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Struttura e natura giuridica delle collaborazioni occasionali ex art. 61, comma 2, Decreto Legislativo n. 276/03

Abstract

Collaborazioni occasionali coordinate, collaborazioni occasionali autonome, prestazioni occasionali di tipo accessorio; tipologie di prestazioni lavorative in apparenza marginali ma di difficile identificazione giuridica. Le incerte linee di confine fra l’una e le altre rendono arduo, ma non impossibile, il tentativo d’individuare la natura della collaborazione occasionale prevista dall’art. 61, comma 2, Decreto legislativo n. 276/03, sulla quale si concentrerà l’attenzione in ragione dell’alto rischio di abuso cui si presta, con violazioni della normativa posta a protezione del regolare svolgimento del rapporto di lavoro.

Gli obblighi di comunicazione dell’instaurazione del rapporto di lavoro alle istituzioni, finalizzati a circoscrivere il lavoro sommerso, assumono un ruolo determinante e sostanziale, non mera prassi burocratica, soprattutto in considerazione delle rilevanti modifiche normative intervenute negli ultimi mesi. Un breve accenno al fenomeno del lavoro sommerso in taluni paesi Ue costituirà spunto per una riflessione conclusiva.

Struttura e natura giuridica delle collaborazioni occasionali ex art. 61, comma 2, Decreto legislativo n. 276/03.

Le recenti modifiche apportate agli artt. 70 e 72 del Decreto legislativo n. 276/03 disciplinanti le prestazioni occasionali di tipo accessorio rese da particolari soggetti e l’abrogazione dell’art. 71 da parte dell’art. 22, comma 4, Decreto legge 25.06.2008 n.112, conv. in Legge 06.08.2008 n. 133, costituiscono spunto per una riflessione più ampia ed estesa anche al tema delle collaborazioni occasionali previste dall’art. 61, comma 2, ovvero quelle svincolate dalla necessità del progetto ex comma 1 e non inquadrabili neppure nel lavoro occasionale autonomo ex art. 2222 del Codice civile.

E’ necessario focalizzare l’attenzione sulle collaborazioni occasionali coordinate di natura marginale poiché queste, considerata l’esigua descrizione normativa, potrebbero prestare il fianco ad interpretazioni ambivalenti che nella realtà operativa del rapporto di lavoro è molto probabile si possano tradurre in fraintendimenti con riflessi negativi sul corretto svolgimento dello stesso e con conseguenze gravi anche sotto il profilo fiscale e contributivo.

Deve subito rilevarsi che la prestazione occasionale è stata inserita nel contesto più ampio dell’art. 61 (lavoro a progetto) e ciò dovrebbe far riflettere su un dato di fondo: mentre il collaboratore a progetto è un prestatore di lavoro non subordinato (ma coordinato dal committente/datore), non vincolato ad alcun orario o direttiva puntuale (ma certamente osserverà di fatto, pur senza averne obbligo, gli orari del luogo di lavoro in cui svolge la sua attività) e le sue prestazioni saranno o dovranno essere connesse al raggiungimento di un obiettivo individuato (o individuabile), il collaboratore occasionale dovrà essere, in misura analoga, un prestatore di lavoro svincolato da orari di servizio e direttive specifiche, inoltre la sua prestazione non sarà legata ad alcun progetto od altro punto di riferimento oggettivo. Proprio tale ultimo dato determina particolari difficoltà nell’individuare l’identità giuridica di tale tipo di prestazione di lavoro. In quest’ipotesi, infatti, il collaboratore occasionale dovrà pur sempre confrontarsi con il committente/datore seppur nell’ambito di un’ingerenza molto meno intensa da parte di quest’ultimo, sebbene inevitabile; ingerenza che probabilmente assumerà le forme di una coordinazione attenuata, ma senza dilatazione temporale, chiaramente di per sé incompatibile con l’occasionalità del lavoro svolto.

Al riguardo la Circolare del Ministero del lavoro n. 1/2004 afferma in particolare che le prestazioni occasionali in esame non sono altro che “collaborazioni coordinate e continuative per le quali, data la loro limitata portata, si è ritenuto non fosse necessario il riferimento al progetto e, dunque, di sottrarle dall’ambito di applicazione della nuova disciplina”.

Il contesto normativo di cui si discorre non è di agevole lettura anche perché le prestazioni occasionali sono state inserite immediatamente dopo la definizione del contratto a progetto, come già rilevato. Sotto questo profilo il legislatore ha inteso circoscrivere la vaghezza delle vecchie collaborazioni coordinate e continuative ancorandole a parametri di riferimento più saldi, il progetto o una fase di esso, ma nel contempo ha voluto lasciare anche spazi per forme di collaborazione limitate sotto il profilo temporale, non necessariamente con riguardo ai contenuti, ma mai legate ad esigenze aziendali ordinarie, proprio al fine di evitarne la possibile (e prevedibile) tendenza all’abuso. Tale scelta è stata dettata, ad avviso di chi scrive, dal tentativo di rispondere alle tendenze evolutive del mercato del lavoro laddove l’azienda potrebbe aver necessità di prestazioni lavorative incidentali, connesse a fattori episodici, quasi sempre marginali, sebbene talora di non trascurabile rilevanza, ai quali, in breve tempo dovrà comunque far fronte. La scelta del legislatore di non fare dell’art. 61, comma 2, una norma analitica e descrittiva di puntuali contenuti con riguardo alle possibili ipotesi di prestazione occasionale, riscontrabili nella realtà, non è casuale perché un dato normativo troppo preciso mal si adatta a realtà complesse ma, nel contempo, crea anche notevoli problemi d’interpretazione con riflessi non solo teorici. Ad una valutazione complessiva, tuttavia, non sembra essere stata una scelta tecnica particolarmente adatta al mercato del lavoro italiano.

