x

x

Attività di bed and breakfast in immobile situato in contesto condominiale

Nota a Corte Costituzionale, Sentenza 14 novembre 2008 n. 369
La proprietaria di un appartamento posto in un complesso condominiale, intenzionata a destinare il proprio immobile all’esercizio di attività di bed and breakfast, presentò al Comune di Milano regolare denuncia di inizio attività.

In forza del disposto di cui all’art. 45 comma 4 contenuto nella Legge regionale lombarda 16 luglio 2007 n. 15 (Testo Unico delle leggi regionali in materia di turismo), il Comune di Milano invitò l’imprenditrice ad esibire la delibera con cui l’assemblea dei condomini manifestava l’approvazione allo svolgimento dell’attività di ricezione turistica all’interno dell’unità immobiliare.

Poiché detta approvazione non era però intervenuta, l’imprenditrice non aveva potuto ottemperare alla richiesta rivoltale dal Comune e, per questo motivo, si era vista negare l’autorizzazione amministrativa.

Dolendosi che il regolamento condominiale non vietava espressamente il servizio di bed and breakfast all’interno del condominio, l’imprenditrice propose rituale impugnazione avverso l’atto di diniego del Comune di Milano.

Nel corso del giudizio il Tribunale Amministrativo regionale per la Lombardia sollevò questione di legittimità costituzionale della norma sopra citata: subordinando il rilascio dell’autorizzazione amministrativa per lo svolgimento di attività (non comportante la sostanziale modifica della destinazione d’uso dell’immobile) ad un preventivo atto di assenso dell’assemblea condominiale, la norma impugnata avrebbe illegittimamente modificato la disciplina contenuta nel codice civile (disciplina di rango superiore, in quanto derivante da fonte statale).

Le norme relative alla regolamentazione dei rapporti interprivati tra singoli condomini, costituendo materia riservata alla legislazione esclusiva dello Stato, non avrebbero quindi potuto essere efficacemente derogate o integrate da una normativa regionale.

Con sentenza di accoglimento n. 369 del 14 novembre 2008 la Corte Costituzionale dichiarò l’illegittimità della norma censurata con la seguente motivazione: “nelle materie di competenza legislativa regionale residuale o concorrente, la regolamentazione statale, in forza dell’art. 117, secondo comma, lettera l) Cost., pone un limite diretto ad evitare che la norma regionale incida su un principio di ordinamento civile. (…) L’esigenza di garantire l’uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che, nell’ambito dell’ordinamento civile, disciplinano i rapporti giuridici fra privati, deve ritenersi un’esplicazione del principio costituzionale di eguaglianza (…). La specifica norma censurata incide direttamente sul rapporto civilistico tra condomini e condominio. Essa infatti, pur inserita in un contesto di norme dettate a presidio di finalità turistiche, è destinata a regolamentare l’interesse, tipicamente privatistico, del decoro e della quiete del condominio. (…) La disposizione censurata disciplina la materia condominiale in modo difforme e più severo rispetto a quanto disposto dal codice civile e, in particolare, degli artt. 1135 e 1138. Tali norme sanciscono che l’assemblea dei condomini non ha altri poteri rispetto a quelli fissati tassativamente dal codice e non può portare limitazioni alla sfera di proprietà dei singoli condomini, a meno che le predette limitazioni non siano specificatamente accettate o nei singoli atti di acquisto o mediante approvazione del regolamento di condominio”.

Immediatamente dopo la sua pubblicazione, questa pronuncia fu oggetto di frettolose interpretazioni che attribuirono alla sentenza un rilievo troppo ampio rispetto alla sua reale portata, desumibile dalla lettura della motivazione.

Si giunse inesattamente a ritenere che la Corte Costituzionale avesse utilizzato quale parametro di valutazione il principio costituzionale di libertà di iniziativa economica che non potrebbe essere frustrata da atti di diniego o divieti condominiali; ci si spinse così ad affermare che l’esercizio di attività commerciale di bed and breakfast, in un immobile sito entro un edificio condominiale, sarebbe pienamente legittimo anche qualora gli altri condomini siano contrari.

Tale interpretazione è però fuorviante e non coglie il vero senso della questione.

