x

x

Le origini e l’evoluzione storica della legislazione antimafia

L’espressione “criminalità organizzata”, nel nostro Paese, evoca immediatamente l’idea di mafia e, più precisamente, dell’organizzazione mafiosa denominata “Cosa nostra”, radicata da molto tempo in Sicilia. Tra le organizzazioni criminali che operano in Italia, “Cosa nostra” ha indubbiamente un’importanza prevalente per la tradizione nel tempo e, soprattutto per la forza numerica che ha assunto nel territorio italiano e fuori di esso, per la capacità criminale che ha dimostrato di possedere e per l’enorme potenza finanziaria che ha raggiunto, venendo, in tal modo, a costituire il modello al quale s’ispirano le altre organizzazioni criminali.

Attraverso il tempo “Cosa nostra” ha subìto una notevole evoluzione nella struttura e negli scopi, ma ha sempre conservato alcune caratteristiche che la contraddistinguono dalle altre organizzazioni criminali; caratteristiche che sono ravvisabili, essenzialmente, nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, nell’estensione territoriale, nella durata e nella pervasività delle sue azioni, nella sua impermeabilità alle indagini giudiziarie e, infine, nella supposta, perdurante pericolosità degli associati.

Sulle origini della mafia si è molto discusso; talvolta sono state ricollegate addirittura ai Normanni, ai Vespri siciliani e, in tempi più prossimi, ai “Beati Paoli”, una setta segreta che nel seicento, calandosi sotto i cappucci dei monaci di San Francesco di Paola, si riuniva nei sotterranei di Palermo per tramare contro coloro che guidavano la città.

Tralasciando la ricerca delle lontane origini della mafia e concentrando l’attenzione sul modo in cui essa si è andata sviluppando nella Sicilia pre e post-unitaria, le ragioni del suddetto sviluppo si sono fatte risalire al bisogno dei latifondisti dell’isola, nell’epoca pre-unitaria, di ricorrere a un sistema di custodia e protezione della loro proprietà a carattere permanente. Nacque così la “guardiania” affidata a soggetti denominati “campieri”, scelti tra le persone che godevano di maggior rispetto per la loro fama di uomini capaci di scoraggiare qualsiasi attentato alla proprietà e, quindi, il più delle volte tra i soggetti violenti. D’altronde, i proprietari che si servivano di tali uomini, all’occorrenza dovevano proteggerli, anche quando, non di rado, essi si rendevano rei di misfatti.

Allo sviluppo della mafia contribuì anche il malgoverno borbonico, che rese possibile a questa associazione di presentarsi alla collettività in chiave antigovernativa.

Anche lo Stato unitario si mostrò debole e incapace di garantire una efficiente amministrazione e, soprattutto, una adeguata tutela dell’ordine pubblico.

Nei primi anni ottanta del milleottocento, in occasione della prima estensione del suffragio elettorale, la mafia dimostrò di essere in grado di orientare la vita politica sfruttando i legami elettorali tra alcuni deputati e gli elettori: ciò le consentì di entrare nella vita pubblica dell’isola e di intervenire sul campo economico.

Nel secondo dopoguerra, dopo l’esperienza del fascismo (che aveva condotto una forte azione di repressione nei confronti del livello militare della mafia ma non nei confronti del livello medio-alto della stessa, per paura di inimicarsi gli agrari), potenti capimafia vennero collocati ai vertici della vita politica dell’isola: nacque così un quadro di rapporti contrassegnato da legami di complicità tra mafia e pubblici poteri.

Il primo tentativo organico operato dal legislatore italiano per combattere più efficacemente, su tutto il territorio nazionale e in tutte le sue svariate forme di manifestazione, la criminalità di tipo mafioso, è costituito dalla legge 13 settembre 1982 n. 646, subito ribattezzata legge “antimafia”, il cui iter di approvazione è stato accelerato dalla sconvolgente serie di delitti di mafia avutasi tra il 1978 e il 1982, culminata con l’uccisione del prefetto di Palermo.

Il legislatore penale, fino a quel momento, non si era mai specificamente occupato della criminalità mafiosa, ritenendo implicitamente che per porvi rimedio fosse sufficiente la normativa comune. Invero, spesso si era parlato di delitti e di processi di mafia, ma tale espressione era stata adoperata in senso empirico e cioè, facendo riferimento ad una serie di delitti che potevano, in realtà, essere commessi da chiunque ed in qualsiasi contesto e che soltanto a posteriori, a causa dell’ambiente in cui si verificavano e delle modalità di esecuzione che li accompagnavano, potevano talvolta essere considerati di stampo mafioso. Nessuna disposizione di legge, invece, aveva sinora criminalizzato la “mafia” in quanto tale, come associazione, cioè, avente finalità più o meno illecite, ma non sempre necessariamente e palesemente delittuose in senso stretto. Per colpire il fenomeno mafioso indipendentemente ed anticipatamente rispetto alla commissione di specifici fatti criminosi, la magistratura, non disponendo di strumenti più idonei, aveva sempre dovuto far ricorso alla figura dell’associazione per delinquere, con risultati non sempre positivi.

Sul versante della disciplina penale sostanziale, le più significative innovazioni della legge antimafia riguardano l’introduzione di alcune figure di reato: quelle della “associazione di tipo mafioso” (art. 416 bis) e della “illecita concorrenza con minaccia o violenza” (art. 513 bis) inserite nel corpo del codice penale; e altre fattispecie incriminatrici dirette a colpire il comportamento di pubblici funzionari responsabili di favorire illecitamente le imprese mafiose, collocate nel testo riformato della legge n. 575 del 1965 in tema di misure di prevenzione.

Per quanto attiene, invece, alla normativa processuale il discorso è più complesso e si interseca con quello delle modifiche del sistema delle misure di prevenzione: l’art. 24 della legge, infatti, rendendo applicabili nei processi per il delitto di associazione di tipo mafioso le nuove disposizioni in materia di misure di prevenzione, finisce con l’ampliare enormemente i poteri coercitivi e di indagine del giudice e della polizia giudiziaria.

Il sistema delle misure di prevenzione è stato, in realtà, sottoposto a profonda revisione. Le innovazioni concernono, infatti, da un lato il potenziamento delle misure tradizionali di tipo personale, ad esempio attraverso l’aggravamento delle pene previste per i trasgressori degli obblighi derivanti dalla applicazione delle misure medesime, o la imposizione di una cauzione che funga da deterrente; e, dall’altro, la introduzione di nuove misure di tipo patrimoniale consistenti, come la confisca, persino in atti ablatori definitivi.

Un ulteriore gruppo di norme prevede, poi, una fitta rete di controlli, finalizzati all’accertamento di illeciti valutari, fiscali e societari, che devono essere effettuati dalla polizia tributaria a carico delle persone condannate per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., o nei cui confronti sia stata disposta una misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965 n. 575. A carico delle stesse persone, inoltre, sono sanciti – per la durata di dieci anni a partire dalla data in cui sono divenuti definitivi i provvedimenti che li riguardano – una serie di obblighi di natura fiscale, la cui trasgressione è penalmente sanzionata.

Sul piano processuale, anche per rendere più celeri i procedimenti per reati valutari, fiscali o societari contestati ad associati mafiosi o a soggetti indiziati di esserlo, sono state previste deroghe alla disposizioni comuni in materia di competenza e di connessione dei procedimenti.

È stata, infine, istituita per la durata di tre anni una Commissione parlamentare con il compito di verificare l’attuazione della legge antimafia e delle altre leggi dello Stato in riferimento al fenomeno mafioso e alle sue connessioni; di accertare la congruità della normativa vigente e della conseguente azione dei pubblici poteri, anche in relazione ai mutamenti del fenomeno mafioso, formulando proposte di carattere legislativo ed amministrativo ritenute opportune per rendere più incisiva l’iniziativa dello Stato; di riferire al Parlamento ogni volta che lo ritenga opportuno e comunque annualmente.

In realtà, è doveroso precisare che quando si parla di criminalità organizzata e di processi di criminalità organizzata, è difficile intendersi sul significato delle parole, in quanto il legislatore usa tali espressioni per indicare una certa specie di reati e processi senza fornirne una compiuta nozione. Né ha mai preso in considerazione l’ipotesi che un procedimento sorto come di “criminalità organizzata” possa, successivamente, non rivelarsi tale e tantomeno il fatto che spesso la linea di demarcazione tra i due tipi di procedimento è assai più labile ed incerta di quello che si potrebbe immaginare, sicché l’inquadramento nell’una o nell’altra categoria, con tutte le relative conseguenze, dipende esclusivamente dalle scelte, inevitabilmente affrettate, operate da uno o più pubblici ministeri al momento dell’iscrizione di una notitia criminis nel registro delle notizie di reato previsto dall’art. 335 c.p.p.

