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Nel rapporto tra arbitrato e giurisdizione ancora nessuna novità all’orizzonte!

L’aspetto della risoluzione delle controversie è il tema giuridico che, forse più di tutti, agita la società del nostro tempo, e come tale merita un particolare approfondimento, soprattutto in un momento in cui la sete di giustizia non risulta soddisfatta dall’andamento della giurisdizione statuale sempre più lontana, quanto meno sotto il profilo della tempestività e dell’adeguatezza, dalla esigenza di una concreta ed efficiente risposta che il cittadino, che ad essa si rivolge, si attende.

Le doglianze sui tempi biblici, sui costi, sulla rigidità e sull’incertezza dei risultati della giustizia ordinaria sono ormai un dato paradigmatico della disaffezione e della scarsa fiducia del cittadino nei confronti dell’ordinamento giudiziario, viepiù che il bisogno stesso di giustizia è indissolubilmente correlato all’idea di avere la garanzia funzionale di massima tesaurizzazione del fattore tempo.

È, infatti, sotto gli occhi di ognuno di noi e non soltanto degli operatori del diritto come, fra l’altro, nell’attuale realtà cronotopica, appaia sempre più difficile considerare l’attività di juris dicere come espressione esclusiva di un tetragono monopolio statuale.

Il continuo rimescolamento di attribuzioni fra giudice ordinario e giudice amministrativo in tema di diritti soggettivi, la massiccia presenza delle magistrature onorarie nell’ambito della giurisdizione ordinaria, la tutela offerta dalle Autorità indipendenti, il permanere nell’ordinamento degli organi speciali di giurisdizione, costituiscono la riprova più evidente dell’affievolimento di un paradigma di giurisdizione di stampo statalista per troppo tempo arroccato, almeno sotto il profilo tendenziale, sulle posizioni dei diritti con al centro il giudice ordinario.

Nella realtà ormai propria del mondo economico e dell’organizzazione degli interessi, soprattutto con riferimento a quelli peculiari del settore delle transazioni commerciali, si è fatta strada una nuova concezione che vuole vedere nel soggetto che esercita la funzione giudicante un organo indipendente ed imparziale che trova piena legittimazione nel proprio tessuto culturale, nella propria preparazione tecnico-professionale, la quale consente al medesimo di essere in grado di fornire risposte corrette alle vicende sottoposte al suo esame ed alla sua valutazione ermeneutica.

Alla luce di quanto evidenziato, appare evidente come l’attività e l’idea stessa di giurisdizione non possa più essere considerata come appannaggio della sola figura di giudice definito dalle leggi di ordinamento giudiziario.

Oggi persino l’essenza e la finalità della giurisdizione sui diritti appaiono del tutto lontane dalla concezione che identificava la giurisdizione con la formazione del giudicato[1] il cui valore appare addirittura recessivo, a fronte di forme di tutela che privilegiano l’efficacia esecutiva tipica dei provvedimenti sommari i quali godono di effetti di stabilità del tutto avulsi dalla tutela dichiarativa di stampo tradizionale[2].

Il provvedimento cautelare, infatti, non svolge più, a pena di inefficacia, una funzione di necessaria coordinazione con la tutela di merito, bensì spesso tende a vivere di luce propria, assumendo contenuto anticipatorio e non soltanto conservativo[3].

Va infatti evidenziato che siffatto nuovo schema ha oggi assunto pregnante carattere - anche se, in verità, con esiti non sempre felici - nei rapporti tra sospensione dell’esecuzione e opposizione all’esecuzione nella nuova formulazione dell’art.624 c.p.c.

A tutto questo va ancora soggiunto - viepiù a seguito dell’ultimo intervento in materia di contenzioso civile[4] con il quale il legislatore, attraverso la previsione di una nuova disciplina degli strumenti di conciliazione extragiudiziale, tenta di dare una risposta concreta, ma non certamente compiuta ed esaustiva, alla inefficienza del paradigma di giurisdizione di stampo statalista - che il diritto processuale civile subisce sempre di più gli influssi del diritto comunitario anche in forza di una paradigmatica direttiva europea[5] e delle sempre più incisive ed icastiche decisioni della Corte di giustizia e dello stesso Giudice delle leggi[6].

La giurisdizione oggi non può essere più considerata come funzione statuale esclusivamente diretta alla realizzazione del diritto oggettivamente considerato con riferimento al caso di specie, bensì soprattutto quale servizio pubblico indirizzato al componimento delle liti secundum jus nel cui contesto la definizione delle controversie che non si risolvono, attraverso accordi transattivi, nell’ambito dell’autonomia privata delle sfere giuridiche soggettive, fra le quali le medesime hanno avuto origine, può ben essere affidata oltre che agli organi della giurisdizione statuale anche, e con maggior proficuità, in termini di efficienza, ad istituzioni diverse dallo Stato di cui sia patente il carattere di terzietà e di imparzialità.

Nella delineata cornice si colloca l’istituto arbitrale, quale strumento di esercizio di azione alternativo alla giurisdizione statale per la risoluzione di controversie, il cui connotato caratterizzante è costituito da autonoma e pattizia scaturigine ed è regolato da una disciplina di chiaro stampo processuali stico, pariteticamente incentrata nella relazione con il diritto positivo naturalmente utilizzabile ai fini della decisione del caso concreto, ancorché non in toto assimilabile al concetto proprio di giurisdizione, che presuppone, invece, una indispensabile correlazione con la qualità di giudice ordinario dotato di munus pubblico per il suo esercizio.

A tal fine l’arbitrato (rituale) si sostanzia quale strumento efficiente, veloce, dinamico e flessibile, perfettamente in grado di coniugare tempi rapidi e capacità di giudizio a cui si aggiunge il dato di non secondaria importanza dell’indiscutibile vantaggio, rappresentato dal fatto oggettivo, che l’arbitro chiamato a giudicare la controversia sottoposta al suo esame è sempre una persona esperta della materia oggetto del contendere.

In tal senso, dunque, l’istituto arbitrale non è soltanto un’alternativa ad una giustizia obiettivamente in crisi, bensì l’evidente espressione della realtà di un sistema di regole procedurali che garantisce riservatezza e soprattutto elevata specializzazione ed esperienza da parte dei soggetti che svolgono la funzione di juris dicere propria degli arbitri.

