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Prime riflessioni sulla riforma del processo civile

Siamo di fronte all’ennesima riforma del processo civile portata dalla Legge 18 giugno 2009, n. 69 “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”, pubblicata sul Supplemento Ordinario della Gazzetta Ufficiale del 19 giugno ed in vigore dal 4 luglio 2009.

Gli obbiettivi sono sempre quelli noti: ridurre i tempi della giustizia civile nonché eliminare l’enorme mole dei procedimenti pendenti. Se l’intento non può che essere che meritorio, però, non pochi dubbi nascono circa l’efficacia dei mezzi adoperati. Ne sono testimonianza i primi commenti in cui molto chiaramente emerge un certo scetticismo e si definisce la riforma appena nata come l’ennesima occasione persa. Senza pretese di esaustività, il presente lavoro cerca di porre delle prime riflessioni su quelle che sono le novità principali e che andranno ad incidere sul lavoro degli operatori del diritto, in primo luogo gli avvocati. Le altre novità saranno, eventualmente oggetto di altri lavori. Sono pure presenti degli innegabili aspetti positivi come l’abrogazione del rito societario e di quello in tema di sinistri stradali che hanno creato non pochi problemi interpretativi ed applicativi.

TESTIMONIANZA SCRITTE: il nuovo art 257 bis c.p.c è stato presentato come uno degli strumenti che dovrebbero consentire l’accelerazione del processo. La ratio di fondo è quella di decongestionare il lavoro dell’autorità giudicante, valorizzando il ruolo dei difensori. In sostanza, si tratta di una presa d’atto di quella che è la situazione in ogni aula di Tribunale, ove il giudice, sovente, si trova nell’impossibilità materiale di ascoltare personalmente le deposizioni dei testimoni che sono quindi raccolte dagli avvocati.

In verità, il meccanismo si presenta alquanto farraginoso: il giudice su accordo delle parti, tenuto conto della natura della causa e di ogni altra circostanza può ammettere la testimonianza scritta. Questa dovrà essere redatta dal testimone compilando un apposito modulo che sarà conforme (secondo quanto previsto dal nuovo art 103 bis cpc) al modello approvato con decreto del Ministero della Giustizia. La parte interessata all’assunzione della prova avrà l’onere di inviare il predetto modulo che sarà ovviamente corredato dalle domande e circostanze precedentemente ammesse nell’apposita udienza. A quel punto il testimone può astenersi dalla compilazione, comunque indicando le proprie generalità ed i motivi che giustificano l’astensione, oppure riempirlo con i conseguente obbligo o di spedirlo o di consegnarlo direttamente in cancelleria, indicando inoltre gli eventuali punti in cui non si trova in grado di rispondere. La firma dovrà essere autenticata; senza peraltro costi aggiuntivi, da un pubblico ufficiale, l’art 103 bis cpc chiarisce come per l’incombente sia possibile rivolgersi ad un segretario comunale o al cancelliere di un ufficio giudiziario. Senza essere delle terribili cassandre è agevole prevedere come tale modello, difficilmente, sarà seguito dai difensori per tutta una serie di ragioni. In primo luogo, non vi è nessuna garanzia di contraddittorio in ordine all’assunzione della prova. Non si può non tener conto di come, la parte che chiede l’ammissione di una prova testimoniale, ne sia anche la più interessata, per non dire più correttamente anche la più vicina. E’ troppo forte il pericolo che il modello, quando il teste sia tra coloro indicati dalla parte richiedente, venga compilato con l’ausilio del difensore senza il contraddittorio del legale avversario ed il giudice, come organo terzo che possa, nell’immediatezza dirimere le questioni controversie prima che le affermazioni verbali assumano la forza della parola scritta. D’altronde è paradossale che nell’attuale situazione di fatto, anche quando la testimonianza viene raccolta dai difensori, ove la situazione si faccia delicata si richieda, è possibile richiedere l’intervento del giudice. In sostanza, alla luce della modifica introdotta si avrebbe un tangibile peggioramento anziché un miglioramento dello svolgimento del processo. Che quello descritto non sia un pericolo di degenerazione solo paventato, del resto, emerge anche dalla lettura dello stesso art 257 bis cpc. Infatti, la norma all’ultimo comma testualmente recita: “Il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui o davanti al giudice delegato”.