Eppure, dalla qualifica di “criminalità organizzata” attribuita o meno ad un determinato procedimento o ad un determinato reato discendono conseguenze giuridiche tutt’altro che irrilevanti.

Quando il legislatore deve adottare soluzioni normative adeguate ad un efficace perseguimento dei reati di criminalità organizzata, prende in considerazione anche forme di devianza non necessariamente collegate con l’agire mafioso, quali l’associazione finalizzata al traffico di droga o al sequestro di persona a scopo di estorsione ma, tuttavia, non c’è dubbio che la criminalità di tipo mafioso, o meglio, l’idea di mafia maturata soprattutto nelle esperienze giudiziarie degli anni Ottanta ha costituito il perno attorno al quale si è andata evolvendo una speciale normativa volta a contrastare il crimine organizzato.

Il processo penale non è certamente il luogo più adeguato né, tantomeno, il luogo esclusivo per la lotta contro il crimine organizzato, che deve invece svilupparsi specialmente prima e fuori del processo, dispiegandosi ai diversi livelli nei quali si collocano, più o meno indirettamente, i corrispondenti fattori criminogeni. Anzitutto, dunque, attraverso attività dirette al risanamento del tessuto sociale ed alla diffusione di un convinto costume di rispetto della legalità; quindi attraverso più specifici interventi politici ed amministrativi di contrasto alla crescita delle organizzazioni criminali.

È altrettanto vero, tuttavia, che quando la lotta alla criminalità organizzata si concretizza nel momento della repressione penale, e quindi necessariamente si svolge attraverso le forme del processo, la macchina processuale deve essere efficiente, cioè idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità. Anche, se del caso, attraverso l’adozione degli accorgimenti normativi indispensabili per fronteggiare i problemi derivanti, ad esempio, dalla elevata complessità delle indagini, o dalla difficoltà degli accertamenti probatori, o da particolari situazioni di turbamento della regolare attività processuale: tutte ipotesi che si profilano, di solito, proprio in rapporto ai procedimenti per delitti di criminalità organizzata.

La legge-delega approvata all’inizio del 1987, recante i principi ed i criteri direttivi a cui si sarebbe dovuto attenere il governo nell’emanazione del nuovo codice di procedura penale, parlava espressamente di “criminalità organizzata” soltanto in una direttiva (art. 2 n. 48), a proposito della maggior durata (“entro due anni”) delle indagini preliminari, mentre per il resto non emergevano esplicite aperture verso una diversificazione della disciplina normativa del futuro codice in funzione dei problemi posti da tali processi.

E questo spiega anche perché nel dettare le norme del nuovo codice di procedura penale, il legislatore delegato, e ancor prima la Commissione ministeriale redigente, sotto la guida di Gian Domenico Pisapia, pur non ignorando le relative esigenze (come dimostra l’incarico, conferito ad una apposita Commissione presieduta da Antonino Caponnetto, dello studio dei “problemi sostanziali e processuali posti dai grandi processi in tema di criminalità organizzata”) non abbiano riservato particolare attenzione alla tematica in questione. A parte la disposizione che, derogando al consueto limite dei diciotto mesi, in ossequio alla ricordata direttiva della legge-delega, individuava in due anni la durata massima delle indagini preliminari per alcune figure di reato riconducibili all’ambito della criminalità organizzata (art. 407 comma 2 lett. A c.p.p.) , il testo originario del codice non conteneva altre disposizioni specificamente dirette a discostarsi dall’originaria disciplina nei procedimenti aventi ad oggetto tali reati. Anche se, per la verità, non mancavano singole norme o gruppi di norme che, pur senza specifico riferimento ai reati tipici delle organizzazioni criminali, riflettevano una scelta legislativa consapevole dei problemi e delle difficoltà poste dai procedimenti in quel settore. Tali, ad esempio, le previsioni dettate in materia di indagini collegate, allo scopo di favorire il coordinamento tra diversi uffici del pubblico ministero (art. 371 c.p.p.); in materia di incidente probatorio, allo scopo di consentire la formazione anticipata della prova al riparo dal pericolo di condizionamenti inquinanti (art. 392 lett. b c.p.p.) o dal rischio di vanificazione dello sviluppo delle indagini (art. 397 c.p.p.); ed ancora in materia di utilizzabilità e di valutazione delle dichiarazioni provenienti dai collaboratori di giustizia (art. 192 c. 3), anche se processati in via separata (art. 210 c.p.p.), e pur quando fossero state rese nel corso di un diverso procedimento (art. 238 c.p.p.).

Prescindendo dalle poche previsioni emergenti nel tessuto del codice mancavano, infatti, nell’architettura originaria del nuovo sistema processuale, sia una visione d’insieme delle esigenze rese manifeste dalle inchieste e dai processi per delitti di criminalità organizzata, sia, la prefigurazione di un adeguata strategia per affrontare, attraverso idonei strumenti normativi ed operativi, le suddette esigenze. E, del resto, come abbiamo già ricordato, mancava e manca ancora nello stesso corpus normativo una precisa individuazione dell’area dei delitti di “criminalità organizzata”.

Il legislatore del processo penale ha, nel corso del tempo, tracciato una sorta di regime differenziato per i procedimenti relativi ai delitti di criminalità organizzata, ed è ormai ricorrente l’opinione per la quale il nostro sistema processuale si caratterizzi in funzione di un cosiddetto doppio binario procedimentale. A ciò il legislatore è pervenuto facendo leva su tre categorie di fattispecie criminose, l’una di tipo concettuale – che è quella, più volte ribadita, dei delitti di criminalità organizzata – e le altre di tipo descrittivo, avendo queste riferimento da un lato ai delitti catalogati nell’art. 275 c. 3 c.p.p. e dall’altro alla più ristretta fascia di delitti che, pur compresi in quella catalogazione, sono richiamati dall’art. 51 comma 3-bis c.p.p. (delitti di mafia).

A queste categorie il legislatore fa riferimento anche in disposizioni extraprocessuali: di qui l’esigenza di verificare se la classe dei delitti descritti, con terminologia piuttosto vaga e di sapore sociologico, come di criminalità organizzata, coincida o meno con quelli inseriti nelle altre due classi o in una – quella più ampia – di esse.

Sotto un profilo ricognitivo si rileva che la locuzione “delitti di criminalità organizzata” (che trova la sua origine nell’art. 14 d.l. 15 dicembre 1979 n. 625, convertito, con modificazioni, dalla l. 6 febbraio 1980 n. 15 che sostituiva l’ultimo comma dell’art. 340 c.p.p. abr.) è usata, nel codice di procedura penale, anzitutto con riferimento alla descrizione della esigenza cautelare prevista dall’art. 274 lett. c (“quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità dell’imputato, vi è il concreto pericolo che questi commetta […] delitti di criminalità organizzata”) e ancora con riferimento alla non operatività della sospensione dei termini delle indagini preliminari “nei procedimenti per reati di criminalità organizzata” (art. 21-bis d.l. 8 giugno 1992 n. 306, in relazione all’art. 240-bis disp. att. c.p.p.).

La locuzione ricorre anche nel processo penale a carico di imputati minorenni, ove, nell’art. 37 comma 2 d.p.r. 22 settembre 1988 n. 448, in tema di applicazione provvisoria di misure di sicurezza, si richiamano i “gravi delitti di criminalità organizzata”, introducendosi così una sorta di “graduatoria” all’interno della categoria, il che rende ancora più problematica la sua esatta comprensione. Inoltre, l’art. 13 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, modificato dall’art. 3-bis comma 2 d.l. 8 giugno 1992 n. 306, fa ricorso alla nozione qui considerata per introdurre uno specifico regime per l’intercettazione, anche ambientale.

Tuttavia, come già ricordato, l’espressione “criminalità organizzata” è usata anche in altre fonti. In via meramente esemplificativa si ricordano: l’art. 1-sexies d.l. 6 settembre 1982 n. 629 convertito, con modificazioni, dalla l. 12 ottobre 1982 n. 726, ove si fa riferimento, in relazione ai poteri dell’Alto Commissario antimafia, alla “criminalità di tipo mafioso”; l’art. 1 d.l. 31 maggio 1991 n. 221, che individua un presupposto per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali nei “collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata”; l’art. 12 d.l. 13 maggio 1991 n. 152 che prevede la costituzione di servizi centrali e interprovinciali delle varie forze di polizia “per assicurare il collegamento delle attività investigative relative a delitti di criminalità organizzata”, servizi dei quali il pubblico ministero deve avvalersi quando “procede a indagini per delitti di criminalità organizzata”; gli artt. 2 e 3 d.l. 29 ottobre 1991 n. 345 convertito, con modificazioni, dalla l. 30 dicembre 1991 n. 410, che, nel quadro di disposizioni urgenti per il coordinamento delle attività informative ed investigative nella lotta contro la criminalità organizzata”, oltre ad istituire il “consiglio generale per la lotta alla criminalità organizzata”, fanno riferimento ai “gruppi criminali organizzati”, alle “organizzazioni criminali” e alla “criminalità organizzata”; l’art. 4-bis ord. penit., modificato dall’art. 15 d.l. 8 giugno 1992 n. 306, che, in relazione alla concedibilità di benefici penitenziari, richiama “l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”; l’art. 18-bis ord. penit., introdotto dall’art. 16 c. 3 di quest’ultimo decreto, che disciplina i colloqui investigativi, funzionali all’acquisizione di informazioni utili per la “prevenzione e repressione dei delitti di criminalità organizzata”.

