causa del danno lamentato”. Il giudice, perciò, “è tenuto ad accertare se l’evento sia ricollegabile all’omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l’agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi.

L’accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l’enunciato "controfattuale"”. E in ambito civile? “Si deve ritenere - affermano le Sezioni Unite - che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p e dalla "regolarità causale", in assenza di altre norme nell’ordinamento in tema di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di esperienza”. “Dovendosi solo specificare – precisano - che l’applicazione dei principi generali di cui agli artt. 40 e 41 cp., temperati dalla ‘regolarità causale’, ai fini della ricostruzione del nesso eziologico va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile (…) E’ vero che la responsabilità civile orbita intorno alla figura del danneggiato, mentre quella penale intorno alla figura dell’autore del reato, ma come è stato acutamente rilevato, un responsabile è pur sempre necessario, se non si vuole trasformare la responsabilità civile in un’assicurazione contro i danni, peraltro in assenza di premio (…) E’ vero, altresì, che, contrariamente alla responsabilità penale, il criterio di imputazione della responsabilità civile non sempre è una condotta colpevole; ciò comporta solo una varietà di tali criteri di imputazione, ma da una parte non elimina la necessità del nesso di causalità di fatto e dall’altra non modifica le regole giuridico-logiche che presiedono all’esistenza del rapporto eziologico”. E aggiungono: “In assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, ancora occorre far riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con la particolarità che in questo caso il nesso eziologico andrà valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere, ma tra l’elemento individuato dal criterio di imputazione e l’evento dannoso. In altri termini, mentre nella responsabilità penale il rapporto eziologico ha sempre come punto di riferimento iniziale la condotta dell’agente, in tema di responsabilità civile extracontrattuale il punto di partenza del segmento causale rilevante può essere anche altro, se in questi termini la norma fissa il criterio di imputazione, ma le regole per ritenere sussistente, concorrente, insussistente o interrotto il nesso causale tra tale elemento e l’evento dannoso, in assenza di altre disposizioni normative, rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e 41 c.p.. Il rischio o il pericolo, considerati eventualmente dal la ratio dello specifico paradigma normativo ai fini dell’allocazione del costo del danno, possono sorreggere la motivazione che porta ad accertare la causalità di fatto, ma restano categorie di mero supporto che da sole non valgono a costruire autonomamente una teoria della causalità nell’illecito civile”.

Ma una differenza fra ambito civile e penale però esiste e non può non esserci. Ciò che muta sostanzialmente fra il processo penale e quello civile “la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o "del più probabile che non", stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti”. “Detto standard di ‘certezza probabilistica’ in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (cd. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (cd. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (cd. evidence and inference nei sistemi anglosassoni)”.

LA RESPONSABILITA’ DEL MEDICO E DELLA STRUTTURA SANITARIA: NATURA E RIPARTO DELL’ONERE DELLA PROVA

In tale contesto, dove il nesso causale nell’illecito civile viene ricostruito secondo i modelli sopra prospettati, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, nella sentenza 11.1.2008 n. 577 , ricostruisce la responsabilità medica e la responsabilità della struttura sanitaria quale responsabilità contrattuale. E, in conseguenza, ripartisce l’onere della prova. “Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (Cass. n. 1698 del 2006; Cass. n. 9085 del 2006; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316). A sua volta anche l’obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul ‘contatto sociale’, ha natura contrattuale (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589; Cass. 29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. n. 9085 del 2006)”. Dopo aver rilevato che per diverso tempo tale legame contrattuale è stato interpretato con il modello del contratto di prestazione d’opera intellettuale fra medico e paziente, con conseguente appiattimento della responsabilità della struttura su quella del medico, le Sezioni Unite optano invece per una riconsiderazione del rapporto struttura sanitaria – paziente con connotati di autonomia e di atipicità, cui applicare le regole ordinarie sull’inadempimento fissate dall’art. 1218 c.c. “Da ciò consegue l’apertura a forme di responsabilità autonome dell’ente, che prescindono dall’accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, e trovano invece la propria fonte nell’inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all’ente.

Questo percorso interpretativo, anticipato dalla giurisprudenza di merito, ha trovato conferma in una sentenza di queste Sezioni Unite (1.7.2002, n. 9556, seguita poi da altre delle sezioni semplici, Cass. n. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006) che si è espressa in favore di una lettura del rapporto tra paziente e struttura (anche in quel caso, privata) che valorizzi la complessità e l’atipicità del legame che si instaura, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l’apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni. In virtù del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di ‘assistenza sanitaria’, che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi cd. di protezione ed accessori”.

