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Potere organizzativo del datore di lavoro pubblico e azione sindacale nei luoghi di lavoro

Solo lavoratori professionalmente preparati e messi in condizione di espletare le loro mansioni possono assicurare, nell’eseguire le direttive politiche (impartite nelle forme previste dall’ordinamento), ad un tempo, la correttezza dell’azione amministrativa e la sua imparzialità. Una P.A. di “funzionali” anziché di funzionari (art.98, comma 1, Cost.) non può assicurare il perseguimento degli obiettivi indicati dall’art.97 della Costituzione, ai sensi del quale i pubblici uffici devono essere organizzati “in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”. Ecco allora che anche gli aspetti organizzativi che non rientrano espressamente tra le materie di contrattazione non possono solo per questo considerarsi estranei all’area di intervento e di attività sindacale, vuoi perché “l’informazione” di cui parlano i CCNL (1) è finalizzata anche a questo tipo di azione, vuoi perché non c’è settore nel privato in cui il sindacato non intervenga sull’organizzazione del lavoro, sui cosiddetti “piani industriali” e sulle strategie imprenditoriali, gli uni e le altre di sicuro impatto sul lavoro dei dipendenti che vi operano. Ciò che vale per l’organizzazione del lavoro, i piani industriali e le strategie imprenditoriali nel settore privato, non può non valere per l’organizzazione degli uffici e dei servizi pubblici, ai fini della concreta tutela della professionalità dei lavoratori e (con essa) per l’affermazione dei principi di cui all’art.97 della Costituzione.

L’attuazione dei principi enunciati dall’art.97 Cost., dall’art.1 D.Lgs. 165/2001, dall’art.1 L.241/1990, etc., infatti, non è “cosa d’altri”, spettando al sindacato soltanto la contrattazione degli istituti tipici del rapporto di lavoro: l’efficienza della macchina amministrativa, il modo più efficace ed economico di erogare servizi pubblici, infatti, fa da pendant a tutti gli istituti contrattuali e riguarda, quindi, anche il sindacato. Allora, il “come” si organizzano gli uffici e i servizi non è cosa “altra”, potendo (e dovendo) il sindacato “andare a vedere”, ad esempio, quando il potere organizzativo viene in concreto propriamente utilizzato (a fini, appunto, di riorganizzazione secondo necessità ex art.97 Cost. e artt.2, comma 1, e 5 D.Lgs. 165/2001) e quando, invece, ci si trova di fronte ad un utilizzo improprio a fini di mera “gestione” di dirigenti e dipendenti da premiare o punire ad arbitrium.

Nel settore pubblico contrattualizzato i rapporti di lavoro sono disciplinati dalle disposizioni del Capo I, Titolo II, del Libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel D. Lgs. 165/2001 (art.2, comma 2), tra le quali si possono qui segnalare quelle dettate in materia di mansioni (v., rispettivamente, l’art.2103 c.c. e l’art.52 D. Lgs. 165/2001); la legge 20/5/1970, n°300, e successive modificazioni e integrazioni (c.d. statuto dei lavoratori) si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti (art.51, comma 2, D. Lgs. 165/2001); i rapporti di lavoro sono regolati contrattualmente, con pubbliche amministrazioni tenute a garantire ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi (artt.2, comma 3, e 45, comma 2, D. Lgs. 165/2001) (2). Disciplinati da norme di diritto pubblico rimangono gli aspetti relativi alla c.d. macro-organizzazione: le amministrazioni pubbliche definiscono, secondo principi generali fissati da disposizioni di legge e, sulla base dei medesimi, mediante atti organizzativi secondo i rispettivi ordinamenti, le linee fondamentali di organizzazione degli uffici; individuano gli uffici di maggiore rilevanza e i modi di conferimento della titolarità dei medesimi; determinano le dotazioni organiche complessive (art.2, comma 1, D. Lgs. 165/2001).

Ai sensi dell’art.89 D. Lgs. 267/2000, gli Enti Locali disciplinano, con propri regolamenti, in conformità allo statuto, l’ordinamento generale degli uffici e dei servizi, in base a criteri di autonomia, funzionalità ed economicità di gestione e secondo principi di professionalità e responsabilità. La potestà regolamentare degli Enti Locali si esercita, tenendo conto di quanto demandato alla contrattazione collettiva nazionale, nelle seguenti materie: a) responsabilità giuridiche attinenti ai singoli operatori nell’espletamento delle procedure amministrative; b) organi, uffici, modi di conferimento della titolarità dei medesimi; c) principi fondamentali di organizzazione degli uffici; d) procedimenti di selezione per l’accesso al lavoro e di avviamento al lavoro; e) ruoli, dotazioni organiche e loro consistenza complessiva; f) garanzia della libertà di insegnamento ed autonomia professionale nello svolgimento dell’attività didattica, scientifica e di ricerca; g) disciplina della responsabilità e delle incompatibilità tra impiego nelle pubbliche amministrazioni ed altre attività e casi di divieto di cumulo di impieghi e incarichi pubblici.

I profili di c.d. micro-organizzazione e la concreta gestione delle risorse umane, invece, risultano attratti dal diritto privato: le determinazioni organizzative e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro, sono assunte, nell’ambito delle legge e degli atti organizzativi di cui all’art.2, comma 1, D. Lgs. 165/2001, dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro (art.5, comma 2, D. Lgs. 165/2001). Così anche l’art.89, comma 6, T.U. Enti Locali: “Nell’ambito delle leggi, nonché dei regolamenti di cui al comma 1, le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dai soggetti preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”. (3).

L’art.1 del D. Lgs. 165/2001 si apre con la dichiarazione che “Le disposizioni del presente decreto disciplinano l’organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche (…) nel rispetto dell’articolo 97, comma primo, della Costituzione”. “Rispetto” che va verificato con riferimento a ciascun istituto dovendosi in ogni caso di procedere con interpretazioni (del dettato normativo) che siano, come suol dirsi, “costituzionalmente orientate”. Allora è chiaro che gli atti organizzativi devono essere innanzitutto conformi ai principi di cui all’art.97 Cost.; nell’adottarli, le Amministrazioni devono poi ispirarsi ai seguenti criteri dettati dall’art.2, comma 1, D. Lgs. 165/2001: a) funzionalità rispetto ai compiti e ai programmi di attività, nel perseguimento degli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità; b) ampia flessibilità, garantendo adeguati margini alle determinazioni operative e gestionali (determinazioni organizzative e misure per la gestione dei rapporti di lavoro da assumersi ai sensi dell’articolo 5, comma 2, dello stesso D. Lgs. 165/2001 dagli organi preposti alla gestione); c) collegamento delle attività degli uffici, adeguandosi al dovere di comunicazione interna ed esterna, ed interconnessione mediante sistemi informatici e statistici pubblici; d) garanzia dell’imparzialità e della trasparenza dell’azione amministrativa, anche attraverso l’istituzione di apposite strutture per l’informazione ai cittadini e attribuzione ad un unico ufficio, per ciascun procedimento, della responsabilità complessiva dello stesso; e) armonizzazione degli orari di servizio e di apertura degli uffici con le esigenze dell’utenza e con gli orari delle amministrazioni pubbliche dei Paesi dell’Unione europea. Il comma 1-bis, introdotto dall’art.176, comma 2, D. Lgs. 196/2003, dal canto suo, prescrive: “I criteri di organizzazione di cui al presente articolo sono attuati nel rispetto della disciplina in materia di trattamento dei dati personali”.

Ai sensi dell’art.5, comma 1, D. Lgs. 165/2001 nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui sopra, “Le amministrazioni pubbliche assumono ogni determinazione organizzativa al fine di assicurare l’attuazione dei principi di cui all’articolo 2, comma 1, e la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa”, mentre compete agli organismi di controllo interno la verifica periodica sulla rispondenza delle determinazioni organizzative ai suddetti principi, “anche al fine di proporre l’adozione di eventuali interventi correttivi e di fornire elementi per l’adozione delle misure previste nei confronti dei responsabili della gestione” (art.5, comma 3) (4).