E’ noto come, dato il carico di lavoro, chi debba giudicare prenda contezza dei fatti di causa dal momento in cui si è proceduto al deposito delle memorie conclusionali o, comunque, si è chiusa la fase istruttoria. Quello è l’attimo che segna lo studio vero e proprio del fascicolo e che troverà esplicazione nella redazione della sentenza. Magari, a distanza di anni, il giudice; dubbioso sulle dichiarazioni di un testimone; dovrà far arretrare il processo ad un stadio anteriore; confidando nella freschezza di ricordi di una persona che, certamente con il passare non può essere migliorata. Più che uno strumento di accelerazione del processo, la testimonianza scritta sembra assumere le sembianze di un classico gioco dell’oca in cui si ritorna alla casella di partenza.

Ulteriormente, anche se in concreto, questo non fosse il nostro caso; potrebbero sempre manifestarsi delle stantie prove testimoniali tese soltanto a dimostrare le tesi della parte richiedente più di quanto ora non accada.

Il giudice, pertanto, o non dovrebbe tenerne conto oppure dovrebbe applicare l’ultimo comma dell’art 257 bis cpc.

ART 115 DISPONIBILITA’ DELLE PROVE: questo è uno degli altri articoli profondamente modificati dalla legge di riforma e che condizionerà gravemente le abitudini dei difensori. L’art 115 cpc al 1° comma è stato oggetto della seguente aggiunta:”nonchè i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita”.

In concreto, significa, rispetto al regime precedente che ogni fatto dovrà essere oggetto di specifica e non generica contestazione. Viene agevolato l’onere probatorio della parte che sostiene un certo fatto. Infatti, anche se questo non viene provato; potrà essere considerato come acquisito ove la controparte non lo contesti specificatamente.

La ratio di fondo è che il difensore debba prendere posizione su ogni punto indicato dalla controparte. In precedenza, i fatti potevano ritenersi pacifici, e quindi posti a fondamento della decisione, quando fossero stati esplicitamente ammessi dalla controparte oppure questa avesse tenuto una condotta processuale totalmente incompatibile con la loro negazione. La modifica è di non poco conto dal momento che stravolge uno dei principi generali, peraltro elaborati dalla giurisprudenza e dalla dottrina: il c.d criterio della vicinanza alla prova che va ad integrare quanto previsto dall’art 2697 c.c.. Il predetto principio sta a significare che ove, ovviamente non sia espressamente previsto, l’onere della prova sorge in capo al soggetto che più agevolmente, per la posizione rivestita possa dimostrare l’esistenza di un fatto. Ad esempio è più facile dimostrare per il debitore di aver adempiuto che per il creditore la dimostrazione del mancato inadempimento.

L’onere della prova, tra l’altro, ha la non secondaria funzione di consentire di consentire di arrivare ad una decisione anche nei casi più dubbi.

Non sempre, poi, la mancata contestazione di un fatto da parte della controparte può essere il frutto di una precisa condotta tattica ma, più semplicemente dell’impossibilità di fornire la prova contraria.

L’interpretazione della norma, dunque, comporta uno stravolgimento del principio descritto. Poi, desta qualche dubbio alla luce dei novellati art 132 e 118 cpc come il contenuto della sentenza possa limitarsi ad una concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.

In pratica, per il difensore anche nei casi in cui appare, ad esempio evidente il difetto di legittimazione passiva, sarà conveniente; a questo punto non solo per mero tuziorismo prendere posizione su ogni questione posta dalla controparte.