Si deve anche rilevare che risulterebbe del tutto vano trattare questo tema limitandosi ad analizzare i contenuti delle mansioni e dei compiti svolti dal singolo prestatore occasionale di lavoro; quest’ultimo non necessariamente deve essere un lavoratore altamente specializzato, potrà essere individuabile in una persona di medie conoscenze e capacità e potrà svolgere qualsiasi tipo di lavoro purché il suo intervento non rientri nell’ordinario ciclo produttivo aziendale, come sopra ricordato. E questo è un punto dolente. Affermare apriori che un dattilografo, uno chef, un estetista o forse un impiegato capace nel settore contabile non possano essere collaboratori occasionali, senza una valutazione connessa al particolare contesto di fatto in cui si è svolta (o si svolge) tale prestazione lavorativa ha ben poco senso e, ad ogni modo, ci condurrebbe in un vicolo senza uscita.

E’ decisivo, piuttosto, chiarire la natura più profonda della collaborazione occasionale nonché la sua particolare identità ed in tal senso non può prescindersi dall’interpretazione letterale del dato normativo in esame.

In parole diverse, il collaboratore occasionale è un prestatore di lavoro che può intervenire in un contesto produttivo solo quando si verifica un’esigenza eccezionale, non prevedibile dal committente/datore di lavoro, deve trattarsi di circostanza del tutto ’occasionale’ ed è la stessa etimologia del sostantivo ’occasione’ - dal latino occasus , participio passato di occidere, a sua volta da ob, innanzi, e cidere, càdere, ossia ciò che accade inaspettatamente - a fornirci, a sommesso avviso di chi scrive, l’interpretazione più corretta della norma.

E’ necessario anche tener presente che il Decreto legislativo n. 276/2003, pur con le sue lacune, introduttive talora di notevoli margini di instabilità del lavoro, ha disciplinato differenti rapporti di impiego a struttura flessibile cercando di rispondere alle esigenze di un indeterminato panorama di operatori economici e ottenendo risultati discreti in termini di crescita dell’occupazione.

Si pensi al contratto intermittente ovvero a chiamata (job on call) che offre la possibilità di usufruire delle prestazioni di un lavoratore senza inserirlo quotidianamente nella struttura aziendale, ponendo il datore in condizione di far fronte a momenti di attività produttiva con tratti discontinui, ma non eccezionali né imprevedibili.

E’ proprio su questa incerta linea d’ombra che si gioca il difficile tentativo di dare una corretta qualifica giuridica al rapporto di collaborazione occasionale, ex art. 61, comma 2.

Un breve esempio: un’azienda che si occupa di investimenti in titoli, dotata di computer che costituiscono un decisivo bene strumentale di lavoro, programmerà la manutenzione degli stessi, ai fini della sicurezza informatica, magari con cadenze periodiche. Essa avrà bisogno di un esperto informatico che potrà essere inquadrabile nella tipologia del lavoro intermittente (ove quest’ultimo sia previsto dalla contrattazione collettiva di settore e salvi i divieti di legge) in quanto non sarà necessaria la sua presenza continua in azienda poichè quest’ultima potrà programmare i giorni in cui sarà necessaria la predetta presenza. Se accade che il sistema informatico sia aggredito improvvisamente da un virus particolarmente insidioso e l’esperto legato ai controlli di routine non è in grado di farvi fronte, potrebbe essere chiamato, nell’ambito di una possibile collaborazione occasionale, un altro esperto, più in grado per le sue maggiori competenze. Si tratta, infatti, di circostanza eccezionale, imprevedibile e non riconducibile ad alcuna programmazione né ordinaria né straordinaria della attività aziendale.

Non sarà possibile, invece, considerare legittima una collaborazione occasionale nell’ipotesi in cui la prestazione sia resa nel quadro di una normale programmazione dell’attività; non è ammissibile in virtù dell’attuale assetto normativo in tema di lavoro, ad esempio, che un pubblico esercizio, nel fine settimana, quando è del tutto prevedibile che gli avventori saranno in numero maggiore rispetto agli altri giorni, possa assumere personale qualificandolo come collaboratore occasionale, salvo che non si verifichino comprovate situazioni inaspettate e al di fuori dell’ordinario. Più correttamente sarà possibile, in queste ipotesi, stipulare un contratto intermittente che, d’altro canto, come sopra accennato è stato, non a caso, previsto e disciplinato dal Decreto legislativo citato, proprio per agevolare, come accennato, il datore di lavoro di fronte a particolari ma prevedibili dinamiche aziendali.

In sintesi ciò che deve caratterizzare la natura giuridica del rapporto di collaborazione occasionale, ex art. 61, comma 2, al fine di evitare comportamenti che agevolino fenomeni di lavoro sommerso, è dunque l’eccezionalità di tale intervento lavorativo il quale deve essere circoscritto nel tempo (30 giorno l’anno) e nel corrispettivo (5.000,00 euro l’anno con riferimento allo stesso committente).

Si veda, in tal senso, Cass. 26 febbraio 1996, n. 1495, ove si precisa che il rapporto è occasionale quando ci si trova in presenza di un contratto a mera esecuzione istantanea e non è ravvisabile un interesse durevole del committente alla prestazione lavorativa. Quanto appena detto trova conferma a prescindere dal fatto che la prestazione sia articolata in una serie di atti consecutivi, dal momento che essi sono riconducibili comunque a un unico incarico.