Con riferimento ad esso istituto, la Corte costituzionale, abbandonando l’idea, formatasi tra la fine degli anni cinquanta e gli anni sessanta, espressa in due sue sentenze[7], secondo le quali la decisione arbitrale andava necessariamente convogliata nell’alveo della giurisdizione, sia pure ex post (attraverso il deposito del lodo presso la Pretura e la dichiarazione di esecutività del giudice che trasformava lo stesso in sentenza) ha rivisto la propria posizione con successive altre sentenze, e, a partire dal luglio 1977[8], ha evidenziato come, se è vero che tutti “… possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”[9], e ribadito altresì come lo Stato sia obbligato a definire l’organizzazione giudiziaria necessaria per garantire tale possibilità, secondo le modalità previste dall’art. 101 e ss. della Costituzione, è altrettanto vero che il cittadino non rimane obbligato a fare ricorso al sistema statuale di giurisdizione.

In ragione di ciò, il cittadino può, infatti, decidere di non tutelare i propri diritti, così come può decidere di tutelarli senza ricorrere alla giurisdizione statuale.

In buona sostanza il Giudice delle leggi, fermo restando la necessità della presenza, ex art. 24 della Carta, di una giurisdizione statuale, riconosce, in positivo, il fondamento dell’arbitrato nella sfera intangibile dell’autonomia privata che, però, si deve muovere entro i limiti del lecito possibile.

Restando nei limiti dell’arbitrato rituale, appare utile rivolgere l’attenzione sul rapporto che tale istituto riveste avendo riguardo alla giurisdizione, viepiù che dopo la riforma introdotta con il D.lgs. n°40 del 2006, l’efficacia del lodo rituale è stata del tutto parificata a quella della “sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria”[10].

Va subito detto che ancorché non spetti al legislatore il compito di determinare la natura dell’istituto[11], probabilmente come moto di reazione alla svolta di contenuto privatistico data all’istituto medesimo[12] dalla giurisprudenza di legittimità, il legislatore del D.lgs. n°40/06 ha voluto riaffermare la natura giurisdizionale quantomeno dell’atto conclusivo (lodo) dell’arbitrato, sul presupposto che sostenere che “sino al momento di sottoscrizione del lodo l’arbitrato è fenomeno privato non significa affatto escludere che esso possa essere fenomeno rilevante a taluni effetti nell’ordinamento statuale e financo giurisdizionale[13].

A dire il vero, però, l’azione del legislatore del 2006, nella formulazione della nuova disciplina, complessivamente considerata, presenta alcuni dati di contraddittorietà e di obiettiva non coerenza.

Invero del tutto dimenticando quanto asserito dalla Corte costituzionale nella celeberrima decisione che ha riconosciuto agli arbitri rituali la legittimazione a sollevare questioni di costituzionalità e secondo la quale “la discrezionalità di cui il legislatore sicuramente gode nella individuazione delle materie sottratte alla possibilità di compromesso incontra soltanto il limite della manifesta irragionevolezza”[14], ha introdotto la invero non condivisibile disposizione del novellato art. 806 c.p.c., secondo la quale il legislatore è abilitato ad imporre “un divieto di arbitrato” su diritti disponibili, rendendo di fatto sicuramente meno forte la prospettiva del ricorso a tale istituto, viepiù che omette di definire, una volta per tutte, il delicato rapporto tra giudice ed arbitro e, in pratica, rende più difficoltoso il percorso per giungere ad una pacifica comprensione dell’arbitrato e della giurisdizione.

Del pari va categoricamente escluso – al fine della chiarificazione del rapporto tra arbitro ed autorità giudiziaria – il ricorso allo schema proprio della competenza, viepiù che appare in termini di tutta evidenza che tanto il riferimento all’art.819-ter del D.lgs n°40/06 che la definizione stessa della competenza, considerata come “la quantità di potere giurisdizionale che spetta per legge a ciascun ufficio giudiziario nei confronti di altri uffici giudiziari del medesimo ordine”, consentono di affermare come non sia possibile collocare il rapporto arbitro-giudice nell’ambito del modello tecnico della competenza. E perché il concetto che esprime la definizione esclude l’arbitro e, perché, giusta quanto emerge dalla semplice lettura del ricordato art. 819-ter, in pendenza di procedimento arbitrale spetta unicamente all’arbitro la verifica della propria competenza ai sensi dell’art. 817 c.p.c., così come compete soltanto al giudice civile di conoscere, “prima dell’inizio del procedimento arbitrale”, dell’invalidità o dell’inefficacia della convenzione di arbitrato; sindacato, quest’ultimo, che presuppone non già l’ermeneusi di una norma, ma l’analisi di una fattispecie negoziale della quale vanno verificate, ad opera del giudice ordinario, la validità e l’efficacia.[15]

Persino la circostanza che, giammai il lodo, ma soltanto la sentenza che decide sulla competenza, può essere assoggettata al relativo regolamento (necessario o facoltativo), ex art. 819-ter, 2° comma, c.p.c., è situazione che, comunque, non ha effetto incidente alcuno sul rapporto arbitro-giudice, viepiù che appare decisamente esclusa ogni possibilità, finalizzata a salvaguardare gli effetti sostanziali e processuali della domanda, di riassunzione davanti all’organo che viene riconosciuto come legittimato a decidere[16].

Infatti, come è noto, dopo la decisione del giudice di legittimità che riconosce la competenza arbitrale o come è più corretto affermare, la incompetenza del giudice della giurisdizione, il giudizio medesimo non può continuare a svolgersi davanti all’arbitro, ma occorre instaurarne uno diverso e nuovo, atteso che la decisione della Suprema Corte va considerata, anzi rectius, è equiparata ad una cassazione senza rinvio della sentenza affermativa della competenza.

L’annosa e difficile questione del rapporto arbitro-giudice, quindi, anche in costanza ed alla luce della normazione del 2006 e del silenzio serbato sul tema dal legislatore del 2009, non appare in alcun modo dipanata nella sua intima e reale essenza, viepiù che, malgrado la sussistenza di una abbondanza di norme, prima fra tutte quella postulata dall’art. 817 c.p.c. - le quali continuano ed esprimersi in termini di competenza ed incompetenza - non appare inutile ricordare come vada preso atto, soprattutto da parte del legislatore, che continua a permanere, anzi ad incombere, l’assenza di una disciplina puntuale e definita nella elezione del regime da attribuire ad un rapporto che si presenta del tutto peculiare nella relazione, come quello tra arbitro e giudice, e che tenga nel debito conto l’obiettiva circostanza che per potere qualificare la competenza di un organo non precostituito per legge (quale è l’arbitro) è indispensabile conoscere della portata di un accordo negoziale di deroga alla competenza generale dell’organo (giudice), invece, normativamente precostituito.

Ricordato quanto detto, va però, riferito, per correttezza di esposizione, che, comunque, nella realtà cronotopica le espressioni del legislatore non hanno quasi mai condizionato la giurisprudenza.