La seconda categoria di delitti, questa volta espressamente catalogati, è individuata, come già detto, dall’art. 275 comma 3 c.p.p., quale risulta dalle modificazioni apportate dall’art. 5 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, e poi dall’art. 7 d.l. 9 settembre 1991 n. 292 convertito, con modificazioni, dalla l. 8 novembre 1991 n. 356.

Essa era, in origine, funzionale alla selezione di una serie di delitti per i quali veniva stabilito un differenziato regime circa i criteri di scelta delle misure cautelari personali; infatti per tali delitti quando sussistono gravi indizi di colpevolezza, “è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”.

La categoria ora ricordata è stata, peraltro, successivamente utilizzata dal legislatore anche per perseguire ulteriori e diversi obiettivi. Così, nell’ambito processuale, il richiamo a quella classe di reati è operato dall’art. 347 c. 3 c.p.p. (il cui primo periodo è stato sostituito dall’art. 4 c. 1 d.l. 8 giugno 1992 n. 306) per imporre alla polizia giudiziaria l’obbligo di comunicare “immediatamente anche in forma orale” la notizia di reato ; dall’art. 405 c. 2 c.p.p. (il cui ultimo periodo è stato aggiunto dall’art. 6 c. 1 di quest’ultimo decreto legge) che fissa, per quei delitti, in un anno, anziché in sei mesi, il termine iniziale per lo svolgimento delle indagini; dall’art. 407 c. 2 lett. a c.p.p. (sostituito dall’art. 6 c. 3 dello stesso decreto) che stabilisce in due anni il termine di durata massima delle indagini sia per i delitti indicati nell’art. 275 c. 3 c.p.p. che per quello previsto dall’art. 416 c.p. nei casi in cui è obbligatorio l’arresto in flagranza.

Anche la terza categoria di delitti, quelli cosiddetti “di mafia”, originariamente individuata, mediante l’art. 51 comma 3-bis c.p.p. (aggiunto dall’art. 3 d.l. 20 novembre 1991 n. 367), al fine di determinare l’ambito di legittimazione alle indagini della procura distrettuale, è stata richiamata ad altri fini dal legislatore del processo: così dall’art. 190-bis c.p.p. (aggiunto dall’art. 3 comma 3 d.l. 8 giugno 1992 n. 306) per stabilire i “requisiti della prova in casi particolari”; dall’art. 295 c.p.p. al fine di prevedere, come già ricordato, la possibilità di ricorrere anche all’intercettazione ambientale per agevolare le ricerche del latitante; dall’art. 406 c. 5-bis c.p.p. per regolare la proroga senza contraddittorio del termine delle indagini preliminari. È, infine, da ricordare che a quella categoria di delitti fanno riferimento gli artt. 25-bis e ter d.l. 8 giugno 1992 n. 306 che disciplinano, rispettivamente, la “perquisizione degli edifici” e le “intercettazioni preventive”. Volendo procedere ad una soluzione della questione considerata, il percorso interpretativo preferibile è quello collegato alle previsioni in tema di avocazione (artt. 371-bis comma 3 lett. h e 372 comma 1-bis c.p.p.): se, infatti, l’esigenza di rendere effettivo il collegamento delle indagini è un obiettivo primario che il legislatore vuole perseguire nel caso di delitti intesi come manifestazione del crimine organizzato e se l’avocazione è l’istituto predisposto per assolvere a tale esigenza, la sua previsione in ordine a determinati delitti vale come possibile “guida” normativa per l’individuazione dei reati di criminalità organizzata. Nel senso, cioè, che quelli indicati nell’art. 51 comma 3-bis c.p.p., per i quali è possibile l’avocazione da parte del procuratore nazionale antimafia, individuano i delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso”, mentre quelli catalogati nell’art. 372 c. 1-bis c.p.p., per i quali è prevista l’avocazione da parte del procuratore generale presso la corte d’appello, indicano i “delitti di criminalità organizzata eversiva e comune”.

Una precisazione è opportuna: la categoria dei cosiddetti “delitti di mafia”, a cui più volte si è fatto riferimento, secondo una pregevole analisi , comprende sia i delitti mafiosi in senso stretto (come quello previsto dall’art. 416-bis c.p. e quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo ovvero al fine di agevolare le attività delle associazioni di tipo mafioso) sia quelli potenzialmente mafiosi (previsti dagli artt. 630 c.p. e 74 d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309). Per questi ultimi si pongono maggiori difficoltà interpretative, in quanto per gli stessi l’indice di mafiosità viene desunto dalle modalità di commissione o dalla finalità di agevolare l’associazione di tipo mafioso: in questa classe di delitti potrebbe, quindi, astrattamente confluire qualsiasi tipo di delitto (con esclusione quindi delle contravvenzioni), anche se, concretamente, si tratterà dei delitti connotati dalla minaccia o dalla violenza, sia alle persone che sulle cose.

Ci si è chiesti, inoltre, se i delitti in questione richiedano necessariamente quale soggetto attivo un associato mafioso o più associati in concorso tra loro, nel quadro delle attività del sodalizio. Una parte della dottrina ha risposto positivamente all’interrogativo ora prospettato, ma è stato obiettato che, ad esempio, a favore dell’inserimento nella categoria in questione di un delitto (nella specie: estorsione) commesso da un soggetto che, pur non essendo affiliato all’organizzazione criminale operante su quel territorio, rivendichi la propria appartenenza al gruppo criminale, caricando di intensità mafiosa la propria condotta criminosa, operano diverse considerazioni: a parte il dato testuale, che non opera alcun riferimento all’associato, va rilevato come, nel caso prospettato, la vittima del reato abbia colto la minaccia nella sua portata intimidatrice mafiosa, così come se provenisse da un affiliato alla cosca. Un ulteriore argomento è deducibile dai lavori preparatori del d.l. 31 dicembre 1991 n. 419 (istituzione del fondo per il sostegno per le vittime delle richieste estorsive) convertito con modificazioni, dalla l. 18 febbraio 1992 n. 172, il cui testo originario prevedeva la nuova fattispecie di “altre attività estorsive” mediante la quale veniva punito che realizzava profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri “avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis del codice penale”.

L’espressione “criminalità organizzata”, nel nostro Paese, evoca immediatamente l’idea di mafia e, più precisamente, dell’organizzazione mafiosa denominata “Cosa nostra”, radicata da molto tempo in Sicilia. Tra le organizzazioni criminali che operano in Italia, “Cosa nostra” ha indubbiamente un’importanza prevalente per la tradizione nel tempo e, soprattutto per la forza numerica che ha assunto nel territorio italiano e fuori di esso, per la capacità criminale che ha dimostrato di possedere e per l’enorme potenza finanziaria che ha raggiunto, venendo, in tal modo, a costituire il modello al quale s’ispirano le altre organizzazioni criminali.

Attraverso il tempo “Cosa nostra” ha subìto una notevole evoluzione nella struttura e negli scopi, ma ha sempre conservato alcune caratteristiche che la contraddistinguono dalle altre organizzazioni criminali; caratteristiche che sono ravvisabili, essenzialmente, nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, nell’estensione territoriale, nella durata e nella pervasività delle sue azioni, nella sua impermeabilità alle indagini giudiziarie e, infine, nella supposta, perdurante pericolosità degli associati.

Sulle origini della mafia si è molto discusso; talvolta sono state ricollegate addirittura ai Normanni, ai Vespri siciliani e, in tempi più prossimi, ai “Beati Paoli”, una setta segreta che nel seicento, calandosi sotto i cappucci dei monaci di San Francesco di Paola, si riuniva nei sotterranei di Palermo per tramare contro coloro che guidavano la città.

Tralasciando la ricerca delle lontane origini della mafia e concentrando l’attenzione sul modo in cui essa si è andata sviluppando nella Sicilia pre e post-unitaria, le ragioni del suddetto sviluppo si sono fatte risalire al bisogno dei latifondisti dell’isola, nell’epoca pre-unitaria, di ricorrere a un sistema di custodia e protezione della loro proprietà a carattere permanente. Nacque così la “guardiania” affidata a soggetti denominati “campieri”, scelti tra le persone che godevano di maggior rispetto per la loro fama di uomini capaci di scoraggiare qualsiasi attentato alla proprietà e, quindi, il più delle volte tra i soggetti violenti. D’altronde, i proprietari che si servivano di tali uomini, all’occorrenza dovevano proteggerli, anche quando, non di rado, essi si rendevano rei di misfatti.