Al riguardo, lo stesso ex Ministero delle finanze, nelle circolari n. 5/984 e n. 6/607 del 1997, rispondendo ad un quesito formulato in ordine alla differenza, ai fini fiscali, tra collaborazione coordinata e continuativa e prestazione di lavoro autonomo occasionale, rileva che le collaborazioni sono caratterizzate da "regolarità, stabilità e sistematicità", mentre le prestazioni occasionali sono "episodiche, saltuarie e non programmate".

Obblighi di comunicazione delle collaborazioni occasionali coordinate alle istituzioni competenti; omissioni e conseguenze sanzionatorie.

Chiarito il profilo strutturale della collaborazione occasionale, è importante precisare che il datore di lavoro deve formalizzare il rapporto mediante le comunicazioni obbligatorie previste dalla legge, pur non essendo necessario, com’è noto, un contratto scritto, stante il principio di libertà delle forme vigente nel nostro ordinamento giuslavoristico. (Cfr. artt. 1 e 9 bis, comma 2 della Legge 28.11.1996 n. 608, così come modificati dall’art. 1, comma 1180 della Legge 27.12.2006, n. 296, nonché la Nota del Ministero del lavoro n. 4746 del 14.02.2007 che conferma l’obbligo di comunicazione alle istituzioni competenti delle collaborazioni occasionali ex art 61, comma 2, Decreto legislativo n. 276/2003 come previsto dall’art. 1, comma da 1180 a 1185 della Legge n. 296 cit.).

Va precisato che le comunicazioni obbligatorie, in tema di avviamento al lavoro, dovrebbero e devono essere solo quelle inviate agli Enti preposti dalla legge (Centro per l’impiego, Inps, Inail per i profili di rispettiva competenza) al controllo dell’instaurazione del rapporto di lavoro e della sua evoluzione, con esclusione degli adempimenti in materia tributaria, in quanto le dichiarazioni fiscali (mod. 770, ad esempio) non possono assumere alcun rilievo ai fini della constatazione attuale della regolarità della procedura di avviamento al lavoro né assumere valenza sostitutiva delle comunicazioni sopra ricordate. Quanto detto trova fondamento una ragione logica, prim’ancora che giuridica: infatti, l’obbligo di emettere la ritenuta d’acconto, versata con il mod. F24 e dichiarata nell’anno successivo a quello in cui si è svolta la collaborazione occasionale, rende molto arduo capire se un collaboratore occasionale, nel momento stesso in cui svolge le proprie mansioni, sia davvero da considerare tale senza la comunicazione preventiva al centro per l’impiego che segna una data precisa di inizio del rapporto e consente agli organi di vigilanza di fare già una preliminare valutazione, seppur non completa, dei dati formali (anagrafici e indicazione del tipo di prestazione svolta) che sono stati oggetto d’invio.

L’omessa comunicazione obbligatoria, nel caso di cui si sta discorrendo, rende, quindi, non conosciuto alle istituzioni competenti in materia di lavoro e previdenza, il collaboratore occasionale e pertanto il rapporto di lavoro reso in tale contesto dovrà essere qualificato sommerso con tutte le conseguenze che ne deriveranno, non esclusa la sanzione prevista dall’art. 36 bis, Decreto legge n. 223/2006, conv. in Legge n. 248/2006, nel caso si riscontrasse l’assenza dei presupposti sostanziali e formali che possano giustificare il ricorso a tale tipologia, soprattutto quando si constati anche l’omesso versamento delle ritenute d’acconto.

Il tema delle comunicazioni obbligatorie attestanti la corretta instaurazione del rapporto di lavoro in generale e delle collaborazioni occasionali in particolare assume tanto rilievo soprattutto successivamente all’entrata in vigore del Libro unico del lavoro. E’ noto che la tenuta di quest’ultimo potrà essere delegata ad un consulente abilitato, quindi in tale ipotesi non è più obbligatoria la presenza materiale in azienda di tale documento. Diventa, pertanto, decisiva, ai sensi dell’art. 4 bis, comma 2, Decreto legislativo n. 181/2000, modificato dall’art. 40, comma 2 Decreto legge n.112/2008, convertito con modificazioni dalla Legge n.133/2008, la consegna al lavoratore, prima dell’inizio dell’attività lavorativa, da parte del datore di lavoro, di copia della comunicazione, inviata alle istituzioni, con l’indicazione dei dati che segnano l’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero la consegna di copia del contratto individuale di lavoro con i dati e le informazioni previste dal Decreto legislativo 26.05.1997 n. 152.

Altre tipologie di prestazioni occasionali. Brevi note sulla definizione di lavoro sommerso.

Va osservato che la collaborazione occasionale, sia nella prospettiva dell’art. 61, comma 2 e sia in quella dell’art. 70 - ora modificato dall’art. 22, comma 1 del Decreto legge n. 112 cit., convertito con modificazioni nella Legge n. 133 cit., nella parte in cui, alla lettera h), inserisce la possibilità della collaborazione occasionale nell’attività di vendita ambulante ovvero consegna porta a porta di stampa periodica o quotidiana – non risulta essere gravata da particolari e complesse procedure di natura burocratica. Infatti, la ritenuta d’acconto, la comunicazione unificata al centro per l’impiego ovvero l’acquisto del carnet di buoni con valore nominale fissato mediante decreto ministeriale e l’accreditamento presso l’Inps nel caso della sperimentazione del lavoro accessorio nella vendemmia 2008, con obbligo di comunicazione preventiva all’Inail dei dati anagrafici di committente e prestatore, nonché indicazione del luogo di lavoro e delle date di inizio e fine della prestazione, sembrano essere adempimenti alla portata di una persona di medie cognizioni, quale è e dovrebbe essere un normale datore di lavoro.