Le determinazioni organizzative, quindi: 1) sono assunte nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi; 2) al fine di assicurare l’attuazione dei principi di cui all’articolo 2, comma 1, D. Lgs. 165/2001 (e, per implicito, quelli di cui all’art.97 Cost.); 3) al fine di assicurare la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa. Ai sensi dell’art.6 D. Lgs. 165/2001, l’organizzazione e la disciplina degli uffici, nonché la consistenza e la variazione delle dotazioni organiche sono determinate in funzione delle finalità indicate all’articolo 1, comma 1, dello stesso decreto legislativo (accrescere l’efficienza delle amministrazioni in relazione a quella dei corrispondenti uffici e servizi dei Paesi dell’Unione europea, anche mediante il coordinato sviluppo di sistemi informativi pubblici; razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica; realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni, curando la formazione e lo sviluppo professionale dei dipendenti, garantendo pari opportunità alle lavoratrici ed ai lavoratori e applicando condizioni uniformi rispetto a quello del lavoro privato), previa verifica degli effettivi fabbisogni e previa consultazione delle organizzazioni sindacali (art.6, comma 1, D. Lgs. 165/2001). A mente dell’art.7 D. Lgs. 165/2001, infine, le amministrazioni pubbliche: garantiscono parità e pari opportunità tra uomini e donne per l’accesso al lavoro ed il trattamento sul lavoro; garantiscono la libertà di insegnamento e l’autonomia professionale nello svolgimento dell’attività didattica, scientifica e di ricerca; individuano criteri certi di priorità nell’impiego flessibile del personale, purché compatibile con l’organizzazione degli uffici e del lavoro, a favore dei dipendenti in situazioni di svantaggio personale, sociale e familiare e dei dipendenti impegnati in attività di volontariato; curano la formazione e l’aggiornamento del personale, ivi compreso quello con qualifiche dirigenziali, garantendo altresì l’adeguamento dei programmi formativi, al fine di contribuire allo sviluppo della cultura di genere della pubblica amministrazione; non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese. Mentre, come abbiamo già visto, le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi.

Sono limiti generali al potere organizzativo (e direttivo) del datore di lavoro, tra gli altri, il divieto di atti discriminatori (v. art.15 L.300/1970), il divieto di indagini sulle opinioni, i divieto di atti diretti ad impedire l’esercizio dei diritti dei lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro (a cominciare dall’art.1 L.300/1970 sulla libertà di opinione), gli obblighi di protezione della persona del lavoratore desumibili dall’art.2087 c.c. e dalla legislazione speciale. Limiti specifici sono quelli espressamente previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva per i singoli istituti del rapporto di lavoro: le “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” per i trasferimenti (art.2103 c.c.), l’equivalenza delle mansioni (a tutela della professionalità del lavoratore) per l’esercizio dello ius variandi (art.52 D. Lgs. 165/2001); la durata della prestazione lavorativa, etc.. Trovano poi applicazione gli artt.1175 e 1375 c.c. ai sensi dei quali “il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza” e “il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”: principi di correttezza e buona fede, quindi, quali criteri atti a verificare che i poteri del datore di lavoro siano esercitati in maniera coerente con la funzione per la quale gli stessi sono riconosciuti dall’ordinamento e non in maniera arbitraria o irrazionale (5). E l’indagine sulla coerenza tra esercizio del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro pubblico e funzione per la quale tale potere è riconosciuto non può non tener conto del fatto che, nel nostro campo, ai limiti specifici propri di ciascun istituto (ad es. le “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” per il trasferimento) si accompagnano quelli che discendono dalla non libertà dei fini in concreto perseguibili, ovvero dalla necessità (legislativamente imposta) che le determinazioni organizzative siano in ogni caso dirette ad assicurare l’attuazione dei principi di cui all’articolo 2, comma 1, D. Lgs. 165/2001 (e, per implicito, quelli di cui all’art.97 Cost.) e ad assicurare la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa. (6).

Se il potere amministrativo di adottare atti organizzativi è conferito per il perseguimento dei principi di cui all’art.97 della Costituzione (espressamente richiamati dall’art.1 D. Lgs. 165/2001) e per l’attuazione dei criteri dettati dall’art.2, comma 1, D. Lgs. 165/2001, è da escludersi che gli stessi, anziché a fini di oggettiva riorganizzazione secondo necessità, possano essere utilizzati per la mera “gestione” dei dirigenti e dei dipendenti.

Per la “gestione” dei dirigenti e dei dipendenti, infatti, legge e contratti collettivi prevedono appositi istituti assistiti da garanzie procedimentali (e ciò lo si può dire a maggior ragione dopo la sentenza della Corte Costituzionale n.103 del 23/3/2007 sullo spoils system; v., da ultimo, Corte Costituzionale 28/11/2008, n.390).

Non risponde alle finalità indicate dall’art.97 Cost. (né ai criteri dettati dall’art.2, comma 1, D. Lgs. 165/2001) creare “riserve indiane” (Servizi o Uffici Studi ad hoc dove mandare il dirigente “scomodo” e, con l’occasione, anche qualche dipendente) ovvero ricorrere al c.d. “azzoppamento”, togliendo a un dirigente pezzi di Servizio per affidarli ad altro dirigente sulla base non di un disegno riorganizzativo fondato su oggettive esigenze e su criteri di buona organizzazione, bensì in relazione alla maggior “fiducia” che sull’altro dirigente viene riposta dal politico di turno. Non possono utilizzarsi atti organizzativi per attuare pratiche di mobbing o bossing che sono illecite di per sé.

Riorganizzazioni a fini di bossing talvolta è sufficiente minacciarle, come quando venga fatto sapientemente circolare un foglio nel quale si prefiguri una riorganizzazione all’esito della quale, ad esempio, un dirigente coordinatore di Settore sia destinato a dirigere un piccolissimo Servizio costituito ad hoc. Se poi a seguito delle (conseguenti) dimissioni dell’interessato di questa riorganizzazione così pubblicizzata (e magari anche effettivamente approvata con delibera di Giunta dichiarata immediatamente eseguibile) non se ne fa più niente, lo scopo effettivamente perseguito diventa ancora più chiaro. L’esperienza offre anche casi di “riorganizzazione permanente”, nel “macro” come nel “micro”, sì come quando ci si avvalga ripetutamente della facoltà di conferire (in deroga) incarichi dirigenziali di brevissima durata “in attesa del nuovo assetto organizzativo” (con tutto ciò che da tale stato di incertezza consegue in termini di funzionalità degli uffici e dei servizi), procedendo nel frattempo a riorganizzazioni parziali dirette all’”azzoppamento” (nel senso di cui sopra) di alcuni dirigenti. O (per quanto attiene più propriamente alla microrganizzazione) come quando nel PEG (piano esecutivo di gestione) si inserisca quale obiettivo di carattere generale “la necessità che ciascuna area/servizio predisponga, nel corso dell’anno, un piano di riorganizzazione interna” con tanto di “indicatore” e di “punteggio massimo” attribuibile alle scelte compiute (passandosi così dalla riorganizzazione “secondo necessità” alla riorganizzazione “purché sia”, necessaria ad ottenere un giudizio positivo ai fini della retribuzione di risultato). Si consideri anche il caso recentemente deciso dalla Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione con sentenza n°37354 del 1/10/2008: “Quanto al merito della vicenda deve rilevarsi che la sentenza impugnata fa buon governo della legge penale e della normativa di riferimento, chiarendo che gli imputati, nel rispettivo ruolo ricoperto, posero in essere, nel disporre l’assegnazione della dottoressa all’istituendo ufficio studi e la successiva istituzione dello stesso presso il Comune di (…), una serie di violazioni di legge, con l’unico intento, concretamente conseguito, di emarginare la detta funzionaria che, per il suo spirito di indipendenza da qualsiasi pressione politica, non era gradita all’organo esecutivo del Comune e al Segretario Generale, che affiancava e ispirava l’azione del primo” (da Italia Oggi del 3/10/2008, Pag.19; come anche in Legge e Giustizia dove trovasi che secondo la Corte d’Appello di Torino tale “affrettata scelta (…) nascondeva di fatto la volontà di allontanare anche fisicamente dal palazzo comunale la funzionaria, senza con ciò mirare al raggiungimento di un fine di pubblico interesse, essendo stato conseguito con tale scelta l’esatto contrario in termini di pubblica utilità”).

Il potere amministrativo di adottare atti organizzativi è conferito per le finalità di interesse pubblico sopra illustrate; utilizzarlo per “gestire” dirigenti e dipendenti integra gli estremi dell’eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento, che ricorre, appunto, quando l’amministrazione persegue un fine diverso da quello per il quale quel determinato potere le è stato conferito.

