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Università: configurazione di un nuovo modello di sapere con la speranza che non rimanga un sogno

[Relazione tenuta a Bruxelles, presso il Parlamento Europeo – A 5 G 375, in data 28.4.2009 in occasione della tavola rotonda sui “Sistemi europei d’istruzione e di formazione per la configurazione di un nuovo modello di sapere”]

1. Premesse

2. L’inadeguatezza del sistema del sapere in Italia.

3. La riforma Gelmini: punto di partenza e non di arrivo verso un modello nuovo e funzionale di Università in linea con la civiltà dei nostri tempi

1. Premesse

Nel 2006 il numero dei laureati in Italia si presentava come in assoluto il più basso (appena il 17%) fra i paesi dell’OCSE, superato dalla Germania con il 22%, dalla Gran Bretagna con il 37%, dalla Spagna e dagli Stati Uniti d’America con il 39%, dalla Francia con il 41% e dal Giappone con il 54%.

Ad oggi non risulta alcuna inversione di tendenza.

A quali cause ed a quali fattori è addebitabile un simile non esaltante risultato che per vero non è soltanto numerico?

Probabilmente la causa risiede nell’obiettiva evidenza che il sistema in essere produce laureati che valgono poco attesa la scarsa efficienza dell’apparato Universitario e dell’Alta Formazione italiano.

Infatti nell’attuale realtà cronotopica quel che più impressiona e sconcerta non è tanto lo scarso numero di giovani che giungono al diploma di laurea, quanto la pochezza del valore dei laureati.

Paradossalmente il dato non sarebbe così sconfortante se ad un minor numero di laureati corrispondesse una maggiore bravura, atteso che il vero e signficativo obiettivo da raggiungere per ogni sistema di alta formazione e di ricerca avanzata che si rispetti è di creare sintonie con il mondo del lavoro attraverso la determinazione di un modello che abbia come finalità concreta la necessità di produrre laureati di maggior qualità utilizzando una selezione autenticamente rigorosa.

Le Università, infatti, devono essere capaci di generare processi di maggior selettività e non risultare come oggi delle grandi aree di parcheggio in attesa di tempi migliori che rebus sic stantibus mai verranno e che sfornano soltanto giovani destinati ad essere costantemente immersi nella cappa stagnante della disillusione e del fatalismo sterile ed improduttivo che genera in essi soltanto depressione e disorientamento.

In questa situazione è poi da chiedersi se la laurea conseguita in Italia agevola l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e se la stessa abbia effetto premiante per coloro che l’hanno raggiunta

Sono queste le domande prevalenti che i giovani e le loro famiglie si pongono una volta finiti gli studi secondari ed all’atto della decisione di dar corso alla iscrizione all’Università.

L’unica risposta a tali interrogativi é che se, in via meramente astratta ed ipotetica, appare indubbio che il conseguimento di una laurea renda più facile l’accesso al mondo del lavoro, così come non é discutibile che il diploma di laurea sia premiante rispetto ai titoli di istruzione secondaria, é altrettanto vero che la laurea non mette al riparo coloro che l’hanno conseguita dalle congiunture economiche che affliggono con costante periodicità il Paese e non assicura ai medesimi, nella maggior parte dei casi, la reale possibilità di conseguire ruoli, funzioni e guadagni proporzionati ai sacrifici fatti dalle famiglie ed adeguati al titolo stesso.

2. L’inadeguatezza del sistema sapere in Italia

“Oggi cominciamo a curare le piaghe dell’Università”

La lettura di questa frase attribuita al Ministro Gelmini e riportata tra virgolette, su un quotidiano a diffusione nazionale [1] e la lettura della normativa poi emanata [2] hanno sollecitato in me le riflessioni che sottopongo alla vostra attenzione.

L’affermazione é di indubbio effetto e ritengo anche le intenzioni del Ministro sincere.

Il problema reale resta, però, non soltanto quello di formulare una diagnosi specifica delle “piaghe”, quanto soprattutto quello di approntare una terapia adatta, anche d’urto, per sollevare l’ammalato dalla condizione patologica in cui versa per favorirne la guarigione ed evitare esiziali ricadute.

Come ho avuto modo di ricordare nella prolusione da me tenuta all’inaugurazione dell’anno accademico (2007/2008) dell’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria [3] le attività di ricerca in Italia sono caratterizzate da sprechi, da mancanza di sinergie, da sovrapposizioni concettualmente ingessate e per lo più ingiustificate tra Università ed Enti di Alta Formazione e di Ricerca.

Il nostro Paese malgrado i vernissages normativi di facciata ed i ruggiti da topolino delle nostre classi guida, nessuna esclusa, é un Paese che vive ancora – sotto il profilo culturale – di stereotipi legati più a percorsi di incerto cabotaggio piuttosto che in direzione di prospettive di grande respiro nazionale ed internazionale, e che é affetto da una sorta di anarchismo irrazionale che inibisce all’apparato traguardi di grande respiro.

Conseguenza di questa asfissia organizzativa e di questo rachitismo di prospettiva é che la cultura italiana, malgrado la presenza e l’affermazione nel mondo di individualità di grande rilievo, come sistema Paese non realizza il meglio di quello che, invece, potrebbe e dovrebbe in termini di funzionalità e di valorizzazione dei risultati.

La ricerca viene perciò confinata, il più delle volte, in una sorta di limbo surreale, in una dimensione distaccata dalle istituzioni e dai settori produttivi territoriali, mentre tutti, sulla nostra pelle, avvertiamo l’esigenza di un più diretto contatto tra una progettazione formativa ed una più pertinente programmazione politica, sociale ed economica del sapere.

Infatti, oggi più che mai, visto il particolare momento storico e la velocità delle dinamiche di conoscenza globali, le Istituzioni culturali nel loro complesso, necessitano, quasi ad horas, di processi di adattamento per poter trovare un assetto che veda il sorgere di percorsi di esperienza sempre più qualificata che consenta di realizzare dei percorsi con precisi e peculiari indirizzi formativi che soddisfino le esigenze della civiltà dei nostri tempi.

Sapere valorizzare i luoghi della formazione superiore é obiettivo strategico di ogni società che si rispetti, anzi necessità per assicurare uno sviluppo economico e sociale di pregnante qualità.

A tal fine l’Università e le Istituzioni superiori sostanziano una concreta opportunità, un essenziale fattore di competitività, di ricerca, di diffusione dell’innovazione e di cultura da sviluppare per giungere ad un sistema che privilegi, attraverso la creazione di rapporti preferenziali con il territorio, lo sviluppo di una sempre maggiore integrazione con il mondo imprenditoriale e del lavoro.

In Europa e nel mondo ed a maggior ragione in Italia, che continua – anche dopo la pubblicazione sulla G.U. della nuova normativa [4] - ad avere percorsi formativi ingessati, fini a se stessi, e, perciò inadeguati, l’investimento in cultura da parte di tutti, mercato e Stato compreso, deve avvenire all’insegna di nuovi orientamenti ed elementi di giudizio, e non può essere orientato verso inziative estemporanee o mere strategie di marketing che appaiono come l’inutile maquillage sul volto di un’anziana signora e che servono soltanto a garanzia ed a difesa di sterili orticelli, peraltro, assolutamente incapaci di dar vita e linfa neppure a se stessi, ad illusoria ed ectoplasmatica tutela di ruoli e funzioni senza senso, peraltro ormai da decenni inesistenti in tutti i paesi culturalmente evoluti.