In tal senso è sufficiente ricordare l’orientamento del giudice di legittimità che a SS.UU., nella ormai celeberrima decisione n°527/00[17] e successivamente, poi, confermato[18], il rapporto tra arbitro e giudice non può essere collocato nel c.d. modello della competenza, atteso che la potestas judicandi (legittimazione) dell’arbitro non sarebbe altro che una questione di merito relativa all’esistenza ed alla validità del patto di deroga alla giurisdizione ordinaria.

Il dictum arbitrale, secondo detto orientamento della giurisprudenza di legittimità, è, e resta, un atto di autonomia privata – derogatorio e non sostitutivo della giurisdizione – i cui effetti conseguono ad un giudizio compiuto da un soggetto il cui potere trova la sua scaturigine dall’investitura conferitagli dalle parti.

Conseguenza di siffatto ragionamento è, quindi, la impossibilità di considerare l’arbitro quale organo giurisdizionale e di qualificare il relativo procedimento come ontologicamente alternativo alla giurisdizione statuale.

Siffatto orientamento giurisprudenziale, però, giusta quanto, peraltro, si è già avuto occasione di ricordare in altra parte di questa nota, è stato decisamente avversato dal legislatore delegato del 2006, il quale – indipendente dalla condivisibilità o meno della scelta operata – ha indiscutibilmente dettato – con espresso riferimento al patto compromissorio ed al rilievo di incompetenza del giudice ordinario – una non equivoca disciplina in proposito, sicché se è vero non essere obiettivamente sostenibile che la corretta investitura dell’arbitro possa essere qualificata come mera questione di merito[19], è indiscutibilmente altrettanto rispondente al vero che, comunque, appare difficile definire il rapporto arbitro-giudice in termini di mera competenza, tecnicamente intesa.

Occorre convincersi, piuttosto, che si è in costanza di un regime particolare del tutto precipuamente orientato a garantire il rispetto dell’alterità dei termini di un rapporto – di per sè indiscutibilmente problematico – fra le due figure, peraltro ormai sempre più caratterizzato dal c.d. modello delle vie parallele (non sussistenza della priorità di una via rispetto all’altra)[20]; la pendenza della controversia in una sede non impedisce la proposizione della domanda nell’altra[21]; il raccordo tra le due vie avviene esclusivamente attraverso le rispettive decisioni[22]: cosa questa che esclude, anche in via di mera ermeneusi, qualsivoglia trasposizione di norme proprie del regime generale.

In realtà la peculiarità del modello più volte ricordato rende sempre più plausibile l’idea che il rapporto arbitro-giudice non possa mai avere come paradigma di riferimento lo schema proprio della competenza.

Non è inutile ricordare, infatti, che il lodo arbitrale, di per sè, non è soggetto ai rimedi propri delle decisioni in materia di competenza, bensì unicamente all’impugnazione per nullità.

Di contro le decisioni sulla competenza, benché soggette ad istanza di regolamento, sono sottoposte unicamente ad un sindacato di tipo cassatorio, eccezion fatta per il caso di declinatoria erroneamente dichiarata che, a seguito del positivo esperimento dell’impugnazione, ammette la prosecuzione del processo medesimo di fronte al giudice che per errore se ne era disfatto.

Alla luce di quanto espresso non appare revocabile in dubbio che l’inquadramento dell’arbitrato e delle problematiche ad esso riconnesse vanno analizzati secondo esperienza: ossia secondo quanto l’arbitro compie in concreto, piuttosto che secondo il dato formale di investitura in base al quale opera.

Quanto esposto sta a significare che, al di là dello sforzo fatto dal legislatore delegato del 2006, non è stato raggiunto alcun risultato in ordine alla definizione del rapporto arbitro-giudice.

E che purtroppo quella del 2006 sia stata a tutti gli effetti un’occasione perduta è testimoniato dall’obiettiva circostanza che tanto la Suprema Corte di Cassazione[23] che la Consulta[24] – quest’ultima allorquando ha dichiarato l’illegitttimità dell’art. 30 della L. 6.12.1971 n°1034 istitutiva dei TT.AA.RR. “nella parte in cui la stessa non prevedeva che gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione” – hanno affrontato il problema della traslatio judicii tra giudici e giurisdizioni diverse.

Né obiettivamente alcun ausilio alla risoluzione del problema fornisce il legislatore del 2009[25], atteso che il rapporto sulle questioni di giurisdizione delineato e definito dalla prefata normazione sia pur prevedendo due distinte ipotesi di decisione delle questioni di giurisdizione – quella secondo la quale l’indicazione del giudice munito di giurisdizione effettuata dalle SS.UU. della Suprema Corte di Cassazione costituisce vincolo per ogni giudice e per le parti anche in altro processo, e l’altra secondo la quale il giudice che dichiara il proprio difetto di giurisdizione ha l’obbligo di indicare il giudice che si ritiene munito di giurisdizione – non si preoccupa anzi addirittura omette ogni accenno agli arbitri, al relativo procedimento ed al rapporto arbitro-giudice.

Nel quadro prospettato va altresì posto in debito risalto che l’unico contributo al fine di giungere ad un’effettiva soluzione per la definizione del rapporto arbitro-giudice, a tutt’oggi è rappresentata dalla già ricordata, in altra parte di questa nota, decisione n°276/01 del Giudice delle leggi, a seguito della quale l’arbitro è stato ritenuto legittimato a sollevare l’incidente di costituzionalità.

L’essenziale risultato raggiunto dalla prefata sentenza, anche se sulla stessa sono piovute non poche critiche[26], risiede nel non secondario merito di riconoscere, una volta per tutte e definitivamente, “che l’arbitrato rituale costituisce un procedimento disciplinato dal c.p.c. per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto ai fini della risoluzione di una controversia con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione ordinaria”, ancorché gli arbitri medesimi non possano essere intesi quali giudici in senso soggettivo, ossia organi della giurisdizione statale.

Gli stessi sono, però, giudici in senso oggettivo, certamente estranei all’organizzazione della giurisdizione ma, al pari del giudice della giurisdizione, in posizione super partes nonché titolari dell’esercizio di funzioni giudicanti per l’obiettiva applicazione della legge.

Alla luce del profilo considerato dal Giudice delle leggi non appare revocabile in dubbio considerare come il giudizio arbitrale “non si differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione” anche per ciò che attiene alla ricerca ed all’ermeneusi delle norme applicabili per ciascuna fattispecie.