Allo sviluppo della mafia contribuì anche il malgoverno borbonico, che rese possibile a questa associazione di presentarsi alla collettività in chiave antigovernativa.

Anche lo Stato unitario si mostrò debole e incapace di garantire una efficiente amministrazione e, soprattutto, una adeguata tutela dell’ordine pubblico.

Nei primi anni ottanta del milleottocento, in occasione della prima estensione del suffragio elettorale, la mafia dimostrò di essere in grado di orientare la vita politica sfruttando i legami elettorali tra alcuni deputati e gli elettori: ciò le consentì di entrare nella vita pubblica dell’isola e di intervenire sul campo economico.

Nel secondo dopoguerra, dopo l’esperienza del fascismo (che aveva condotto una forte azione di repressione nei confronti del livello militare della mafia ma non nei confronti del livello medio-alto della stessa, per paura di inimicarsi gli agrari), potenti capimafia vennero collocati ai vertici della vita politica dell’isola: nacque così un quadro di rapporti contrassegnato da legami di complicità tra mafia e pubblici poteri.

Il primo tentativo organico operato dal legislatore italiano per combattere più efficacemente, su tutto il territorio nazionale e in tutte le sue svariate forme di manifestazione, la criminalità di tipo mafioso, è costituito dalla legge 13 settembre 1982 n. 646, subito ribattezzata legge “antimafia”, il cui iter di approvazione è stato accelerato dalla sconvolgente serie di delitti di mafia avutasi tra il 1978 e il 1982, culminata con l’uccisione del prefetto di Palermo.

Il legislatore penale, fino a quel momento, non si era mai specificamente occupato della criminalità mafiosa, ritenendo implicitamente che per porvi rimedio fosse sufficiente la normativa comune. Invero, spesso si era parlato di delitti e di processi di mafia, ma tale espressione era stata adoperata in senso empirico e cioè, facendo riferimento ad una serie di delitti che potevano, in realtà, essere commessi da chiunque ed in qualsiasi contesto e che soltanto a posteriori, a causa dell’ambiente in cui si verificavano e delle modalità di esecuzione che li accompagnavano, potevano talvolta essere considerati di stampo mafioso. Nessuna disposizione di legge, invece, aveva sinora criminalizzato la “mafia” in quanto tale, come associazione, cioè, avente finalità più o meno illecite, ma non sempre necessariamente e palesemente delittuose in senso stretto. Per colpire il fenomeno mafioso indipendentemente ed anticipatamente rispetto alla commissione di specifici fatti criminosi, la magistratura, non disponendo di strumenti più idonei, aveva sempre dovuto far ricorso alla figura dell’associazione per delinquere, con risultati non sempre positivi.

Sul versante della disciplina penale sostanziale, le più significative innovazioni della legge antimafia riguardano l’introduzione di alcune figure di reato: quelle della “associazione di tipo mafioso” (art. 416 bis) e della “illecita concorrenza con minaccia o violenza” (art. 513 bis) inserite nel corpo del codice penale; e altre fattispecie incriminatrici dirette a colpire il comportamento di pubblici funzionari responsabili di favorire illecitamente le imprese mafiose, collocate nel testo riformato della legge n. 575 del 1965 in tema di misure di prevenzione.

Per quanto attiene, invece, alla normativa processuale il discorso è più complesso e si interseca con quello delle modifiche del sistema delle misure di prevenzione: l’art. 24 della legge, infatti, rendendo applicabili nei processi per il delitto di associazione di tipo mafioso le nuove disposizioni in materia di misure di prevenzione, finisce con l’ampliare enormemente i poteri coercitivi e di indagine del giudice e della polizia giudiziaria.

Il sistema delle misure di prevenzione è stato, in realtà, sottoposto a profonda revisione. Le innovazioni concernono, infatti, da un lato il potenziamento delle misure tradizionali di tipo personale, ad esempio attraverso l’aggravamento delle pene previste per i trasgressori degli obblighi derivanti dalla applicazione delle misure medesime, o la imposizione di una cauzione che funga da deterrente; e, dall’altro, la introduzione di nuove misure di tipo patrimoniale consistenti, come la confisca, persino in atti ablatori definitivi.

Un ulteriore gruppo di norme prevede, poi, una fitta rete di controlli, finalizzati all’accertamento di illeciti valutari, fiscali e societari, che devono essere effettuati dalla polizia tributaria a carico delle persone condannate per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., o nei cui confronti sia stata disposta una misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965 n. 575. A carico delle stesse persone, inoltre, sono sanciti – per la durata di dieci anni a partire dalla data in cui sono divenuti definitivi i provvedimenti che li riguardano – una serie di obblighi di natura fiscale, la cui trasgressione è penalmente sanzionata.

Sul piano processuale, anche per rendere più celeri i procedimenti per reati valutari, fiscali o societari contestati ad associati mafiosi o a soggetti indiziati di esserlo, sono state previste deroghe alla disposizioni comuni in materia di competenza e di connessione dei procedimenti.

È stata, infine, istituita per la durata di tre anni una Commissione parlamentare con il compito di verificare l’attuazione della legge antimafia e delle altre leggi dello Stato in riferimento al fenomeno mafioso e alle sue connessioni; di accertare la congruità della normativa vigente e della conseguente azione dei pubblici poteri, anche in relazione ai mutamenti del fenomeno mafioso, formulando proposte di carattere legislativo ed amministrativo ritenute opportune per rendere più incisiva l’iniziativa dello Stato; di riferire al Parlamento ogni volta che lo ritenga opportuno e comunque annualmente.

In realtà, è doveroso precisare che quando si parla di criminalità organizzata e di processi di criminalità organizzata, è difficile intendersi sul significato delle parole, in quanto il legislatore usa tali espressioni per indicare una certa specie di reati e processi senza fornirne una compiuta nozione. Né ha mai preso in considerazione l’ipotesi che un procedimento sorto come di “criminalità organizzata” possa, successivamente, non rivelarsi tale e tantomeno il fatto che spesso la linea di demarcazione tra i due tipi di procedimento è assai più labile ed incerta di quello che si potrebbe immaginare, sicché l’inquadramento nell’una o nell’altra categoria, con tutte le relative conseguenze, dipende esclusivamente dalle scelte, inevitabilmente affrettate, operate da uno o più pubblici ministeri al momento dell’iscrizione di una notitia criminis nel registro delle notizie di reato previsto dall’art. 335 c.p.p.

Eppure, dalla qualifica di “criminalità organizzata” attribuita o meno ad un determinato procedimento o ad un determinato reato discendono conseguenze giuridiche tutt’altro che irrilevanti.

Quando il legislatore deve adottare soluzioni normative adeguate ad un efficace perseguimento dei reati di criminalità organizzata, prende in considerazione anche forme di devianza non necessariamente collegate con l’agire mafioso, quali l’associazione finalizzata al traffico di droga o al sequestro di persona a scopo di estorsione ma, tuttavia, non c’è dubbio che la criminalità di tipo mafioso, o meglio, l’idea di mafia maturata soprattutto nelle esperienze giudiziarie degli anni Ottanta ha costituito il perno attorno al quale si è andata evolvendo una speciale normativa volta a contrastare il crimine organizzato.

Il processo penale non è certamente il luogo più adeguato né, tantomeno, il luogo esclusivo per la lotta contro il crimine organizzato, che deve invece svilupparsi specialmente prima e fuori del processo, dispiegandosi ai diversi livelli nei quali si collocano, più o meno indirettamente, i corrispondenti fattori criminogeni. Anzitutto, dunque, attraverso attività dirette al risanamento del tessuto sociale ed alla diffusione di un convinto costume di rispetto della legalità; quindi attraverso più specifici interventi politici ed amministrativi di contrasto alla crescita delle organizzazioni criminali.

È altrettanto vero, tuttavia, che quando la lotta alla criminalità organizzata si concretizza nel momento della repressione penale, e quindi necessariamente si svolge attraverso le forme del processo, la macchina processuale deve essere efficiente, cioè idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità. Anche, se del caso, attraverso l’adozione degli accorgimenti normativi indispensabili per fronteggiare i problemi derivanti, ad esempio, dalla elevata complessità delle indagini, o dalla difficoltà degli accertamenti probatori, o da particolari situazioni di turbamento della regolare attività processuale: tutte ipotesi che si profilano, di solito, proprio in rapporto ai procedimenti per delitti di criminalità organizzata.

La legge-delega approvata all’inizio del 1987, recante i principi ed i criteri direttivi a cui si sarebbe dovuto attenere il governo nell’emanazione del nuovo codice di procedura penale, parlava espressamente di “criminalità organizzata” soltanto in una direttiva (art. 2 n. 48), a proposito della maggior durata (“entro due anni”) delle indagini preliminari, mentre per il resto non emergevano esplicite aperture verso una diversificazione della disciplina normativa del futuro codice in funzione dei problemi posti da tali processi.