Paesi che per affermare il ruolo fondamentale della cultura, senza stereotipati schematismi, si sono sforzati di creare una evoluzione virtuosa nel campo della formazione, attraverso partenariati inediti e convincenti, ed a studiare strumenti operativi appropriati per cogliere i bisogni e le aspettative di coloro che, irrobustendosi con un sapere forte e neutro, di valenza e non di apparenza, senza barriere e sans frontières chiedono accesso al mondo lavorativo, raggiungendo così l’effetto caratterizzante della stabilità, della giusta remunerazione e della sicurezza per il futuro delle generazioni.

La risposta data dal nostro Paese in termini di organizzazione e regolazione del sapere continua ad essere quella di un sistema ingessato in momenti di organizzazione riferite ad apparati di pletorica entità e poco dinamici, che rendono i centri del sapere, senza esclusioni, del tutto al di fuori della effettiva contemporaneità, arroccate in una sorta di sterile e macilenta turris eburnea, poco incline e soprattutto poco sensibile a percepire le esigenze della realtà e fondamentalmente incapace di porre in essere una formazione veramente incidente.

Occorre, una volta per tutte, rendersi conto che le strutture italiane del sapere hanno fallito, o meglio non sono più adeguate, a perseguire gli obiettivi culturali per cui sono state costituite.

Il complesso dei loro obiettivi formativi é stato seccamente smentito dalla attuale realtà socio-economica, per cui i corsi di studio, le nuove lauree, devono indirizzarsi ed operare in altra direzione, in altro senso, al fine, cioè, di offrire una piattaforma estesa di cognizioni, ma soprattutto stimolare la curiosità degli studenti verso nuovi orizzonti e più attuali interessi anche per favorire la personale inventiva e creatività di ognuno e tutti di essi, in modo da rendere più agevole il loro ingresso nel mondo del lavoro.

E proprio perché le Istituzioni deputate alla formazione mostrano vistose crepe di una loro ormai strutturale inadeguatezza è necessario volgere lo sguardo verso l’effettività della realtà del sapere così da permettere alle medesime - che ormai non sono più neppure in grado di mettere a fuoco le loro inefficienze per mancanza di apparati interpretativi forti ed al passo con i tempi – di invertire il flusso di tendenza verso la creazione di sistemi più funzionali ed in linea con ciò che richiede una società come la nostra, sicuramente immersa nella competizione globale che rifiuta le tante piccole riserve indiane di omologazione prive del necessario coordinamento o peggio affette da condizioni di discratiche e non giustificate regole ordinamentali.

3. La riforma Gelmini: punto di partenza e non di arrivo verso un modello nuovo e funzionale di Università in linea con la civiltà dei nostri tempi

Di fronte al delineato quadro va verificato se l’intento, sia pur lodevole della introdotta normazione di riforma [5] sia in condizione di esprimere un reale connotato di efficacia.

In sintesi la nuova normativa interviene:

a) sul meccanismo dei concorsi disponendo – al fine di evitare la predeterminazione degli esiti dei concorsi - che le commissioni abilitate a valutare gli aspiranti professori devono essere composte da quattro professori sorteggiati e da soltanto un professore ordinario nominato dalla facoltà che ha richiesto il bando;

b) sul reclutamento dei docenti attraverso la previsione di un’abilitazione scientifica nazionale a termine (cinque anni), a numero aperto sulla base di requisiti di produzione scientifica che saranno preliminarmente indicati in un disegno di legge di prossima presentazione e che consentirà alle singole Università (su base assolutamente discrezionale) di reclutare i docenti – anche per ciò che riguarda la fase di passaggio da professore associato a professore ordinario - ed i ricercatori di cui hanno bisogno tra quanti sono in possesso della riferita abilitazione, oltre che consentire ai medesimi Atenei di dotarsi di una nuova governance costituita dal Senato Accademico e da Consigli di Amministrazione composti in prevalenza da persone esterne all’Università (come finanziatori pubblici e privati, imprenditori ed anche ex studenti affermatisi professionalmente) e con l’ulteriore specificazione che i Rettori non possono restare alla guida del loro Ateneo per un periodo di tempo superiore ai due mandati;

c) con la previsione del blocco delle assunzioni per le Università che presentano una spesa per il personale elevata al di là della soglia del 90% dello stanziamento statale al fine di porre un freno sostanziale alle gestioni finanziarie oggettivamente non adeguate avuto peculiare riguardo al rapporto entrate-uscite;

d) attraverso l’elevazione al 50% del blocco del turn over al dichiarato scopo di favorire l’assunzione di giovani ricercatori introducendo l’obbligo, in caso di possibilità di assunzione, di riservare almeno il 60% delle assunzioni stesse ai nuovi ricercatori con la conseguenza di assicurare la possibilità di accesso all’Università ad un numero di circa quattromila nuovi ricercatori;

e) attraverso la drastica riduzione, a far tempo dal 2009, dei corsi di laurea (20% in meno rispetto al 2007/2008) al fine di evitare l’assurda frammentazione sin qui determinatasi e per funzionalemente razionalizzare l’assetto degli stessi mediante l’introduzione, attraverso una nota di indirizzo vincolante, di nuovi parametri che le Università dovranno tenere in considerazione per l’attivazione dei corsi, in uno con la soppressione di ben quattrocento scuole circa di specializzazione medica;

f) con la distribuzione di maggiori finanziamenti (il 7% del fondo di finanziamento ordinario e straordinario 2008) alle Università più virtuose, intese quest’ultime le Università contraddistinte da più qualificate offerte formative, qualità di ricerca scientifica, efficienza delle sedi didattiche di miglior livello.

Il tutto attraverso l’individuazione di una virtuosità acclarata a mezzo dei parametri di valutazione del CIVR [6] e del CNVSU [7];

g) con l’assegnazione di borse di studio ai ragazzi meritevoli determinata dalla previsione di un incremento di € 135.000.000,00 ai giovani capaci privi di mezzi economici e di € 65.000.000,00 da destinare a progetti per residenze universitarie.

Indubbiamente un simile sforzo va, in linea di principio, elogiato soprattutto per ciò che attiene al richiamo alla razionalizzazione dell’organizzazione ed alla meritocrazia che si traduce nelle disposizioni di bloccare le assunzioni nelle Università con i conti in rosso e di premiare con risorse aggiuntive quelle virtuose per dare maggior corpo e risalto ai principi costituzionali che prevedono l’autonomia didattica e normativa degli Atenei attraverso i criteri distintivi per l’identificazione della buona gestione che come riferito vengono ravvisati:

- nella qualità dell’offerta formativa e nei risultati dei processi formativi;

- nella qualità della ricerca scientifica;

- nella qualità, nell’efficacia e nell’efficienza delle sedi didattiche.

Allo stesso modo va - sempre in linea di principio - considerato positivamente il tentativo di rendere più serio e meno manigoldo il sistema dei concorsi, così come le disposizioni anti-baroni attraverso la costituzione di un’anagrafe aggiornata annualmente con i nomi di docenti e ricercatori e le relative pubblicazioni al fine di consentire al personale docente di conseguire gli scatti biennali di stipendio, introducendo la regola che se i docenti non provano di aver fatto ricerca e pubblicato ogni biennio, gli scatti di anzianità vengono dimezzati con l’ulteriore conseguenza che i medesimi non possono far parte delle commissioni di concorso e con il citeriore aggravio che se la loro inefficienza scientifica si dovesse protrarre per un triennio, i medesimi vengono esclusi dai programmi di ricerca di rilevanza nazionale (c.d. Bandi PRIN).