Le determinazioni organizzative (sì come le misure per la gestione dei rapporti di lavoro), sono invece rette dal diritto privato con i limiti (interni ed esterni) che, come già detto, vanno riguardati anche alla luce dell’art.97 Cost., il quale, tra l’altro, non distingue fra micro e macro organizzazione, prescrivendo in ogni caso che i pubblici uffici siano “organizzati in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”. E’ da escludersi innanzitutto che possano utilizzarsi determinazioni organizzative per disporre, ad es., trasferimenti dettati non da “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”, bensì da intento di ritorsione avverso un comportamento legittimo (e magari dovuto: v. art.8, comma 2, Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni approvato con Decreto Ministro F.P. il 28/11/2000: “Il dipendente si attiene a corrette modalità di svolgimento dell’attività amministrativa di sua competenza, respingendo in particolare ogni illegittima pressione, ancorché esercitata dai suoi superiori”) del dipendente.

In secondo luogo, le determinazioni organizzative (e le misure per la gestione dei rapporti di lavoro) “sono assunte nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi”. Esse, cioè, non solo devono assicurare l’attuazione dei principi di cui all’art.2, comma 1, D. Lgs. 165/2001 (e, per implicito, quelli di cui all’art.97 Cost.) e perseguire il fine di assicurare la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa, ma devono altresì essere conformi (alle leggi e) agli atti organizzativi. Viene utile, allora, ricordare anche in questa sede il caso registratosi in un Ente del centro Italia qualche anno fa, quando venne adottata una delibera (atto di organizzazione) con la quale, nel ridefinire la complessiva struttura organizzativa, si dichiarava di voler costituire un Servizio Gestione Patrimoniale con lo scopo di “accorpare in un’unica struttura competenze professionali diversificate che lavorino in maniera armonica e coordinata ad un piano di valorizzazione del patrimonio ispirato a principi di redditività dell’Ente, superando l’attuale organizzazione settoriale”; Servizio che venne effettivamente costituito (con a capo un dirigente), ma l’”accorpamento” riguardò poi soltanto l’Ufficio Economato e due dipendenti, un amministrativo e un tecnico, quest’ultimo, peraltro, successivamente assegnato all’Ufficio Tecnico; Ufficio Tecnico che, al tempo stesso, conservava tutta la sua dotazione organica, compreso quella amministrativa, che anzi, in seguito, gli verrà ampliata con il potenziamento di un “ufficio concessioni” istituito nel suo ambito. A fronte di una (ineccepibile) scelta organizzativa operata dalla Giunta in regime pubblicistico a fini di riorganizzazione (e come tale manifestata all’esterno) la sua attuazione con l’atto di assegnazione del personale ha violato i principi di organicità di cui alla stessa delibera di Giunta (“superare l’attuale organizzazione settoriale”), di adeguatezza e di professionalità, al punto che taluno a quel tempo ebbe a scrivere che in questo caso “il personale, nella migliore delle ipotesi, è stato trasferito secondo casualità”.

Problemi del tutto analoghi possono presentarsi (e si presentano) anche in materia di mansioni (equivalenza delle mansioni e mobilità orizzontale: art.52 D. Lgs. 165/2001), dove, specie negli Enti Locali (v. il CCNL 31/3/1999), può risultare assai incerto il confine tra gestione flessibile delle risorse umane e mero arbitrio del datore di lavoro: il superamento del c.d. “mansionismo” non può far dimenticare che la professionalità è un valore anche nel pubblico impiego (contrattualizzato e non); che i principi di correttezza e buona fede valgono anche in questo ambito e che, giova ripeterlo, ai sensi dell’art.5 D. Lgs. 165/2001 determinazioni organizzative e misure per la gestione dei rapporti di lavoro devono “assicurare l’attuazione dei principi di cui all’articolo 2, comma 1, e la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa” (7).

Proprio in riferimento a tali aspetti capita che i lavoratori si sentano “non adeguatamente tutelati” anche dal punto di vista sindacale. Il problema di sentirsi “non adeguatamente tutelati” sta nel fatto che il provvedimento o il comportamento del datore di lavoro ha spesso carattere plurioffensivo, potendo colpire sia l’interesse individuale del singolo lavoratore, sia l’interesse collettivo (ossia l’interesse di cui è portatore il sindacato in quanto organizzazione rappresentativa dei lavoratori). Così, ad esempio, nel caso del trasferimento o mutamento di mansioni che sia stato disposto per ritorsione: trasferimento o mutamento di mansioni che danneggia non solo il lavoratore interessato, ma anche la libertà di determinazione degli altri lavoratori verso i quali il provvedimento del datore di lavoro assume carattere esemplare. E’ interesse del lavoratore trasferito tutelare la propria professionalità e, con essa, la propria libertà di determinazione nei limiti delle norme che presiedono al corretto svolgimento del rapporto di lavoro (interesse individuale); è, invece, interesse della generalità dei lavoratori di quel dato Ente (e quindi del sindacato) non far passare il principio ricattatorio per il quale è meglio stare sempre “zitti e cheti” perché altrimenti si può essere spostati ad arbitrium (interesse collettivo) (8).

Quando un lavoratore ci dice che non si sente “adeguatamente tutelato” è semplicistico rispondere che il sindacato “c’è” perché, se richiesto, va a parlare col referente politico o burocratico per “vedere cosa si può fare” oppure perché assiste l’interessato in sede di tentativo di conciliazione o perché indica all’interessato il nome di un avvocato convenzionato. E’ una risposta semplicistica perché un sindacato che non sa cogliere l’elemento collettivo dell’interesse messo in discussione è un sindacato che non sa fare il suo mestiere. E’ una risposta semplicistica perché l’approccio intuitus personae col referente politico o burocratico per “vedere cosa si può fare” rischia di lasciare insoddisfatti non solo l’interesse collettivo, ma anche quello individuale, atteso che l’eventuale “compromesso” avverrebbe dopo il provvedimento o comportamento del datore di lavoro e senza che il sindacato abbia messo in campo la sua forza e la necessaria determinazione. E’ una risposta semplicistica, infine, perché per la tutela individuale dei diritti ci sono già leggi, codici e giudici (e gli avvocati si trovano anche senza il sindacato), mentre il più delle volte si rivela necessario che le risposte alle esigenze di tutela vengano date nell’immediatezza della lesione dell’interesse collettivo con gli strumenti propri della tutela e dell’autotutela collettiva.

Quando un lavoratore ci dice che non si sente “adeguatamente tutelato”, quindi, vuol dire che in quel dato Ente c’è qualcosa che non va proprio sul piano della tutela dell’interesse collettivo: in questo senso il sindacato “c’è” quando sa mettere in campo le azioni necessarie per dare risposte concrete e in tempi brevi al bisogno di tutela; il sindacato “c’è” quando individua e difende l’interesse collettivo attraverso i più appropriati strumenti; il sindacato “c’è” quando, a prescindere dal colore politico degli amministratori pro tempore di quel determinato Ente, pone in essere tutto ciò che è necessario per tutelare i diritti dei lavoratori che è chiamato a rappresentare, facendo emergere il collegamento tra tutela dei diritti (individuali e collettivi) e affermazione dei principi di imparzialità e buon andamento.



