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La responsabilità da reato delle persone giuridiche

1. INTRODUZIONE: PROFILI STORICI E DOGMATICI.

Il brocardo latino societas delinquere non potest, risalente al diritto romano, è alla base dell’idea secondo cui destinatari della sanzione penale sono soltanto le persone fisiche e non le persone giuridiche. Nel diritto germanico, invece, così come nel diritto canonico e, in genere, nel diritto medievale, si ammise la responsabilità degli enti collettivi: ipotesi di responsabilità degli enti non sono mancate fino alla Rivoluzione francese, quando si negò al fenomeno associativo ogni forma di capacità personale e perfino di esistenza. Il principio individualistico, che si era già iniziato ad affermare – seppur in maniera non esclusiva – prima della Rivoluzione francese, dominò incontrastato nell’Europa continentale sino alla fine dell’800: epoca in cui si accese il dibattito circa l’adozione delle misure più adeguate a combattere il fenomeno della criminalità societaria.

Nel nostro ordinamento giuridico non esiste in realtà alcuna disposizione che esclude esplicitamente la responsabilità penale delle persone giuridiche anche se la dottrina ha talvolta fatto riferimento all’art. 197 c.p.: l’attribuzione alla persona giuridica, di una obbligazione civile di garanzia per il caso di insolvibilità di colui che abbia commesso il reato nel suo interesse ovvero in violazione degli obblighi inerenti la qualità di rappresentante o di amministratore dell’ente, non avrebbe ragion d’essere se l’ente potesse considerarsi soggetto attivo del reato.

Tuttavia, negli ultimi anni, la necessità di predisporre un sistema penale di responsabilità che colpisse direttamente le persone giuridiche (forse sotto la spinta dell’esperienza riscontrabile nei paesi anglosassoni che conoscono già da tempo la figura del corporate crime) si è sentita in maniera sempre più forte.

Alla base di tale esigenza vi sono due ragioni di ordine criminologico:

• si è preso atto che le più gravi forme di criminalità economica costituiscono manifestazioni di criminalità d’impresa, ciò in quanto in una organizzazione complessa, quale l’ente collettivo, l’illecito costituisce la conseguenza di precise scelte di politica d’impresa (studi criminologici statunitensi dimostrano che qui i soggetti commettono crimini che, a sfondo egoistico, non avrebbero commesso in quanto si sostiene che il livello di inibizione sarebbe affievolito);

• all’interno delle strutture complesse, dove si ha una struttura orizzontale del lavoro, è difficile individuare con precisione la persona fisica responsabile (per farlo la magistratura ha talvolta forzato le norme creando indebite posizioni di garanzia e stravolgendo la portata applicativa di istituti come il concorso di persone e il nesso di causalità).

Chiarita la necessità di predisporre un sistema sanzionatorio a carico delle persone giuridiche si sono registrate diverse correnti di pensiero circa l’individuazione dei possibili meccanismi sanzionatori da adottare (responsabilità civile, amministrativa o penale). Inadeguato sarebbe il sistema della responsabilità civile: ciò in quanto il danneggiato potrebbe non avere i mezzi per agire contro una grande impresa. Del pari, predisporre un sistema di responsabilità di natura amministrativa avrebbe sicuramente una minore efficacia deterrente rispetto alla scelta della responsabilità penale. La dottrina ha però sollevato tutta una serie di obiezioni alla costruzione di un sistema penale di responsabilità delle persone giuridiche.

1. Si è rilevato che il principio societas delinquere non potest riceverebbe, nel nostro ordinamento, avallo costituzionale dall’art. 27 che, affermando il carattere personale della responsabilità penale, richiederebbe l’identità tra l’autore dell’illecito e il soggetto passivo della sanzione. Per superare questa critica si è fatto ricorso alla teoria organicistica: tale teoria (contrariamente alla teoria della finzione che nega soggettività penale alle persone giuridiche considerandole “mero soggetto artificiale”) ammette che la persona giuridica, al pari dell’uomo, è un soggetto naturale e reale e quindi non vi è ragione per escludere tale soggettività.

2. Se il principio di personalità di cui all’art. 27 Cost. viene inteso come inclusivo del requisito della colpevolezza ci si è chiesti come sia possibile che l’ente collettivo agisca con dolo o colpa. Per superare il problema si è proposto di accogliere una concezione normativa (piuttosto che psicologica) della colpevolezza: le persone giuridiche così come sono capaci di commettere illeciti extrapenali sono capaci di azioni penalmente illecite attraverso i fatti dell’organo che, attraverso il rapporto di immedesimazione tra organo ed ente, sono direttamente riferibili alle stesse.

3. L’ente collettivo sarebbe inidoneo ad assumere la qualità di soggetto passivo di una sanzione. L’obiezione è facilmente superabile se si considera che quando si parla di pena non si intende solo quella detentiva (si è infatti proposto di strutturare le sanzioni come misure di sicurezza e ciò anche al fine di superare l’obiezione suesposta relativa alla incapacità di colpevolezza dell’ente).

4. Infine si è rilevata la potenziale dannosità della sanzione: la punizione dell’ente – si dice – potrà avere delle conseguenze negative anche sui soci incolpevoli. All’uopo alcuni sistemi giuridici stranieri hanno introdotto dei correttivi volti a consentire al socio dissenziente di mantenersi indenne dagli effetti della responsabilità della persona giuridica.