Altrettanto lodevole appare lo stanziamento di € 135.00.000,00 per borse di studio e di € 65.000.000,00 per alloggi e residenze universitarie.

Ma tutto ciò è sufficiente a conferire il prestigio ed il ruolo che l’Università e l’Alta Formazione dovrebbero avere? O non si pone piuttosto come una pezza su un tessuto logoro che somiglia sempre più ad un colabrodo, ad un Moloch divora risorse che non risolve le incapacità di produrre risultati oggettivamente apprezzabili?

Non sarebbe stato più utile e producente, anche dal punto di vista economico - al fine di consentire all’Università (centro strategico del sapere e della ricerca) di assumere l’ormai indispensabile e non più procrastinabile respiro quantomeno di dimensione europea - azzerare tutto per rifare di sana pianta, non dico separando nettamente, come sostengono i libertari americani [8], l’educazione dallo Stato, ma quantomeno creare condizioni di vera liberalizzazione e competizione, abolendo il valore legale della laurea e sancendo la possibilità di chiamata diretta (che non può essere sostituita dalla preannunciata abilitazione scientifica nazionale a termine; procedura selettiva anch’essa soggetta a non improbabili manipolazioni di comodo) nelle Università mediante l’abolizione dell’ormai anacronistico sistema dei concorsi che si presta a manomissioni di ogni sorta?

L’Università italiana, ci si deve convincere, non necessita di aggiustamenti normativi di tipo semplicemente manipolativo del sistema di regole esistenti, bensì di una rifondazione catartica da conseguirsi mediante l’adozione di un nuovo modello che privilegi effettivamente l’ottimizzazione della ricerca e della didattica.

E’ questa la via che fra l’altro presenta l’ulteriore pregio dell’abbandono delle logiche familistiche (non solo di sangue) sinora seguite e che hanno portato all’interno dell’Istituzione, non dico i peggiori in assoluto, ma certamente non i migliori studiosi né i più capaci.

La via per l’attuazione della ormai improcrastinabile e necessaria rivoluzione copernicana auspicata passa attraverso l’abolizione del valore legale del diploma di laurea – la cui presenza, come si può facilmente riscontrare all’oggi, proprio per mettere tutte le Università sullo stesso piano (todos caballeros) é garanzia di determinazione di mediocrità di risultati e pregiudica, quando addirittura non inibisce, il reale ed obiettivo perseguimento di nuove vie del sapere e della conoscenza, atteso che non appare, neppure in via meramente astratta, ipotizzabile che tutti e nello stesso tempo siano in condizione di percorrere con la stessa efficacia innovativa le medesime vie di conoscenza scientifica, ove si consideri che la ottimizzazione della qualità didattica e dell’innovazione scientifica la si può conseguire soltanto attraverso l’opera delle migliori risorse umane e per di più negli Atenei che esprimono tale presenza di qualità -, l’assunzione di professori da attuarsi attraverso contratti a termine rinnovabili con l’assegnazione di insegnamenti a persone di grande oggettiva qualificazione che abbiano conseguito sul campo anche professionale, una meritata fama per aver condotto ricerca seria ed avanzata e non già, come, purtroppo, ancor oggi avviene con una viziata selezione di opere e di lavori che sono il portato di operazioni di copia ed incolla con l’abnorme risultato di mandare in cattedra gente il cui unico merito, al di là della raccomandazione o della sospetta appartenenza, è di avere scritto cose scritte e detto cose dette, tra l’altro, spesso meglio da altri.

E’ l’ora di mandare al macero le c.d. monografie zeppe di note che non costituiscono il risultato di accurate letture dell’autore, bensì semplici trasposizioni di indicazioni effettuate da altri, i quali, a loro volta le hanno mutuate da altri ancora in una surreale senza fine catena di S. Antonio e senza la reale compulsazione dei testi a cui le stesse fanno pomposo riferimento.

Lo standard di qualità segue ben altro percorso caratterizzato dall’impiego proficuo delle risorse, anche economiche, a disposizione e dalla opportunità di privilegiare lavori non necessariamente pletorici e ridondanti nelle pagine, ma opere di pregnante interesse qualitativo, certificato dal prestigio individuale acquisito in campo professionale e scientifico, così come attraverso la rilevazione della verificata sussistenza di intese intellettuali sfocianti in qualificate collaborazioni anche con Atenei stranieri, con Enti di ricerca e con organismi tarati in campo internazionale, nonché con lavori scientifici pubblicati con case editrici serie, con consulenze ed incarichi professionali di rilievo e di prestigio e con significative ricadute in campo sociale.

E’ ormai patrimonio consolidato di tantissimi studiosi del problema ritenere quali paradigmi essenziali per giungere alla definizione di un modello accettabile di Università:

- assegnare maggiori risorse agli Atenei migliori;

- intervenire sulla struttura delle tasse universitarie per meglio definire l’entità delle stesse in ragione della qualità degli Atenei;

- favorire il più proficuo realizzarsi della mobilità studentesca;

- disomologare e disomoggenizzare gli sconcertanti egualitari e poco onesti paradigmi stipendiali del corpo docente e consentire agli Atenei di licenziare gli incapaci;

- abolire il non limpido sistema dei concorsi (non ritengo sufficientemente garantista in termini di qualità - anche se ciò, comunque, rappresenta un passo avanti rispetto alla situazione attuale - l’abilitazione nazionale prevista dalle linee guida) in uno con l’abolizione del valore legale del titolo di studio a cui va sostituito il ben più efficiente e funzionale modello dell’accreditamento dei corsi di studio; accreditamento che diviene così l’unico e qualificato riconoscimento formale e sostanziale dell’intero sistema universitario;

- favorire la liberalizzazione della didattica;

- favorire, eventualmente, anche l’attivazione delle fondazioni universitarie o iniziative similari.

Rispetto alle delineate imprescindibili necessità evidenziate la riforma c.d. Gelmini rappresenta un minus anche se non vanno sottaciuti gli aspetti positivi della riforma stessa che si sono sostanziati nella introduzione – nell’attuale sistema universitario pubblico e gratuito - del meccanismo di una certa (anche se non sufficiente) valorizzazione del merito attraverso il ricorso ad un principio di premialità che parte dalla gestione dell’Istituzione nel suo complesso – senza peraltro disgiungere la medesima dalle performances individuali del personale responsabile – che porta a riconoscere all’Ateneo virtuoso il diritto di vedersi assegnare risorse aggiuntive secondo i criteri distintivi della qualità dell’offerta formativa e nei risultati di tale processo, nella qualità della ricerca scientifica, nella qualità, nell’efficacia e nell’efficienza delle sedi didattiche.

L’attuale sistema strategico centralizzato, però, non appare sufficiente a far fronte alla bisogna, nel senso che lo stesso deve essere ulteriormente rafforzato nella trasparenza e nella capacità di misurare in termini di pura oggettività il fenomeno della premialità che deve essere considerata non solo in termini di ragionevolezza come prevede la normativa Gelmini, ma anche e soprattutto deve potersi riconoscere come forma di espressione univoca ed oggettiva.