(1) Il sistema delle relazioni sindacali comprende infatti anche gli istituti dell’ “informazione” e della “concertazione”: v., ad es., art.3, comma 2, lett. d), CCNL/1999 del comparto Regioni ed Autonomie Locali. Ai sensi dell’art.7 dello stesso contratto collettivo “L’Ente informa periodicamente e tempestivamente i soggetti sindacali (…) sugli atti di valenza generale, anche di carattere finanziario, concernenti il rapporto di lavoro, l’organizzazione degli uffici e la gestione complessiva delle risorse umane. Nel caso in cui si tratti di materie per le quali il presente CCNL prevede la concertazione o la contrattazione collettiva decentrata integrativa, l’informazione deve essere preventiva”. Ai fini di una più compiuta informazione le parti, su richiesta di ciascuna di esse, si incontrano con cadenza almeno annuale ed in ogni caso in presenza di: iniziative concernenti le linee di organizzazione degli uffici e dei servizi; iniziative per l’innovazione tecnologica degli stessi; eventuali processi di dismissione, di esternalizzazione e di trasformazione” (v., per le ulteriori materie di interesse, anche il CCNL 14/9/2000). Ciascuno dei soggetti sindacali, ricevuta la suddetta informazione, entro i successivi dieci giorni può attivare la concertazione mediante richiesta scritta. In caso di urgenza, il termine è fissato in cinque giorni. Decorso il termine stabilito, l’Ente si attiva autonomamente nelle materie oggetto di concertazione. La procedura di concertazione - nelle materie ad essa riservate – non può essere sostituita da altri modelli di relazioni sindacali. In tale comparto la concertazione (art.8 CCNL/1999 sì come sostituito dall’art.6 CCNL/2004) “si effettua per le materie previste dall’art.16, comma 2, del CCNL stipulato il 31.3.1999 (sul sistema di classificazione professionale) e per le seguenti materie: a) articolazione dell’orario di servizio; b) calendari delle attività delle istituzioni scolastiche e degli asili nido; c) criteri per il passaggio dei dipendenti per effetto di trasferimento di attività o di disposizioni legislative comportanti trasferimenti di funzioni e personale; d) andamento dei processi occupazionali; e) criteri generali per la mobilità interna. (V., per le ulteriori materie di interesse, anche il CCNL del 14/9/2000). La concertazione si svolge in appositi incontri, che iniziano entro il quarto giorno dalla data di ricezione della richiesta. La parte datoriale è rappresentata al tavolo della concertazione dal soggetto o dai soggetti, espressamente designati dall’organo di governo degli Enti, individuati secondo i rispettivi ordinamenti (art.8 CCNL/1999, come sostituito dall’art.6 CCNL/2004). Durante la concertazione le parti si adeguano, nei loro comportamenti, ai principi di responsabilità, correttezza e trasparenza. La concertazione si conclude nel termine massimo di trenta giorni dalla data della relativa richiesta e dell’esito della stessa è redatto specifico verbale dal quale risultino le posizioni delle parti.

(2) Ai sensi dell’art.88 T.U. Enti Locali: “All’ordinamento degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i dirigenti ed i segretari comunali e provinciali, si applicano le disposizioni del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni, e le altre disposizioni di legge in materia di organizzazione e lavoro nelle pubbliche amministrazioni nonché quelle contenute nel presente testo unico”.

L’art.111 T.U. Enti Locali, sotto la rubrica “Adeguamento della disciplina della dirigenza”, statuisce che “Gli enti locali, tenendo conto delle proprie peculiarità, nell’esercizio della propria potestà statutaria e regolamentare, adeguano lo statuto ed il regolamento ai principi del presente capo e del capo II del decreto legislativo del 3 febbraio 1993, n.29, e successive modificazioni ed integrazioni”.

(3) A mente dell’art.107 T.U. Enti Locali “Spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti. Questi si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo”. Ancora: “Spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno”. Il comma 6 precisa che “I dirigenti sono direttamente responsabili, in via esclusiva, in relazione agli obiettivi dell’Ente, della correttezza amministrativa, della efficienza e dei risultati della gestione”. In questo senso dispone in via generale anche l’art.4 del D. Lgs. 165/2001: “Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti” (comma 1); agli organi di governo spetta in particolare “la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale” (comma 1, lett. c). Spetta, invece, ai dirigenti l’adozione degli “atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati” (comma 2). “Le amministrazioni pubbliche i cui organi di vertice non siano direttamente o indirettamente espressione di rappresentanza politica, adeguano i propri ordinamenti al principio della distinzione tra indirizzo e controllo, da un lato, e attuazione e gestione dall’altro” (comma 4). Le attribuzioni dei dirigenti possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative (comma 3 e art.89, comma 4, D. Lgs. 267/2000).

Per gli Enti con popolazione inferiore a cinquemila abitanti, invece, “fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti Locali, approvato con decreto legislativo 18/8/2000, n°267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto dall’articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 3/2/1993, n°29, e successive modificazioni, e all’articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti Locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio” (art.53, comma 23, legge 23/12/2000, n°388, come modificato dall’art.29, comma 4, legge 28/12/2001, n°448).

(4) Ai sensi dell’art.147, comma 1, T.U. Enti Locali, “Gli enti locali, nell’ambito della loro autonomia normativa ed organizzativa, individuano strumenti e metodologie adeguati a: a) garantire attraverso il controllo di regolarità amministrativa e contabile, la legittimità, regolarità e correttezza dell’azione amministrativa; b) verificare, attraverso il controllo di gestione, l’efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi interventi di correzione, il rapporto tra costi e risultati; c) valutare le prestazioni del personale con qualifica dirigenziale; d) valutare l’adeguatezza delle scelte compiute in sede di attuazione dei piani, programmi ed altri strumenti di determinazione dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra risultati conseguiti e obiettivi predefiniti”.

“Alla valutazione dei dirigenti degli Enti Locali – recita l’art.107, comma 7, dello stesso T.U. – si applicano i principi contenuti nell’articolo 5, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 luglio 1999, n.286, secondo le modalità previste dall’articolo 147 del presente testo unico”. I commi 1 e 2 del D. Lgs. 286/1999 così dispongono: “1. Le pubbliche amministrazioni, sulla base anche dei risultati del controllo di gestione, valutano, in coerenza a quanto stabilito al riguardo dai contratti collettivi nazionali di lavoro, le prestazioni dei propri dirigenti, nonché i comportamenti relativi allo sviluppo delle risorse professionali, umane e organizzative ad essi assegnate (competenze organizzative). 2. La valutazione delle prestazioni e delle competenze organizzative dei dirigenti tiene particolarmente conto dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione. La valutazione ha periodicità annuale. Il procedimento per la valutazione è ispirato ai principi della diretta conoscenza dell’attività del valutato da parte dell’organo proponente o valutatore di prima istanza, della approvazione o verifica della valutazione da parte dell’organo competente o valutatore di seconda istanza, della partecipazione al procedimento del valutato”.

(5) V. M. Roccella, Manuale di diritto del lavoro, Giappichelli 2005, Pag.274. V., anche E. Ghera, Diritto del lavoro, Cacucci 2007, Pag.95, nonché, ex multis, C. Cass., Sez. Lavoro, 9/9/2008, n.22925; C. Cass., Sez. Lavoro, 14/4/2008, n.9814; C. Cass., Sez. Lavoro, 23/3/2005, n.6326.

(6) Gli articoli 97 e 98 della Costituzione, infatti, costituiscono punto di riferimento per valutare la correttezza (non solo degli atti organizzativi, ma anche) delle determinazioni organizzative adottate dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro. L’opinione contraria non può essere condivisa perché innanzitutto non tiene conto del fatto che è la stessa legge, come abbiamo già visto, a richiedere che le determinazioni organizzative siano finalizzate ad attuare i principi di buona amministrazione e ad assicurare la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa. E poi perché è sufficiente sfogliare un qualsiasi repertorio di giurisprudenza per vedere come nell’ambito dei rapporti di lavoro privato gli istituti vengano riguardati anche alla luce di quanto prescrive l’art.41 della Costituzione, ai sensi del quale l’iniziativa economica privata è sì libera, ma “non può svolgersi (…) in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Orbene, mentre per i rapporti di lavoro privati le linee guida sono indicate dall’art.41 Cost., per i rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione a dettare i principi informatori sono proprio gli artt. 97 e 98 della Costituzione, i quali, oltretutto, al concetto di libertà dei fini, propria dell’iniziativa economica privata, sostituiscono quello dei vincoli all’imparzialità, al buon andamento e al perseguimento dell’interesse pubblico.

(7) I principi di professionalità e responsabilità sono espressamente richiamati dall’art.89 D. Lgs. 267/2000 (Testo Unico Enti Locali), mentre l’art.5 D. Lgs. 165/2001 precisa che le determinazioni organizzative sono adottate per assicurare l’attuazione dei principi di buona amministrazione e la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa. L’arbitrium non è consentito al datore di lavoro privato e, tanto meno, al datore di lavoro pubblico, il quale, peraltro, non è libero nei fini, ma soggetto ai vincoli dell’imparzialità, del buon andamento e del perseguimento dell’interesse pubblico (art.97, comma 1, Cost.). Né si può ritenere che “flessibilità” delle prestazioni (art.52 D.Lgs. 165/2001 e CCNL 31/3/1999) possa fare rima con “genericità”, sì da far pensare a dipendenti pubblici come portatori di una professionalità del tutto generica da adibire a qualsiasi mansione, salvo poi trovarsi a fare massicciamente ricorso a consulenze esterne che si vorrebbero giustificate proprio dalla mancanza di adeguate professionalità interne.

(8) Questo interesse dei lavoratori, si è detto, è peraltro conforme anche all’interesse generale a che i pubblici uffici vengano “organizzati in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione” (art.97 Cost.). Lo “stai zitto o ti sposto”, infatti, non può dirsi in alcun modo conforme ai principi di buona amministrazione.