CONSULENZE: forse è una delle migliori novità introdotte dalla legge di riforma. L’aggiunta del 3° comma all’art 195 cpc consente, finalmente di dare una minima certezza sulla durata delle consulenze che, come è noto, sono delle maggiori cause di allungamento dei tempi del processo. In sostanza, contestualmente alla nomina del consulente vengono anche indicati i quesiti a cui questi dovrà rispondere. Entro l’udienza successiva, quindi, deve svolgersi l’eventuale contraddittorio tra il consulente e le parti con il relativo scambio di osservazioni.

CONTENUTO DELLA SENTENZA: viene eliminato l’obbligo per il giudice di includere nella sentenza anche la concisa esposizione dello svolgimento del processo, l’obbligo è limitato alle ragioni di fatto e di diritto che si pongono alla base della decisione. Di fatto, nella realtà tale attività, spesso si limitava ad una pedissequa rielaborazione di quanto già scritto dalle controparti in sede di memorie conclusionali.

La novità principale consiste nel fatto che la motivazione può limitarsi anche al riferimento a precedenti conformi. Sorge naturale il parallelo con quanto elaborato dalla giurisprudenza amministrativa in merito alla c.d motivazione per relationem. Inevitabile, quindi, prendere a modello i criteri da questa dettati: l’atto a cui si fa rinvio o deve essere allegato oppure facilmente individuabile dalla parte che deve essere nella condizione di poter facilmente ricostruire il percorso logico che porta alla decisione. Indubbiamente, la norma si presenta alquanto generica poiché non chiarisce quali siano i precedenti conformi (pronunce della Cassazione, posizione univoca della Giurisprudenza, posizione maggioritaria sempre della medesima, precedenti decisioni dello stesso giudicante su decisioni simili). Non si può negare come aumenti la discrezionalità del giudice e come vi sia una sorta di discrasia tra le nuove norme sulla redazione della sentenza e tra quello che viene definito il c.d filtro in cassazione.

Siamo di fronte all’ennesima riforma del processo civile portata dalla Legge 18 giugno 2009, n. 69 “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”, pubblicata sul Supplemento Ordinario della Gazzetta Ufficiale del 19 giugno ed in vigore dal 4 luglio 2009.

Gli obbiettivi sono sempre quelli noti: ridurre i tempi della giustizia civile nonché eliminare l’enorme mole dei procedimenti pendenti. Se l’intento non può che essere che meritorio, però, non pochi dubbi nascono circa l’efficacia dei mezzi adoperati. Ne sono testimonianza i primi commenti in cui molto chiaramente emerge un certo scetticismo e si definisce la riforma appena nata come l’ennesima occasione persa. Senza pretese di esaustività, il presente lavoro cerca di porre delle prime riflessioni su quelle che sono le novità principali e che andranno ad incidere sul lavoro degli operatori del diritto, in primo luogo gli avvocati. Le altre novità saranno, eventualmente oggetto di altri lavori. Sono pure presenti degli innegabili aspetti positivi come l’abrogazione del rito societario e di quello in tema di sinistri stradali che hanno creato non pochi problemi interpretativi ed applicativi.

TESTIMONIANZA SCRITTE: il nuovo art 257 bis c.p.c è stato presentato come uno degli strumenti che dovrebbero consentire l’accelerazione del processo. La ratio di fondo è quella di decongestionare il lavoro dell’autorità giudicante, valorizzando il ruolo dei difensori. In sostanza, si tratta di una presa d’atto di quella che è la situazione in ogni aula di Tribunale, ove il giudice, sovente, si trova nell’impossibilità materiale di ascoltare personalmente le deposizioni dei testimoni che sono quindi raccolte dagli avvocati.