In buona sostanza la Consulta chiarisce che il dubbio in ordine alla legittimità della legge da applicare, in linea di principio, non si connota come diverso rispetto ad ogni altro problema che investe chiunque sia chiamato ad esprimere una decisione giuridicamente corretta, di guisa che essendo anche le nome costituzionali parte essenziale del diritto che va applicato dall’arbitro – il quale né più né meno del giudice è tenuto all’assoluto dovere di interpretare le leggi in conformità al dettato costituzionale – non è dubbio che il giudizio dallo stesso espresso si configura come “potenzialmente fungibile con quello degli organi della giurisdizione”.

Ne discende, quindi, in termini di tutta evidenza, che all’arbitro spetta la piena possibilità di utilizzare “il sistema del sindacato incidentale sulle leggi”, viepiù che come più volte dalla stessa Corte costituzionale ribadito[27], perché si abbia “il giudizio a quo è sufficiente la sussistenza dell’esercizio di funzioni giudicanti da parte di soggetti pure estranei all’organizzazione della giurisdizione, purché super partes”.

Per il Giudice delle leggi, dunque, l’arbitro è un giudice che esercisce attività potenzialmente fungibili con quelle proprie del giudice della giurisdizione e che è tenuto ad applicare le regole tecniche del processo giurisdizionale (contraddittorio, imparzialità, corrispondenza tra domanda e decisione, divieto di pronuncia d’ufficio) e che, nella ermeneusi delle norme, opera in maniera e misura del tutto omologhe al giudice statuale tant’è che all’arbitro è riconosciuto il sindacato incidentale di costituzionalità delle norme.

In ragione della statuizione della Consulta nel processo arbitrale trovano ingresso ed applicazione, dunque, non soltanto le norme del codice di rito relative ai poteri del giudice, ma anche i principi costituzionali della giurisdizione e del giusto processo[28], nonché la garanzia ex art. 25 della Carta, relativa al giudice naturale, ovviamente con i funzionali e convenienti adattamenti connessi alla mancata precostituzione per legge dell’arbitro.

In buona sostanza, una volta correttamente investito della controversia, l’arbitro deve essere considerato come “giudice naturale”[29], giacché l’art. 5 del c.p.c. (che afferma il principio della perpetuatio jurisdictionis) è disposizione che non attribuisce né autorizza proroghe ad una competenza in senso tecnico del solo giudice statuale, ma si connota anche come norma che tende a preservare gli effetti prodotti da un atto di parte legittimamente eseguito sulla scorta della normazione vigente al momento dell’introduzione del giudizio.

Tutto ciò sta a significare che l’arbitro, ancorché soggetto giudicante non precostituito per legge, diventa, una volta correttamente investito della questione controversa, il giudice naturale della stessa, atteso – giusta quanto statuito dalla prefata sentenza della Corte costituzionale – che “non sussiste lesione del principio del giudice naturale in forza del principio enunciato dall’art. 5 del c.p.c. che esclude in radice la prospettata lesione”.

Nel rapporto arbitro-giudice, come si è già più volte avuto modo di riferire e di ricordare, più del profilo di carattere istituzionale ha rilievo il dato funzionale dell’attività che l’arbitro esercita: arbitro che come si è visto trova nella legge e segnatamente nelle decisive statuizioni della Corte costituzionale, il fondamento della propria legittimità.



[1] Attardi, Diritto processuale civile, I, Parte generale, Padova, 1999

[2] Menchini, Nuove forme di tutela e nuovi modi di risoluzione delle controversie: verso il superamento della necessità di accertamento con autorità di giudicato, in Riv.dir.proc., 2006, 869 e ss.

[3] Saletti, Del procedimento cautelare, in La riforma delle società. Il processo, a cura di B. Sassani, Torino, 2003; Longo, Del procedimento cautelare, in I procedimenti in materia commerciale. Commento sistematico al D.lgs. 17.1.2003 n°5 e successive modificazioni ed integrazioni, a cura di G. Costantino, Padova, 2005, 443 e ss.

[4] L. 18.6.2009 n°69

[5] Direttiva europea del 21.5.2008

[6] Biavati, Europa e processo civile, Torino, 2003

[7] Corte Cost., 2.5.1958 n° 35 e 12.2.1963 n°2

[8] Corte Cost., 14.7.1977 n°127; 27.12.1991 n°488; 8.56.2005 n°221

[9] Art. 24 della Carta

[10] Art. 824-bis c.p.c.

[11] Andolina, Costituzione europea e cooperazione giudiziaria in materia civile, in Riv. Dir. proc., 2005, 393 ess.

[12] Verdi, L’arbitrato e la giurisdizione ordinaria, in Diritto dell’arbitrato rituale, Torino, 2005, 1 e ss.

[13] Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, 772

[14] Corte Costituzionale, 28.11.2001 n°376

[15] Verde, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2006, 19 e ss.

[16] Acone, Arbitrato e competenza, in Riv. Arb., 1996, 239 e ss.

[17] Cass. SS.UU., 3.8.2000 n°527 in Riv. Arb., 2000, 699 e ss, con nota di Fazzalari, Una svolta attesa in ordine alla natura dell’arbitrato; ed in Riv. Dir. proc., 2001, 254 e ss., con nota di E.F. Ricci, La natura dell’arbitrato rituale e del relativo lodo: parlano le SS.UU.

[18] Cass. 27.11.2001 n°15023 in Riv. Dir. Proc., 2002, 1238 e ss, con nota di E.F. Ricci, La Cassazione insiste sulla natura negoziale del lodo arbitrale

[19] Bove, Ancora sui rapporti tra arbitro e giudice statale, in www.judicium § 4; Bove in Guida al diritto”, 8, 108 secondo il quale i “rapporti tra arbitro e giudice statale non sono inquadrabili come i rapporti di competenza intercorrenti tra i giudici statali”

[20] Andrioli, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1964, 843-844

[21] Ex plurimis, Cass. 30.8.2000 n°11404, in Giust. Civ. 2001, I, 2185, con nota di Vitale, zza del diritto sulla sindacabilità della competenza arbitrale; Cass. 30.7.2004 n°14557;

[22] Fazzalari, L’arbitrato, Torino 1997, 43

[23] Cass. SS.UU. 22.2.2007 n°4109

[24] Corte Costituzionale 12.3.2007 n°77

[25] Art. 59 della L.18.6.2009 n°69

[26] Verde, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2006

[27] Corte Cost., n°83/66; n°226/76; n°387/96

[28] Verde, Arbitrato e giurisdizione statale, in Lineamenti di Diritto dell’arbitrato rituale, Torino, 2006, pgf .7-8

[29] Cass. 10.2.2005 n°2709

Capponi, La legge processuale civile. Fonti interne e comunitarie (applicazioni e vicende) nel processo civile, Torino, 2004

L’aspetto della risoluzione delle controversie è il tema giuridico che, forse più di tutti, agita la società del nostro tempo, e come tale merita un particolare approfondimento, soprattutto in un momento in cui la sete di giustizia non risulta soddisfatta dall’andamento della giurisdizione statuale sempre più lontana, quanto meno sotto il profilo della tempestività e dell’adeguatezza, dalla esigenza di una concreta ed efficiente risposta che il cittadino, che ad essa si rivolge, si attende.