Solo lavoratori professionalmente preparati e messi in condizione di espletare le loro mansioni possono assicurare, nell’eseguire le direttive politiche (impartite nelle forme previste dall’ordinamento), ad un tempo, la correttezza dell’azione amministrativa e la sua imparzialità. Una P.A. di “funzionali” anziché di funzionari (art.98, comma 1, Cost.) non può assicurare il perseguimento degli obiettivi indicati dall’art.97 della Costituzione, ai sensi del quale i pubblici uffici devono essere organizzati “in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”. Ecco allora che anche gli aspetti organizzativi che non rientrano espressamente tra le materie di contrattazione non possono solo per questo considerarsi estranei all’area di intervento e di attività sindacale, vuoi perché “l’informazione” di cui parlano i CCNL (1) è finalizzata anche a questo tipo di azione, vuoi perché non c’è settore nel privato in cui il sindacato non intervenga sull’organizzazione del lavoro, sui cosiddetti “piani industriali” e sulle strategie imprenditoriali, gli uni e le altre di sicuro impatto sul lavoro dei dipendenti che vi operano. Ciò che vale per l’organizzazione del lavoro, i piani industriali e le strategie imprenditoriali nel settore privato, non può non valere per l’organizzazione degli uffici e dei servizi pubblici, ai fini della concreta tutela della professionalità dei lavoratori e (con essa) per l’affermazione dei principi di cui all’art.97 della Costituzione.

L’attuazione dei principi enunciati dall’art.97 Cost., dall’art.1 D.Lgs. 165/2001, dall’art.1 L.241/1990, etc., infatti, non è “cosa d’altri”, spettando al sindacato soltanto la contrattazione degli istituti tipici del rapporto di lavoro: l’efficienza della macchina amministrativa, il modo più efficace ed economico di erogare servizi pubblici, infatti, fa da pendant a tutti gli istituti contrattuali e riguarda, quindi, anche il sindacato. Allora, il “come” si organizzano gli uffici e i servizi non è cosa “altra”, potendo (e dovendo) il sindacato “andare a vedere”, ad esempio, quando il potere organizzativo viene in concreto propriamente utilizzato (a fini, appunto, di riorganizzazione secondo necessità ex art.97 Cost. e artt.2, comma 1, e 5 D.Lgs. 165/2001) e quando, invece, ci si trova di fronte ad un utilizzo improprio a fini di mera “gestione” di dirigenti e dipendenti da premiare o punire ad arbitrium.

Nel settore pubblico contrattualizzato i rapporti di lavoro sono disciplinati dalle disposizioni del Capo I, Titolo II, del Libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel D. Lgs. 165/2001 (art.2, comma 2), tra le quali si possono qui segnalare quelle dettate in materia di mansioni (v., rispettivamente, l’art.2103 c.c. e l’art.52 D. Lgs. 165/2001); la legge 20/5/1970, n°300, e successive modificazioni e integrazioni (c.d. statuto dei lavoratori) si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti (art.51, comma 2, D. Lgs. 165/2001); i rapporti di lavoro sono regolati contrattualmente, con pubbliche amministrazioni tenute a garantire ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi (artt.2, comma 3, e 45, comma 2, D. Lgs. 165/2001) (2). Disciplinati da norme di diritto pubblico rimangono gli aspetti relativi alla c.d. macro-organizzazione: le amministrazioni pubbliche definiscono, secondo principi generali fissati da disposizioni di legge e, sulla base dei medesimi, mediante atti organizzativi secondo i rispettivi ordinamenti, le linee fondamentali di organizzazione degli uffici; individuano gli uffici di maggiore rilevanza e i modi di conferimento della titolarità dei medesimi; determinano le dotazioni organiche complessive (art.2, comma 1, D. Lgs. 165/2001).

Ai sensi dell’art.89 D. Lgs. 267/2000, gli Enti Locali disciplinano, con propri regolamenti, in conformità allo statuto, l’ordinamento generale degli uffici e dei servizi, in base a criteri di autonomia, funzionalità ed economicità di gestione e secondo principi di professionalità e responsabilità. La potestà regolamentare degli Enti Locali si esercita, tenendo conto di quanto demandato alla contrattazione collettiva nazionale, nelle seguenti materie: a) responsabilità giuridiche attinenti ai singoli operatori nell’espletamento delle procedure amministrative; b) organi, uffici, modi di conferimento della titolarità dei medesimi; c) principi fondamentali di organizzazione degli uffici; d) procedimenti di selezione per l’accesso al lavoro e di avviamento al lavoro; e) ruoli, dotazioni organiche e loro consistenza complessiva; f) garanzia della libertà di insegnamento ed autonomia professionale nello svolgimento dell’attività didattica, scientifica e di ricerca; g) disciplina della responsabilità e delle incompatibilità tra impiego nelle pubbliche amministrazioni ed altre attività e casi di divieto di cumulo di impieghi e incarichi pubblici.

I profili di c.d. micro-organizzazione e la concreta gestione delle risorse umane, invece, risultano attratti dal diritto privato: le determinazioni organizzative e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro, sono assunte, nell’ambito delle legge e degli atti organizzativi di cui all’art.2, comma 1, D. Lgs. 165/2001, dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro (art.5, comma 2, D. Lgs. 165/2001). Così anche l’art.89, comma 6, T.U. Enti Locali: “Nell’ambito delle leggi, nonché dei regolamenti di cui al comma 1, le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dai soggetti preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”. (3).

L’art.1 del D. Lgs. 165/2001 si apre con la dichiarazione che “Le disposizioni del presente decreto disciplinano l’organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche (…) nel rispetto dell’articolo 97, comma primo, della Costituzione”. “Rispetto” che va verificato con riferimento a ciascun istituto dovendosi in ogni caso di procedere con interpretazioni (del dettato normativo) che siano, come suol dirsi, “costituzionalmente orientate”. Allora è chiaro che gli atti organizzativi devono essere innanzitutto conformi ai principi di cui all’art.97 Cost.; nell’adottarli, le Amministrazioni devono poi ispirarsi ai seguenti criteri dettati dall’art.2, comma 1, D. Lgs. 165/2001: a) funzionalità rispetto ai compiti e ai programmi di attività, nel perseguimento degli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità; b) ampia flessibilità, garantendo adeguati margini alle determinazioni operative e gestionali (determinazioni organizzative e misure per la gestione dei rapporti di lavoro da assumersi ai sensi dell’articolo 5, comma 2, dello stesso D. Lgs. 165/2001 dagli organi preposti alla gestione); c) collegamento delle attività degli uffici, adeguandosi al dovere di comunicazione interna ed esterna, ed interconnessione mediante sistemi informatici e statistici pubblici; d) garanzia dell’imparzialità e della trasparenza dell’azione amministrativa, anche attraverso l’istituzione di apposite strutture per l’informazione ai cittadini e attribuzione ad un unico ufficio, per ciascun procedimento, della responsabilità complessiva dello stesso; e) armonizzazione degli orari di servizio e di apertura degli uffici con le esigenze dell’utenza e con gli orari delle amministrazioni pubbliche dei Paesi dell’Unione europea. Il comma 1-bis, introdotto dall’art.176, comma 2, D. Lgs. 196/2003, dal canto suo, prescrive: “I criteri di organizzazione di cui al presente articolo sono attuati nel rispetto della disciplina in materia di trattamento dei dati personali”.

Ai sensi dell’art.5, comma 1, D. Lgs. 165/2001 nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui sopra, “Le amministrazioni pubbliche assumono ogni determinazione organizzativa al fine di assicurare l’attuazione dei principi di cui all’articolo 2, comma 1, e la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa”, mentre compete agli organismi di controllo interno la verifica periodica sulla rispondenza delle determinazioni organizzative ai suddetti principi, “anche al fine di proporre l’adozione di eventuali interventi correttivi e di fornire elementi per l’adozione delle misure previste nei confronti dei responsabili della gestione” (art.5, comma 3) (4).