Nella pronuncia in esame la Corte Costituzionale non ha inteso stabilire alcuna gerarchia tra l’interesse all’esercizio dell’attività di impresa (nella specie, esercizio di attività di bed and breakfast) e le legittime limitazioni al godimento delle proprietà immobiliari esclusive contenute in molti regolamenti condominiali.

Se, in forza della sentenza sopra citata, la legge regionale non può imporre deroghe alle norme civilistiche (subordinando il rilascio di un’autorizzazione amministrativa ad un fatto che la legge rimette all’esercizio dell’autonomia contrattuale privata), qualora i regolamenti condominiali prevedano specifiche limitazioni all’uso ed al godimento delle unità immobiliari esclusive (nei limiti che si illustreranno tra breve), i condòmini saranno tenuti ad osservarne il contenuto.

Le norme di natura contrattuale hanno infatti forza di legge tra le parti (articolo 1372 codice civile).

L’esercizio dell’attività di bed and breakfast all’interno di un immobile collocato in contesto condominiale sarà quindi vincolato non solo all’ottenimento delle prescritte autorizzazioni amministrative, ma altresì – ove esistenti – al rispetto delle norme eventualmente contenute nei regolamenti condominiali: la verifica della legittimità di un’attività commerciale, sotto il profilo amministrativo, è cosa ben diversa dal rispetto delle prescrizioni regolamentari che tutti i condòmini sono tenuti a rispettare.

Il codice civile (articolo 1138) menziona il regolamento di condominio “assembleare”, di cui è obbligatoria l’adozione qualora il numero dei condomini sia superiore a dieci e nel quale è necessario siano contenute le norme che “disciplinano l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione”. Tale regolamento può essere formato anche successivamente alla costituzione del condominio, su iniziativa di ciascun condòmino, e dev’essere approvato dall’assemblea con le maggioranze previste dall’articolo 1136 secondo comma codice civile (di qui la denominazione, nella prassi, di regolamento “assembleare”).

Accanto a questo regolamento, alquanto infrequente nella pratica, vi è quello più comune, di origine contrattuale, formato per volontà unanime dei condomini o approvato “per relationem”, perché normalmente elaborato dal costruttore e richiamato negli atti di acquisto delle singole unità immobiliari.

La giurisprudenza ha indicato, quali materie che possono essere disciplinate esclusivamente in un regolamento contrattuale, (Cassazione civile, sez. II, 5 settembre 2000 n. 11684) l’imposizione di pesi a favore di alcune proprietà ed a carico di altre (cosiddette servitù), che devono necessariamente essere trascritte alla conservatoria dei registri immobiliari, le prestazioni di alcuni condòmini a favore di altri (oneri reali), ed infine le imposizioni di limiti al godimento di unità immobiliari (quali i divieti ai tenere animali o di adibire l’appartamento a determinate attività).

La Corte di Cassazione, avuto riguardo all’oggetto delle norme contenute nei regolamenti condominiali, ha ribadito che soltanto per la modifica delle clausole relative alle materie appena menzionate (in quanto prescrizioni di natura contrattuale) è richiesta l’unanimità dei voti dei condomini, mentre per la modifica delle clausole contenenti altro tipo di regolamentazione (quella contemplata dall’art. 1138 codice civile) è sufficiente la maggioranza qualificata di cui all’art. 1136 codice civile, in quanto trattasi di materie attinenti a prescrizioni di natura regolamentare (Cass. civ., sez. II, 18 aprile 2002 n. 5626).

Ciò significa che le pattuizioni contenenti limiti al godimento delle unità immobiliari richiedono necessariamente la volontà unanime di tutti i condòmini, contenuta nel regolamento contrattuale oppure (evenienza più rara nella pratica, ma sempre possibile) contenuta in un atto successivo che dovrà necessariamente rivestire forma scritta, concernendo diritti immobiliari, e recare la sottoscrizione di tutti i condomini.

Assai frequente è l’inserimento nei regolamenti condominiali contrattuali di clausole che vietano determinate destinazioni d’uso delle unità immobiliari.