2. LA RESPONSABILITÀ DA REATO DELLE PERSONE GIURIDICHE NEL D. LGS. 231/2001.

Il D.Lgs. n. 231/2001, in attuazione della legge delega n. 330/2002 (di ratifica ed esecuzione di alcune convenzioni internazionali relative alla lotta alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri e dei funzionari degli Stati membri dell’Unione e alla tutela delle finanze comunitarie) ha introdotto la responsabilità degli enti collettivi per i reati commessi dai loro organi o dai loro sottoposti. Il legislatore ha preferito qualificare “amministrativa”, invece che “penale” la nuova forma di responsabilità non tanto per superare le resistenze della dottrina penalistica quanto, invece, per allentare le pressioni provenienti dal mondo imprenditoriale, preoccupato delle possibili ricadute economiche della riforma (PULITANO’). Nonostante l’esplicita qualificazione giuridica da parte del legislatore, la questione relativa alla sua natura giuridica è ancora controversa:

• chi sostiene che si tratta di responsabilità amministrativa (MARINUCCI) fa leva, oltre che sulla denominazione data dal legislatore, anche al regime della prescrizione (del tutto svincolato da quello penalistico) e al trattamento sanzionatorio nel caso di vicende modificative, agganciato alla disciplina civilistica delle obbligazioni;

• altri, invece, ritengono che la suddetta responsabilità abbia in realtà natura penalistica, posto che la stessa è strettamente agganciata alla commissione di un reato e la sede in cui viene accertata è il processo penale;

• infine si è sostenuto che la suddetta forma di responsabilità non abbia né natura amministrativa né natura penalistica ma costituisca in realtà un tertium genus di responsabilità, nascente dall’ibridazione della responsabilità amministrativa con principi e concetti propri della sfera penale (Cass. Pen., sez. II, 30 gennaio 2006, ric. Jolly Mediterraneo s.r.l.).

I connotati fondamentali della nuova disciplina possono essere così riassunti.

1. L’ambito di applicazione del decreto è circoscritto sia sul piano soggettivo che sul piano oggettivo. Con riferimento al primo profilo, ai sensi dell’art. 1 destinatari delle nuove disposizioni sono gli enti forniti di personalità giuridica ma anche le società e le associazioni che ne sono prive (con esclusione dello Stato, degli enti pubblici territoriali, degli enti pubblici non economici e a quelli che svolgono funzioni di rilievo costituzionale). Sul piano oggettivo il decreto trova applicazione con riferimento ad una serie di reati presupposto tassativamente individuati dal legislatore: reati di indebita percezione di erogazioni, truffa o frode informatica in danno dello Stato o di ente pubblico, corruzione, concussione (nella formulazione originaria del decreto); alcuni reati di falso (d.lgs. 350/2001); alcuni reati societari (d.lgs. 61/2002); delitti di schiavitù, prostituzione e pornografia minorile (L. 228/2003); delitti con finalità di terrorismo o di eversione (L. 7/2003); reati di mutilazioni genitali femminili (L. 6/2006); delitti di associazione (l. 146/2006).

2. La fattispecie dell’illecito amministrativo dipendente da reato si configura quando un soggetto che si trovi in una posizione qualificata o di dipendenza rispetto all’ente (rispettivamente soggetti in posizione apicale, che svolgono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità, e soggetti sottoposti alla direzione o vigilanza dei primi) commette uno dei reati di cui sopra nell’interesse o a vantaggio dell’ente. Secondo la relazione al decreto mentre l’interesse caratterizza in modo marcatamente soggettivo la condotta delittuosa della persona fisica e si accontenta di una verifica ex ante, il vantaggio può essere tratto dall’ente anche quando la persona fisica non abbia agito nel suo interesse e si accontenta di una verifica ex post: ma l’orientamento interpretativo dominante riconduce entrambe le alternative ad un unico superiore concetto di interesse.

3. Per quanto riguarda i criteri di imputazione soggettiva è stato predisposto un modello di colpevolezza sui generis, ispirata al modello dei compliance programs nordamericani. Si tratta di una colpevolezza costruita sempre come rimproverabilità soggettiva: il reato dovrà però costituire anche espressione della politica aziendale o derivare da una colpa da organizzazione (cioè dalla non adozione di modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire i tipi di reati suddetti o da una inadeguata vigilanza da parte degli organismi di controllo).

4. La responsabilità dell’ente è autonoma rispetto a quella dell’autore del reato: infatti essa si configura anche quando quest’ultimo non è stato identificato o non è imputabile oppure se il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia.

5. Per quanto riguarda il sistema delle sanzioni queste si distinguono in: sanzioni pecuniarie, sanzioni interdittive, confisca e pubblicazione della sentenza di condanna.

3. CASISTICA GIURISPRUDENZIALE.

Nella prassi il sistema di responsabilità predisposto dal d. lgs. 231/2001 ha fatto riscontrare non pochi problemi applicativi, che vale la pena esaminare.

La Cassazione nella sentenza Jolly Mediterraneo (Cass. Pen., Sez. III, 30 gennaio 2006) chiarisce innanzitutto la natura della responsabilità in questione, statuendo che:

a. ad onta del “nomen juris”, la nuova responsabilità, nominalmente amministrativa, dissimula la sua natura sostanzialmente penale, forse sottaciuta per non aprire delicati conflitti con i dogmi personalistici dell’imputazione criminale di rango costituzionale;

b. tale responsabilità costituisce in fondo un tertium genus ove il presupposto è dato dalla commissione del reato.