Le doglianze sui tempi biblici, sui costi, sulla rigidità e sull’incertezza dei risultati della giustizia ordinaria sono ormai un dato paradigmatico della disaffezione e della scarsa fiducia del cittadino nei confronti dell’ordinamento giudiziario, viepiù che il bisogno stesso di giustizia è indissolubilmente correlato all’idea di avere la garanzia funzionale di massima tesaurizzazione del fattore tempo.

È, infatti, sotto gli occhi di ognuno di noi e non soltanto degli operatori del diritto come, fra l’altro, nell’attuale realtà cronotopica, appaia sempre più difficile considerare l’attività di juris dicere come espressione esclusiva di un tetragono monopolio statuale.

Il continuo rimescolamento di attribuzioni fra giudice ordinario e giudice amministrativo in tema di diritti soggettivi, la massiccia presenza delle magistrature onorarie nell’ambito della giurisdizione ordinaria, la tutela offerta dalle Autorità indipendenti, il permanere nell’ordinamento degli organi speciali di giurisdizione, costituiscono la riprova più evidente dell’affievolimento di un paradigma di giurisdizione di stampo statalista per troppo tempo arroccato, almeno sotto il profilo tendenziale, sulle posizioni dei diritti con al centro il giudice ordinario.

Nella realtà ormai propria del mondo economico e dell’organizzazione degli interessi, soprattutto con riferimento a quelli peculiari del settore delle transazioni commerciali, si è fatta strada una nuova concezione che vuole vedere nel soggetto che esercita la funzione giudicante un organo indipendente ed imparziale che trova piena legittimazione nel proprio tessuto culturale, nella propria preparazione tecnico-professionale, la quale consente al medesimo di essere in grado di fornire risposte corrette alle vicende sottoposte al suo esame ed alla sua valutazione ermeneutica.

Alla luce di quanto evidenziato, appare evidente come l’attività e l’idea stessa di giurisdizione non possa più essere considerata come appannaggio della sola figura di giudice definito dalle leggi di ordinamento giudiziario.

Oggi persino l’essenza e la finalità della giurisdizione sui diritti appaiono del tutto lontane dalla concezione che identificava la giurisdizione con la formazione del giudicato[1] il cui valore appare addirittura recessivo, a fronte di forme di tutela che privilegiano l’efficacia esecutiva tipica dei provvedimenti sommari i quali godono di effetti di stabilità del tutto avulsi dalla tutela dichiarativa di stampo tradizionale[2].

Il provvedimento cautelare, infatti, non svolge più, a pena di inefficacia, una funzione di necessaria coordinazione con la tutela di merito, bensì spesso tende a vivere di luce propria, assumendo contenuto anticipatorio e non soltanto conservativo[3].

Va infatti evidenziato che siffatto nuovo schema ha oggi assunto pregnante carattere - anche se, in verità, con esiti non sempre felici - nei rapporti tra sospensione dell’esecuzione e opposizione all’esecuzione nella nuova formulazione dell’art.624 c.p.c.

A tutto questo va ancora soggiunto - viepiù a seguito dell’ultimo intervento in materia di contenzioso civile[4] con il quale il legislatore, attraverso la previsione di una nuova disciplina degli strumenti di conciliazione extragiudiziale, tenta di dare una risposta concreta, ma non certamente compiuta ed esaustiva, alla inefficienza del paradigma di giurisdizione di stampo statalista - che il diritto processuale civile subisce sempre di più gli influssi del diritto comunitario anche in forza di una paradigmatica direttiva europea[5] e delle sempre più incisive ed icastiche decisioni della Corte di giustizia e dello stesso Giudice delle leggi[6].

La giurisdizione oggi non può essere più considerata come funzione statuale esclusivamente diretta alla realizzazione del diritto oggettivamente considerato con riferimento al caso di specie, bensì soprattutto quale servizio pubblico indirizzato al componimento delle liti secundum jus nel cui contesto la definizione delle controversie che non si risolvono, attraverso accordi transattivi, nell’ambito dell’autonomia privata delle sfere giuridiche soggettive, fra le quali le medesime hanno avuto origine, può ben essere affidata oltre che agli organi della giurisdizione statuale anche, e con maggior proficuità, in termini di efficienza, ad istituzioni diverse dallo Stato di cui sia patente il carattere di terzietà e di imparzialità.

Nella delineata cornice si colloca l’istituto arbitrale, quale strumento di esercizio di azione alternativo alla giurisdizione statale per la risoluzione di controversie, il cui connotato caratterizzante è costituito da autonoma e pattizia scaturigine ed è regolato da una disciplina di chiaro stampo processuali stico, pariteticamente incentrata nella relazione con il diritto positivo naturalmente utilizzabile ai fini della decisione del caso concreto, ancorché non in toto assimilabile al concetto proprio di giurisdizione, che presuppone, invece, una indispensabile correlazione con la qualità di giudice ordinario dotato di munus pubblico per il suo esercizio.

A tal fine l’arbitrato (rituale) si sostanzia quale strumento efficiente, veloce, dinamico e flessibile, perfettamente in grado di coniugare tempi rapidi e capacità di giudizio a cui si aggiunge il dato di non secondaria importanza dell’indiscutibile vantaggio, rappresentato dal fatto oggettivo, che l’arbitro chiamato a giudicare la controversia sottoposta al suo esame è sempre una persona esperta della materia oggetto del contendere.

In tal senso, dunque, l’istituto arbitrale non è soltanto un’alternativa ad una giustizia obiettivamente in crisi, bensì l’evidente espressione della realtà di un sistema di regole procedurali che garantisce riservatezza e soprattutto elevata specializzazione ed esperienza da parte dei soggetti che svolgono la funzione di juris dicere propria degli arbitri.