Sotto tale ultimo profilo, anche la stessa Direttiva del Ministro del lavoro del 18.09.2008 esprime la necessità di reprimere le condotte elusive in tema di lavoro accessorio occasionale - ma può esserne fatta, ad avviso di chi scrive, un’interpretazione estesa anche ad altri tipi di prestazione occasionale - e vale la pena evidenziare il seguente passo:

“ (...) si dovrà porre attenzione su iniziative di promozione e di accompagnamento a istituti normativi di contrasto al lavoro sommerso, come nel caso del lavoro occasionale accessorio, facendo poi seguire a stretto giro operazioni di vigilanza che reprimano le condotte illecite di chi non coglie l’opportunità di avviare e utilizzare regolarmente forme di lavoro occasionale attraverso l’impiego dei c.d. buoni lavoro.”

il tema delle collaborazioni occasionali assume particolare rilievo in un momento storico caratterizzato da forte e crescente frammentazione delle tipologie di prestazioni in essere nel mercato del lavoro reale e ciò dovrebbe far riflettere sulla necessità di adottare misure normative che chiudano i varchi aperti all’abuso di tale tipo di prestazione lavorativa. In tal senso, l’obbligatorietà della comunicazione di inizio e fine della collaborazione occasionale (come, d’altro canto, di tutti gli altri rapporti di lavoro per cui sussiste la previsione di legge) alle istituzioni, non consente certo di definire in modo esauriente che cosa debba intendersi per lavoratore ’sommerso’ o ’in nero’.

La conoscenza, da parte delle istituzioni, dell’inizio di un rapporto di lavoro non impedisce di per sé che il predetto rapporto si svolga in modo irregolare nel corso del tempo. Ad esempio un part-time che di fatto si svolge quasi come tempo pieno, e con parte della retribuzione percepita al di fuori della busta paga, esprime una quota di lavoro sommerso con relativa evasione contributiva e fiscale. La nozione di lavoratore sommerso, dunque, resta problematica, sfuggente e, tuttavia, al di là dei previsti obblighi di registrazione sui documenti obbligatori la conoscenza dell’esistenza di un rapporto di lavoro in atto da parte delle istituzioni è pur sempre uno dei momenti imprescindibili per tentare di ridurre l’area del fenomeno, ma insufficiente se non collegato ad altri interventi normativi ed amministrativi non affrontabili in questa sede.

Va considerato, inoltre, che alla problematica del lavoro sommerso non sono esenti altri Paesi dell’UE. Di recente, ad esempio, una delle più importanti reti Tv tedesche ha trasmesso un’inchiesta sul fenomeno del lavoro sommerso. L’autrice ha accompagnato gli ispettori della Dogana, competenti, in Germania, in materia di accertamento del lavoro irregolare, nelle operazioni di controllo sui cantieri, nei ristoranti e nelle aeree di parcheggio delle autostrade attorno a Dortmund; secondo il reportage sarebbero tra i 6 e i 10 milioni, i tedeschi che si procurano guadagni extra non ufficiali con secondi lavori non dichiarati e tra loro, forse, anche molti beneficiari dei sussidi sociali e di disoccupazione. In Austria, invece, la situazione sembrerebbe essere migliore poiché una regolamentazione fiscale ed in materia di lavoro meno rigida rispetto a quella tedesca, ed un’articolata rete di servizi per l’impiego, rende il fenomeno più circoscritto.

Ulteriori elementi di riflessione possono trarsi anche dall’analisi delle forme contrattuali atipiche negli altri paesi europei, intese come possibilità che potrebbero contribuire a ridurre l’area del ’sommerso’. In un seminario tenutosi a Catania nel 2006 “Occupazione e diritto del lavoro in Francia oggi» il Prof. Christophe Vigneau dell’Università di Parigi. osservava che “Nel codice del lavoro francese le forme storiche dei contratti precari, a tempo determinato e interinale, sono state tradizionalmente concepite per rispondere ai fabbisogni temporanei di manodopera (impieghi per natura temporanei). Quest’ultima situazione risulta cristallizzata nel codice del lavoro francese in tre ipotesi: a) assenza di lavoratori; b) eccesso straordinario di lavoro; c) contratti conclusi in settori nei quali non si suole ricorrere a contratti a tempo indeterminato (dieci settori contemplati dalla legge; ad es. spettacoli, produzioni stagionali, ecc.). Una delle ragioni che hanno spinto il legislatore a introdurre le nuove figure contrattuali, oltre ai ricordati fini di crescita occupazionale, va ricercata nella prassi di abuso datoriale delle figure tradizionali di lavoro precario. L’impiego di queste ultime è cresciuto esponenzialmente nel corso dei decenni e l’uso che se n’è fatto è divenuto distorto, finendosi col mascherare manovre fraudolente e di abuso nei confronti dei lavoratori, declassati a mere pedine da “provare” temporaneamente. I giudici francesi sono da sempre particolarmente attenti a questi profili. La sentenza della Cassazione francese del 2003, mediante un’interpretazione contra legem, ha ribaltato il sistema agevolando la conclusione di contratti a tempo indeterminato in settori tradizionalmente preclusi, ex ipotesi c)”.

S’intuisce, quindi, che anche nell’esperienza europea le tematiche in esame sono particolarmente sentite e non facilmente risolvibili considerati i limiti d’intervento delle norme in un settore in cui recessione o espansione economica giocano un ruolo non secondario. E’ auspicabile, visto il progressivo avanzamento dell’integrazione europea, che anche la legislazione in materia di lavoro sia unificata in sede UE mediante direttive immediatamente esecutive, proprio per far fronte a problemi comuni e per evitare che i governi dei singoli stati membri adottino misure non strutturali e differenti, a seconda delle realtà economiche e sociali, con effetti altrettanto diversi.