La pronuncia affronta anche altri due problemi. Il primo riguarda l’applicabilità della disciplina di cui al d. lgs. 231/2001 per reati consumati prima della sua entrata in vigore: nel caso di specie si è sostenuta l’applicabilità delle nuove disposizioni perché la fattispecie di reato in questione, truffa ai danni dello Stato, viene considerata reato a consumazione prolungata e di conseguenza il momento consumativo coincide, non già con quello in cui si è richiesto od ottenuto il finanziamento ma, con quello della cessazione dei pagamenti (in cui si è avuto il relativo aggravamento del danno). Il secondo problema riguarda la pretesa inesistenza del vantaggio della persona giuridica, in quanto si sostiene che nel caso in questione le somme erogate sarebbero state distratte sui conti personali dell’amministratore: si rileva però che il momento realizzativo del profitto coinciderebbe con l’accreditamento alla società delle somme da parte del Ministero e, ciò che avviene dopo, resta un post factum che non elide il dato storico del profitto già conseguito dall’ente.

Con riguardo alla possibilità, riconosciuta dall’art. 45 del decreto, di applicare nei confronti dell’ente delle misure cautelari interdittive (previste dal c. 2 dell’art. 9) occorre segnalare l’ordinanza del Tribunale ordinario di Milano (uff. g.i.p.) del 22.09.2004 con la quale si fornisce un importante contributo chiarificatore in tema di presupposti per l’applicazione di tali misure. Nel caso di specie si trattava di applicare nei confronti della Siemens AG la misura del divieto di contrattare con la P.A. Oltre ai gravi indizi di responsabilità dell’ente e al concreto pericolo che vengano commessi reati della stessa indole di quello per cui si procede (art. 45) si ritiene che debba sussistere una delle condizioni previste dall’art. 13 del decreto, ovvero il requisito del profitto di rilevante entità dell’ente o la reiterazione degli illeciti. Con riferimento ai gravi indizi di responsabilità occorre dire che gli stessi vengono considerati sussistenti in quanto: a) gli autori del reato rientrano in una delle categorie di cui all’art. 5 in quanto possono considerarsi persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di soggetti che, nell’ambito dell’ente, svolgono funzioni di rappresentanza, amministrazione e direzione dell’ente; b) le loro condotte dimostrano che essi agirono nell’interesse prevalente, se non esclusivo, dell’ente. Deve aggiungersi che l’applicazione della disciplina del decreto è legittimata in quanto: 1) tali soggetti sono indagati di reati corruttivi in relazione all’aggiudicazione di gare, indette da ENELPOWER, relative ad alcune forniture di turbine a gas (che rientrano nell’ambito di applicazione della disciplina); 2) è rimproverabile alla Siemens AG di non avere adottato modelli organizzativi idonei ad evitare la commissione di reati. Per quanto attiene al pericolo di reiterazione del reato questo è considerato desumibile dal fatto che è stato scoperto che la Siemens AG ha la disponibilità di conti costituiti ed alimentati con modalità extra bilancio che aumentano il rischio di future condotte corruttive. Infine si rileva che la dottrina prevalente ritiene che, ai fini dell’applicazione delle sanzioni interdittive di cui all’art. 9 quali misure cautelari ed anticipatorie, si deve altresì verificare la sussistenza delle condizioni di cui all’art. 13. Si ritiene sussistente il requisito del profitto di rilevante entità in quanto l’aggiudicazione susseguente all’accordo corruttivo ha assicurato alla Siemens AG anche la successiva stipula di contratti di service, relativi alla manutenzione dei macchinari forniti. Peraltro, sussiste nel caso di specie anche il requisito della reiterazione dei fatti illeciti, richiesto alternativamente dall’art. 13: infatti le gare sono state due ma quella avvenuta prima dell’entrata in vigore del decreto non può essere considerata ai fini dell’affermazione della responsabilità ma può essere invece utilizzata come indice per l’applicazione della misura.

Sempre in tema di misure cautelari è da segnalare la decisione di Cass. pen., sez. II, 16/02/2006 n. 9829: qui dopo avere ribadito che il D.Lgs. n. 231/2001 prevede una forma di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, autonoma e non sussidiaria rispetto a quella dell’autore di reato, si passa ad esaminare la questione relativa ai presupposti del sequestro preventivo, previsto dall’art. 53, delle cose di cui è consentita la confisca ex art. 19 e, quindi, funzionale alla stessa.

Nel caso di specie si trattava di verificare la legittimità dell’ordinanza di rigetto (del G.i.p. in un primo momento e poi del Tribunale di Enna) della richiesta di sequestro di somme versate su conti correnti bancari intestati alla società responsabile (e quindi riconducibili alla nozione di profitto di reato) avanzata dal P.M.

La Corte, condividendo in parte quanto affermato dal Tribunale, afferma che per il sequestro preventivo dei beni di cui è obbligatoria la confisca (beni che costituiscono prezzo e profitto del reato), non occorre la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità, né il "periculum" richiesto per il sequestro preventivo di cui all’art. 321, comma primo, cod. proc. pen., essendo sufficiente accertarne la confiscabilità, una volta che sia astrattamente possibile sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato. In particolare deve verificarsi l’esistenza di un rapporto pertinenziale fra il bene che si intende sequestrare ed il reato per cui si procede (ragione per cui è stato disposto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata).