Con riferimento ad esso istituto, la Corte costituzionale, abbandonando l’idea, formatasi tra la fine degli anni cinquanta e gli anni sessanta, espressa in due sue sentenze[7], secondo le quali la decisione arbitrale andava necessariamente convogliata nell’alveo della giurisdizione, sia pure ex post (attraverso il deposito del lodo presso la Pretura e la dichiarazione di esecutività del giudice che trasformava lo stesso in sentenza) ha rivisto la propria posizione con successive altre sentenze, e, a partire dal luglio 1977[8], ha evidenziato come, se è vero che tutti “… possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”[9], e ribadito altresì come lo Stato sia obbligato a definire l’organizzazione giudiziaria necessaria per garantire tale possibilità, secondo le modalità previste dall’art. 101 e ss. della Costituzione, è altrettanto vero che il cittadino non rimane obbligato a fare ricorso al sistema statuale di giurisdizione.

In ragione di ciò, il cittadino può, infatti, decidere di non tutelare i propri diritti, così come può decidere di tutelarli senza ricorrere alla giurisdizione statuale.

In buona sostanza il Giudice delle leggi, fermo restando la necessità della presenza, ex art. 24 della Carta, di una giurisdizione statuale, riconosce, in positivo, il fondamento dell’arbitrato nella sfera intangibile dell’autonomia privata che, però, si deve muovere entro i limiti del lecito possibile.

Restando nei limiti dell’arbitrato rituale, appare utile rivolgere l’attenzione sul rapporto che tale istituto riveste avendo riguardo alla giurisdizione, viepiù che dopo la riforma introdotta con il D.lgs. n°40 del 2006, l’efficacia del lodo rituale è stata del tutto parificata a quella della “sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria”[10].

Va subito detto che ancorché non spetti al legislatore il compito di determinare la natura dell’istituto[11], probabilmente come moto di reazione alla svolta di contenuto privatistico data all’istituto medesimo[12] dalla giurisprudenza di legittimità, il legislatore del D.lgs. n°40/06 ha voluto riaffermare la natura giurisdizionale quantomeno dell’atto conclusivo (lodo) dell’arbitrato, sul presupposto che sostenere che “sino al momento di sottoscrizione del lodo l’arbitrato è fenomeno privato non significa affatto escludere che esso possa essere fenomeno rilevante a taluni effetti nell’ordinamento statuale e financo giurisdizionale[13].

A dire il vero, però, l’azione del legislatore del 2006, nella formulazione della nuova disciplina, complessivamente considerata, presenta alcuni dati di contraddittorietà e di obiettiva non coerenza.

Invero del tutto dimenticando quanto asserito dalla Corte costituzionale nella celeberrima decisione che ha riconosciuto agli arbitri rituali la legittimazione a sollevare questioni di costituzionalità e secondo la quale “la discrezionalità di cui il legislatore sicuramente gode nella individuazione delle materie sottratte alla possibilità di compromesso incontra soltanto il limite della manifesta irragionevolezza”[14], ha introdotto la invero non condivisibile disposizione del novellato art. 806 c.p.c., secondo la quale il legislatore è abilitato ad imporre “un divieto di arbitrato” su diritti disponibili, rendendo di fatto sicuramente meno forte la prospettiva del ricorso a tale istituto, viepiù che omette di definire, una volta per tutte, il delicato rapporto tra giudice ed arbitro e, in pratica, rende più difficoltoso il percorso per giungere ad una pacifica comprensione dell’arbitrato e della giurisdizione.

Del pari va categoricamente escluso – al fine della chiarificazione del rapporto tra arbitro ed autorità giudiziaria – il ricorso allo schema proprio della competenza, viepiù che appare in termini di tutta evidenza che tanto il riferimento all’art.819-ter del D.lgs n°40/06 che la definizione stessa della competenza, considerata come “la quantità di potere giurisdizionale che spetta per legge a ciascun ufficio giudiziario nei confronti di altri uffici giudiziari del medesimo ordine”, consentono di affermare come non sia possibile collocare il rapporto arbitro-giudice nell’ambito del modello tecnico della competenza. E perché il concetto che esprime la definizione esclude l’arbitro e, perché, giusta quanto emerge dalla semplice lettura del ricordato art. 819-ter, in pendenza di procedimento arbitrale spetta unicamente all’arbitro la verifica della propria competenza ai sensi dell’art. 817 c.p.c., così come compete soltanto al giudice civile di conoscere, “prima dell’inizio del procedimento arbitrale”, dell’invalidità o dell’inefficacia della convenzione di arbitrato; sindacato, quest’ultimo, che presuppone non già l’ermeneusi di una norma, ma l’analisi di una fattispecie negoziale della quale vanno verificate, ad opera del giudice ordinario, la validità e l’efficacia.[15]

Persino la circostanza che, giammai il lodo, ma soltanto la sentenza che decide sulla competenza, può essere assoggettata al relativo regolamento (necessario o facoltativo), ex art. 819-ter, 2° comma, c.p.c., è situazione che, comunque, non ha effetto incidente alcuno sul rapporto arbitro-giudice, viepiù che appare decisamente esclusa ogni possibilità, finalizzata a salvaguardare gli effetti sostanziali e processuali della domanda, di riassunzione davanti all’organo che viene riconosciuto come legittimato a decidere[16].

Infatti, come è noto, dopo la decisione del giudice di legittimità che riconosce la competenza arbitrale o come è più corretto affermare, la incompetenza del giudice della giurisdizione, il giudizio medesimo non può continuare a svolgersi davanti all’arbitro, ma occorre instaurarne uno diverso e nuovo, atteso che la decisione della Suprema Corte va considerata, anzi rectius, è equiparata ad una cassazione senza rinvio della sentenza affermativa della competenza.

L’annosa e difficile questione del rapporto arbitro-giudice, quindi, anche in costanza ed alla luce della normazione del 2006 e del silenzio serbato sul tema dal legislatore del 2009, non appare in alcun modo dipanata nella sua intima e reale essenza, viepiù che, malgrado la sussistenza di una abbondanza di norme, prima fra tutte quella postulata dall’art. 817 c.p.c. - le quali continuano ed esprimersi in termini di competenza ed incompetenza - non appare inutile ricordare come vada preso atto, soprattutto da parte del legislatore, che continua a permanere, anzi ad incombere, l’assenza di una disciplina puntuale e definita nella elezione del regime da attribuire ad un rapporto che si presenta del tutto peculiare nella relazione, come quello tra arbitro e giudice, e che tenga nel debito conto l’obiettiva circostanza che per potere qualificare la competenza di un organo non precostituito per legge (quale è l’arbitro) è indispensabile conoscere della portata di un accordo negoziale di deroga alla competenza generale dell’organo (giudice), invece, normativamente precostituito.

Ricordato quanto detto, va però, riferito, per correttezza di esposizione, che, comunque, nella realtà cronotopica le espressioni del legislatore non hanno quasi mai condizionato la giurisprudenza.