E questo spiega anche perché nel dettare le norme del nuovo codice di procedura penale, il legislatore delegato, e ancor prima la Commissione ministeriale redigente, sotto la guida di Gian Domenico Pisapia, pur non ignorando le relative esigenze (come dimostra l’incarico, conferito ad una apposita Commissione presieduta da Antonino Caponnetto, dello studio dei “problemi sostanziali e processuali posti dai grandi processi in tema di criminalità organizzata”) non abbiano riservato particolare attenzione alla tematica in questione. A parte la disposizione che, derogando al consueto limite dei diciotto mesi, in ossequio alla ricordata direttiva della legge-delega, individuava in due anni la durata massima delle indagini preliminari per alcune figure di reato riconducibili all’ambito della criminalità organizzata (art. 407 comma 2 lett. A c.p.p.) , il testo originario del codice non conteneva altre disposizioni specificamente dirette a discostarsi dall’originaria disciplina nei procedimenti aventi ad oggetto tali reati. Anche se, per la verità, non mancavano singole norme o gruppi di norme che, pur senza specifico riferimento ai reati tipici delle organizzazioni criminali, riflettevano una scelta legislativa consapevole dei problemi e delle difficoltà poste dai procedimenti in quel settore. Tali, ad esempio, le previsioni dettate in materia di indagini collegate, allo scopo di favorire il coordinamento tra diversi uffici del pubblico ministero (art. 371 c.p.p.); in materia di incidente probatorio, allo scopo di consentire la formazione anticipata della prova al riparo dal pericolo di condizionamenti inquinanti (art. 392 lett. b c.p.p.) o dal rischio di vanificazione dello sviluppo delle indagini (art. 397 c.p.p.); ed ancora in materia di utilizzabilità e di valutazione delle dichiarazioni provenienti dai collaboratori di giustizia (art. 192 c. 3), anche se processati in via separata (art. 210 c.p.p.), e pur quando fossero state rese nel corso di un diverso procedimento (art. 238 c.p.p.).

Prescindendo dalle poche previsioni emergenti nel tessuto del codice mancavano, infatti, nell’architettura originaria del nuovo sistema processuale, sia una visione d’insieme delle esigenze rese manifeste dalle inchieste e dai processi per delitti di criminalità organizzata, sia, la prefigurazione di un adeguata strategia per affrontare, attraverso idonei strumenti normativi ed operativi, le suddette esigenze. E, del resto, come abbiamo già ricordato, mancava e manca ancora nello stesso corpus normativo una precisa individuazione dell’area dei delitti di “criminalità organizzata”.

Il legislatore del processo penale ha, nel corso del tempo, tracciato una sorta di regime differenziato per i procedimenti relativi ai delitti di criminalità organizzata, ed è ormai ricorrente l’opinione per la quale il nostro sistema processuale si caratterizzi in funzione di un cosiddetto doppio binario procedimentale. A ciò il legislatore è pervenuto facendo leva su tre categorie di fattispecie criminose, l’una di tipo concettuale – che è quella, più volte ribadita, dei delitti di criminalità organizzata – e le altre di tipo descrittivo, avendo queste riferimento da un lato ai delitti catalogati nell’art. 275 c. 3 c.p.p. e dall’altro alla più ristretta fascia di delitti che, pur compresi in quella catalogazione, sono richiamati dall’art. 51 comma 3-bis c.p.p. (delitti di mafia).

A queste categorie il legislatore fa riferimento anche in disposizioni extraprocessuali: di qui l’esigenza di verificare se la classe dei delitti descritti, con terminologia piuttosto vaga e di sapore sociologico, come di criminalità organizzata, coincida o meno con quelli inseriti nelle altre due classi o in una – quella più ampia – di esse.

Sotto un profilo ricognitivo si rileva che la locuzione “delitti di criminalità organizzata” (che trova la sua origine nell’art. 14 d.l. 15 dicembre 1979 n. 625, convertito, con modificazioni, dalla l. 6 febbraio 1980 n. 15 che sostituiva l’ultimo comma dell’art. 340 c.p.p. abr.) è usata, nel codice di procedura penale, anzitutto con riferimento alla descrizione della esigenza cautelare prevista dall’art. 274 lett. c (“quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità dell’imputato, vi è il concreto pericolo che questi commetta […] delitti di criminalità organizzata”) e ancora con riferimento alla non operatività della sospensione dei termini delle indagini preliminari “nei procedimenti per reati di criminalità organizzata” (art. 21-bis d.l. 8 giugno 1992 n. 306, in relazione all’art. 240-bis disp. att. c.p.p.).

La locuzione ricorre anche nel processo penale a carico di imputati minorenni, ove, nell’art. 37 comma 2 d.p.r. 22 settembre 1988 n. 448, in tema di applicazione provvisoria di misure di sicurezza, si richiamano i “gravi delitti di criminalità organizzata”, introducendosi così una sorta di “graduatoria” all’interno della categoria, il che rende ancora più problematica la sua esatta comprensione. Inoltre, l’art. 13 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, modificato dall’art. 3-bis comma 2 d.l. 8 giugno 1992 n. 306, fa ricorso alla nozione qui considerata per introdurre uno specifico regime per l’intercettazione, anche ambientale.

Tuttavia, come già ricordato, l’espressione “criminalità organizzata” è usata anche in altre fonti. In via meramente esemplificativa si ricordano: l’art. 1-sexies d.l. 6 settembre 1982 n. 629 convertito, con modificazioni, dalla l. 12 ottobre 1982 n. 726, ove si fa riferimento, in relazione ai poteri dell’Alto Commissario antimafia, alla “criminalità di tipo mafioso”; l’art. 1 d.l. 31 maggio 1991 n. 221, che individua un presupposto per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali nei “collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata”; l’art. 12 d.l. 13 maggio 1991 n. 152 che prevede la costituzione di servizi centrali e interprovinciali delle varie forze di polizia “per assicurare il collegamento delle attività investigative relative a delitti di criminalità organizzata”, servizi dei quali il pubblico ministero deve avvalersi quando “procede a indagini per delitti di criminalità organizzata”; gli artt. 2 e 3 d.l. 29 ottobre 1991 n. 345 convertito, con modificazioni, dalla l. 30 dicembre 1991 n. 410, che, nel quadro di disposizioni urgenti per il coordinamento delle attività informative ed investigative nella lotta contro la criminalità organizzata”, oltre ad istituire il “consiglio generale per la lotta alla criminalità organizzata”, fanno riferimento ai “gruppi criminali organizzati”, alle “organizzazioni criminali” e alla “criminalità organizzata”; l’art. 4-bis ord. penit., modificato dall’art. 15 d.l. 8 giugno 1992 n. 306, che, in relazione alla concedibilità di benefici penitenziari, richiama “l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”; l’art. 18-bis ord. penit., introdotto dall’art. 16 c. 3 di quest’ultimo decreto, che disciplina i colloqui investigativi, funzionali all’acquisizione di informazioni utili per la “prevenzione e repressione dei delitti di criminalità organizzata”.

La seconda categoria di delitti, questa volta espressamente catalogati, è individuata, come già detto, dall’art. 275 comma 3 c.p.p., quale risulta dalle modificazioni apportate dall’art. 5 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, e poi dall’art. 7 d.l. 9 settembre 1991 n. 292 convertito, con modificazioni, dalla l. 8 novembre 1991 n. 356.

Essa era, in origine, funzionale alla selezione di una serie di delitti per i quali veniva stabilito un differenziato regime circa i criteri di scelta delle misure cautelari personali; infatti per tali delitti quando sussistono gravi indizi di colpevolezza, “è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”.

La categoria ora ricordata è stata, peraltro, successivamente utilizzata dal legislatore anche per perseguire ulteriori e diversi obiettivi. Così, nell’ambito processuale, il richiamo a quella classe di reati è operato dall’art. 347 c. 3 c.p.p. (il cui primo periodo è stato sostituito dall’art. 4 c. 1 d.l. 8 giugno 1992 n. 306) per imporre alla polizia giudiziaria l’obbligo di comunicare “immediatamente anche in forma orale” la notizia di reato ; dall’art. 405 c. 2 c.p.p. (il cui ultimo periodo è stato aggiunto dall’art. 6 c. 1 di quest’ultimo decreto legge) che fissa, per quei delitti, in un anno, anziché in sei mesi, il termine iniziale per lo svolgimento delle indagini; dall’art. 407 c. 2 lett. a c.p.p. (sostituito dall’art. 6 c. 3 dello stesso decreto) che stabilisce in due anni il termine di durata massima delle indagini sia per i delitti indicati nell’art. 275 c. 3 c.p.p. che per quello previsto dall’art. 416 c.p. nei casi in cui è obbligatorio l’arresto in flagranza.