Ancora in tema di misure cautelari è intervenuta Cass. pen., sez. VI, 23 giugno 2006 n. 32627. Il G.i.p. presso il Tribunale di Bari disponeva nei confronti di due società la misura cautelare dell’interdizione dall’esercizio dell’attività per la durata di un anno (sostituita poi con la nomina di un commissario giudiziale). La vicenda si inseriva nell’ambito di un procedimento penale riguardante un’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati contro la P.A. (volti all’aggiudicazione degli appalti di servizi di pulizia banditi da enti pubblici del settore sanitario pugliese). Contro l’ordinanza una delle società proponeva ricorso per Cassazione, articolato in più motivi. La Corte, nonostante l’ordinanza fosse stata revocata nelle more dell’impugnazione, ha ritenuto sussistente l’interesse ad impugnare della società ricorrente in quanto dal suo annullamento poteva derivare l’inefficiacia immediata degli adempimenti imposti con il provvedimento di revoca. Nel testo della decisione si afferma che:

• l’applicazione in via cautelare di misure interdittive, a carico di una società, è subordinata alla circostanza che l’ente o abbia reiterato gli illeciti, o ne abbia tratto un profitto di rilevante entità (si ritiene infatti che sussista un principio di proporzionalità della misura in base al quale il giudice della cautela può disporre solo le misure che potrebbe irrogare il giudice della cognizione);

• nel valutare la gravità indiziaria a carico della società il giudice, oltre al riferimento al fatto reato, deve esaminare la sussistenza di un interesse o vantaggio dell’ente ed il ruolo ricoperto dagli imputati (apici o dipendenti) il cui diverso modello di imputazione comporta un differente onere probatorio in capo all’accusa;

• non è consentito, con riferimento all’ordinanza applicativa della misura, il ricorso alla tecnica di motivazione del provvedimento "per relationem" con rinvio all’ordinanza cautelare personale, se non per assolvere l’onere della motivazione con riferimento al solo presupposto comune della sussistenza dei gravi indizi circa la commissione dei reati;

• la nozione di profitto di rilevante entità di cui all’art. 13, richiesta per l’adozione di una misura cautelare interdittiva nei confronti dell’ente, ha un contenuto più ampio di quello di profitto inteso come utile netto, in quanto in tale concetto rientrano anche vantaggi non immediati, comunque conseguiti attraverso la realizzazione dell’illecito (il giudizio circa la sussistenza di un profitto "di rilevante entità" non discende automaticamente dalla considerazione del valore del contratto o del fatturato ottenuto a seguito del reato, anche se tali importi costituiscono rilevanti indizi).

Sulla nozione di profitto del reato nel sequestro preventivo, funzionale alla confisca, di cui agli artt. 19 e 53 del decreto, sono intervenute di recente le Sezioni Unite (sent. 2 luglio 2008 n. 26654). La Corte rileva innanzitutto che non è rinvenibile in alcuna disposizione legislativa una definizione della suddetta nozione né tantomeno una specificazione del tipo “profitto lordo” o “profitto netto”. Problema analogo si è posto con riferimento alla nozione di profitto di cui all’art. 240 c.p.: tradizionalmente si ritiene che esso si identifichi col vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone al prodotto (che è il risultato empirico dell’illecito) e al prezzo (che è il compenso, dato o promesso ad una persona, come corrispettivo dell’esecuzione dell’illecito) del reato. Tutte e tre le nozioni (prezzo, profitto, prodotto) rientrano nella onnicomprensiva nozione di “provento del reato”. Circa la nozione di profitto inteso come “vantaggio economico” si sottolinea come la stessa Corte ha in precedenza precisato che all’espressione non va attribuito il significato di “utile netto” o “reddito”, ma quello di “beneficio aggiunto di tipo patrimoniale” (superando così l’ambiguità che il termine vantaggio può generare). Occorre a questo punto verificare la validità di tale approdo interpretativo, maturato con riferimento alla fattispecie di confisca di cui all’art. 240 c.p., con riferimento al d.lgs. 231/2001. Nel suddetto decreto, invero, la nozione di profitto è richiamata più volte (artt. 9, 13, 15, 17, 19, 23, 24, 25): sicuramente questa assumerà un significato diverso a seconda del contesto nel quale avviene il richiamo. Le SS.UU. hanno affrontato la questione – come abbiamo detto – con riferimento agli artt. 19 e 53 del decreto (confisca e sequestro). Si afferma quindi che nell’ambito del sequestro preventivo, funzionale alla confisca, il profitto va inteso come il complesso dei vantaggi economici tratti dall’illecito e a questo strettamente pertinenti (escludendo quindi l’utilizzazione di parametri di tipo aziendalistico). Accogliere una nozione di profitto inteso come “utile netto” avrebbe due conseguenze:

1) contrasterebbe con la funzione di deterrenza della confisca (intesa come misura afflittiva);

2) si riverserebbe sullo Stato il rischio di esito negativo del reato, consentendo al reo di rifarsi dei costi affrontati per la realizzazione dello stesso.

Si precisa però che la nozione di profitto va comunque determinata al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato. In proposito la Corte distingue tra la nozione di “reato contratto” (che si realizzerebbe quando la legge qualifica come reato la semplice stipula del contratto) e quella di “reato in contratto” (nella quale il comportamento penalmente rilevante incide sulla fase di formazione della volontà contrattuale o in quella di esecuzione del programma negoziale): nel primo il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della condotta illecita, nel secondo il profitto potrebbe anche non essere ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente (nel caso di specie le SS.UU., qualificando il reato di truffa come “reato in contratto”, affermano che il relativo profitto vada determinato al netto dell’utilità concreta ottenuta dalla parte lesa con esclusione delle imposte versate, dei crediti non incassati e in genere dei beni futuri).