Così ricostruita la responsabilità della struttura sanitaria, ne deriva, da un lato, che per le obbligazioni mediche che essa struttura svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, ne risponderà secondo il paradigma dell’art. 1228 c.c., e, dall’altro, che si possa avere una responsabilità della struttura non solo per il fatto del personale medico ma anche del personale ausiliario nonché della struttura stessa (per insufficiente o inidonea organizzazione). Non assume rilevanza, in tale contesto, precisa la Suprema Corte, se la struttura cui il paziente si è rivolto faccia parte del Servizio sanitario nazionale o sia struttura convenzionata o invece privata, in quanto “sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di struttura verso il fruitore dei servizi”. Però, osservano le Sezioni Unite, “inquadrata nell’ambito contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria e del medico, nel rapporto con il paziente, il problema del riparto dell’onere probatorio deve seguire i criteri fissati in materia contrattuale, alla luce del principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento.

Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio - condiviso da questo Collegio - secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento. Analogo principio è stato enunciato con riguardo all’inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento”.

Applicando tale principio nel campo della responsabilità professionale del medico, la giurisprudenza delle sezioni semplici della Corte, ha ritenuto che “gravasse sull’attore (paziente danneggiato che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria) oltre alla prova del contratto, anche quella dell’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie nonché la prova del nesso di causalità tra l’azione o l’omissione del debitore e tale evento dannoso, allegando il solo inadempimento del sanitario. Resta a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento, cioè di aver tenuto un comportamento diligente (Cass. n. 12362 del 2006; Cass. 11.11.2005, n. 22894; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 3.8.2004, n. 14812)”. Anche la distinzione fra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato può dirsi, a parere delle Sezioni Unite, “dogmaticamente superata”. Infatti, “questa Corte (sent. n. 13533/2001) ha affermato che il meccanismo di ripartizione dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c. in materia di responsabilità contrattuale (in conformità a criteri di ragionevolezza per identità di situazioni probatorie, di riferibilità in concreto dell’onere probatorio alla sfera di azione dei singoli soggetti e di distinzione strutturale tra responsabilità contrattuale e da fatto illecito) è identico, sia che il creditore agisca per l’adempimento dell’obbligazione, ex art. 1453 cc., sia che domandi il risarcimento per l’inadempimento contrattuale, ex art. 1218 cc., senza richiamarsi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato”.

E continuano: “Prestata piena adesione al principio espresso dalla pronunzia suddetta, ritengono queste S.U. che l’inadempimento rilevante nell’ambito dell’azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno”. Tra il medico e il paziente il rapporto, di natura contrattuale, trova, secondo la cultura giuridica contemporanea , fonte nel ‘contatto sociale’, inteso come una relazione caratterizzata da un affidamento.

Che, nella fattispecie, viene individuato nell’affidamento del paziente nella professionalità del medico, il quale è tenuto a svolgere la propria prestazione secondo i parametri della sua categoria professionale e tenuto conto anche di eventuali specializzazioni conseguite. E’ stato molto acutamente osservato in dottrina che la tesi del ‘contatto sociale’ si aggancia al concetto di contratto di fatto, definito come fonte di un rapporto, nonostante l’assenza di un accordo e la presenza soltanto di una relazione socialmente rilevante.

SPUNTI DI RIFLESSIONE … E DUBBI

Nell’evoluzione attuale della riflessione giuridica, la responsabilità medica e la responsabilità della struttura sanitaria vengono prevalentemente inquadrate nell’ambito della responsabilità contrattuale.

La conseguenza più rilevante di ciò è l’applicazione della relativa disciplina, come interpretata dalla Sezioni Unite, in materia di inadempimento e di riparto dell’onere della prova fra le parti. Invero, nell’interpretazione offerta dalla giurisprudenza sopra evidenziata in tema di riparto dell’onere probatorio, si ravvisa una presunzione di responsabilità a carico del medico e della struttura sanitaria nei confronti del paziente. Una presunzione che viene delineata con i caratteri della presunzione semplice, dacchè è fatta salva la possibilità per il medico e per la struttura sanitaria di dimostrare l’assenza dell’inadempimento o del nesso causale fra l’inadempimento e il danno sofferto dal paziente. In questa prospettiva, il malato è tenuto a provare, in primo luogo, il contratto con la struttura sanitaria o con il medico. Il che significa, in altri termini, che il paziente deve provare di essere stato accettato come tale, e quindi come destinatario dei trattamenti sanitari, dalla struttura, essendosi ad essa rivolto con le modalità previste per l’accettazione dell’utente. In ipotesi di rapporto con un medico, il malato deve dimostrare di essersi rivolto al medico stesso al fine di riceverne le sue prestazioni professionali: questa condotta, da parte del paziente, infatti determina il ‘contatto sociale’ che crea affidamento.