Anche la terza categoria di delitti, quelli cosiddetti “di mafia”, originariamente individuata, mediante l’art. 51 comma 3-bis c.p.p. (aggiunto dall’art. 3 d.l. 20 novembre 1991 n. 367), al fine di determinare l’ambito di legittimazione alle indagini della procura distrettuale, è stata richiamata ad altri fini dal legislatore del processo: così dall’art. 190-bis c.p.p. (aggiunto dall’art. 3 comma 3 d.l. 8 giugno 1992 n. 306) per stabilire i “requisiti della prova in casi particolari”; dall’art. 295 c.p.p. al fine di prevedere, come già ricordato, la possibilità di ricorrere anche all’intercettazione ambientale per agevolare le ricerche del latitante; dall’art. 406 c. 5-bis c.p.p. per regolare la proroga senza contraddittorio del termine delle indagini preliminari. È, infine, da ricordare che a quella categoria di delitti fanno riferimento gli artt. 25-bis e ter d.l. 8 giugno 1992 n. 306 che disciplinano, rispettivamente, la “perquisizione degli edifici” e le “intercettazioni preventive”. Volendo procedere ad una soluzione della questione considerata, il percorso interpretativo preferibile è quello collegato alle previsioni in tema di avocazione (artt. 371-bis comma 3 lett. h e 372 comma 1-bis c.p.p.): se, infatti, l’esigenza di rendere effettivo il collegamento delle indagini è un obiettivo primario che il legislatore vuole perseguire nel caso di delitti intesi come manifestazione del crimine organizzato e se l’avocazione è l’istituto predisposto per assolvere a tale esigenza, la sua previsione in ordine a determinati delitti vale come possibile “guida” normativa per l’individuazione dei reati di criminalità organizzata. Nel senso, cioè, che quelli indicati nell’art. 51 comma 3-bis c.p.p., per i quali è possibile l’avocazione da parte del procuratore nazionale antimafia, individuano i delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso”, mentre quelli catalogati nell’art. 372 c. 1-bis c.p.p., per i quali è prevista l’avocazione da parte del procuratore generale presso la corte d’appello, indicano i “delitti di criminalità organizzata eversiva e comune”. >L’espressione “criminalità organizzata”, nel nostro Paese, evoca immediatamente l’idea di mafia e, più precisamente, dell’organizzazione mafiosa denominata “Cosa nostra”, radicata da molto tempo in Sicilia. Tra le organizzazioni criminali che operano in Italia, “Cosa nostra” ha indubbiamente un’importanza prevalente per la tradizione nel tempo e, soprattutto per la forza numerica che ha assunto nel territorio italiano e fuori di esso, per la capacità criminale che ha dimostrato di possedere e per l’enorme potenza finanziaria che ha raggiunto, venendo, in tal modo, a costituire il modello al quale s’ispirano le altre organizzazioni criminali.

Attraverso il tempo “Cosa nostra” ha subìto una notevole evoluzione nella struttura e negli scopi, ma ha sempre conservato alcune caratteristiche che la contraddistinguono dalle altre organizzazioni criminali; caratteristiche che sono ravvisabili, essenzialmente, nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, nell’estensione territoriale, nella durata e nella pervasività delle sue azioni, nella sua impermeabilità alle indagini giudiziarie e, infine, nella supposta, perdurante pericolosità degli associati.

Sulle origini della mafia si è molto discusso; talvolta sono state ricollegate addirittura ai Normanni, ai Vespri siciliani e, in tempi più prossimi, ai “Beati Paoli”, una setta segreta che nel seicento, calandosi sotto i cappucci dei monaci di San Francesco di Paola, si riuniva nei sotterranei di Palermo per tramare contro coloro che guidavano la città.

Tralasciando la ricerca delle lontane origini della mafia e concentrando l’attenzione sul modo in cui essa si è andata sviluppando nella Sicilia pre e post-unitaria, le ragioni del suddetto sviluppo si sono fatte risalire al bisogno dei latifondisti dell’isola, nell’epoca pre-unitaria, di ricorrere a un sistema di custodia e protezione della loro proprietà a carattere permanente. Nacque così la “guardiania” affidata a soggetti denominati “campieri”, scelti tra le persone che godevano di maggior rispetto per la loro fama di uomini capaci di scoraggiare qualsiasi attentato alla proprietà e, quindi, il più delle volte tra i soggetti violenti. D’altronde, i proprietari che si servivano di tali uomini, all’occorrenza dovevano proteggerli, anche quando, non di rado, essi si rendevano rei di misfatti.

Allo sviluppo della mafia contribuì anche il malgoverno borbonico, che rese possibile a questa associazione di presentarsi alla collettività in chiave antigovernativa.

Anche lo Stato unitario si mostrò debole e incapace di garantire una efficiente amministrazione e, soprattutto, una adeguata tutela dell’ordine pubblico.

Nei primi anni ottanta del milleottocento, in occasione della prima estensione del suffragio elettorale, la mafia dimostrò di essere in grado di orientare la vita politica sfruttando i legami elettorali tra alcuni deputati e gli elettori: ciò le consentì di entrare nella vita pubblica dell’isola e di intervenire sul campo economico.

Nel secondo dopoguerra, dopo l’esperienza del fascismo (che aveva condotto una forte azione di repressione nei confronti del livello militare della mafia ma non nei confronti del livello medio-alto della stessa, per paura di inimicarsi gli agrari), potenti capimafia vennero collocati ai vertici della vita politica dell’isola: nacque così un quadro di rapporti contrassegnato da legami di complicità tra mafia e pubblici poteri.

Il primo tentativo organico operato dal legislatore italiano per combattere più efficacemente, su tutto il territorio nazionale e in tutte le sue svariate forme di manifestazione, la criminalità di tipo mafioso, è costituito dalla legge 13 settembre 1982 n. 646, subito ribattezzata legge “antimafia”, il cui iter di approvazione è stato accelerato dalla sconvolgente serie di delitti di mafia avutasi tra il 1978 e il 1982, culminata con l’uccisione del prefetto di Palermo.

Il legislatore penale, fino a quel momento, non si era mai specificamente occupato della criminalità mafiosa, ritenendo implicitamente che per porvi rimedio fosse sufficiente la normativa comune. Invero, spesso si era parlato di delitti e di processi di mafia, ma tale espressione era stata adoperata in senso empirico e cioè, facendo riferimento ad una serie di delitti che potevano, in realtà, essere commessi da chiunque ed in qualsiasi contesto e che soltanto a posteriori, a causa dell’ambiente in cui si verificavano e delle modalità di esecuzione che li accompagnavano, potevano talvolta essere considerati di stampo mafioso. Nessuna disposizione di legge, invece, aveva sinora criminalizzato la “mafia” in quanto tale, come associazione, cioè, avente finalità più o meno illecite, ma non sempre necessariamente e palesemente delittuose in senso stretto. Per colpire il fenomeno mafioso indipendentemente ed anticipatamente rispetto alla commissione di specifici fatti criminosi, la magistratura, non disponendo di strumenti più idonei, aveva sempre dovuto far ricorso alla figura dell’associazione per delinquere, con risultati non sempre positivi.

Sul versante della disciplina penale sostanziale, le più significative innovazioni della legge antimafia riguardano l’introduzione di alcune figure di reato: quelle della “associazione di tipo mafioso” (art. 416 bis) e della “illecita concorrenza con minaccia o violenza” (art. 513 bis) inserite nel corpo del codice penale; e altre fattispecie incriminatrici dirette a colpire il comportamento di pubblici funzionari responsabili di favorire illecitamente le imprese mafiose, collocate nel testo riformato della legge n. 575 del 1965 in tema di misure di prevenzione.

Per quanto attiene, invece, alla normativa processuale il discorso è più complesso e si interseca con quello delle modifiche del sistema delle misure di prevenzione: l’art. 24 della legge, infatti, rendendo applicabili nei processi per il delitto di associazione di tipo mafioso le nuove disposizioni in materia di misure di prevenzione, finisce con l’ampliare enormemente i poteri coercitivi e di indagine del giudice e della polizia giudiziaria.

Il sistema delle misure di prevenzione è stato, in realtà, sottoposto a profonda revisione. Le innovazioni concernono, infatti, da un lato il potenziamento delle misure tradizionali di tipo personale, ad esempio attraverso l’aggravamento delle pene previste per i trasgressori degli obblighi derivanti dalla applicazione delle misure medesime, o la imposizione di una cauzione che funga da deterrente; e, dall’altro, la introduzione di nuove misure di tipo patrimoniale consistenti, come la confisca, persino in atti ablatori definitivi.