1. INTRODUZIONE: PROFILI STORICI E DOGMATICI.

Il brocardo latino societas delinquere non potest, risalente al diritto romano, è alla base dell’idea secondo cui destinatari della sanzione penale sono soltanto le persone fisiche e non le persone giuridiche. Nel diritto germanico, invece, così come nel diritto canonico e, in genere, nel diritto medievale, si ammise la responsabilità degli enti collettivi: ipotesi di responsabilità degli enti non sono mancate fino alla Rivoluzione francese, quando si negò al fenomeno associativo ogni forma di capacità personale e perfino di esistenza. Il principio individualistico, che si era già iniziato ad affermare – seppur in maniera non esclusiva – prima della Rivoluzione francese, dominò incontrastato nell’Europa continentale sino alla fine dell’800: epoca in cui si accese il dibattito circa l’adozione delle misure più adeguate a combattere il fenomeno della criminalità societaria.

Nel nostro ordinamento giuridico non esiste in realtà alcuna disposizione che esclude esplicitamente la responsabilità penale delle persone giuridiche anche se la dottrina ha talvolta fatto riferimento all’art. 197 c.p.: l’attribuzione alla persona giuridica, di una obbligazione civile di garanzia per il caso di insolvibilità di colui che abbia commesso il reato nel suo interesse ovvero in violazione degli obblighi inerenti la qualità di rappresentante o di amministratore dell’ente, non avrebbe ragion d’essere se l’ente potesse considerarsi soggetto attivo del reato.

Tuttavia, negli ultimi anni, la necessità di predisporre un sistema penale di responsabilità che colpisse direttamente le persone giuridiche (forse sotto la spinta dell’esperienza riscontrabile nei paesi anglosassoni che conoscono già da tempo la figura del corporate crime) si è sentita in maniera sempre più forte.

Alla base di tale esigenza vi sono due ragioni di ordine criminologico:

• si è preso atto che le più gravi forme di criminalità economica costituiscono manifestazioni di criminalità d’impresa, ciò in quanto in una organizzazione complessa, quale l’ente collettivo, l’illecito costituisce la conseguenza di precise scelte di politica d’impresa (studi criminologici statunitensi dimostrano che qui i soggetti commettono crimini che, a sfondo egoistico, non avrebbero commesso in quanto si sostiene che il livello di inibizione sarebbe affievolito);

• all’interno delle strutture complesse, dove si ha una struttura orizzontale del lavoro, è difficile individuare con precisione la persona fisica responsabile (per farlo la magistratura ha talvolta forzato le norme creando indebite posizioni di garanzia e stravolgendo la portata applicativa di istituti come il concorso di persone e il nesso di causalità).

Chiarita la necessità di predisporre un sistema sanzionatorio a carico delle persone giuridiche si sono registrate diverse correnti di pensiero circa l’individuazione dei possibili meccanismi sanzionatori da adottare (responsabilità civile, amministrativa o penale). Inadeguato sarebbe il sistema della responsabilità civile: ciò in quanto il danneggiato potrebbe non avere i mezzi per agire contro una grande impresa. Del pari, predisporre un sistema di responsabilità di natura amministrativa avrebbe sicuramente una minore efficacia deterrente rispetto alla scelta della responsabilità penale. La dottrina ha però sollevato tutta una serie di obiezioni alla costruzione di un sistema penale di responsabilità delle persone giuridiche.

1. Si è rilevato che il principio societas delinquere non potest riceverebbe, nel nostro ordinamento, avallo costituzionale dall’art. 27 che, affermando il carattere personale della responsabilità penale, richiederebbe l’identità tra l’autore dell’illecito e il soggetto passivo della sanzione. Per superare questa critica si è fatto ricorso alla teoria organicistica: tale teoria (contrariamente alla teoria della finzione che nega soggettività penale alle persone giuridiche considerandole “mero soggetto artificiale”) ammette che la persona giuridica, al pari dell’uomo, è un soggetto naturale e reale e quindi non vi è ragione per escludere tale soggettività.

2. Se il principio di personalità di cui all’art. 27 Cost. viene inteso come inclusivo del requisito della colpevolezza ci si è chiesti come sia possibile che l’ente collettivo agisca con dolo o colpa. Per superare il problema si è proposto di accogliere una concezione normativa (piuttosto che psicologica) della colpevolezza: le persone giuridiche così come sono capaci di commettere illeciti extrapenali sono capaci di azioni penalmente illecite attraverso i fatti dell’organo che, attraverso il rapporto di immedesimazione tra organo ed ente, sono direttamente riferibili alle stesse.

3. L’ente collettivo sarebbe inidoneo ad assumere la qualità di soggetto passivo di una sanzione. L’obiezione è facilmente superabile se si considera che quando si parla di pena non si intende solo quella detentiva (si è infatti proposto di strutturare le sanzioni come misure di sicurezza e ciò anche al fine di superare l’obiezione suesposta relativa alla incapacità di colpevolezza dell’ente).

4. Infine si è rilevata la potenziale dannosità della sanzione: la punizione dell’ente – si dice – potrà avere delle conseguenze negative anche sui soci incolpevoli. All’uopo alcuni sistemi giuridici stranieri hanno introdotto dei correttivi volti a consentire al socio dissenziente di mantenersi indenne dagli effetti della responsabilità della persona giuridica.