Le determinazioni organizzative, quindi: 1) sono assunte nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi; 2) al fine di assicurare l’attuazione dei principi di cui all’articolo 2, comma 1, D. Lgs. 165/2001 (e, per implicito, quelli di cui all’art.97 Cost.); 3) al fine di assicurare la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa. Ai sensi dell’art.6 D. Lgs. 165/2001, l’organizzazione e la disciplina degli uffici, nonché la consistenza e la variazione delle dotazioni organiche sono determinate in funzione delle finalità indicate all’articolo 1, comma 1, dello stesso decreto legislativo (accrescere l’efficienza delle amministrazioni in relazione a quella dei corrispondenti uffici e servizi dei Paesi dell’Unione europea, anche mediante il coordinato sviluppo di sistemi informativi pubblici; razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica; realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni, curando la formazione e lo sviluppo professionale dei dipendenti, garantendo pari opportunità alle lavoratrici ed ai lavoratori e applicando condizioni uniformi rispetto a quello del lavoro privato), previa verifica degli effettivi fabbisogni e previa consultazione delle organizzazioni sindacali (art.6, comma 1, D. Lgs. 165/2001). A mente dell’art.7 D. Lgs. 165/2001, infine, le amministrazioni pubbliche: garantiscono parità e pari opportunità tra uomini e donne per l’accesso al lavoro ed il trattamento sul lavoro; garantiscono la libertà di insegnamento e l’autonomia professionale nello svolgimento dell’attività didattica, scientifica e di ricerca; individuano criteri certi di priorità nell’impiego flessibile del personale, purché compatibile con l’organizzazione degli uffici e del lavoro, a favore dei dipendenti in situazioni di svantaggio personale, sociale e familiare e dei dipendenti impegnati in attività di volontariato; curano la formazione e l’aggiornamento del personale, ivi compreso quello con qualifiche dirigenziali, garantendo altresì l’adeguamento dei programmi formativi, al fine di contribuire allo sviluppo della cultura di genere della pubblica amministrazione; non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese. Mentre, come abbiamo già visto, le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi.

Sono limiti generali al potere organizzativo (e direttivo) del datore di lavoro, tra gli altri, il divieto di atti discriminatori (v. art.15 L.300/1970), il divieto di indagini sulle opinioni, i divieto di atti diretti ad impedire l’esercizio dei diritti dei lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro (a cominciare dall’art.1 L.300/1970 sulla libertà di opinione), gli obblighi di protezione della persona del lavoratore desumibili dall’art.2087 c.c. e dalla legislazione speciale. Limiti specifici sono quelli espressamente previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva per i singoli istituti del rapporto di lavoro: le “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” per i trasferimenti (art.2103 c.c.), l’equivalenza delle mansioni (a tutela della professionalità del lavoratore) per l’esercizio dello ius variandi (art.52 D. Lgs. 165/2001); la durata della prestazione lavorativa, etc.. Trovano poi applicazione gli artt.1175 e 1375 c.c. ai sensi dei quali “il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza” e “il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”: principi di correttezza e buona fede, quindi, quali criteri atti a verificare che i poteri del datore di lavoro siano esercitati in maniera coerente con la funzione per la quale gli stessi sono riconosciuti dall’ordinamento e non in maniera arbitraria o irrazionale (5). E l’indagine sulla coerenza tra esercizio del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro pubblico e funzione per la quale tale potere è riconosciuto non può non tener conto del fatto che, nel nostro campo, ai limiti specifici propri di ciascun istituto (ad es. le “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” per il trasferimento) si accompagnano quelli che discendono dalla non libertà dei fini in concreto perseguibili, ovvero dalla necessità (legislativamente imposta) che le determinazioni organizzative siano in ogni caso dirette ad assicurare l’attuazione dei principi di cui all’articolo 2, comma 1, D. Lgs. 165/2001 (e, per implicito, quelli di cui all’art.97 Cost.) e ad assicurare la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa. (6).

Se il potere amministrativo di adottare atti organizzativi è conferito per il perseguimento dei principi di cui all’art.97 della Costituzione (espressamente richiamati dall’art.1 D. Lgs. 165/2001) e per l’attuazione dei criteri dettati dall’art.2, comma 1, D. Lgs. 165/2001, è da escludersi che gli stessi, anziché a fini di oggettiva riorganizzazione secondo necessità, possano essere utilizzati per la mera “gestione” dei dirigenti e dei dipendenti.

Per la “gestione” dei dirigenti e dei dipendenti, infatti, legge e contratti collettivi prevedono appositi istituti assistiti da garanzie procedimentali (e ciò lo si può dire a maggior ragione dopo la sentenza della Corte Costituzionale n.103 del 23/3/2007 sullo spoils system; v., da ultimo, Corte Costituzionale 28/11/2008, n.390).

Non risponde alle finalità indicate dall’art.97 Cost. (né ai criteri dettati dall’art.2, comma 1, D. Lgs. 165/2001) creare “riserve indiane” (Servizi o Uffici Studi ad hoc dove mandare il dirigente “scomodo” e, con l’occasione, anche qualche dipendente) ovvero ricorrere al c.d. “azzoppamento”, togliendo a un dirigente pezzi di Servizio per affidarli ad altro dirigente sulla base non di un disegno riorganizzativo fondato su oggettive esigenze e su criteri di buona organizzazione, bensì in relazione alla maggior “fiducia” che sull’altro dirigente viene riposta dal politico di turno. Non possono utilizzarsi atti organizzativi per attuare pratiche di mobbing o bossing che sono illecite di per sé.

Riorganizzazioni a fini di bossing talvolta è sufficiente minacciarle, come quando venga fatto sapientemente circolare un foglio nel quale si prefiguri una riorganizzazione all’esito della quale, ad esempio, un dirigente coordinatore di Settore sia destinato a dirigere un piccolissimo Servizio costituito ad hoc. Se poi a seguito delle (conseguenti) dimissioni dell’interessato di questa riorganizzazione così pubblicizzata (e magari anche effettivamente approvata con delibera di Giunta dichiarata immediatamente eseguibile) non se ne fa più niente, lo scopo effettivamente perseguito diventa ancora più chiaro. L’esperienza offre anche casi di “riorganizzazione permanente”, nel “macro” come nel “micro”, sì come quando ci si avvalga ripetutamente della facoltà di conferire (in deroga) incarichi dirigenziali di brevissima durata “in attesa del nuovo assetto organizzativo” (con tutto ciò che da tale stato di incertezza consegue in termini di funzionalità degli uffici e dei servizi), procedendo nel frattempo a riorganizzazioni parziali dirette all’”azzoppamento” (nel senso di cui sopra) di alcuni dirigenti. O (per quanto attiene più propriamente alla microrganizzazione) come quando nel PEG (piano esecutivo di gestione) si inserisca quale obiettivo di carattere generale “la necessità che ciascuna area/servizio predisponga, nel corso dell’anno, un piano di riorganizzazione interna” con tanto di “indicatore” e di “punteggio massimo” attribuibile alle scelte compiute (passandosi così dalla riorganizzazione “secondo necessità” alla riorganizzazione “purché sia”, necessaria ad ottenere un giudizio positivo ai fini della retribuzione di risultato). Si consideri anche il caso recentemente deciso dalla Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione con sentenza n°37354 del 1/10/2008: “Quanto al merito della vicenda deve rilevarsi che la sentenza impugnata fa buon governo della legge penale e della normativa di riferimento, chiarendo che gli imputati, nel rispettivo ruolo ricoperto, posero in essere, nel disporre l’assegnazione della dottoressa all’istituendo ufficio studi e la successiva istituzione dello stesso presso il Comune di (…), una serie di violazioni di legge, con l’unico intento, concretamente conseguito, di emarginare la detta funzionaria che, per il suo spirito di indipendenza da qualsiasi pressione politica, non era gradita all’organo esecutivo del Comune e al Segretario Generale, che affiancava e ispirava l’azione del primo” (da Italia Oggi del 3/10/2008, Pag.19; come anche in Legge e Giustizia dove trovasi che secondo la Corte d’Appello di Torino tale “affrettata scelta (…) nascondeva di fatto la volontà di allontanare anche fisicamente dal palazzo comunale la funzionaria, senza con ciò mirare al raggiungimento di un fine di pubblico interesse, essendo stato conseguito con tale scelta l’esatto contrario in termini di pubblica utilità”).

Il potere amministrativo di adottare atti organizzativi è conferito per le finalità di interesse pubblico sopra illustrate; utilizzarlo per “gestire” dirigenti e dipendenti integra gli estremi dell’eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento, che ricorre, appunto, quando l’amministrazione persegue un fine diverso da quello per il quale quel determinato potere le è stato conferito.