Abstract

Collaborazioni occasionali coordinate, collaborazioni occasionali autonome, prestazioni occasionali di tipo accessorio; tipologie di prestazioni lavorative in apparenza marginali ma di difficile identificazione giuridica. Le incerte linee di confine fra l’una e le altre rendono arduo, ma non impossibile, il tentativo d’individuare la natura della collaborazione occasionale prevista dall’art. 61, comma 2, Decreto legislativo n. 276/03, sulla quale si concentrerà l’attenzione in ragione dell’alto rischio di abuso cui si presta, con violazioni della normativa posta a protezione del regolare svolgimento del rapporto di lavoro.

Gli obblighi di comunicazione dell’instaurazione del rapporto di lavoro alle istituzioni, finalizzati a circoscrivere il lavoro sommerso, assumono un ruolo determinante e sostanziale, non mera prassi burocratica, soprattutto in considerazione delle rilevanti modifiche normative intervenute negli ultimi mesi. Un breve accenno al fenomeno del lavoro sommerso in taluni paesi Ue costituirà spunto per una riflessione conclusiva.

Struttura e natura giuridica delle collaborazioni occasionali ex art. 61, comma 2, Decreto legislativo n. 276/03.

Le recenti modifiche apportate agli artt. 70 e 72 del Decreto legislativo n. 276/03 disciplinanti le prestazioni occasionali di tipo accessorio rese da particolari soggetti e l’abrogazione dell’art. 71 da parte dell’art. 22, comma 4, Decreto legge 25.06.2008 n.112, conv. in Legge 06.08.2008 n. 133, costituiscono spunto per una riflessione più ampia ed estesa anche al tema delle collaborazioni occasionali previste dall’art. 61, comma 2, ovvero quelle svincolate dalla necessità del progetto ex comma 1 e non inquadrabili neppure nel lavoro occasionale autonomo ex art. 2222 del Codice civile.

E’ necessario focalizzare l’attenzione sulle collaborazioni occasionali coordinate di natura marginale poiché queste, considerata l’esigua descrizione normativa, potrebbero prestare il fianco ad interpretazioni ambivalenti che nella realtà operativa del rapporto di lavoro è molto probabile si possano tradurre in fraintendimenti con riflessi negativi sul corretto svolgimento dello stesso e con conseguenze gravi anche sotto il profilo fiscale e contributivo.

Deve subito rilevarsi che la prestazione occasionale è stata inserita nel contesto più ampio dell’art. 61 (lavoro a progetto) e ciò dovrebbe far riflettere su un dato di fondo: mentre il collaboratore a progetto è un prestatore di lavoro non subordinato (ma coordinato dal committente/datore), non vincolato ad alcun orario o direttiva puntuale (ma certamente osserverà di fatto, pur senza averne obbligo, gli orari del luogo di lavoro in cui svolge la sua attività) e le sue prestazioni saranno o dovranno essere connesse al raggiungimento di un obiettivo individuato (o individuabile), il collaboratore occasionale dovrà essere, in misura analoga, un prestatore di lavoro svincolato da orari di servizio e direttive specifiche, inoltre la sua prestazione non sarà legata ad alcun progetto od altro punto di riferimento oggettivo. Proprio tale ultimo dato determina particolari difficoltà nell’individuare l’identità giuridica di tale tipo di prestazione di lavoro. In quest’ipotesi, infatti, il collaboratore occasionale dovrà pur sempre confrontarsi con il committente/datore seppur nell’ambito di un’ingerenza molto meno intensa da parte di quest’ultimo, sebbene inevitabile; ingerenza che probabilmente assumerà le forme di una coordinazione attenuata, ma senza dilatazione temporale, chiaramente di per sé incompatibile con l’occasionalità del lavoro svolto.

Al riguardo la Circolare del Ministero del lavoro n. 1/2004 afferma in particolare che le prestazioni occasionali in esame non sono altro che “collaborazioni coordinate e continuative per le quali, data la loro limitata portata, si è ritenuto non fosse necessario il riferimento al progetto e, dunque, di sottrarle dall’ambito di applicazione della nuova disciplina”.

Il contesto normativo di cui si discorre non è di agevole lettura anche perché le prestazioni occasionali sono state inserite immediatamente dopo la definizione del contratto a progetto, come già rilevato. Sotto questo profilo il legislatore ha inteso circoscrivere la vaghezza delle vecchie collaborazioni coordinate e continuative ancorandole a parametri di riferimento più saldi, il progetto o una fase di esso, ma nel contempo ha voluto lasciare anche spazi per forme di collaborazione limitate sotto il profilo temporale, non necessariamente con riguardo ai contenuti, ma mai legate ad esigenze aziendali ordinarie, proprio al fine di evitarne la possibile (e prevedibile) tendenza all’abuso. Tale scelta è stata dettata, ad avviso di chi scrive, dal tentativo di rispondere alle tendenze evolutive del mercato del lavoro laddove l’azienda potrebbe aver necessità di prestazioni lavorative incidentali, connesse a fattori episodici, quasi sempre marginali, sebbene talora di non trascurabile rilevanza, ai quali, in breve tempo dovrà comunque far fronte. La scelta del legislatore di non fare dell’art. 61, comma 2, una norma analitica e descrittiva di puntuali contenuti con riguardo alle possibili ipotesi di prestazione occasionale, riscontrabili nella realtà, non è casuale perché un dato normativo troppo preciso mal si adatta a realtà complesse ma, nel contempo, crea anche notevoli problemi d’interpretazione con riflessi non solo teorici. Ad una valutazione complessiva, tuttavia, non sembra essere stata una scelta tecnica particolarmente adatta al mercato del lavoro italiano.