Tali divieti sono normalmente espressi mediante l’elencazione delle attività non consentite (ad esempio, destinazione a gabinetto di cura per malattie infettive e contagiose, sedi di partito, sindacali o di associazioni, circoli, ritrovi, scuole in genere o in particolare – ad esempio - di musica, canto, ballo…) oppure, più genericamente, mediante riferimento al pregiudizio che si intende evitare (ad esempio, la destinazione a qualsiasi uso che produca rumori molesti o emissioni di fumo, esalazioni sgradevoli o nocive).

Nella prima ipotesi, per verificare se una destinazione sia o meno vietata è sufficiente verificare se essa sia compresa nell’elencazione; nella seconda ipotesi è invece necessario verificare l’eventuale effettiva idoneità della destinazione realizzata a provocare gli inconvenienti a cui si vuole ovviare.

Le clausole di un regolamento condominiale che inibiscono determinate utilizzazioni degli immobili devono essere interpretate in maniera restrittiva (si veda in proposito Cass. civ., sez. II, 1 ottobre 1997 n. 9564, secondo cui i limiti imposti dal regolamento condominiale contrattuale alle facoltà di godimento dell’immobile “onde evitare ogni possibilità di equivoci in una materia che attiene alla compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive che pertengono ai singoli condomini, devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo ad incertezze”).

A prescindere dal rispetto delle norme pubblicistiche che disciplinano l’attività commerciale, chi sia intenzionato ad avviare un’attività di bed and breakfast in immobile sito entro un contesto condominiale, dovrà premurarsi di verificare se il regolamento condominiale preveda specifici divieti al riguardo.

L’eventuale inosservanza delle norme stabilite nel regolamento condominiale contrattuale configura infatti un vero e proprio inadempimento: gli altri condòmini (ed anche l’amministratore, al quale l’art. 1130 codice civile attribuisce il potere di curare l’osservanza del regolamento di condominio) potrebbero richiedere giudizialmente la cessazione dell’abusiva destinazione dell’immobile ad attività svolta in dispregio alle norme regolamentari, oltre al risarcimento dei danni eventualmente derivanti da un utilizzo dell’immobile contrario alle prescrizioni contenute nel regolamento (Cassazione civile, sez. II, 29 ottobre 2003 n. 16240).

       

La proprietaria di un appartamento posto in un complesso condominiale, intenzionata a destinare il proprio immobile all’esercizio di attività di bed and breakfast, presentò al Comune di Milano regolare denuncia di inizio attività.

In forza del disposto di cui all’art. 45 comma 4 contenuto nella Legge regionale lombarda 16 luglio 2007 n. 15 (Testo Unico delle leggi regionali in materia di turismo), il Comune di Milano invitò l’imprenditrice ad esibire la delibera con cui l’assemblea dei condomini manifestava l’approvazione allo svolgimento dell’attività di ricezione turistica all’interno dell’unità immobiliare.

Poiché detta approvazione non era però intervenuta, l’imprenditrice non aveva potuto ottemperare alla richiesta rivoltale dal Comune e, per questo motivo, si era vista negare l’autorizzazione amministrativa.

Dolendosi che il regolamento condominiale non vietava espressamente il servizio di bed and breakfast all’interno del condominio, l’imprenditrice propose rituale impugnazione avverso l’atto di diniego del Comune di Milano.

Nel corso del giudizio il Tribunale Amministrativo regionale per la Lombardia sollevò questione di legittimità costituzionale della norma sopra citata: subordinando il rilascio dell’autorizzazione amministrativa per lo svolgimento di attività (non comportante la sostanziale modifica della destinazione d’uso dell’immobile) ad un preventivo atto di assenso dell’assemblea condominiale, la norma impugnata avrebbe illegittimamente modificato la disciplina contenuta nel codice civile (disciplina di rango superiore, in quanto derivante da fonte statale).

Le norme relative alla regolamentazione dei rapporti interprivati tra singoli condomini, costituendo materia riservata alla legislazione esclusiva dello Stato, non avrebbero quindi potuto essere efficacemente derogate o integrate da una normativa regionale.