A questo aggiungasi che il termine di riferimento, al contrario di quanto appare dalla lettura del testo normativo, non deve essere l’Ateneo nel suo complesso, bensì le migliori strutture interne (Dipartimenti), al pari di quanto avviene in Gran Bretagna con il RAE [9] dove soltanto ciascun Dipartimento dell’Ateneo è deputato a stabilire - in considerazione del fatto che il punteggio di ottimizzazione da raggiungere si consegue mediante un giusto mix del prodotto qualità-quantità – quale delle possibili combinazioni rendere oggettivamente effettuale: preferire pochi ricercatori di elevata eccellenza, ovvero privilegiare un maggior numero di ricercatori a parziale scapito dell’eccellenza medesima.

La scelta del testo Gelmini di assegnare più risorse alle Università migliori, seppur lodevole in linea di principio, costituisce un’occasione sprecata atteso che l’attribuzione dei benefici economici non può essere soltanto il portato della erogazione di fondi dello Stato alle Università (sistema centralizzato), ma deve, quantomeno, essere coadiuvata e supportata da un corretto aumento delle tasse universitarie, consentendo a ciascun Ateneo di stabilire l’importo delle stesse, possibilmente differenziato tra i singoli corsi di laurea, in ragione della qualità che ciascuna Università o Istituto di Alta Formazione è in condizioni di offrire.

Infatti far seguire le risorse alla qualità dell’offerta formativa presenta l’indubbio vantaggio di costringere ciascuna Università – attraverso il controllo effettuato dai fruitori finali (studenti e famiglie) – all’obbligo di garantire un servizio adeguato al prezzo con l’assunzione dei migliori docenti, sia per ciò che riguarda l’attività didattica che per ciò che attiene a quella di ricerca, costringendo, nel contempo, ciascuna di esse all’eliminazione dei professori non all’altezza.

La decisione contraria a tale ferrea logica di scelta pregiudica in termini di assoluta esizialità quegli Atenei che in presenza di tasse alte non siano in condizione di offrire né ricerca né qualità didattica adeguata al costo che le famiglie devono sopportare.

Fra l’altro, l’aumento delle tasse universitarie, oltre a fornire maggiori incentivi agli studenti a laurearsi in corso ed indurre gli Atenei a migliorare la didattica (a tal proposito non sarebbe disdicevole giungere anche alla diminuzione degli appelli di esame), consegue l’ulteriore e non secondaria finalità di sollecitare e realizzare un auspicabile aumento della mobilità studentesca verso gli Atenei più prestigiosi.

Un simile obiettivo può essere altresì conseguito con l’introduzione in favore degli studenti di prestiti d’onore condizionati al reddito per gli studenti meno abbienti da restituirsi ad opera degli stessi una volta conseguita la laurea ed una volta ottenuto l’inserimento nel mondo del lavoro, attraverso rate annuali commisurate al reddito di impiego ovvero con un sussidio diretto dello Stato da realizzarsi attraverso la detrazione, per intero, dal reddito familiare di tutte le spese sostenute dalle famiglie per il mantenimento dei figli all’Università, comprese quelle relative all’acquisto dei libri ed a quelle di alloggio per gli studenti fuori sede in regola con gli esami di profitto.

Altro elemento non preso in considerazione dall’intervento Gelmini è quello che ha per oggetto la liberalizzazione degli stipendi dei professori.

L’affermazione del principio secondo il quale spetta a ciascuna Università decidere quanto corrispondere ed a chi, anche attraverso stipendi differenziati per merito, consente alla stessa di procacciarsi i migliori professori ed i più prestigiosi ricercatori, superando, di fatto, persino il modello di differenziazione stipendiale che rispetto alla liberalizzazione reca con sé il connotato pregiudizievole di essere il portato di scelte centralizzate che non consentono nel modo più assoluto, la piena e compiuta concorrenza fra gli Atenei.

A tale principio di liberalizzazione però si deve correlare, sino a diventare un unicum, l’affermazione della necessità di paradigmare - giusta quanto in altra parte di questa ormai lunga nota evidenziato – le risorse alla qualità, atteso che soltanto la scelta oculata della professionalità consente di inquadrare ed inserire, in modo tecnicamente corretto, l’auspicabile connotato della oggettiva e reale competenza.

Della imprescindibile necessità di abolire i concorsi ed il valore legale del diploma di laurea ho già avuto modo di riferire, ove si abbia nella giusta evidenza l’obiettiva contezza che per attirare gli studiosi più creativi e di valore occorrono da un lato risorse adeguate e dall’altro un oggettivo, reale e significativo potere decisionale in capo all’Ateneo, attraverso la messa a disposizione dei singoli Dipartimenti, delle risorse per consentire agli stessi di assumere i migliori studiosi che a loro volta oltre all’incentivo di guadagni più elevati, hanno anche la non trascurabile opportunità di giungere in centri del sapere in cui è notoria la presenza di altri eccellenti studiosi.

Si viene così a determinare un circolo virtuoso che esalta l’eccellenza dei risultati, e per ciò che attiene alla didattica e per quanto riguarda la ricerca, con l’ulteriore vantaggio di rifuggire dalla stagnante caratteristica di avere dei professori di ruolo soltanto per i miserrimi meriti determinati da concorsi più o meno manipolati e si viene ad introdurre la figura – peraltro tipica dei sistemi anglosassoni – di un limitato numero di professori a vita i quali saranno chiamati come tali dagli Atenei, soltanto dopo un congruo periodo di prova (almeno dieci anni) e successivamente ad aver avuto modo di dimostrare la loro abilità nella didattica e nella ricerca soprattutto con riferimento alla loro sperimentata capacità di dedicarsi a progetti di ampio respiro e qualità.

Bisogna smettere, una volta per tutte, di ritenere di poter mantenere ex lege un posto a vita all’interno degli Atenei italiani.

Soltanto dopo che tutto quanto sopra auspicato (abrogazione del valore legale del diploma di laurea, abolizione dell’iniquo sistema dei concorsi, libertà di reclutamento, liberalizzazione degli stipendi e della didattica, aumento delle tasse universitarie con prestiti d’onore condizionati al reddito) si può pensare di trasformare le Università in fondazioni o in qualcosa di similare perché soltanto allora i privati potranno avere un reale e concreto interesse a finanziare il meglio al fine di poter conseguire le utilità discendenti dal ritorno di immagine, oltre che conseguire l’ulteriore beneficio di poter portare in deduzione dal reddito le erogazioni effettuate in favore delle Istituzioni universitarie.