Si deve anche rilevare che risulterebbe del tutto vano trattare questo tema limitandosi ad analizzare i contenuti delle mansioni e dei compiti svolti dal singolo prestatore occasionale di lavoro; quest’ultimo non necessariamente deve essere un lavoratore altamente specializzato, potrà essere individuabile in una persona di medie conoscenze e capacità e potrà svolgere qualsiasi tipo di lavoro purché il suo intervento non rientri nell’ordinario ciclo produttivo aziendale, come sopra ricordato. E questo è un punto dolente. Affermare apriori che un dattilografo, uno chef, un estetista o forse un impiegato capace nel settore contabile non possano essere collaboratori occasionali, senza una valutazione connessa al particolare contesto di fatto in cui si è svolta (o si svolge) tale prestazione lavorativa ha ben poco senso e, ad ogni modo, ci condurrebbe in un vicolo senza uscita.

E’ decisivo, piuttosto, chiarire la natura più profonda della collaborazione occasionale nonché la sua particolare identità ed in tal senso non può prescindersi dall’interpretazione letterale del dato normativo in esame.

In parole diverse, il collaboratore occasionale è un prestatore di lavoro che può intervenire in un contesto produttivo solo quando si verifica un’esigenza eccezionale, non prevedibile dal committente/datore di lavoro, deve trattarsi di circostanza del tutto ’occasionale’ ed è la stessa etimologia del sostantivo ’occasione’ - dal latino occasus , participio passato di occidere, a sua volta da ob, innanzi, e cidere, càdere, ossia ciò che accade inaspettatamente - a fornirci, a sommesso avviso di chi scrive, l’interpretazione più corretta della norma.

E’ necessario anche tener presente che il Decreto legislativo n. 276/2003, pur con le sue lacune, introduttive talora di notevoli margini di instabilità del lavoro, ha disciplinato differenti rapporti di impiego a struttura flessibile cercando di rispondere alle esigenze di un indeterminato panorama di operatori economici e ottenendo risultati discreti in termini di crescita dell’occupazione.

Si pensi al contratto intermittente ovvero a chiamata (job on call) che offre la possibilità di usufruire delle prestazioni di un lavoratore senza inserirlo quotidianamente nella struttura aziendale, ponendo il datore in condizione di far fronte a momenti di attività produttiva con tratti discontinui, ma non eccezionali né imprevedibili.

E’ proprio su questa incerta linea d’ombra che si gioca il difficile tentativo di dare una corretta qualifica giuridica al rapporto di collaborazione occasionale, ex art. 61, comma 2.

Un breve esempio: un’azienda che si occupa di investimenti in titoli, dotata di computer che costituiscono un decisivo bene strumentale di lavoro, programmerà la manutenzione degli stessi, ai fini della sicurezza informatica, magari con cadenze periodiche. Essa avrà bisogno di un esperto informatico che potrà essere inquadrabile nella tipologia del lavoro intermittente (ove quest’ultimo sia previsto dalla contrattazione collettiva di settore e salvi i divieti di legge) in quanto non sarà necessaria la sua presenza continua in azienda poichè quest’ultima potrà programmare i giorni in cui sarà necessaria la predetta presenza. Se accade che il sistema informatico sia aggredito improvvisamente da un virus particolarmente insidioso e l’esperto legato ai controlli di routine non è in grado di farvi fronte, potrebbe essere chiamato, nell’ambito di una possibile collaborazione occasionale, un altro esperto, più in grado per le sue maggiori competenze. Si tratta, infatti, di circostanza eccezionale, imprevedibile e non riconducibile ad alcuna programmazione né ordinaria né straordinaria della attività aziendale.

Non sarà possibile, invece, considerare legittima una collaborazione occasionale nell’ipotesi in cui la prestazione sia resa nel quadro di una normale programmazione dell’attività; non è ammissibile in virtù dell’attuale assetto normativo in tema di lavoro, ad esempio, che un pubblico esercizio, nel fine settimana, quando è del tutto prevedibile che gli avventori saranno in numero maggiore rispetto agli altri giorni, possa assumere personale qualificandolo come collaboratore occasionale, salvo che non si verifichino comprovate situazioni inaspettate e al di fuori dell’ordinario. Più correttamente sarà possibile, in queste ipotesi, stipulare un contratto intermittente che, d’altro canto, come sopra accennato è stato, non a caso, previsto e disciplinato dal Decreto legislativo citato, proprio per agevolare, come accennato, il datore di lavoro di fronte a particolari ma prevedibili dinamiche aziendali.

In sintesi ciò che deve caratterizzare la natura giuridica del rapporto di collaborazione occasionale, ex art. 61, comma 2, al fine di evitare comportamenti che agevolino fenomeni di lavoro sommerso, è dunque l’eccezionalità di tale intervento lavorativo il quale deve essere circoscritto nel tempo (30 giorno l’anno) e nel corrispettivo (5.000,00 euro l’anno con riferimento allo stesso committente).

Si veda, in tal senso, Cass. 26 febbraio 1996, n. 1495, ove si precisa che il rapporto è occasionale quando ci si trova in presenza di un contratto a mera esecuzione istantanea e non è ravvisabile un interesse durevole del committente alla prestazione lavorativa. Quanto appena detto trova conferma a prescindere dal fatto che la prestazione sia articolata in una serie di atti consecutivi, dal momento che essi sono riconducibili comunque a un unico incarico.