2. LA RESPONSABILITÀ DA REATO DELLE PERSONE GIURIDICHE NEL D. LGS. 231/2001.

Il D.Lgs. n. 231/2001, in attuazione della legge delega n. 330/2002 (di ratifica ed esecuzione di alcune convenzioni internazionali relative alla lotta alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri e dei funzionari degli Stati membri dell’Unione e alla tutela delle finanze comunitarie) ha introdotto la responsabilità degli enti collettivi per i reati commessi dai loro organi o dai loro sottoposti. Il legislatore ha preferito qualificare “amministrativa”, invece che “penale” la nuova forma di responsabilità non tanto per superare le resistenze della dottrina penalistica quanto, invece, per allentare le pressioni provenienti dal mondo imprenditoriale, preoccupato delle possibili ricadute economiche della riforma (PULITANO’). Nonostante l’esplicita qualificazione giuridica da parte del legislatore, la questione relativa alla sua natura giuridica è ancora controversa:

• chi sostiene che si tratta di responsabilità amministrativa (MARINUCCI) fa leva, oltre che sulla denominazione data dal legislatore, anche al regime della prescrizione (del tutto svincolato da quello penalistico) e al trattamento sanzionatorio nel caso di vicende modificative, agganciato alla disciplina civilistica delle obbligazioni;

• altri, invece, ritengono che la suddetta responsabilità abbia in realtà natura penalistica, posto che la stessa è strettamente agganciata alla commissione di un reato e la sede in cui viene accertata è il processo penale;

• infine si è sostenuto che la suddetta forma di responsabilità non abbia né natura amministrativa né natura penalistica ma costituisca in realtà un tertium genus di responsabilità, nascente dall’ibridazione della responsabilità amministrativa con principi e concetti propri della sfera penale (Cass. Pen., sez. II, 30 gennaio 2006, ric. Jolly Mediterraneo s.r.l.).

I connotati fondamentali della nuova disciplina possono essere così riassunti.

1. L’ambito di applicazione del decreto è circoscritto sia sul piano soggettivo che sul piano oggettivo. Con riferimento al primo profilo, ai sensi dell’art. 1 destinatari delle nuove disposizioni sono gli enti forniti di personalità giuridica ma anche le società e le associazioni che ne sono prive (con esclusione dello Stato, degli enti pubblici territoriali, degli enti pubblici non economici e a quelli che svolgono funzioni di rilievo costituzionale). Sul piano oggettivo il decreto trova applicazione con riferimento ad una serie di reati presupposto tassativamente individuati dal legislatore: reati di indebita percezione di erogazioni, truffa o frode informatica in danno dello Stato o di ente pubblico, corruzione, concussione (nella formulazione originaria del decreto); alcuni reati di falso (d.lgs. 350/2001); alcuni reati societari (d.lgs. 61/2002); delitti di schiavitù, prostituzione e pornografia minorile (L. 228/2003); delitti con finalità di terrorismo o di eversione (L. 7/2003); reati di mutilazioni genitali femminili (L. 6/2006); delitti di associazione (l. 146/2006).

2. La fattispecie dell’illecito amministrativo dipendente da reato si configura quando un soggetto che si trovi in una posizione qualificata o di dipendenza rispetto all’ente (rispettivamente soggetti in posizione apicale, che svolgono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità, e soggetti sottoposti alla direzione o vigilanza dei primi) commette uno dei reati di cui sopra nell’interesse o a vantaggio dell’ente. Secondo la relazione al decreto mentre l’interesse caratterizza in modo marcatamente soggettivo la condotta delittuosa della persona fisica e si accontenta di una verifica ex ante, il vantaggio può essere tratto dall’ente anche quando la persona fisica non abbia agito nel suo interesse e si accontenta di una verifica ex post: ma l’orientamento interpretativo dominante riconduce entrambe le alternative ad un unico superiore concetto di interesse.

3. Per quanto riguarda i criteri di imputazione soggettiva è stato predisposto un modello di colpevolezza sui generis, ispirata al modello dei compliance programs nordamericani. Si tratta di una colpevolezza costruita sempre come rimproverabilità soggettiva: il reato dovrà però costituire anche espressione della politica aziendale o derivare da una colpa da organizzazione (cioè dalla non adozione di modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire i tipi di reati suddetti o da una inadeguata vigilanza da parte degli organismi di controllo).

4. La responsabilità dell’ente è autonoma rispetto a quella dell’autore del reato: infatti essa si configura anche quando quest’ultimo non è stato identificato o non è imputabile oppure se il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia.

5. Per quanto riguarda il sistema delle sanzioni queste si distinguono in: sanzioni pecuniarie, sanzioni interdittive, confisca e pubblicazione della sentenza di condanna.

3. CASISTICA GIURISPRUDENZIALE.

Nella prassi il sistema di responsabilità predisposto dal d. lgs. 231/2001 ha fatto riscontrare non pochi problemi applicativi, che vale la pena esaminare.

La Cassazione nella sentenza Jolly Mediterraneo (Cass. Pen., Sez. III, 30 gennaio 2006) chiarisce innanzitutto la natura della responsabilità in questione, statuendo che:

a. ad onta del “nomen juris”, la nuova responsabilità, nominalmente amministrativa, dissimula la sua natura sostanzialmente penale, forse sottaciuta per non aprire delicati conflitti con i dogmi personalistici dell’imputazione criminale di rango costituzionale;

b. tale responsabilità costituisce in fondo un tertium genus ove il presupposto è dato dalla commissione del reato.