Con sentenza di accoglimento n. 369 del 14 novembre 2008 la Corte Costituzionale dichiarò l’illegittimità della norma censurata con la seguente motivazione: “nelle materie di competenza legislativa regionale residuale o concorrente, la regolamentazione statale, in forza dell’art. 117, secondo comma, lettera l) Cost., pone un limite diretto ad evitare che la norma regionale incida su un principio di ordinamento civile. (…) L’esigenza di garantire l’uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che, nell’ambito dell’ordinamento civile, disciplinano i rapporti giuridici fra privati, deve ritenersi un’esplicazione del principio costituzionale di eguaglianza (…). La specifica norma censurata incide direttamente sul rapporto civilistico tra condomini e condominio. Essa infatti, pur inserita in un contesto di norme dettate a presidio di finalità turistiche, è destinata a regolamentare l’interesse, tipicamente privatistico, del decoro e della quiete del condominio. (…) La disposizione censurata disciplina la materia condominiale in modo difforme e più severo rispetto a quanto disposto dal codice civile e, in particolare, degli artt. 1135 e 1138. Tali norme sanciscono che l’assemblea dei condomini non ha altri poteri rispetto a quelli fissati tassativamente dal codice e non può portare limitazioni alla sfera di proprietà dei singoli condomini, a meno che le predette limitazioni non siano specificatamente accettate o nei singoli atti di acquisto o mediante approvazione del regolamento di condominio”.

Immediatamente dopo la sua pubblicazione, questa pronuncia fu oggetto di frettolose interpretazioni che attribuirono alla sentenza un rilievo troppo ampio rispetto alla sua reale portata, desumibile dalla lettura della motivazione.

Si giunse inesattamente a ritenere che la Corte Costituzionale avesse utilizzato quale parametro di valutazione il principio costituzionale di libertà di iniziativa economica che non potrebbe essere frustrata da atti di diniego o divieti condominiali; ci si spinse così ad affermare che l’esercizio di attività commerciale di bed and breakfast, in un immobile sito entro un edificio condominiale, sarebbe pienamente legittimo anche qualora gli altri condomini siano contrari.

Tale interpretazione è però fuorviante e non coglie il vero senso della questione.

Nella pronuncia in esame la Corte Costituzionale non ha inteso stabilire alcuna gerarchia tra l’interesse all’esercizio dell’attività di impresa (nella specie, esercizio di attività di bed and breakfast) e le legittime limitazioni al godimento delle proprietà immobiliari esclusive contenute in molti regolamenti condominiali.

Se, in forza della sentenza sopra citata, la legge regionale non può imporre deroghe alle norme civilistiche (subordinando il rilascio di un’autorizzazione amministrativa ad un fatto che la legge rimette all’esercizio dell’autonomia contrattuale privata), qualora i regolamenti condominiali prevedano specifiche limitazioni all’uso ed al godimento delle unità immobiliari esclusive (nei limiti che si illustreranno tra breve), i condòmini saranno tenuti ad osservarne il contenuto.

Le norme di natura contrattuale hanno infatti forza di legge tra le parti (articolo 1372 codice civile).

L’esercizio dell’attività di bed and breakfast all’interno di un immobile collocato in contesto condominiale sarà quindi vincolato non solo all’ottenimento delle prescritte autorizzazioni amministrative, ma altresì – ove esistenti – al rispetto delle norme eventualmente contenute nei regolamenti condominiali: la verifica della legittimità di un’attività commerciale, sotto il profilo amministrativo, è cosa ben diversa dal rispetto delle prescrizioni regolamentari che tutti i condòmini sono tenuti a rispettare.

Il codice civile (articolo 1138) menziona il regolamento di condominio “assembleare”, di cui è obbligatoria l’adozione qualora il numero dei condomini sia superiore a dieci e nel quale è necessario siano contenute le norme che “disciplinano l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione”. Tale regolamento può essere formato anche successivamente alla costituzione del condominio, su iniziativa di ciascun condòmino, e dev’essere approvato dall’assemblea con le maggioranze previste dall’articolo 1136 secondo comma codice civile (di qui la denominazione, nella prassi, di regolamento “assembleare”).

Accanto a questo regolamento, alquanto infrequente nella pratica, vi è quello più comune, di origine contrattuale, formato per volontà unanime dei condomini o approvato “per relationem”, perché normalmente elaborato dal costruttore e richiamato negli atti di acquisto delle singole unità immobiliari.