Al riguardo, lo stesso ex Ministero delle finanze, nelle circolari n. 5/984 e n. 6/607 del 1997, rispondendo ad un quesito formulato in ordine alla differenza, ai fini fiscali, tra collaborazione coordinata e continuativa e prestazione di lavoro autonomo occasionale, rileva che le collaborazioni sono caratterizzate da "regolarità, stabilità e sistematicità", mentre le prestazioni occasionali sono "episodiche, saltuarie e non programmate".

Obblighi di comunicazione delle collaborazioni occasionali coordinate alle istituzioni competenti; omissioni e conseguenze sanzionatorie.

Chiarito il profilo strutturale della collaborazione occasionale, è importante precisare che il datore di lavoro deve formalizzare il rapporto mediante le comunicazioni obbligatorie previste dalla legge, pur non essendo necessario, com’è noto, un contratto scritto, stante il principio di libertà delle forme vigente nel nostro ordinamento giuslavoristico. (Cfr. artt. 1 e 9 bis, comma 2 della Legge 28.11.1996 n. 608, così come modificati dall’art. 1, comma 1180 della Legge 27.12.2006, n. 296, nonché la Nota del Ministero del lavoro n. 4746 del 14.02.2007 che conferma l’obbligo di comunicazione alle istituzioni competenti delle collaborazioni occasionali ex art 61, comma 2, Decreto legislativo n. 276/2003 come previsto dall’art. 1, comma da 1180 a 1185 della Legge n. 296 cit.).

Va precisato che le comunicazioni obbligatorie, in tema di avviamento al lavoro, dovrebbero e devono essere solo quelle inviate agli Enti preposti dalla legge (Centro per l’impiego, Inps, Inail per i profili di rispettiva competenza) al controllo dell’instaurazione del rapporto di lavoro e della sua evoluzione, con esclusione degli adempimenti in materia tributaria, in quanto le dichiarazioni fiscali (mod. 770, ad esempio) non possono assumere alcun rilievo ai fini della constatazione attuale della regolarità della procedura di avviamento al lavoro né assumere valenza sostitutiva delle comunicazioni sopra ricordate. Quanto detto trova fondamento una ragione logica, prim’ancora che giuridica: infatti, l’obbligo di emettere la ritenuta d’acconto, versata con il mod. F24 e dichiarata nell’anno successivo a quello in cui si è svolta la collaborazione occasionale, rende molto arduo capire se un collaboratore occasionale, nel momento stesso in cui svolge le proprie mansioni, sia davvero da considerare tale senza la comunicazione preventiva al centro per l’impiego che segna una data precisa di inizio del rapporto e consente agli organi di vigilanza di fare già una preliminare valutazione, seppur non completa, dei dati formali (anagrafici e indicazione del tipo di prestazione svolta) che sono stati oggetto d’invio.

L’omessa comunicazione obbligatoria, nel caso di cui si sta discorrendo, rende, quindi, non conosciuto alle istituzioni competenti in materia di lavoro e previdenza, il collaboratore occasionale e pertanto il rapporto di lavoro reso in tale contesto dovrà essere qualificato sommerso con tutte le conseguenze che ne deriveranno, non esclusa la sanzione prevista dall’art. 36 bis, Decreto legge n. 223/2006, conv. in Legge n. 248/2006, nel caso si riscontrasse l’assenza dei presupposti sostanziali e formali che possano giustificare il ricorso a tale tipologia, soprattutto quando si constati anche l’omesso versamento delle ritenute d’acconto.

Il tema delle comunicazioni obbligatorie attestanti la corretta instaurazione del rapporto di lavoro in generale e delle collaborazioni occasionali in particolare assume tanto rilievo soprattutto successivamente all’entrata in vigore del Libro unico del lavoro. E’ noto che la tenuta di quest’ultimo potrà essere delegata ad un consulente abilitato, quindi in tale ipotesi non è più obbligatoria la presenza materiale in azienda di tale documento. Diventa, pertanto, decisiva, ai sensi dell’art. 4 bis, comma 2, Decreto legislativo n. 181/2000, modificato dall’art. 40, comma 2 Decreto legge n.112/2008, convertito con modificazioni dalla Legge n.133/2008, la consegna al lavoratore, prima dell’inizio dell’attività lavorativa, da parte del datore di lavoro, di copia della comunicazione, inviata alle istituzioni, con l’indicazione dei dati che segnano l’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero la consegna di copia del contratto individuale di lavoro con i dati e le informazioni previste dal Decreto legislativo 26.05.1997 n. 152.

Altre tipologie di prestazioni occasionali. Brevi note sulla definizione di lavoro sommerso.

Va osservato che la collaborazione occasionale, sia nella prospettiva dell’art. 61, comma 2 e sia in quella dell’art. 70 - ora modificato dall’art. 22, comma 1 del Decreto legge n. 112 cit., convertito con modificazioni nella Legge n. 133 cit., nella parte in cui, alla lettera h), inserisce la possibilità della collaborazione occasionale nell’attività di vendita ambulante ovvero consegna porta a porta di stampa periodica o quotidiana – non risulta essere gravata da particolari e complesse procedure di natura burocratica. Infatti, la ritenuta d’acconto, la comunicazione unificata al centro per l’impiego ovvero l’acquisto del carnet di buoni con valore nominale fissato mediante decreto ministeriale e l’accreditamento presso l’Inps nel caso della sperimentazione del lavoro accessorio nella vendemmia 2008, con obbligo di comunicazione preventiva all’Inail dei dati anagrafici di committente e prestatore, nonché indicazione del luogo di lavoro e delle date di inizio e fine della prestazione, sembrano essere adempimenti alla portata di una persona di medie cognizioni, quale è e dovrebbe essere un normale datore di lavoro.