[1] Tommaso Montesano, Merito in Università, chi cerca e trova sarà premiato, Libero del 28.11.2008, pag. 10

[2] D.L. 11.10.2008 n°180/08 convertito, con modificazioni, con L.9.1.2009 n°1

[3] L.M. Delfino, Sapere Artistico e sapere scientifico-umanistico: perché due percorsi ordinamentali?, Laruffa Editore, Reggio Calabria, 2008

[4] D.L. 11.10.2008 n°180 convertito, con modificazioni, con L. 9.1.2009 n°1

[5] D.L. 11.10.2008 n°180 convertito, con modificazioni, con L. 9.1.2009 n°1

[6] Comitato di indirizzi e di valutazione della ricerca

[7] Comitato nazionale valutazione del sistema universitario

[8] Primi fra tutti Shelodn Richman e James Tooley

[9] Research Assessment Exercise

[Relazione tenuta a Bruxelles, presso il Parlamento Europeo – A 5 G 375, in data 28.4.2009 in occasione della tavola rotonda sui “Sistemi europei d’istruzione e di formazione per la configurazione di un nuovo modello di sapere”]

1. Premesse

2. L’inadeguatezza del sistema del sapere in Italia.

3. La riforma Gelmini: punto di partenza e non di arrivo verso un modello nuovo e funzionale di Università in linea con la civiltà dei nostri tempi

1. Premesse

Nel 2006 il numero dei laureati in Italia si presentava come in assoluto il più basso (appena il 17%) fra i paesi dell’OCSE, superato dalla Germania con il 22%, dalla Gran Bretagna con il 37%, dalla Spagna e dagli Stati Uniti d’America con il 39%, dalla Francia con il 41% e dal Giappone con il 54%.

Ad oggi non risulta alcuna inversione di tendenza.

A quali cause ed a quali fattori è addebitabile un simile non esaltante risultato che per vero non è soltanto numerico?

Probabilmente la causa risiede nell’obiettiva evidenza che il sistema in essere produce laureati che valgono poco attesa la scarsa efficienza dell’apparato Universitario e dell’Alta Formazione italiano.

Infatti nell’attuale realtà cronotopica quel che più impressiona e sconcerta non è tanto lo scarso numero di giovani che giungono al diploma di laurea, quanto la pochezza del valore dei laureati.

Paradossalmente il dato non sarebbe così sconfortante se ad un minor numero di laureati corrispondesse una maggiore bravura, atteso che il vero e signficativo obiettivo da raggiungere per ogni sistema di alta formazione e di ricerca avanzata che si rispetti è di creare sintonie con il mondo del lavoro attraverso la determinazione di un modello che abbia come finalità concreta la necessità di produrre laureati di maggior qualità utilizzando una selezione autenticamente rigorosa.

Le Università, infatti, devono essere capaci di generare processi di maggior selettività e non risultare come oggi delle grandi aree di parcheggio in attesa di tempi migliori che rebus sic stantibus mai verranno e che sfornano soltanto giovani destinati ad essere costantemente immersi nella cappa stagnante della disillusione e del fatalismo sterile ed improduttivo che genera in essi soltanto depressione e disorientamento.

In questa situazione è poi da chiedersi se la laurea conseguita in Italia agevola l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e se la stessa abbia effetto premiante per coloro che l’hanno raggiunta

Sono queste le domande prevalenti che i giovani e le loro famiglie si pongono una volta finiti gli studi secondari ed all’atto della decisione di dar corso alla iscrizione all’Università.

L’unica risposta a tali interrogativi é che se, in via meramente astratta ed ipotetica, appare indubbio che il conseguimento di una laurea renda più facile l’accesso al mondo del lavoro, così come non é discutibile che il diploma di laurea sia premiante rispetto ai titoli di istruzione secondaria, é altrettanto vero che la laurea non mette al riparo coloro che l’hanno conseguita dalle congiunture economiche che affliggono con costante periodicità il Paese e non assicura ai medesimi, nella maggior parte dei casi, la reale possibilità di conseguire ruoli, funzioni e guadagni proporzionati ai sacrifici fatti dalle famiglie ed adeguati al titolo stesso.

2. L’inadeguatezza del sistema sapere in Italia

“Oggi cominciamo a curare le piaghe dell’Università”

La lettura di questa frase attribuita al Ministro Gelmini e riportata tra virgolette, su un quotidiano a diffusione nazionale [1] e la lettura della normativa poi emanata [2] hanno sollecitato in me le riflessioni che sottopongo alla vostra attenzione.

L’affermazione é di indubbio effetto e ritengo anche le intenzioni del Ministro sincere.

Il problema reale resta, però, non soltanto quello di formulare una diagnosi specifica delle “piaghe”, quanto soprattutto quello di approntare una terapia adatta, anche d’urto, per sollevare l’ammalato dalla condizione patologica in cui versa per favorirne la guarigione ed evitare esiziali ricadute.

Come ho avuto modo di ricordare nella prolusione da me tenuta all’inaugurazione dell’anno accademico (2007/2008) dell’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria [3] le attività di ricerca in Italia sono caratterizzate da sprechi, da mancanza di sinergie, da sovrapposizioni concettualmente ingessate e per lo più ingiustificate tra Università ed Enti di Alta Formazione e di Ricerca.

Il nostro Paese malgrado i vernissages normativi di facciata ed i ruggiti da topolino delle nostre classi guida, nessuna esclusa, é un Paese che vive ancora – sotto il profilo culturale – di stereotipi legati più a percorsi di incerto cabotaggio piuttosto che in direzione di prospettive di grande respiro nazionale ed internazionale, e che é affetto da una sorta di anarchismo irrazionale che inibisce all’apparato traguardi di grande respiro.

Conseguenza di questa asfissia organizzativa e di questo rachitismo di prospettiva é che la cultura italiana, malgrado la presenza e l’affermazione nel mondo di individualità di grande rilievo, come sistema Paese non realizza il meglio di quello che, invece, potrebbe e dovrebbe in termini di funzionalità e di valorizzazione dei risultati.

La ricerca viene perciò confinata, il più delle volte, in una sorta di limbo surreale, in una dimensione distaccata dalle istituzioni e dai settori produttivi territoriali, mentre tutti, sulla nostra pelle, avvertiamo l’esigenza di un più diretto contatto tra una progettazione formativa ed una più pertinente programmazione politica, sociale ed economica del sapere.

Infatti, oggi più che mai, visto il particolare momento storico e la velocità delle dinamiche di conoscenza globali, le Istituzioni culturali nel loro complesso, necessitano, quasi ad horas, di processi di adattamento per poter trovare un assetto che veda il sorgere di percorsi di esperienza sempre più qualificata che consenta di realizzare dei percorsi con precisi e peculiari indirizzi formativi che soddisfino le esigenze della civiltà dei nostri tempi.

Sapere valorizzare i luoghi della formazione superiore é obiettivo strategico di ogni società che si rispetti, anzi necessità per assicurare uno sviluppo economico e sociale di pregnante qualità.

A tal fine l’Università e le Istituzioni superiori sostanziano una concreta opportunità, un essenziale fattore di competitività, di ricerca, di diffusione dell’innovazione e di cultura da sviluppare per giungere ad un sistema che privilegi, attraverso la creazione di rapporti preferenziali con il territorio, lo sviluppo di una sempre maggiore integrazione con il mondo imprenditoriale e del lavoro.

In Europa e nel mondo ed a maggior ragione in Italia, che continua – anche dopo la pubblicazione sulla G.U. della nuova normativa [4] - ad avere percorsi formativi ingessati, fini a se stessi, e, perciò inadeguati, l’investimento in cultura da parte di tutti, mercato e Stato compreso, deve avvenire all’insegna di nuovi orientamenti ed elementi di giudizio, e non può essere orientato verso inziative estemporanee o mere strategie di marketing che appaiono come l’inutile maquillage sul volto di un’anziana signora e che servono soltanto a garanzia ed a difesa di sterili orticelli, peraltro, assolutamente incapaci di dar vita e linfa neppure a se stessi, ad illusoria ed ectoplasmatica tutela di ruoli e funzioni senza senso, peraltro ormai da decenni inesistenti in tutti i paesi culturalmente evoluti.