In tal senso è sufficiente ricordare l’orientamento del giudice di legittimità che a SS.UU., nella ormai celeberrima decisione n°527/00[17] e successivamente, poi, confermato[18], il rapporto tra arbitro e giudice non può essere collocato nel c.d. modello della competenza, atteso che la potestas judicandi (legittimazione) dell’arbitro non sarebbe altro che una questione di merito relativa all’esistenza ed alla validità del patto di deroga alla giurisdizione ordinaria.

Il dictum arbitrale, secondo detto orientamento della giurisprudenza di legittimità, è, e resta, un atto di autonomia privata – derogatorio e non sostitutivo della giurisdizione – i cui effetti conseguono ad un giudizio compiuto da un soggetto il cui potere trova la sua scaturigine dall’investitura conferitagli dalle parti.

Conseguenza di siffatto ragionamento è, quindi, la impossibilità di considerare l’arbitro quale organo giurisdizionale e di qualificare il relativo procedimento come ontologicamente alternativo alla giurisdizione statuale.

Siffatto orientamento giurisprudenziale, però, giusta quanto, peraltro, si è già avuto occasione di ricordare in altra parte di questa nota, è stato decisamente avversato dal legislatore delegato del 2006, il quale – indipendente dalla condivisibilità o meno della scelta operata – ha indiscutibilmente dettato – con espresso riferimento al patto compromissorio ed al rilievo di incompetenza del giudice ordinario – una non equivoca disciplina in proposito, sicché se è vero non essere obiettivamente sostenibile che la corretta investitura dell’arbitro possa essere qualificata come mera questione di merito[19], è indiscutibilmente altrettanto rispondente al vero che, comunque, appare difficile definire il rapporto arbitro-giudice in termini di mera competenza, tecnicamente intesa.

Occorre convincersi, piuttosto, che si è in costanza di un regime particolare del tutto precipuamente orientato a garantire il rispetto dell’alterità dei termini di un rapporto – di per sè indiscutibilmente problematico – fra le due figure, peraltro ormai sempre più caratterizzato dal c.d. modello delle vie parallele (non sussistenza della priorità di una via rispetto all’altra)[20]; la pendenza della controversia in una sede non impedisce la proposizione della domanda nell’altra[21]; il raccordo tra le due vie avviene esclusivamente attraverso le rispettive decisioni[22]: cosa questa che esclude, anche in via di mera ermeneusi, qualsivoglia trasposizione di norme proprie del regime generale.

In realtà la peculiarità del modello più volte ricordato rende sempre più plausibile l’idea che il rapporto arbitro-giudice non possa mai avere come paradigma di riferimento lo schema proprio della competenza.

Non è inutile ricordare, infatti, che il lodo arbitrale, di per sè, non è soggetto ai rimedi propri delle decisioni in materia di competenza, bensì unicamente all’impugnazione per nullità.

Di contro le decisioni sulla competenza, benché soggette ad istanza di regolamento, sono sottoposte unicamente ad un sindacato di tipo cassatorio, eccezion fatta per il caso di declinatoria erroneamente dichiarata che, a seguito del positivo esperimento dell’impugnazione, ammette la prosecuzione del processo medesimo di fronte al giudice che per errore se ne era disfatto.

Alla luce di quanto espresso non appare revocabile in dubbio che l’inquadramento dell’arbitrato e delle problematiche ad esso riconnesse vanno analizzati secondo esperienza: ossia secondo quanto l’arbitro compie in concreto, piuttosto che secondo il dato formale di investitura in base al quale opera.

Quanto esposto sta a significare che, al di là dello sforzo fatto dal legislatore delegato del 2006, non è stato raggiunto alcun risultato in ordine alla definizione del rapporto arbitro-giudice.

E che purtroppo quella del 2006 sia stata a tutti gli effetti un’occasione perduta è testimoniato dall’obiettiva circostanza che tanto la Suprema Corte di Cassazione[23] che la Consulta[24] – quest’ultima allorquando ha dichiarato l’illegitttimità dell’art. 30 della L. 6.12.1971 n°1034 istitutiva dei TT.AA.RR. “nella parte in cui la stessa non prevedeva che gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione” – hanno affrontato il problema della traslatio judicii tra giudici e giurisdizioni diverse.

Né obiettivamente alcun ausilio alla risoluzione del problema fornisce il legislatore del 2009[25], atteso che il rapporto sulle questioni di giurisdizione delineato e definito dalla prefata normazione sia pur prevedendo due distinte ipotesi di decisione delle questioni di giurisdizione – quella secondo la quale l’indicazione del giudice munito di giurisdizione effettuata dalle SS.UU. della Suprema Corte di Cassazione costituisce vincolo per ogni giudice e per le parti anche in altro processo, e l’altra secondo la quale il giudice che dichiara il proprio difetto di giurisdizione ha l’obbligo di indicare il giudice che si ritiene munito di giurisdizione – non si preoccupa anzi addirittura omette ogni accenno agli arbitri, al relativo procedimento ed al rapporto arbitro-giudice.

Nel quadro prospettato va altresì posto in debito risalto che l’unico contributo al fine di giungere ad un’effettiva soluzione per la definizione del rapporto arbitro-giudice, a tutt’oggi è rappresentata dalla già ricordata, in altra parte di questa nota, decisione n°276/01 del Giudice delle leggi, a seguito della quale l’arbitro è stato ritenuto legittimato a sollevare l’incidente di costituzionalità.

L’essenziale risultato raggiunto dalla prefata sentenza, anche se sulla stessa sono piovute non poche critiche[26], risiede nel non secondario merito di riconoscere, una volta per tutte e definitivamente, “che l’arbitrato rituale costituisce un procedimento disciplinato dal c.p.c. per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto ai fini della risoluzione di una controversia con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione ordinaria”, ancorché gli arbitri medesimi non possano essere intesi quali giudici in senso soggettivo, ossia organi della giurisdizione statale.

Gli stessi sono, però, giudici in senso oggettivo, certamente estranei all’organizzazione della giurisdizione ma, al pari del giudice della giurisdizione, in posizione super partes nonché titolari dell’esercizio di funzioni giudicanti per l’obiettiva applicazione della legge.

Alla luce del profilo considerato dal Giudice delle leggi non appare revocabile in dubbio considerare come il giudizio arbitrale “non si differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione” anche per ciò che attiene alla ricerca ed all’ermeneusi delle norme applicabili per ciascuna fattispecie.