La giurisprudenza ha indicato, quali materie che possono essere disciplinate esclusivamente in un regolamento contrattuale, (Cassazione civile, sez. II, 5 settembre 2000 n. 11684) l’imposizione di pesi a favore di alcune proprietà ed a carico di altre (cosiddette servitù), che devono necessariamente essere trascritte alla conservatoria dei registri immobiliari, le prestazioni di alcuni condòmini a favore di altri (oneri reali), ed infine le imposizioni di limiti al godimento di unità immobiliari (quali i divieti ai tenere animali o di adibire l’appartamento a determinate attività).

La Corte di Cassazione, avuto riguardo all’oggetto delle norme contenute nei regolamenti condominiali, ha ribadito che soltanto per la modifica delle clausole relative alle materie appena menzionate (in quanto prescrizioni di natura contrattuale) è richiesta l’unanimità dei voti dei condomini, mentre per la modifica delle clausole contenenti altro tipo di regolamentazione (quella contemplata dall’art. 1138 codice civile) è sufficiente la maggioranza qualificata di cui all’art. 1136 codice civile, in quanto trattasi di materie attinenti a prescrizioni di natura regolamentare (Cass. civ., sez. II, 18 aprile 2002 n. 5626).

Ciò significa che le pattuizioni contenenti limiti al godimento delle unità immobiliari richiedono necessariamente la volontà unanime di tutti i condòmini, contenuta nel regolamento contrattuale oppure (evenienza più rara nella pratica, ma sempre possibile) contenuta in un atto successivo che dovrà necessariamente rivestire forma scritta, concernendo diritti immobiliari, e recare la sottoscrizione di tutti i condomini.

Assai frequente è l’inserimento nei regolamenti condominiali contrattuali di clausole che vietano determinate destinazioni d’uso delle unità immobiliari.

Tali divieti sono normalmente espressi mediante l’elencazione delle attività non consentite (ad esempio, destinazione a gabinetto di cura per malattie infettive e contagiose, sedi di partito, sindacali o di associazioni, circoli, ritrovi, scuole in genere o in particolare – ad esempio - di musica, canto, ballo…) oppure, più genericamente, mediante riferimento al pregiudizio che si intende evitare (ad esempio, la destinazione a qualsiasi uso che produca rumori molesti o emissioni di fumo, esalazioni sgradevoli o nocive).

Nella prima ipotesi, per verificare se una destinazione sia o meno vietata è sufficiente verificare se essa sia compresa nell’elencazione; nella seconda ipotesi è invece necessario verificare l’eventuale effettiva idoneità della destinazione realizzata a provocare gli inconvenienti a cui si vuole ovviare.

Le clausole di un regolamento condominiale che inibiscono determinate utilizzazioni degli immobili devono essere interpretate in maniera restrittiva (si veda in proposito Cass. civ., sez. II, 1 ottobre 1997 n. 9564, secondo cui i limiti imposti dal regolamento condominiale contrattuale alle facoltà di godimento dell’immobile “onde evitare ogni possibilità di equivoci in una materia che attiene alla compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive che pertengono ai singoli condomini, devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo ad incertezze”).

A prescindere dal rispetto delle norme pubblicistiche che disciplinano l’attività commerciale, chi sia intenzionato ad avviare un’attività di bed and breakfast in immobile sito entro un contesto condominiale, dovrà premurarsi di verificare se il regolamento condominiale preveda specifici divieti al riguardo.

L’eventuale inosservanza delle norme stabilite nel regolamento condominiale contrattuale configura infatti un vero e proprio inadempimento: gli altri condòmini (ed anche l’amministratore, al quale l’art. 1130 codice civile attribuisce il potere di curare l’osservanza del regolamento di condominio) potrebbero richiedere giudizialmente la cessazione dell’abusiva destinazione dell’immobile ad attività svolta in dispregio alle norme regolamentari, oltre al risarcimento dei danni eventualmente derivanti da un utilizzo dell’immobile contrario alle prescrizioni contenute nel regolamento (Cassazione civile, sez. II, 29 ottobre 2003 n. 16240).