Le determinazioni organizzative (sì come le misure per la gestione dei rapporti di lavoro), sono invece rette dal diritto privato con i limiti (interni ed esterni) che, come già detto, vanno riguardati anche alla luce dell’art.97 Cost., il quale, tra l’altro, non distingue fra micro e macro organizzazione, prescrivendo in ogni caso che i pubblici uffici siano “organizzati in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”. E’ da escludersi innanzitutto che possano utilizzarsi determinazioni organizzative per disporre, ad es., trasferimenti dettati non da “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”, bensì da intento di ritorsione avverso un comportamento legittimo (e magari dovuto: v. art.8, comma 2, Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni approvato con Decreto Ministro F.P. il 28/11/2000: “Il dipendente si attiene a corrette modalità di svolgimento dell’attività amministrativa di sua competenza, respingendo in particolare ogni illegittima pressione, ancorché esercitata dai suoi superiori”) del dipendente.

In secondo luogo, le determinazioni organizzative (e le misure per la gestione dei rapporti di lavoro) “sono assunte nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi”. Esse, cioè, non solo devono assicurare l’attuazione dei principi di cui all’art.2, comma 1, D. Lgs. 165/2001 (e, per implicito, quelli di cui all’art.97 Cost.) e perseguire il fine di assicurare la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa, ma devono altresì essere conformi (alle leggi e) agli atti organizzativi. Viene utile, allora, ricordare anche in questa sede il caso registratosi in un Ente del centro Italia qualche anno fa, quando venne adottata una delibera (atto di organizzazione) con la quale, nel ridefinire la complessiva struttura organizzativa, si dichiarava di voler costituire un Servizio Gestione Patrimoniale con lo scopo di “accorpare in un’unica struttura competenze professionali diversificate che lavorino in maniera armonica e coordinata ad un piano di valorizzazione del patrimonio ispirato a principi di redditività dell’Ente, superando l’attuale organizzazione settoriale”; Servizio che venne effettivamente costituito (con a capo un dirigente), ma l’”accorpamento” riguardò poi soltanto l’Ufficio Economato e due dipendenti, un amministrativo e un tecnico, quest’ultimo, peraltro, successivamente assegnato all’Ufficio Tecnico; Ufficio Tecnico che, al tempo stesso, conservava tutta la sua dotazione organica, compreso quella amministrativa, che anzi, in seguito, gli verrà ampliata con il potenziamento di un “ufficio concessioni” istituito nel suo ambito. A fronte di una (ineccepibile) scelta organizzativa operata dalla Giunta in regime pubblicistico a fini di riorganizzazione (e come tale manifestata all’esterno) la sua attuazione con l’atto di assegnazione del personale ha violato i principi di organicità di cui alla stessa delibera di Giunta (“superare l’attuale organizzazione settoriale”), di adeguatezza e di professionalità, al punto che taluno a quel tempo ebbe a scrivere che in questo caso “il personale, nella migliore delle ipotesi, è stato trasferito secondo casualità”.

Problemi del tutto analoghi possono presentarsi (e si presentano) anche in materia di mansioni (equivalenza delle mansioni e mobilità orizzontale: art.52 D. Lgs. 165/2001), dove, specie negli Enti Locali (v. il CCNL 31/3/1999), può risultare assai incerto il confine tra gestione flessibile delle risorse umane e mero arbitrio del datore di lavoro: il superamento del c.d. “mansionismo” non può far dimenticare che la professionalità è un valore anche nel pubblico impiego (contrattualizzato e non); che i principi di correttezza e buona fede valgono anche in questo ambito e che, giova ripeterlo, ai sensi dell’art.5 D. Lgs. 165/2001 determinazioni organizzative e misure per la gestione dei rapporti di lavoro devono “assicurare l’attuazione dei principi di cui all’articolo 2, comma 1, e la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa” (7).

Proprio in riferimento a tali aspetti capita che i lavoratori si sentano “non adeguatamente tutelati” anche dal punto di vista sindacale. Il problema di sentirsi “non adeguatamente tutelati” sta nel fatto che il provvedimento o il comportamento del datore di lavoro ha spesso carattere plurioffensivo, potendo colpire sia l’interesse individuale del singolo lavoratore, sia l’interesse collettivo (ossia l’interesse di cui è portatore il sindacato in quanto organizzazione rappresentativa dei lavoratori). Così, ad esempio, nel caso del trasferimento o mutamento di mansioni che sia stato disposto per ritorsione: trasferimento o mutamento di mansioni che danneggia non solo il lavoratore interessato, ma anche la libertà di determinazione degli altri lavoratori verso i quali il provvedimento del datore di lavoro assume carattere esemplare. E’ interesse del lavoratore trasferito tutelare la propria professionalità e, con essa, la propria libertà di determinazione nei limiti delle norme che presiedono al corretto svolgimento del rapporto di lavoro (interesse individuale); è, invece, interesse della generalità dei lavoratori di quel dato Ente (e quindi del sindacato) non far passare il principio ricattatorio per il quale è meglio stare sempre “zitti e cheti” perché altrimenti si può essere spostati ad arbitrium (interesse collettivo) (8).

Quando un lavoratore ci dice che non si sente “adeguatamente tutelato” è semplicistico rispondere che il sindacato “c’è” perché, se richiesto, va a parlare col referente politico o burocratico per “vedere cosa si può fare” oppure perché assiste l’interessato in sede di tentativo di conciliazione o perché indica all’interessato il nome di un avvocato convenzionato. E’ una risposta semplicistica perché un sindacato che non sa cogliere l’elemento collettivo dell’interesse messo in discussione è un sindacato che non sa fare il suo mestiere. E’ una risposta semplicistica perché l’approccio intuitus personae col referente politico o burocratico per “vedere cosa si può fare” rischia di lasciare insoddisfatti non solo l’interesse collettivo, ma anche quello individuale, atteso che l’eventuale “compromesso” avverrebbe dopo il provvedimento o comportamento del datore di lavoro e senza che il sindacato abbia messo in campo la sua forza e la necessaria determinazione. E’ una risposta semplicistica, infine, perché per la tutela individuale dei diritti ci sono già leggi, codici e giudici (e gli avvocati si trovano anche senza il sindacato), mentre il più delle volte si rivela necessario che le risposte alle esigenze di tutela vengano date nell’immediatezza della lesione dell’interesse collettivo con gli strumenti propri della tutela e dell’autotutela collettiva.

Quando un lavoratore ci dice che non si sente “adeguatamente tutelato”, quindi, vuol dire che in quel dato Ente c’è qualcosa che non va proprio sul piano della tutela dell’interesse collettivo: in questo senso il sindacato “c’è” quando sa mettere in campo le azioni necessarie per dare risposte concrete e in tempi brevi al bisogno di tutela; il sindacato “c’è” quando individua e difende l’interesse collettivo attraverso i più appropriati strumenti; il sindacato “c’è” quando, a prescindere dal colore politico degli amministratori pro tempore di quel determinato Ente, pone in essere tutto ciò che è necessario per tutelare i diritti dei lavoratori che è chiamato a rappresentare, facendo emergere il collegamento tra tutela dei diritti (individuali e collettivi) e affermazione dei principi di imparzialità e buon andamento.



(1) Il sistema delle relazioni sindacali comprende infatti anche gli istituti dell’ “informazione” e della “concertazione”: v., ad es., art.3, comma 2, lett. d), CCNL/1999 del comparto Regioni ed Autonomie Locali. Ai sensi dell’art.7 dello stesso contratto collettivo “L’Ente informa periodicamente e tempestivamente i soggetti sindacali (…) sugli atti di valenza generale, anche di carattere finanziario, concernenti il rapporto di lavoro, l’organizzazione degli uffici e la gestione complessiva delle risorse umane. Nel caso in cui si tratti di materie per le quali il presente CCNL prevede la concertazione o la contrattazione collettiva decentrata integrativa, l’informazione deve essere preventiva”. Ai fini di una più compiuta informazione le parti, su richiesta di ciascuna di esse, si incontrano con cadenza almeno annuale ed in ogni caso in presenza di: iniziative concernenti le linee di organizzazione degli uffici e dei servizi; iniziative per l’innovazione tecnologica degli stessi; eventuali processi di dismissione, di esternalizzazione e di trasformazione” (v., per le ulteriori materie di interesse, anche il CCNL 14/9/2000). Ciascuno dei soggetti sindacali, ricevuta la suddetta informazione, entro i successivi dieci giorni può attivare la concertazione mediante richiesta scritta. In caso di urgenza, il termine è fissato in cinque giorni. Decorso il termine stabilito, l’Ente si attiva autonomamente nelle materie oggetto di concertazione. La procedura di concertazione - nelle materie ad essa riservate – non può essere sostituita da altri modelli di relazioni sindacali. In tale comparto la concertazione (art.8 CCNL/1999 sì come sostituito dall’art.6 CCNL/2004) “si effettua per le materie previste dall’art.16, comma 2, del CCNL stipulato il 31.3.1999 (sul sistema di classificazione professionale) e per le seguenti materie: a) articolazione dell’orario di servizio; b) calendari delle attività delle istituzioni scolastiche e degli asili nido; c) criteri per il passaggio dei dipendenti per effetto di trasferimento di attività o di disposizioni legislative comportanti trasferimenti di funzioni e personale; d) andamento dei processi occupazionali; e) criteri generali per la mobilità interna. (V., per le ulteriori materie di interesse, anche il CCNL del 14/9/2000). La concertazione si svolge in appositi incontri, che iniziano entro il quarto giorno dalla data di ricezione della richiesta. La parte datoriale è rappresentata al tavolo della concertazione dal soggetto o dai soggetti, espressamente designati dall’organo di governo degli Enti, individuati secondo i rispettivi ordinamenti (art.8 CCNL/1999, come sostituito dall’art.6 CCNL/2004). Durante la concertazione le parti si adeguano, nei loro comportamenti, ai principi di responsabilità, correttezza e trasparenza. La concertazione si conclude nel termine massimo di trenta giorni dalla data della relativa richiesta e dell’esito della stessa è redatto specifico verbale dal quale risultino le posizioni delle parti.