Paesi che per affermare il ruolo fondamentale della cultura, senza stereotipati schematismi, si sono sforzati di creare una evoluzione virtuosa nel campo della formazione, attraverso partenariati inediti e convincenti, ed a studiare strumenti operativi appropriati per cogliere i bisogni e le aspettative di coloro che, irrobustendosi con un sapere forte e neutro, di valenza e non di apparenza, senza barriere e sans frontières chiedono accesso al mondo lavorativo, raggiungendo così l’effetto caratterizzante della stabilità, della giusta remunerazione e della sicurezza per il futuro delle generazioni.

La risposta data dal nostro Paese in termini di organizzazione e regolazione del sapere continua ad essere quella di un sistema ingessato in momenti di organizzazione riferite ad apparati di pletorica entità e poco dinamici, che rendono i centri del sapere, senza esclusioni, del tutto al di fuori della effettiva contemporaneità, arroccate in una sorta di sterile e macilenta turris eburnea, poco incline e soprattutto poco sensibile a percepire le esigenze della realtà e fondamentalmente incapace di porre in essere una formazione veramente incidente.

Occorre, una volta per tutte, rendersi conto che le strutture italiane del sapere hanno fallito, o meglio non sono più adeguate, a perseguire gli obiettivi culturali per cui sono state costituite.

Il complesso dei loro obiettivi formativi é stato seccamente smentito dalla attuale realtà socio-economica, per cui i corsi di studio, le nuove lauree, devono indirizzarsi ed operare in altra direzione, in altro senso, al fine, cioè, di offrire una piattaforma estesa di cognizioni, ma soprattutto stimolare la curiosità degli studenti verso nuovi orizzonti e più attuali interessi anche per favorire la personale inventiva e creatività di ognuno e tutti di essi, in modo da rendere più agevole il loro ingresso nel mondo del lavoro.

E proprio perché le Istituzioni deputate alla formazione mostrano vistose crepe di una loro ormai strutturale inadeguatezza è necessario volgere lo sguardo verso l’effettività della realtà del sapere così da permettere alle medesime - che ormai non sono più neppure in grado di mettere a fuoco le loro inefficienze per mancanza di apparati interpretativi forti ed al passo con i tempi – di invertire il flusso di tendenza verso la creazione di sistemi più funzionali ed in linea con ciò che richiede una società come la nostra, sicuramente immersa nella competizione globale che rifiuta le tante piccole riserve indiane di omologazione prive del necessario coordinamento o peggio affette da condizioni di discratiche e non giustificate regole ordinamentali.

3. La riforma Gelmini: punto di partenza e non di arrivo verso un modello nuovo e funzionale di Università in linea con la civiltà dei nostri tempi

Di fronte al delineato quadro va verificato se l’intento, sia pur lodevole della introdotta normazione di riforma [5] sia in condizione di esprimere un reale connotato di efficacia.

In sintesi la nuova normativa interviene:

a) sul meccanismo dei concorsi disponendo – al fine di evitare la predeterminazione degli esiti dei concorsi - che le commissioni abilitate a valutare gli aspiranti professori devono essere composte da quattro professori sorteggiati e da soltanto un professore ordinario nominato dalla facoltà che ha richiesto il bando;

b) sul reclutamento dei docenti attraverso la previsione di un’abilitazione scientifica nazionale a termine (cinque anni), a numero aperto sulla base di requisiti di produzione scientifica che saranno preliminarmente indicati in un disegno di legge di prossima presentazione e che consentirà alle singole Università (su base assolutamente discrezionale) di reclutare i docenti – anche per ciò che riguarda la fase di passaggio da professore associato a professore ordinario - ed i ricercatori di cui hanno bisogno tra quanti sono in possesso della riferita abilitazione, oltre che consentire ai medesimi Atenei di dotarsi di una nuova governance costituita dal Senato Accademico e da Consigli di Amministrazione composti in prevalenza da persone esterne all’Università (come finanziatori pubblici e privati, imprenditori ed anche ex studenti affermatisi professionalmente) e con l’ulteriore specificazione che i Rettori non possono restare alla guida del loro Ateneo per un periodo di tempo superiore ai due mandati;

c) con la previsione del blocco delle assunzioni per le Università che presentano una spesa per il personale elevata al di là della soglia del 90% dello stanziamento statale al fine di porre un freno sostanziale alle gestioni finanziarie oggettivamente non adeguate avuto peculiare riguardo al rapporto entrate-uscite;

d) attraverso l’elevazione al 50% del blocco del turn over al dichiarato scopo di favorire l’assunzione di giovani ricercatori introducendo l’obbligo, in caso di possibilità di assunzione, di riservare almeno il 60% delle assunzioni stesse ai nuovi ricercatori con la conseguenza di assicurare la possibilità di accesso all’Università ad un numero di circa quattromila nuovi ricercatori;

e) attraverso la drastica riduzione, a far tempo dal 2009, dei corsi di laurea (20% in meno rispetto al 2007/2008) al fine di evitare l’assurda frammentazione sin qui determinatasi e per funzionalemente razionalizzare l’assetto degli stessi mediante l’introduzione, attraverso una nota di indirizzo vincolante, di nuovi parametri che le Università dovranno tenere in considerazione per l’attivazione dei corsi, in uno con la soppressione di ben quattrocento scuole circa di specializzazione medica;

f) con la distribuzione di maggiori finanziamenti (il 7% del fondo di finanziamento ordinario e straordinario 2008) alle Università più virtuose, intese quest’ultime le Università contraddistinte da più qualificate offerte formative, qualità di ricerca scientifica, efficienza delle sedi didattiche di miglior livello.

Il tutto attraverso l’individuazione di una virtuosità acclarata a mezzo dei parametri di valutazione del CIVR [6] e del CNVSU [7];

g) con l’assegnazione di borse di studio ai ragazzi meritevoli determinata dalla previsione di un incremento di € 135.000.000,00 ai giovani capaci privi di mezzi economici e di € 65.000.000,00 da destinare a progetti per residenze universitarie.

Indubbiamente un simile sforzo va, in linea di principio, elogiato soprattutto per ciò che attiene al richiamo alla razionalizzazione dell’organizzazione ed alla meritocrazia che si traduce nelle disposizioni di bloccare le assunzioni nelle Università con i conti in rosso e di premiare con risorse aggiuntive quelle virtuose per dare maggior corpo e risalto ai principi costituzionali che prevedono l’autonomia didattica e normativa degli Atenei attraverso i criteri distintivi per l’identificazione della buona gestione che come riferito vengono ravvisati:

- nella qualità dell’offerta formativa e nei risultati dei processi formativi;

- nella qualità della ricerca scientifica;

- nella qualità, nell’efficacia e nell’efficienza delle sedi didattiche.

Allo stesso modo va - sempre in linea di principio - considerato positivamente il tentativo di rendere più serio e meno manigoldo il sistema dei concorsi, così come le disposizioni anti-baroni attraverso la costituzione di un’anagrafe aggiornata annualmente con i nomi di docenti e ricercatori e le relative pubblicazioni al fine di consentire al personale docente di conseguire gli scatti biennali di stipendio, introducendo la regola che se i docenti non provano di aver fatto ricerca e pubblicato ogni biennio, gli scatti di anzianità vengono dimezzati con l’ulteriore conseguenza che i medesimi non possono far parte delle commissioni di concorso e con il citeriore aggravio che se la loro inefficienza scientifica si dovesse protrarre per un triennio, i medesimi vengono esclusi dai programmi di ricerca di rilevanza nazionale (c.d. Bandi PRIN).