In verità, il meccanismo si presenta alquanto farraginoso: il giudice su accordo delle parti, tenuto conto della natura della causa e di ogni altra circostanza può ammettere la testimonianza scritta. Questa dovrà essere redatta dal testimone compilando un apposito modulo che sarà conforme (secondo quanto previsto dal nuovo art 103 bis cpc) al modello approvato con decreto del Ministero della Giustizia. La parte interessata all’assunzione della prova avrà l’onere di inviare il predetto modulo che sarà ovviamente corredato dalle domande e circostanze precedentemente ammesse nell’apposita udienza. A quel punto il testimone può astenersi dalla compilazione, comunque indicando le proprie generalità ed i motivi che giustificano l’astensione, oppure riempirlo con i conseguente obbligo o di spedirlo o di consegnarlo direttamente in cancelleria, indicando inoltre gli eventuali punti in cui non si trova in grado di rispondere. La firma dovrà essere autenticata; senza peraltro costi aggiuntivi, da un pubblico ufficiale, l’art 103 bis cpc chiarisce come per l’incombente sia possibile rivolgersi ad un segretario comunale o al cancelliere di un ufficio giudiziario. Senza essere delle terribili cassandre è agevole prevedere come tale modello, difficilmente, sarà seguito dai difensori per tutta una serie di ragioni. In primo luogo, non vi è nessuna garanzia di contraddittorio in ordine all’assunzione della prova. Non si può non tener conto di come, la parte che chiede l’ammissione di una prova testimoniale, ne sia anche la più interessata, per non dire più correttamente anche la più vicina. E’ troppo forte il pericolo che il modello, quando il teste sia tra coloro indicati dalla parte richiedente, venga compilato con l’ausilio del difensore senza il contraddittorio del legale avversario ed il giudice, come organo terzo che possa, nell’immediatezza dirimere le questioni controversie prima che le affermazioni verbali assumano la forza della parola scritta. D’altronde è paradossale che nell’attuale situazione di fatto, anche quando la testimonianza viene raccolta dai difensori, ove la situazione si faccia delicata si richieda, è possibile richiedere l’intervento del giudice. In sostanza, alla luce della modifica introdotta si avrebbe un tangibile peggioramento anziché un miglioramento dello svolgimento del processo. Che quello descritto non sia un pericolo di degenerazione solo paventato, del resto, emerge anche dalla lettura dello stesso art 257 bis cpc. Infatti, la norma all’ultimo comma testualmente recita: “Il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui o davanti al giudice delegato”.

E’ noto come, dato il carico di lavoro, chi debba giudicare prenda contezza dei fatti di causa dal momento in cui si è proceduto al deposito delle memorie conclusionali o, comunque, si è chiusa la fase istruttoria. Quello è l’attimo che segna lo studio vero e proprio del fascicolo e che troverà esplicazione nella redazione della sentenza. Magari, a distanza di anni, il giudice; dubbioso sulle dichiarazioni di un testimone; dovrà far arretrare il processo ad un stadio anteriore; confidando nella freschezza di ricordi di una persona che, certamente con il passare non può essere migliorata. Più che uno strumento di accelerazione del processo, la testimonianza scritta sembra assumere le sembianze di un classico gioco dell’oca in cui si ritorna alla casella di partenza.

Ulteriormente, anche se in concreto, questo non fosse il nostro caso; potrebbero sempre manifestarsi delle stantie prove testimoniali tese soltanto a dimostrare le tesi della parte richiedente più di quanto ora non accada.

Il giudice, pertanto, o non dovrebbe tenerne conto oppure dovrebbe applicare l’ultimo comma dell’art 257 bis cpc.

ART 115 DISPONIBILITA’ DELLE PROVE: questo è uno degli altri articoli profondamente modificati dalla legge di riforma e che condizionerà gravemente le abitudini dei difensori. L’art 115 cpc al 1° comma è stato oggetto della seguente aggiunta:”nonchè i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita”.