La pronuncia affronta anche altri due problemi. Il primo riguarda l’applicabilità della disciplina di cui al d. lgs. 231/2001 per reati consumati prima della sua entrata in vigore: nel caso di specie si è sostenuta l’applicabilità delle nuove disposizioni perché la fattispecie di reato in questione, truffa ai danni dello Stato, viene considerata reato a consumazione prolungata e di conseguenza il momento consumativo coincide, non già con quello in cui si è richiesto od ottenuto il finanziamento ma, con quello della cessazione dei pagamenti (in cui si è avuto il relativo aggravamento del danno). Il secondo problema riguarda la pretesa inesistenza del vantaggio della persona giuridica, in quanto si sostiene che nel caso in questione le somme erogate sarebbero state distratte sui conti personali dell’amministratore: si rileva però che il momento realizzativo del profitto coinciderebbe con l’accreditamento alla società delle somme da parte del Ministero e, ciò che avviene dopo, resta un post factum che non elide il dato storico del profitto già conseguito dall’ente.

Con riguardo alla possibilità, riconosciuta dall’art. 45 del decreto, di applicare nei confronti dell’ente delle misure cautelari interdittive (previste dal c. 2 dell’art. 9) occorre segnalare l’ordinanza del Tribunale ordinario di Milano (uff. g.i.p.) del 22.09.2004 con la quale si fornisce un importante contributo chiarificatore in tema di presupposti per l’applicazione di tali misure. Nel caso di specie si trattava di applicare nei confronti della Siemens AG la misura del divieto di contrattare con la P.A. Oltre ai gravi indizi di responsabilità dell’ente e al concreto pericolo che vengano commessi reati della stessa indole di quello per cui si procede (art. 45) si ritiene che debba sussistere una delle condizioni previste dall’art. 13 del decreto, ovvero il requisito del profitto di rilevante entità dell’ente o la reiterazione degli illeciti. Con riferimento ai gravi indizi di responsabilità occorre dire che gli stessi vengono considerati sussistenti in quanto: a) gli autori del reato rientrano in una delle categorie di cui all’art. 5 in quanto possono considerarsi persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di soggetti che, nell’ambito dell’ente, svolgono funzioni di rappresentanza, amministrazione e direzione dell’ente; b) le loro condotte dimostrano che essi agirono nell’interesse prevalente, se non esclusivo, dell’ente. Deve aggiungersi che l’applicazione della disciplina del decreto è legittimata in quanto: 1) tali soggetti sono indagati di reati corruttivi in relazione all’aggiudicazione di gare, indette da ENELPOWER, relative ad alcune forniture di turbine a gas (che rientrano nell’ambito di applicazione della disciplina); 2) è rimproverabile alla Siemens AG di non avere adottato modelli organizzativi idonei ad evitare la commissione di reati. Per quanto attiene al pericolo di reiterazione del reato questo è considerato desumibile dal fatto che è stato scoperto che la Siemens AG ha la disponibilità di conti costituiti ed alimentati con modalità extra bilancio che aumentano il rischio di future condotte corruttive. Infine si rileva che la dottrina prevalente ritiene che, ai fini dell’applicazione delle sanzioni interdittive di cui all’art. 9 quali misure cautelari ed anticipatorie, si deve altresì verificare la sussistenza delle condizioni di cui all’art. 13. Si ritiene sussistente il requisito del profitto di rilevante entità in quanto l’aggiudicazione susseguente all’accordo corruttivo ha assicurato alla Siemens AG anche la successiva stipula di contratti di service, relativi alla manutenzione dei macchinari forniti. Peraltro, sussiste nel caso di specie anche il requisito della reiterazione dei fatti illeciti, richiesto alternativamente dall’art. 13: infatti le gare sono state due ma quella avvenuta prima dell’entrata in vigore del decreto non può essere considerata ai fini dell’affermazione della responsabilità ma può essere invece utilizzata come indice per l’applicazione della misura.

Sempre in tema di misure cautelari è da segnalare la decisione di Cass. pen., sez. II, 16/02/2006 n. 9829: qui dopo avere ribadito che il D.Lgs. n. 231/2001 prevede una forma di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, autonoma e non sussidiaria rispetto a quella dell’autore di reato, si passa ad esaminare la questione relativa ai presupposti del sequestro preventivo, previsto dall’art. 53, delle cose di cui è consentita la confisca ex art. 19 e, quindi, funzionale alla stessa.

Nel caso di specie si trattava di verificare la legittimità dell’ordinanza di rigetto (del G.i.p. in un primo momento e poi del Tribunale di Enna) della richiesta di sequestro di somme versate su conti correnti bancari intestati alla società responsabile (e quindi riconducibili alla nozione di profitto di reato) avanzata dal P.M.

La Corte, condividendo in parte quanto affermato dal Tribunale, afferma che per il sequestro preventivo dei beni di cui è obbligatoria la confisca (beni che costituiscono prezzo e profitto del reato), non occorre la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità, né il "periculum" richiesto per il sequestro preventivo di cui all’art. 321, comma primo, cod. proc. pen., essendo sufficiente accertarne la confiscabilità, una volta che sia astrattamente possibile sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato. In particolare deve verificarsi l’esistenza di un rapporto pertinenziale fra il bene che si intende sequestrare ed il reato per cui si procede (ragione per cui è stato disposto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata).