In buona sostanza la Consulta chiarisce che il dubbio in ordine alla legittimità della legge da applicare, in linea di principio, non si connota come diverso rispetto ad ogni altro problema che investe chiunque sia chiamato ad esprimere una decisione giuridicamente corretta, di guisa che essendo anche le nome costituzionali parte essenziale del diritto che va applicato dall’arbitro – il quale né più né meno del giudice è tenuto all’assoluto dovere di interpretare le leggi in conformità al dettato costituzionale – non è dubbio che il giudizio dallo stesso espresso si configura come “potenzialmente fungibile con quello degli organi della giurisdizione”.

Ne discende, quindi, in termini di tutta evidenza, che all’arbitro spetta la piena possibilità di utilizzare “il sistema del sindacato incidentale sulle leggi”, viepiù che come più volte dalla stessa Corte costituzionale ribadito[27], perché si abbia “il giudizio a quo è sufficiente la sussistenza dell’esercizio di funzioni giudicanti da parte di soggetti pure estranei all’organizzazione della giurisdizione, purché super partes”.

Per il Giudice delle leggi, dunque, l’arbitro è un giudice che esercisce attività potenzialmente fungibili con quelle proprie del giudice della giurisdizione e che è tenuto ad applicare le regole tecniche del processo giurisdizionale (contraddittorio, imparzialità, corrispondenza tra domanda e decisione, divieto di pronuncia d’ufficio) e che, nella ermeneusi delle norme, opera in maniera e misura del tutto omologhe al giudice statuale tant’è che all’arbitro è riconosciuto il sindacato incidentale di costituzionalità delle norme.

In ragione della statuizione della Consulta nel processo arbitrale trovano ingresso ed applicazione, dunque, non soltanto le norme del codice di rito relative ai poteri del giudice, ma anche i principi costituzionali della giurisdizione e del giusto processo[28], nonché la garanzia ex art. 25 della Carta, relativa al giudice naturale, ovviamente con i funzionali e convenienti adattamenti connessi alla mancata precostituzione per legge dell’arbitro.

In buona sostanza, una volta correttamente investito della controversia, l’arbitro deve essere considerato come “giudice naturale”[29], giacché l’art. 5 del c.p.c. (che afferma il principio della perpetuatio jurisdictionis) è disposizione che non attribuisce né autorizza proroghe ad una competenza in senso tecnico del solo giudice statuale, ma si connota anche come norma che tende a preservare gli effetti prodotti da un atto di parte legittimamente eseguito sulla scorta della normazione vigente al momento dell’introduzione del giudizio.

Tutto ciò sta a significare che l’arbitro, ancorché soggetto giudicante non precostituito per legge, diventa, una volta correttamente investito della questione controversa, il giudice naturale della stessa, atteso – giusta quanto statuito dalla prefata sentenza della Corte costituzionale – che “non sussiste lesione del principio del giudice naturale in forza del principio enunciato dall’art. 5 del c.p.c. che esclude in radice la prospettata lesione”.

Nel rapporto arbitro-giudice, come si è già più volte avuto modo di riferire e di ricordare, più del profilo di carattere istituzionale ha rilievo il dato funzionale dell’attività che l’arbitro esercita: arbitro che come si è visto trova nella legge e segnatamente nelle decisive statuizioni della Corte costituzionale, il fondamento della propria legittimità.



[1] Attardi, Diritto processuale civile, I, Parte generale, Padova, 1999

[2] Menchini, Nuove forme di tutela e nuovi modi di risoluzione delle controversie: verso il superamento della necessità di accertamento con autorità di giudicato, in Riv.dir.proc., 2006, 869 e ss.

[3] Saletti, Del procedimento cautelare, in La riforma delle società. Il processo, a cura di B. Sassani, Torino, 2003; Longo, Del procedimento cautelare, in I procedimenti in materia commerciale. Commento sistematico al D.lgs. 17.1.2003 n°5 e successive modificazioni ed integrazioni, a cura di G. Costantino, Padova, 2005, 443 e ss.

[4] L. 18.6.2009 n°69

[5] Direttiva europea del 21.5.2008

[6] Biavati, Europa e processo civile, Torino, 2003

[7] Corte Cost., 2.5.1958 n° 35 e 12.2.1963 n°2

[8] Corte Cost., 14.7.1977 n°127; 27.12.1991 n°488; 8.56.2005 n°221

[9] Art. 24 della Carta

[10] Art. 824-bis c.p.c.

[11] Andolina, Costituzione europea e cooperazione giudiziaria in materia civile, in Riv. Dir. proc., 2005, 393 ess.

[12] Verdi, L’arbitrato e la giurisdizione ordinaria, in Diritto dell’arbitrato rituale, Torino, 2005, 1 e ss.

[13] Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, 772

[14] Corte Costituzionale, 28.11.2001 n°376

[15] Verde, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2006, 19 e ss.

[16] Acone, Arbitrato e competenza, in Riv. Arb., 1996, 239 e ss.

[17] Cass. SS.UU., 3.8.2000 n°527 in Riv. Arb., 2000, 699 e ss, con nota di Fazzalari, Una svolta attesa in ordine alla natura dell’arbitrato; ed in Riv. Dir. proc., 2001, 254 e ss., con nota di E.F. Ricci, La natura dell’arbitrato rituale e del relativo lodo: parlano le SS.UU.

[18] Cass. 27.11.2001 n°15023 in Riv. Dir. Proc., 2002, 1238 e ss, con nota di E.F. Ricci, La Cassazione insiste sulla natura negoziale del lodo arbitrale

[19] Bove, Ancora sui rapporti tra arbitro e giudice statale, in www.judicium § 4; Bove in Guida al diritto”, 8, 108 secondo il quale i “rapporti tra arbitro e giudice statale non sono inquadrabili come i rapporti di competenza intercorrenti tra i giudici statali”

[20] Andrioli, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1964, 843-844

[21] Ex plurimis, Cass. 30.8.2000 n°11404, in Giust. Civ. 2001, I, 2185, con nota di Vitale, zza del diritto sulla sindacabilità della competenza arbitrale; Cass. 30.7.2004 n°14557;

[22] Fazzalari, L’arbitrato, Torino 1997, 43

[23] Cass. SS.UU. 22.2.2007 n°4109

[24] Corte Costituzionale 12.3.2007 n°77

[25] Art. 59 della L.18.6.2009 n°69

[26] Verde, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2006

[27] Corte Cost., n°83/66; n°226/76; n°387/96

[28] Verde, Arbitrato e giurisdizione statale, in Lineamenti di Diritto dell’arbitrato rituale, Torino, 2006, pgf .7-8

[29] Cass. 10.2.2005 n°2709

Capponi, La legge processuale civile. Fonti interne e comunitarie (applicazioni e vicende) nel processo civile, Torino, 2004