In concreto, significa, rispetto al regime precedente che ogni fatto dovrà essere oggetto di specifica e non generica contestazione. Viene agevolato l’onere probatorio della parte che sostiene un certo fatto. Infatti, anche se questo non viene provato; potrà essere considerato come acquisito ove la controparte non lo contesti specificatamente.

La ratio di fondo è che il difensore debba prendere posizione su ogni punto indicato dalla controparte. In precedenza, i fatti potevano ritenersi pacifici, e quindi posti a fondamento della decisione, quando fossero stati esplicitamente ammessi dalla controparte oppure questa avesse tenuto una condotta processuale totalmente incompatibile con la loro negazione. La modifica è di non poco conto dal momento che stravolge uno dei principi generali, peraltro elaborati dalla giurisprudenza e dalla dottrina: il c.d criterio della vicinanza alla prova che va ad integrare quanto previsto dall’art 2697 c.c.. Il predetto principio sta a significare che ove, ovviamente non sia espressamente previsto, l’onere della prova sorge in capo al soggetto che più agevolmente, per la posizione rivestita possa dimostrare l’esistenza di un fatto. Ad esempio è più facile dimostrare per il debitore di aver adempiuto che per il creditore la dimostrazione del mancato inadempimento.

L’onere della prova, tra l’altro, ha la non secondaria funzione di consentire di consentire di arrivare ad una decisione anche nei casi più dubbi.

Non sempre, poi, la mancata contestazione di un fatto da parte della controparte può essere il frutto di una precisa condotta tattica ma, più semplicemente dell’impossibilità di fornire la prova contraria.

L’interpretazione della norma, dunque, comporta uno stravolgimento del principio descritto. Poi, desta qualche dubbio alla luce dei novellati art 132 e 118 cpc come il contenuto della sentenza possa limitarsi ad una concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.

In pratica, per il difensore anche nei casi in cui appare, ad esempio evidente il difetto di legittimazione passiva, sarà conveniente; a questo punto non solo per mero tuziorismo prendere posizione su ogni questione posta dalla controparte.

CONSULENZE: forse è una delle migliori novità introdotte dalla legge di riforma. L’aggiunta del 3° comma all’art 195 cpc consente, finalmente di dare una minima certezza sulla durata delle consulenze che, come è noto, sono delle maggiori cause di allungamento dei tempi del processo. In sostanza, contestualmente alla nomina del consulente vengono anche indicati i quesiti a cui questi dovrà rispondere. Entro l’udienza successiva, quindi, deve svolgersi l’eventuale contraddittorio tra il consulente e le parti con il relativo scambio di osservazioni.

CONTENUTO DELLA SENTENZA: viene eliminato l’obbligo per il giudice di includere nella sentenza anche la concisa esposizione dello svolgimento del processo, l’obbligo è limitato alle ragioni di fatto e di diritto che si pongono alla base della decisione. Di fatto, nella realtà tale attività, spesso si limitava ad una pedissequa rielaborazione di quanto già scritto dalle controparti in sede di memorie conclusionali.

La novità principale consiste nel fatto che la motivazione può limitarsi anche al riferimento a precedenti conformi. Sorge naturale il parallelo con quanto elaborato dalla giurisprudenza amministrativa in merito alla c.d motivazione per relationem. Inevitabile, quindi, prendere a modello i criteri da questa dettati: l’atto a cui si fa rinvio o deve essere allegato oppure facilmente individuabile dalla parte che deve essere nella condizione di poter facilmente ricostruire il percorso logico che porta alla decisione. Indubbiamente, la norma si presenta alquanto generica poiché non chiarisce quali siano i precedenti conformi (pronunce della Cassazione, posizione univoca della Giurisprudenza, posizione maggioritaria sempre della medesima, precedenti decisioni dello stesso giudicante su decisioni simili). Non si può negare come aumenti la discrezionalità del giudice e come vi sia una sorta di discrasia tra le nuove norme sulla redazione della sentenza e tra quello che viene definito il c.d filtro in cassazione.