Un ulteriore gruppo di norme prevede, poi, una fitta rete di controlli, finalizzati all’accertamento di illeciti valutari, fiscali e societari, che devono essere effettuati dalla polizia tributaria a carico delle persone condannate per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., o nei cui confronti sia stata disposta una misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965 n. 575. A carico delle stesse persone, inoltre, sono sanciti – per la durata di dieci anni a partire dalla data in cui sono divenuti definitivi i provvedimenti che li riguardano – una serie di obblighi di natura fiscale, la cui trasgressione è penalmente sanzionata.

Sul piano processuale, anche per rendere più celeri i procedimenti per reati valutari, fiscali o societari contestati ad associati mafiosi o a soggetti indiziati di esserlo, sono state previste deroghe alla disposizioni comuni in materia di competenza e di connessione dei procedimenti.

È stata, infine, istituita per la durata di tre anni una Commissione parlamentare con il compito di verificare l’attuazione della legge antimafia e delle altre leggi dello Stato in riferimento al fenomeno mafioso e alle sue connessioni; di accertare la congruità della normativa vigente e della conseguente azione dei pubblici poteri, anche in relazione ai mutamenti del fenomeno mafioso, formulando proposte di carattere legislativo ed amministrativo ritenute opportune per rendere più incisiva l’iniziativa dello Stato; di riferire al Parlamento ogni volta che lo ritenga opportuno e comunque annualmente.

In realtà, è doveroso precisare che quando si parla di criminalità organizzata e di processi di criminalità organizzata, è difficile intendersi sul significato delle parole, in quanto il legislatore usa tali espressioni per indicare una certa specie di reati e processi senza fornirne una compiuta nozione. Né ha mai preso in considerazione l’ipotesi che un procedimento sorto come di “criminalità organizzata” possa, successivamente, non rivelarsi tale e tantomeno il fatto che spesso la linea di demarcazione tra i due tipi di procedimento è assai più labile ed incerta di quello che si potrebbe immaginare, sicché l’inquadramento nell’una o nell’altra categoria, con tutte le relative conseguenze, dipende esclusivamente dalle scelte, inevitabilmente affrettate, operate da uno o più pubblici ministeri al momento dell’iscrizione di una notitia criminis nel registro delle notizie di reato previsto dall’art. 335 c.p.p.

Eppure, dalla qualifica di “criminalità organizzata” attribuita o meno ad un determinato procedimento o ad un determinato reato discendono conseguenze giuridiche tutt’altro che irrilevanti.

Quando il legislatore deve adottare soluzioni normative adeguate ad un efficace perseguimento dei reati di criminalità organizzata, prende in considerazione anche forme di devianza non necessariamente collegate con l’agire mafioso, quali l’associazione finalizzata al traffico di droga o al sequestro di persona a scopo di estorsione ma, tuttavia, non c’è dubbio che la criminalità di tipo mafioso, o meglio, l’idea di mafia maturata soprattutto nelle esperienze giudiziarie degli anni Ottanta ha costituito il perno attorno al quale si è andata evolvendo una speciale normativa volta a contrastare il crimine organizzato.

Il processo penale non è certamente il luogo più adeguato né, tantomeno, il luogo esclusivo per la lotta contro il crimine organizzato, che deve invece svilupparsi specialmente prima e fuori del processo, dispiegandosi ai diversi livelli nei quali si collocano, più o meno indirettamente, i corrispondenti fattori criminogeni. Anzitutto, dunque, attraverso attività dirette al risanamento del tessuto sociale ed alla diffusione di un convinto costume di rispetto della legalità; quindi attraverso più specifici interventi politici ed amministrativi di contrasto alla crescita delle organizzazioni criminali.

È altrettanto vero, tuttavia, che quando la lotta alla criminalità organizzata si concretizza nel momento della repressione penale, e quindi necessariamente si svolge attraverso le forme del processo, la macchina processuale deve essere efficiente, cioè idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità. Anche, se del caso, attraverso l’adozione degli accorgimenti normativi indispensabili per fronteggiare i problemi derivanti, ad esempio, dalla elevata complessità delle indagini, o dalla difficoltà degli accertamenti probatori, o da particolari situazioni di turbamento della regolare attività processuale: tutte ipotesi che si profilano, di solito, proprio in rapporto ai procedimenti per delitti di criminalità organizzata.

La legge-delega approvata all’inizio del 1987, recante i principi ed i criteri direttivi a cui si sarebbe dovuto attenere il governo nell’emanazione del nuovo codice di procedura penale, parlava espressamente di “criminalità organizzata” soltanto in una direttiva (art. 2 n. 48), a proposito della maggior durata (“entro due anni”) delle indagini preliminari, mentre per il resto non emergevano esplicite aperture verso una diversificazione della disciplina normativa del futuro codice in funzione dei problemi posti da tali processi.

E questo spiega anche perché nel dettare le norme del nuovo codice di procedura penale, il legislatore delegato, e ancor prima la Commissione ministeriale redigente, sotto la guida di Gian Domenico Pisapia, pur non ignorando le relative esigenze (come dimostra l’incarico, conferito ad una apposita Commissione presieduta da Antonino Caponnetto, dello studio dei “problemi sostanziali e processuali posti dai grandi processi in tema di criminalità organizzata”) non abbiano riservato particolare attenzione alla tematica in questione. A parte la disposizione che, derogando al consueto limite dei diciotto mesi, in ossequio alla ricordata direttiva della legge-delega, individuava in due anni la durata massima delle indagini preliminari per alcune figure di reato riconducibili all’ambito della criminalità organizzata (art. 407 comma 2 lett. A c.p.p.) , il testo originario del codice non conteneva altre disposizioni specificamente dirette a discostarsi dall’originaria disciplina nei procedimenti aventi ad oggetto tali reati. Anche se, per la verità, non mancavano singole norme o gruppi di norme che, pur senza specifico riferimento ai reati tipici delle organizzazioni criminali, riflettevano una scelta legislativa consapevole dei problemi e delle difficoltà poste dai procedimenti in quel settore. Tali, ad esempio, le previsioni dettate in materia di indagini collegate, allo scopo di favorire il coordinamento tra diversi uffici del pubblico ministero (art. 371 c.p.p.); in materia di incidente probatorio, allo scopo di consentire la formazione anticipata della prova al riparo dal pericolo di condizionamenti inquinanti (art. 392 lett. b c.p.p.) o dal rischio di vanificazione dello sviluppo delle indagini (art. 397 c.p.p.); ed ancora in materia di utilizzabilità e di valutazione delle dichiarazioni provenienti dai collaboratori di giustizia (art. 192 c. 3), anche se processati in via separata (art. 210 c.p.p.), e pur quando fossero state rese nel corso di un diverso procedimento (art. 238 c.p.p.).

Prescindendo dalle poche previsioni emergenti nel tessuto del codice mancavano, infatti, nell’architettura originaria del nuovo sistema processuale, sia una visione d’insieme delle esigenze rese manifeste dalle inchieste e dai processi per delitti di criminalità organizzata, sia, la prefigurazione di un adeguata strategia per affrontare, attraverso idonei strumenti normativi ed operativi, le suddette esigenze. E, del resto, come abbiamo già ricordato, mancava e manca ancora nello stesso corpus normativo una precisa individuazione dell’area dei delitti di “criminalità organizzata”.

Il legislatore del processo penale ha, nel corso del tempo, tracciato una sorta di regime differenziato per i procedimenti relativi ai delitti di criminalità organizzata, ed è ormai ricorrente l’opinione per la quale il nostro sistema processuale si caratterizzi in funzione di un cosiddetto doppio binario procedimentale. A ciò il legislatore è pervenuto facendo leva su tre categorie di fattispecie criminose, l’una di tipo concettuale – che è quella, più volte ribadita, dei delitti di criminalità organizzata – e le altre di tipo descrittivo, avendo queste riferimento da un lato ai delitti catalogati nell’art. 275 c. 3 c.p.p. e dall’altro alla più ristretta fascia di delitti che, pur compresi in quella catalogazione, sono richiamati dall’art. 51 comma 3-bis c.p.p. (delitti di mafia).

A queste categorie il legislatore fa riferimento anche in disposizioni extraprocessuali: di qui l’esigenza di verificare se la classe dei delitti descritti, con terminologia piuttosto vaga e di sapore sociologico, come di criminalità organizzata, coincida o meno con quelli inseriti nelle altre due classi o in una – quella più ampia – di esse.

Sotto un profilo ricognitivo si rileva che la locuzione “delitti di criminalità organizzata” (che trova la sua origine nell’art. 14 d.l. 15 dicembre 1979 n. 625, convertito, con modificazioni, dalla l. 6 febbraio 1980 n. 15 che sostituiva l’ultimo comma dell’art. 340 c.p.p. abr.) è usata, nel codice di procedura penale, anzitutto con riferimento alla descrizione della esigenza cautelare prevista dall’art. 274 lett. c (“quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità dell’imputato, vi è il concreto pericolo che questi commetta […] delitti di criminalità organizzata”) e ancora con riferimento alla non operatività della sospensione dei termini delle indagini preliminari “nei procedimenti per reati di criminalità organizzata” (art. 21-bis d.l. 8 giugno 1992 n. 306, in relazione all’art. 240-bis disp. att. c.p.p.).