Altrettanto lodevole appare lo stanziamento di € 135.00.000,00 per borse di studio e di € 65.000.000,00 per alloggi e residenze universitarie.

Ma tutto ciò è sufficiente a conferire il prestigio ed il ruolo che l’Università e l’Alta Formazione dovrebbero avere? O non si pone piuttosto come una pezza su un tessuto logoro che somiglia sempre più ad un colabrodo, ad un Moloch divora risorse che non risolve le incapacità di produrre risultati oggettivamente apprezzabili?

Non sarebbe stato più utile e producente, anche dal punto di vista economico - al fine di consentire all’Università (centro strategico del sapere e della ricerca) di assumere l’ormai indispensabile e non più procrastinabile respiro quantomeno di dimensione europea - azzerare tutto per rifare di sana pianta, non dico separando nettamente, come sostengono i libertari americani [8], l’educazione dallo Stato, ma quantomeno creare condizioni di vera liberalizzazione e competizione, abolendo il valore legale della laurea e sancendo la possibilità di chiamata diretta (che non può essere sostituita dalla preannunciata abilitazione scientifica nazionale a termine; procedura selettiva anch’essa soggetta a non improbabili manipolazioni di comodo) nelle Università mediante l’abolizione dell’ormai anacronistico sistema dei concorsi che si presta a manomissioni di ogni sorta?

L’Università italiana, ci si deve convincere, non necessita di aggiustamenti normativi di tipo semplicemente manipolativo del sistema di regole esistenti, bensì di una rifondazione catartica da conseguirsi mediante l’adozione di un nuovo modello che privilegi effettivamente l’ottimizzazione della ricerca e della didattica.

E’ questa la via che fra l’altro presenta l’ulteriore pregio dell’abbandono delle logiche familistiche (non solo di sangue) sinora seguite e che hanno portato all’interno dell’Istituzione, non dico i peggiori in assoluto, ma certamente non i migliori studiosi né i più capaci.

La via per l’attuazione della ormai improcrastinabile e necessaria rivoluzione copernicana auspicata passa attraverso l’abolizione del valore legale del diploma di laurea – la cui presenza, come si può facilmente riscontrare all’oggi, proprio per mettere tutte le Università sullo stesso piano (todos caballeros) é garanzia di determinazione di mediocrità di risultati e pregiudica, quando addirittura non inibisce, il reale ed obiettivo perseguimento di nuove vie del sapere e della conoscenza, atteso che non appare, neppure in via meramente astratta, ipotizzabile che tutti e nello stesso tempo siano in condizione di percorrere con la stessa efficacia innovativa le medesime vie di conoscenza scientifica, ove si consideri che la ottimizzazione della qualità didattica e dell’innovazione scientifica la si può conseguire soltanto attraverso l’opera delle migliori risorse umane e per di più negli Atenei che esprimono tale presenza di qualità -, l’assunzione di professori da attuarsi attraverso contratti a termine rinnovabili con l’assegnazione di insegnamenti a persone di grande oggettiva qualificazione che abbiano conseguito sul campo anche professionale, una meritata fama per aver condotto ricerca seria ed avanzata e non già, come, purtroppo, ancor oggi avviene con una viziata selezione di opere e di lavori che sono il portato di operazioni di copia ed incolla con l’abnorme risultato di mandare in cattedra gente il cui unico merito, al di là della raccomandazione o della sospetta appartenenza, è di avere scritto cose scritte e detto cose dette, tra l’altro, spesso meglio da altri.

E’ l’ora di mandare al macero le c.d. monografie zeppe di note che non costituiscono il risultato di accurate letture dell’autore, bensì semplici trasposizioni di indicazioni effettuate da altri, i quali, a loro volta le hanno mutuate da altri ancora in una surreale senza fine catena di S. Antonio e senza la reale compulsazione dei testi a cui le stesse fanno pomposo riferimento.

Lo standard di qualità segue ben altro percorso caratterizzato dall’impiego proficuo delle risorse, anche economiche, a disposizione e dalla opportunità di privilegiare lavori non necessariamente pletorici e ridondanti nelle pagine, ma opere di pregnante interesse qualitativo, certificato dal prestigio individuale acquisito in campo professionale e scientifico, così come attraverso la rilevazione della verificata sussistenza di intese intellettuali sfocianti in qualificate collaborazioni anche con Atenei stranieri, con Enti di ricerca e con organismi tarati in campo internazionale, nonché con lavori scientifici pubblicati con case editrici serie, con consulenze ed incarichi professionali di rilievo e di prestigio e con significative ricadute in campo sociale.

E’ ormai patrimonio consolidato di tantissimi studiosi del problema ritenere quali paradigmi essenziali per giungere alla definizione di un modello accettabile di Università:

- assegnare maggiori risorse agli Atenei migliori;

- intervenire sulla struttura delle tasse universitarie per meglio definire l’entità delle stesse in ragione della qualità degli Atenei;

- favorire il più proficuo realizzarsi della mobilità studentesca;

- disomologare e disomoggenizzare gli sconcertanti egualitari e poco onesti paradigmi stipendiali del corpo docente e consentire agli Atenei di licenziare gli incapaci;

- abolire il non limpido sistema dei concorsi (non ritengo sufficientemente garantista in termini di qualità - anche se ciò, comunque, rappresenta un passo avanti rispetto alla situazione attuale - l’abilitazione nazionale prevista dalle linee guida) in uno con l’abolizione del valore legale del titolo di studio a cui va sostituito il ben più efficiente e funzionale modello dell’accreditamento dei corsi di studio; accreditamento che diviene così l’unico e qualificato riconoscimento formale e sostanziale dell’intero sistema universitario;

- favorire la liberalizzazione della didattica;

- favorire, eventualmente, anche l’attivazione delle fondazioni universitarie o iniziative similari.

Rispetto alle delineate imprescindibili necessità evidenziate la riforma c.d. Gelmini rappresenta un minus anche se non vanno sottaciuti gli aspetti positivi della riforma stessa che si sono sostanziati nella introduzione – nell’attuale sistema universitario pubblico e gratuito - del meccanismo di una certa (anche se non sufficiente) valorizzazione del merito attraverso il ricorso ad un principio di premialità che parte dalla gestione dell’Istituzione nel suo complesso – senza peraltro disgiungere la medesima dalle performances individuali del personale responsabile – che porta a riconoscere all’Ateneo virtuoso il diritto di vedersi assegnare risorse aggiuntive secondo i criteri distintivi della qualità dell’offerta formativa e nei risultati di tale processo, nella qualità della ricerca scientifica, nella qualità, nell’efficacia e nell’efficienza delle sedi didattiche.

L’attuale sistema strategico centralizzato, però, non appare sufficiente a far fronte alla bisogna, nel senso che lo stesso deve essere ulteriormente rafforzato nella trasparenza e nella capacità di misurare in termini di pura oggettività il fenomeno della premialità che deve essere considerata non solo in termini di ragionevolezza come prevede la normativa Gelmini, ma anche e soprattutto deve potersi riconoscere come forma di espressione univoca ed oggettiva.