Ancora in tema di misure cautelari è intervenuta Cass. pen., sez. VI, 23 giugno 2006 n. 32627. Il G.i.p. presso il Tribunale di Bari disponeva nei confronti di due società la misura cautelare dell’interdizione dall’esercizio dell’attività per la durata di un anno (sostituita poi con la nomina di un commissario giudiziale). La vicenda si inseriva nell’ambito di un procedimento penale riguardante un’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati contro la P.A. (volti all’aggiudicazione degli appalti di servizi di pulizia banditi da enti pubblici del settore sanitario pugliese). Contro l’ordinanza una delle società proponeva ricorso per Cassazione, articolato in più motivi. La Corte, nonostante l’ordinanza fosse stata revocata nelle more dell’impugnazione, ha ritenuto sussistente l’interesse ad impugnare della società ricorrente in quanto dal suo annullamento poteva derivare l’inefficiacia immediata degli adempimenti imposti con il provvedimento di revoca. Nel testo della decisione si afferma che:

• l’applicazione in via cautelare di misure interdittive, a carico di una società, è subordinata alla circostanza che l’ente o abbia reiterato gli illeciti, o ne abbia tratto un profitto di rilevante entità (si ritiene infatti che sussista un principio di proporzionalità della misura in base al quale il giudice della cautela può disporre solo le misure che potrebbe irrogare il giudice della cognizione);

• nel valutare la gravità indiziaria a carico della società il giudice, oltre al riferimento al fatto reato, deve esaminare la sussistenza di un interesse o vantaggio dell’ente ed il ruolo ricoperto dagli imputati (apici o dipendenti) il cui diverso modello di imputazione comporta un differente onere probatorio in capo all’accusa;

• non è consentito, con riferimento all’ordinanza applicativa della misura, il ricorso alla tecnica di motivazione del provvedimento "per relationem" con rinvio all’ordinanza cautelare personale, se non per assolvere l’onere della motivazione con riferimento al solo presupposto comune della sussistenza dei gravi indizi circa la commissione dei reati;

• la nozione di profitto di rilevante entità di cui all’art. 13, richiesta per l’adozione di una misura cautelare interdittiva nei confronti dell’ente, ha un contenuto più ampio di quello di profitto inteso come utile netto, in quanto in tale concetto rientrano anche vantaggi non immediati, comunque conseguiti attraverso la realizzazione dell’illecito (il giudizio circa la sussistenza di un profitto "di rilevante entità" non discende automaticamente dalla considerazione del valore del contratto o del fatturato ottenuto a seguito del reato, anche se tali importi costituiscono rilevanti indizi).

Sulla nozione di profitto del reato nel sequestro preventivo, funzionale alla confisca, di cui agli artt. 19 e 53 del decreto, sono intervenute di recente le Sezioni Unite (sent. 2 luglio 2008 n. 26654). La Corte rileva innanzitutto che non è rinvenibile in alcuna disposizione legislativa una definizione della suddetta nozione né tantomeno una specificazione del tipo “profitto lordo” o “profitto netto”. Problema analogo si è posto con riferimento alla nozione di profitto di cui all’art. 240 c.p.: tradizionalmente si ritiene che esso si identifichi col vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone al prodotto (che è il risultato empirico dell’illecito) e al prezzo (che è il compenso, dato o promesso ad una persona, come corrispettivo dell’esecuzione dell’illecito) del reato. Tutte e tre le nozioni (prezzo, profitto, prodotto) rientrano nella onnicomprensiva nozione di “provento del reato”. Circa la nozione di profitto inteso come “vantaggio economico” si sottolinea come la stessa Corte ha in precedenza precisato che all’espressione non va attribuito il significato di “utile netto” o “reddito”, ma quello di “beneficio aggiunto di tipo patrimoniale” (superando così l’ambiguità che il termine vantaggio può generare). Occorre a questo punto verificare la validità di tale approdo interpretativo, maturato con riferimento alla fattispecie di confisca di cui all’art. 240 c.p., con riferimento al d.lgs. 231/2001. Nel suddetto decreto, invero, la nozione di profitto è richiamata più volte (artt. 9, 13, 15, 17, 19, 23, 24, 25): sicuramente questa assumerà un significato diverso a seconda del contesto nel quale avviene il richiamo. Le SS.UU. hanno affrontato la questione – come abbiamo detto – con riferimento agli artt. 19 e 53 del decreto (confisca e sequestro). Si afferma quindi che nell’ambito del sequestro preventivo, funzionale alla confisca, il profitto va inteso come il complesso dei vantaggi economici tratti dall’illecito e a questo strettamente pertinenti (escludendo quindi l’utilizzazione di parametri di tipo aziendalistico). Accogliere una nozione di profitto inteso come “utile netto” avrebbe due conseguenze:

1) contrasterebbe con la funzione di deterrenza della confisca (intesa come misura afflittiva);

2) si riverserebbe sullo Stato il rischio di esito negativo del reato, consentendo al reo di rifarsi dei costi affrontati per la realizzazione dello stesso.

Si precisa però che la nozione di profitto va comunque determinata al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato. In proposito la Corte distingue tra la nozione di “reato contratto” (che si realizzerebbe quando la legge qualifica come reato la semplice stipula del contratto) e quella di “reato in contratto” (nella quale il comportamento penalmente rilevante incide sulla fase di formazione della volontà contrattuale o in quella di esecuzione del programma negoziale): nel primo il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della condotta illecita, nel secondo il profitto potrebbe anche non essere ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente (nel caso di specie le SS.UU., qualificando il reato di truffa come “reato in contratto”, affermano che il relativo profitto vada determinato al netto dell’utilità concreta ottenuta dalla parte lesa con esclusione delle imposte versate, dei crediti non incassati e in genere dei beni futuri).