Sotto tale ultimo profilo, anche la stessa Direttiva del Ministro del lavoro del 18.09.2008 esprime la necessità di reprimere le condotte elusive in tema di lavoro accessorio occasionale - ma può esserne fatta, ad avviso di chi scrive, un’interpretazione estesa anche ad altri tipi di prestazione occasionale - e vale la pena evidenziare il seguente passo:

“ (...) si dovrà porre attenzione su iniziative di promozione e di accompagnamento a istituti normativi di contrasto al lavoro sommerso, come nel caso del lavoro occasionale accessorio, facendo poi seguire a stretto giro operazioni di vigilanza che reprimano le condotte illecite di chi non coglie l’opportunità di avviare e utilizzare regolarmente forme di lavoro occasionale attraverso l’impiego dei c.d. buoni lavoro.”

il tema delle collaborazioni occasionali assume particolare rilievo in un momento storico caratterizzato da forte e crescente frammentazione delle tipologie di prestazioni in essere nel mercato del lavoro reale e ciò dovrebbe far riflettere sulla necessità di adottare misure normative che chiudano i varchi aperti all’abuso di tale tipo di prestazione lavorativa. In tal senso, l’obbligatorietà della comunicazione di inizio e fine della collaborazione occasionale (come, d’altro canto, di tutti gli altri rapporti di lavoro per cui sussiste la previsione di legge) alle istituzioni, non consente certo di definire in modo esauriente che cosa debba intendersi per lavoratore ’sommerso’ o ’in nero’.

La conoscenza, da parte delle istituzioni, dell’inizio di un rapporto di lavoro non impedisce di per sé che il predetto rapporto si svolga in modo irregolare nel corso del tempo. Ad esempio un part-time che di fatto si svolge quasi come tempo pieno, e con parte della retribuzione percepita al di fuori della busta paga, esprime una quota di lavoro sommerso con relativa evasione contributiva e fiscale. La nozione di lavoratore sommerso, dunque, resta problematica, sfuggente e, tuttavia, al di là dei previsti obblighi di registrazione sui documenti obbligatori la conoscenza dell’esistenza di un rapporto di lavoro in atto da parte delle istituzioni è pur sempre uno dei momenti imprescindibili per tentare di ridurre l’area del fenomeno, ma insufficiente se non collegato ad altri interventi normativi ed amministrativi non affrontabili in questa sede.

Va considerato, inoltre, che alla problematica del lavoro sommerso non sono esenti altri Paesi dell’UE. Di recente, ad esempio, una delle più importanti reti Tv tedesche ha trasmesso un’inchiesta sul fenomeno del lavoro sommerso. L’autrice ha accompagnato gli ispettori della Dogana, competenti, in Germania, in materia di accertamento del lavoro irregolare, nelle operazioni di controllo sui cantieri, nei ristoranti e nelle aeree di parcheggio delle autostrade attorno a Dortmund; secondo il reportage sarebbero tra i 6 e i 10 milioni, i tedeschi che si procurano guadagni extra non ufficiali con secondi lavori non dichiarati e tra loro, forse, anche molti beneficiari dei sussidi sociali e di disoccupazione. In Austria, invece, la situazione sembrerebbe essere migliore poiché una regolamentazione fiscale ed in materia di lavoro meno rigida rispetto a quella tedesca, ed un’articolata rete di servizi per l’impiego, rende il fenomeno più circoscritto.

Ulteriori elementi di riflessione possono trarsi anche dall’analisi delle forme contrattuali atipiche negli altri paesi europei, intese come possibilità che potrebbero contribuire a ridurre l’area del ’sommerso’. In un seminario tenutosi a Catania nel 2006 “Occupazione e diritto del lavoro in Francia oggi» il Prof. Christophe Vigneau dell’Università di Parigi. osservava che “Nel codice del lavoro francese le forme storiche dei contratti precari, a tempo determinato e interinale, sono state tradizionalmente concepite per rispondere ai fabbisogni temporanei di manodopera (impieghi per natura temporanei). Quest’ultima situazione risulta cristallizzata nel codice del lavoro francese in tre ipotesi: a) assenza di lavoratori; b) eccesso straordinario di lavoro; c) contratti conclusi in settori nei quali non si suole ricorrere a contratti a tempo indeterminato (dieci settori contemplati dalla legge; ad es. spettacoli, produzioni stagionali, ecc.). Una delle ragioni che hanno spinto il legislatore a introdurre le nuove figure contrattuali, oltre ai ricordati fini di crescita occupazionale, va ricercata nella prassi di abuso datoriale delle figure tradizionali di lavoro precario. L’impiego di queste ultime è cresciuto esponenzialmente nel corso dei decenni e l’uso che se n’è fatto è divenuto distorto, finendosi col mascherare manovre fraudolente e di abuso nei confronti dei lavoratori, declassati a mere pedine da “provare” temporaneamente. I giudici francesi sono da sempre particolarmente attenti a questi profili. La sentenza della Cassazione francese del 2003, mediante un’interpretazione contra legem, ha ribaltato il sistema agevolando la conclusione di contratti a tempo indeterminato in settori tradizionalmente preclusi, ex ipotesi c)”.

S’intuisce, quindi, che anche nell’esperienza europea le tematiche in esame sono particolarmente sentite e non facilmente risolvibili considerati i limiti d’intervento delle norme in un settore in cui recessione o espansione economica giocano un ruolo non secondario. E’ auspicabile, visto il progressivo avanzamento dell’integrazione europea, che anche la legislazione in materia di lavoro sia unificata in sede UE mediante direttive immediatamente esecutive, proprio per far fronte a problemi comuni e per evitare che i governi dei singoli stati membri adottino misure non strutturali e differenti, a seconda delle realtà economiche e sociali, con effetti altrettanto diversi.