La responsabilità che così sorge può inquadrarsi nel paradigma della responsabilità contrattuale. Conseguenza ne è che il paziente, il quale si dolga dell’inadempimento della struttura sanitaria o del medico, deve allegare la sussistenza di “un inadempimento qualificato”, per usare le parole delle Sezioni Unite, e cioè di una condotta “astrattamente efficiente alla produzione del danno”, oltre ovviamente a dover dimostrare il danno sofferto. E tanto sia nell’ipotesi in cui egli agisca per il risarcimento del danno medesimo o in quella in cui chieda l’adempimento. Deve allegare perciò una condotta che, quantomeno in astratto, possa produrre il danno lamentato. Secondo i dettami della Suprema Corte, spetta poi al medico o alla struttura sanitaria provare che l’inadempimento non vi sia stato o che, pur essendovi l’inadempimento, esso non fosse eziologicamente rilevante nella determinazione del danno sofferto dal malato. E se il medico o la struttura non ha successo in ciò, scatta la presunzione relativa di responsabilità a suo carico. In altri termini: in assenza di detta prova liberatoria, il medico o la struttura sono responsabili.

L’onere della prova nella responsabilità contrattuale infatti è invertito ed è a carico del sanitario dar la prova liberatoria e non è onere del paziente dar prova della causalità dell’inadempimento nell’eziologia del suo pregiudizio. E qui viene il punto. O meglio, gli spunti su cui riflettere. Cosa, in concreto, deve provare il medico per liberarsi della presunzione che la sua condotta abbia cagionato la patologia nel paziente o il suo aggravamento? Invero, la sussistenza di un ‘ragionevole dubbio’ sul fatto che la sua condotta abbia cagionato il danno al paziente, secondo i criteri indicati dalle S.U. 581/2008 e S.U. 21619/2007, non parrebbe sufficiente a vincere tale presunzione. Con conseguente dichiarazione di responsabilità del sanitario. Se però, per converso, si fosse non nell’ambito di un giudizio civile volto al risarcimento del danno a carico del medico, ma in un procedimento penale, dove quel medesimo sanitario è imputato di un reato in conseguenza della medesima sua condotta, in virtù degli stessi principi autorevolmente proposti, il suo stesso operato non dovrebbe poter essere censurato, e ciò proprio per la sussistenza di un ‘ragionevole dubbio’ sull’esistenza del nesso causale fra la sua condotta e il danno sofferto. Ma, sempre restando in sede civile, e immaginando una causa intentata dal paziente verso il medico per conseguire il risarcimento del danno patito, cosa dovrebbe provare allora detto medico per liberarsi della presunzione di responsabilità? Secondo i parametri indicati dalle medesime SS.UU., sembrerebbe dover provare l’insussistenza del “più probabile che non”.

Ma che significa, in concreto? Cosa deve riuscire a dimostrare, in effetti, quel medico? Dovrebbe dimostrare forse che ‘non è più probabile che’ la sua condotta abbia cagionato il danno al paziente? Dovrebbe provare quindi che ‘è improbabile’ che la sua omissione abbia cagionato il danno? Danno che, ricordiamolo, ben può essere individuato anche come perdita di chances, vale a dire, per dirla come le SS.UU., quale il sacrificio delle possibilità di conseguire un diverso risultato terapeutico. E allora, le difficoltà nell’intendere, sotto il profilo pratico, i concetti dogmatici in questione diventano di lampante e palese evidenza. Il medico dovrebbe dimostrare positivamente che è più probabile che la sua condotta, anche omissiva, non abbia avuto influenza sulla possibilità di conseguire un risultato diverso? O sarebbe sufficiente la dimostrazione negativa, e cioè che vi è comunque un ragionevole dubbio in tutto ciò? Ma, così inteso, non vi sarebbe allora il rischio di ricadere nell’area del ragionevole dubbio, che però è stata ritenuta inadeguata nell’ambito civile?

Si ricorda che la conseguenza della mancata prova, da parte del medico, è la sua responsabilità nei confronti del paziente. Ma allora, in definitiva, cosa deve provare, in concreto, il medico per non essere dichiarato responsabile? Il disagio nel trovare una risposta adeguata, da parte dell’operatore del diritto, diventa ancora più invadente ove si consideri la frequente inferenza che, nella prassi quotidiana, assumono il procedimento penale e quello civile, i quali ben accade che si sviluppino attorno alla medesima condotta tenuta dal sanitario. Il difensore del sanitario potrebbe invero sperare, in sede di accertamento penale e proprio in considerazione delle ‘maglie più larghe’ del ‘ragionevole dubbio’, in un’assoluzione, da produrre poi nel giudizio civile, al fine di avere un elemento in più per conseguire, in tal sede, il rigetto delle pretese risarcitorie svolte dal paziente. Il difensore del paziente potrebbe invece avere uno speculare e contrario interesse.

Ciò senza dire delle difficoltà che si trova a dover inevitabilmente affrontare il giudice nell’ipotesi in cui il paziente abbia esercitato l’azione civile nel procedimento penale, costituendosi parte civile. Vi è certamente materia per riflettere. E per vedere le soluzioni che la giurisprudenza, specialmente di merito, saprà elaborare in questa delicata materia, dove accanto ad esigenze sacrosante di tutela del diritto alla salute del paziente si affiancano esigenze di certezza e tutela del diritto di difesa del medico.