La locuzione ricorre anche nel processo penale a carico di imputati minorenni, ove, nell’art. 37 comma 2 d.p.r. 22 settembre 1988 n. 448, in tema di applicazione provvisoria di misure di sicurezza, si richiamano i “gravi delitti di criminalità organizzata”, introducendosi così una sorta di “graduatoria” all’interno della categoria, il che rende ancora più problematica la sua esatta comprensione. Inoltre, l’art. 13 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, modificato dall’art. 3-bis comma 2 d.l. 8 giugno 1992 n. 306, fa ricorso alla nozione qui considerata per introdurre uno specifico regime per l’intercettazione, anche ambientale.

Tuttavia, come già ricordato, l’espressione “criminalità organizzata” è usata anche in altre fonti. In via meramente esemplificativa si ricordano: l’art. 1-sexies d.l. 6 settembre 1982 n. 629 convertito, con modificazioni, dalla l. 12 ottobre 1982 n. 726, ove si fa riferimento, in relazione ai poteri dell’Alto Commissario antimafia, alla “criminalità di tipo mafioso”; l’art. 1 d.l. 31 maggio 1991 n. 221, che individua un presupposto per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali nei “collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata”; l’art. 12 d.l. 13 maggio 1991 n. 152 che prevede la costituzione di servizi centrali e interprovinciali delle varie forze di polizia “per assicurare il collegamento delle attività investigative relative a delitti di criminalità organizzata”, servizi dei quali il pubblico ministero deve avvalersi quando “procede a indagini per delitti di criminalità organizzata”; gli artt. 2 e 3 d.l. 29 ottobre 1991 n. 345 convertito, con modificazioni, dalla l. 30 dicembre 1991 n. 410, che, nel quadro di disposizioni urgenti per il coordinamento delle attività informative ed investigative nella lotta contro la criminalità organizzata”, oltre ad istituire il “consiglio generale per la lotta alla criminalità organizzata”, fanno riferimento ai “gruppi criminali organizzati”, alle “organizzazioni criminali” e alla “criminalità organizzata”; l’art. 4-bis ord. penit., modificato dall’art. 15 d.l. 8 giugno 1992 n. 306, che, in relazione alla concedibilità di benefici penitenziari, richiama “l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”; l’art. 18-bis ord. penit., introdotto dall’art. 16 c. 3 di quest’ultimo decreto, che disciplina i colloqui investigativi, funzionali all’acquisizione di informazioni utili per la “prevenzione e repressione dei delitti di criminalità organizzata”.

La seconda categoria di delitti, questa volta espressamente catalogati, è individuata, come già detto, dall’art. 275 comma 3 c.p.p., quale risulta dalle modificazioni apportate dall’art. 5 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, e poi dall’art. 7 d.l. 9 settembre 1991 n. 292 convertito, con modificazioni, dalla l. 8 novembre 1991 n. 356.

Essa era, in origine, funzionale alla selezione di una serie di delitti per i quali veniva stabilito un differenziato regime circa i criteri di scelta delle misure cautelari personali; infatti per tali delitti quando sussistono gravi indizi di colpevolezza, “è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”.

La categoria ora ricordata è stata, peraltro, successivamente utilizzata dal legislatore anche per perseguire ulteriori e diversi obiettivi. Così, nell’ambito processuale, il richiamo a quella classe di reati è operato dall’art. 347 c. 3 c.p.p. (il cui primo periodo è stato sostituito dall’art. 4 c. 1 d.l. 8 giugno 1992 n. 306) per imporre alla polizia giudiziaria l’obbligo di comunicare “immediatamente anche in forma orale” la notizia di reato ; dall’art. 405 c. 2 c.p.p. (il cui ultimo periodo è stato aggiunto dall’art. 6 c. 1 di quest’ultimo decreto legge) che fissa, per quei delitti, in un anno, anziché in sei mesi, il termine iniziale per lo svolgimento delle indagini; dall’art. 407 c. 2 lett. a c.p.p. (sostituito dall’art. 6 c. 3 dello stesso decreto) che stabilisce in due anni il termine di durata massima delle indagini sia per i delitti indicati nell’art. 275 c. 3 c.p.p. che per quello previsto dall’art. 416 c.p. nei casi in cui è obbligatorio l’arresto in flagranza.

Anche la terza categoria di delitti, quelli cosiddetti “di mafia”, originariamente individuata, mediante l’art. 51 comma 3-bis c.p.p. (aggiunto dall’art. 3 d.l. 20 novembre 1991 n. 367), al fine di determinare l’ambito di legittimazione alle indagini della procura distrettuale, è stata richiamata ad altri fini dal legislatore del processo: così dall’art. 190-bis c.p.p. (aggiunto dall’art. 3 comma 3 d.l. 8 giugno 1992 n. 306) per stabilire i “requisiti della prova in casi particolari”; dall’art. 295 c.p.p. al fine di prevedere, come già ricordato, la possibilità di ricorrere anche all’intercettazione ambientale per agevolare le ricerche del latitante; dall’art. 406 c. 5-bis c.p.p. per regolare la proroga senza contraddittorio del termine delle indagini preliminari. È, infine, da ricordare che a quella categoria di delitti fanno riferimento gli artt. 25-bis e ter d.l. 8 giugno 1992 n. 306 che disciplinano, rispettivamente, la “perquisizione degli edifici” e le “intercettazioni preventive”. Volendo procedere ad una soluzione della questione considerata, il percorso interpretativo preferibile è quello collegato alle previsioni in tema di avocazione (artt. 371-bis comma 3 lett. h e 372 comma 1-bis c.p.p.): se, infatti, l’esigenza di rendere effettivo il collegamento delle indagini è un obiettivo primario che il legislatore vuole perseguire nel caso di delitti intesi come manifestazione del crimine organizzato e se l’avocazione è l’istituto predisposto per assolvere a tale esigenza, la sua previsione in ordine a determinati delitti vale come possibile “guida” normativa per l’individuazione dei reati di criminalità organizzata. Nel senso, cioè, che quelli indicati nell’art. 51 comma 3-bis c.p.p., per i quali è possibile l’avocazione da parte del procuratore nazionale antimafia, individuano i delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso”, mentre quelli catalogati nell’art. 372 c. 1-bis c.p.p., per i quali è prevista l’avocazione da parte del procuratore generale presso la corte d’appello, indicano i “delitti di criminalità organizzata eversiva e comune”.

Una precisazione è opportuna: la categoria dei cosiddetti “delitti di mafia”, a cui più volte si è fatto riferimento, secondo una pregevole analisi , comprende sia i delitti mafiosi in senso stretto (come quello previsto dall’art. 416-bis c.p. e quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo ovvero al fine di agevolare le attività delle associazioni di tipo mafioso) sia quelli potenzialmente mafiosi (previsti dagli artt. 630 c.p. e 74 d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309). Per questi ultimi si pongono maggiori difficoltà interpretative, in quanto per gli stessi l’indice di mafiosità viene desunto dalle modalità di commissione o dalla finalità di agevolare l’associazione di tipo mafioso: in questa classe di delitti potrebbe, quindi, astrattamente confluire qualsiasi tipo di delitto (con esclusione quindi delle contravvenzioni), anche se, concretamente, si tratterà dei delitti connotati dalla minaccia o dalla violenza, sia alle persone che sulle cose.

Ci si è chiesti, inoltre, se i delitti in questione richiedano necessariamente quale soggetto attivo un associato mafioso o più associati in concorso tra loro, nel quadro delle attività del sodalizio. Una parte della dottrina ha risposto positivamente all’interrogativo ora prospettato, ma è stato obiettato che, ad esempio, a favore dell’inserimento nella categoria in questione di un delitto (nella specie: estorsione) commesso da un soggetto che, pur non essendo affiliato all’organizzazione criminale operante su quel territorio, rivendichi la propria appartenenza al gruppo criminale, caricando di intensità mafiosa la propria condotta criminosa, operano diverse considerazioni: a parte il dato testuale, che non opera alcun riferimento all’associato, va rilevato come, nel caso prospettato, la vittima del reato abbia colto la minaccia nella sua portata intimidatrice mafiosa, così come se provenisse da un affiliato alla cosca. Un ulteriore argomento è deducibile dai lavori preparatori del d.l. 31 dicembre 1991 n. 419 (istituzione del fondo per il sostegno per le vittime delle richieste estorsive) convertito con modificazioni, dalla l. 18 febbraio 1992 n. 172, il cui testo originario prevedeva la nuova fattispecie di “altre attività estorsive” mediante la quale veniva punito che realizzava profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri “avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis del codice penale”.