A questo aggiungasi che il termine di riferimento, al contrario di quanto appare dalla lettura del testo normativo, non deve essere l’Ateneo nel suo complesso, bensì le migliori strutture interne (Dipartimenti), al pari di quanto avviene in Gran Bretagna con il RAE [9] dove soltanto ciascun Dipartimento dell’Ateneo è deputato a stabilire - in considerazione del fatto che il punteggio di ottimizzazione da raggiungere si consegue mediante un giusto mix del prodotto qualità-quantità – quale delle possibili combinazioni rendere oggettivamente effettuale: preferire pochi ricercatori di elevata eccellenza, ovvero privilegiare un maggior numero di ricercatori a parziale scapito dell’eccellenza medesima.

La scelta del testo Gelmini di assegnare più risorse alle Università migliori, seppur lodevole in linea di principio, costituisce un’occasione sprecata atteso che l’attribuzione dei benefici economici non può essere soltanto il portato della erogazione di fondi dello Stato alle Università (sistema centralizzato), ma deve, quantomeno, essere coadiuvata e supportata da un corretto aumento delle tasse universitarie, consentendo a ciascun Ateneo di stabilire l’importo delle stesse, possibilmente differenziato tra i singoli corsi di laurea, in ragione della qualità che ciascuna Università o Istituto di Alta Formazione è in condizioni di offrire.

Infatti far seguire le risorse alla qualità dell’offerta formativa presenta l’indubbio vantaggio di costringere ciascuna Università – attraverso il controllo effettuato dai fruitori finali (studenti e famiglie) – all’obbligo di garantire un servizio adeguato al prezzo con l’assunzione dei migliori docenti, sia per ciò che riguarda l’attività didattica che per ciò che attiene a quella di ricerca, costringendo, nel contempo, ciascuna di esse all’eliminazione dei professori non all’altezza.

La decisione contraria a tale ferrea logica di scelta pregiudica in termini di assoluta esizialità quegli Atenei che in presenza di tasse alte non siano in condizione di offrire né ricerca né qualità didattica adeguata al costo che le famiglie devono sopportare.

Fra l’altro, l’aumento delle tasse universitarie, oltre a fornire maggiori incentivi agli studenti a laurearsi in corso ed indurre gli Atenei a migliorare la didattica (a tal proposito non sarebbe disdicevole giungere anche alla diminuzione degli appelli di esame), consegue l’ulteriore e non secondaria finalità di sollecitare e realizzare un auspicabile aumento della mobilità studentesca verso gli Atenei più prestigiosi.

Un simile obiettivo può essere altresì conseguito con l’introduzione in favore degli studenti di prestiti d’onore condizionati al reddito per gli studenti meno abbienti da restituirsi ad opera degli stessi una volta conseguita la laurea ed una volta ottenuto l’inserimento nel mondo del lavoro, attraverso rate annuali commisurate al reddito di impiego ovvero con un sussidio diretto dello Stato da realizzarsi attraverso la detrazione, per intero, dal reddito familiare di tutte le spese sostenute dalle famiglie per il mantenimento dei figli all’Università, comprese quelle relative all’acquisto dei libri ed a quelle di alloggio per gli studenti fuori sede in regola con gli esami di profitto.

Altro elemento non preso in considerazione dall’intervento Gelmini è quello che ha per oggetto la liberalizzazione degli stipendi dei professori.

L’affermazione del principio secondo il quale spetta a ciascuna Università decidere quanto corrispondere ed a chi, anche attraverso stipendi differenziati per merito, consente alla stessa di procacciarsi i migliori professori ed i più prestigiosi ricercatori, superando, di fatto, persino il modello di differenziazione stipendiale che rispetto alla liberalizzazione reca con sé il connotato pregiudizievole di essere il portato di scelte centralizzate che non consentono nel modo più assoluto, la piena e compiuta concorrenza fra gli Atenei.

A tale principio di liberalizzazione però si deve correlare, sino a diventare un unicum, l’affermazione della necessità di paradigmare - giusta quanto in altra parte di questa ormai lunga nota evidenziato – le risorse alla qualità, atteso che soltanto la scelta oculata della professionalità consente di inquadrare ed inserire, in modo tecnicamente corretto, l’auspicabile connotato della oggettiva e reale competenza.

Della imprescindibile necessità di abolire i concorsi ed il valore legale del diploma di laurea ho già avuto modo di riferire, ove si abbia nella giusta evidenza l’obiettiva contezza che per attirare gli studiosi più creativi e di valore occorrono da un lato risorse adeguate e dall’altro un oggettivo, reale e significativo potere decisionale in capo all’Ateneo, attraverso la messa a disposizione dei singoli Dipartimenti, delle risorse per consentire agli stessi di assumere i migliori studiosi che a loro volta oltre all’incentivo di guadagni più elevati, hanno anche la non trascurabile opportunità di giungere in centri del sapere in cui è notoria la presenza di altri eccellenti studiosi.

Si viene così a determinare un circolo virtuoso che esalta l’eccellenza dei risultati, e per ciò che attiene alla didattica e per quanto riguarda la ricerca, con l’ulteriore vantaggio di rifuggire dalla stagnante caratteristica di avere dei professori di ruolo soltanto per i miserrimi meriti determinati da concorsi più o meno manipolati e si viene ad introdurre la figura – peraltro tipica dei sistemi anglosassoni – di un limitato numero di professori a vita i quali saranno chiamati come tali dagli Atenei, soltanto dopo un congruo periodo di prova (almeno dieci anni) e successivamente ad aver avuto modo di dimostrare la loro abilità nella didattica e nella ricerca soprattutto con riferimento alla loro sperimentata capacità di dedicarsi a progetti di ampio respiro e qualità.

Bisogna smettere, una volta per tutte, di ritenere di poter mantenere ex lege un posto a vita all’interno degli Atenei italiani.

Soltanto dopo che tutto quanto sopra auspicato (abrogazione del valore legale del diploma di laurea, abolizione dell’iniquo sistema dei concorsi, libertà di reclutamento, liberalizzazione degli stipendi e della didattica, aumento delle tasse universitarie con prestiti d’onore condizionati al reddito) si può pensare di trasformare le Università in fondazioni o in qualcosa di similare perché soltanto allora i privati potranno avere un reale e concreto interesse a finanziare il meglio al fine di poter conseguire le utilità discendenti dal ritorno di immagine, oltre che conseguire l’ulteriore beneficio di poter portare in deduzione dal reddito le erogazioni effettuate in favore delle Istituzioni universitarie.



[1] Tommaso Montesano, Merito in Università, chi cerca e trova sarà premiato, Libero del 28.11.2008, pag. 10

[2] D.L. 11.10.2008 n°180/08 convertito, con modificazioni, con L.9.1.2009 n°1

[3] L.M. Delfino, Sapere Artistico e sapere scientifico-umanistico: perché due percorsi ordinamentali?, Laruffa Editore, Reggio Calabria, 2008

[4] D.L. 11.10.2008 n°180 convertito, con modificazioni, con L. 9.1.2009 n°1

[5] D.L. 11.10.2008 n°180 convertito, con modificazioni, con L. 9.1.2009 n°1

[6] Comitato di indirizzi e di valutazione della ricerca

[7] Comitato nazionale valutazione del sistema universitario

[8] Primi fra tutti Shelodn Richman e James Tooley

[9] Research Assessment Exercise