(2) Ai sensi dell’art.88 T.U. Enti Locali: “All’ordinamento degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i dirigenti ed i segretari comunali e provinciali, si applicano le disposizioni del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni, e le altre disposizioni di legge in materia di organizzazione e lavoro nelle pubbliche amministrazioni nonché quelle contenute nel presente testo unico”.

L’art.111 T.U. Enti Locali, sotto la rubrica “Adeguamento della disciplina della dirigenza”, statuisce che “Gli enti locali, tenendo conto delle proprie peculiarità, nell’esercizio della propria potestà statutaria e regolamentare, adeguano lo statuto ed il regolamento ai principi del presente capo e del capo II del decreto legislativo del 3 febbraio 1993, n.29, e successive modificazioni ed integrazioni”.

(3) A mente dell’art.107 T.U. Enti Locali “Spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti. Questi si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo”. Ancora: “Spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno”. Il comma 6 precisa che “I dirigenti sono direttamente responsabili, in via esclusiva, in relazione agli obiettivi dell’Ente, della correttezza amministrativa, della efficienza e dei risultati della gestione”. In questo senso dispone in via generale anche l’art.4 del D. Lgs. 165/2001: “Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti” (comma 1); agli organi di governo spetta in particolare “la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale” (comma 1, lett. c). Spetta, invece, ai dirigenti l’adozione degli “atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati” (comma 2). “Le amministrazioni pubbliche i cui organi di vertice non siano direttamente o indirettamente espressione di rappresentanza politica, adeguano i propri ordinamenti al principio della distinzione tra indirizzo e controllo, da un lato, e attuazione e gestione dall’altro” (comma 4). Le attribuzioni dei dirigenti possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative (comma 3 e art.89, comma 4, D. Lgs. 267/2000).

Per gli Enti con popolazione inferiore a cinquemila abitanti, invece, “fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti Locali, approvato con decreto legislativo 18/8/2000, n°267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto dall’articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 3/2/1993, n°29, e successive modificazioni, e all’articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti Locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio” (art.53, comma 23, legge 23/12/2000, n°388, come modificato dall’art.29, comma 4, legge 28/12/2001, n°448).

(4) Ai sensi dell’art.147, comma 1, T.U. Enti Locali, “Gli enti locali, nell’ambito della loro autonomia normativa ed organizzativa, individuano strumenti e metodologie adeguati a: a) garantire attraverso il controllo di regolarità amministrativa e contabile, la legittimità, regolarità e correttezza dell’azione amministrativa; b) verificare, attraverso il controllo di gestione, l’efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi interventi di correzione, il rapporto tra costi e risultati; c) valutare le prestazioni del personale con qualifica dirigenziale; d) valutare l’adeguatezza delle scelte compiute in sede di attuazione dei piani, programmi ed altri strumenti di determinazione dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra risultati conseguiti e obiettivi predefiniti”.

“Alla valutazione dei dirigenti degli Enti Locali – recita l’art.107, comma 7, dello stesso T.U. – si applicano i principi contenuti nell’articolo 5, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 luglio 1999, n.286, secondo le modalità previste dall’articolo 147 del presente testo unico”. I commi 1 e 2 del D. Lgs. 286/1999 così dispongono: “1. Le pubbliche amministrazioni, sulla base anche dei risultati del controllo di gestione, valutano, in coerenza a quanto stabilito al riguardo dai contratti collettivi nazionali di lavoro, le prestazioni dei propri dirigenti, nonché i comportamenti relativi allo sviluppo delle risorse professionali, umane e organizzative ad essi assegnate (competenze organizzative). 2. La valutazione delle prestazioni e delle competenze organizzative dei dirigenti tiene particolarmente conto dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione. La valutazione ha periodicità annuale. Il procedimento per la valutazione è ispirato ai principi della diretta conoscenza dell’attività del valutato da parte dell’organo proponente o valutatore di prima istanza, della approvazione o verifica della valutazione da parte dell’organo competente o valutatore di seconda istanza, della partecipazione al procedimento del valutato”.

(5) V. M. Roccella, Manuale di diritto del lavoro, Giappichelli 2005, Pag.274. V., anche E. Ghera, Diritto del lavoro, Cacucci 2007, Pag.95, nonché, ex multis, C. Cass., Sez. Lavoro, 9/9/2008, n.22925; C. Cass., Sez. Lavoro, 14/4/2008, n.9814; C. Cass., Sez. Lavoro, 23/3/2005, n.6326.

(6) Gli articoli 97 e 98 della Costituzione, infatti, costituiscono punto di riferimento per valutare la correttezza (non solo degli atti organizzativi, ma anche) delle determinazioni organizzative adottate dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro. L’opinione contraria non può essere condivisa perché innanzitutto non tiene conto del fatto che è la stessa legge, come abbiamo già visto, a richiedere che le determinazioni organizzative siano finalizzate ad attuare i principi di buona amministrazione e ad assicurare la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa. E poi perché è sufficiente sfogliare un qualsiasi repertorio di giurisprudenza per vedere come nell’ambito dei rapporti di lavoro privato gli istituti vengano riguardati anche alla luce di quanto prescrive l’art.41 della Costituzione, ai sensi del quale l’iniziativa economica privata è sì libera, ma “non può svolgersi (…) in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Orbene, mentre per i rapporti di lavoro privati le linee guida sono indicate dall’art.41 Cost., per i rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione a dettare i principi informatori sono proprio gli artt. 97 e 98 della Costituzione, i quali, oltretutto, al concetto di libertà dei fini, propria dell’iniziativa economica privata, sostituiscono quello dei vincoli all’imparzialità, al buon andamento e al perseguimento dell’interesse pubblico.

(7) I principi di professionalità e responsabilità sono espressamente richiamati dall’art.89 D. Lgs. 267/2000 (Testo Unico Enti Locali), mentre l’art.5 D. Lgs. 165/2001 precisa che le determinazioni organizzative sono adottate per assicurare l’attuazione dei principi di buona amministrazione e la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa. L’arbitrium non è consentito al datore di lavoro privato e, tanto meno, al datore di lavoro pubblico, il quale, peraltro, non è libero nei fini, ma soggetto ai vincoli dell’imparzialità, del buon andamento e del perseguimento dell’interesse pubblico (art.97, comma 1, Cost.). Né si può ritenere che “flessibilità” delle prestazioni (art.52 D.Lgs. 165/2001 e CCNL 31/3/1999) possa fare rima con “genericità”, sì da far pensare a dipendenti pubblici come portatori di una professionalità del tutto generica da adibire a qualsiasi mansione, salvo poi trovarsi a fare massicciamente ricorso a consulenze esterne che si vorrebbero giustificate proprio dalla mancanza di adeguate professionalità interne.

(8) Questo interesse dei lavoratori, si è detto, è peraltro conforme anche all’interesse generale a che i pubblici uffici vengano “organizzati in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione” (art.97 Cost.). Lo “stai zitto o ti sposto”, infatti, non può dirsi in alcun modo conforme ai principi di buona amministrazione.