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Licenziamento per inidoneità sopravvenuta

Quando il datore di lavoro può recedere dal rapporto

La questione della sopravvenuta inidoneità psicofisica del lavoratore ed il conseguente recesso datoriale è stata ampiamente dibattuta in giurisprudenza.

Ci chiediamo: è sufficiente ai fini della sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento ex art. 3, L. 15 luglio 1966 n. 604, la sopravvenuta infermità permanente del lavoratore e la conseguente impossibilità della prestazione?

La Corte di Cassazione nella sentenza a Sezioni Unite, 7 agosto 1998 n. 7755, ritiene questo dato non sufficiente, ed afferma la necessità di provare che il lavoratore non possa svolgere altra attività riconducibile a mansioni equivalenti o addirittura inferiori rispetto a quelle di assunzione, fermo restando che il datore di Lavoro non è tenuto, al fine di ricollocare il dipendente, a mutare la propria organizzazione aziendale per reperire una nuova collocazione.

Cosa deve dimostrare il Datore di Lavoro?

Deve dimostrare l’impossibilità di assegnare al lavoratore mansioni anche non equivalenti, a condizione che il lavoratore abbia , anche senza formule rituali, manifestato la propria disponibilità ad accettarle (Cass., 6 marzo 2007, n. 5112).

Si tratta del c.d. onere datoriale di repechage.

Con la citata sentenza la questione dell’obbligo di repechage viene affrontata dalla Corte in modo ampio ed approfondito. Secondo la Corte l’obbligo di repechage non troverebbe più fondamento nell’art. 2087 del codice civile, bensì sarebbe subordinato agli oneri probatori incombenti sul datore di lavoro che intende licenziare il prestatore per giustificato motivo oggettivo. Nello stesso senso sembra che la Corte attribuisca particolare rilievo all’obbligo generale del creditore della prestazione (datore di lavoro) di cooperare con il debitore per il raggiungimento del fine comune quale è l’adempimento (seppur parziale) dell’obbligo contrattuale. Il datore di lavoro, infatti, è tenuto non solo a predisporre gli strumenti materiali necessari all’esecuzione del lavoro, ma anche ad utilizzare appieno le capacità lavorative del prestatore.

Inoltre, la legittimità del recesso nel caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, indipendentemente dal superamento del comporto, è ravvisabile soltanto quando la sopravvenuta incapacità fisica abbia carattere definitivo e manchi un apprezzabile interesse del datore di lavoro alle future prestazioni lavorative (ridotte) del dipendente (Cass., 14 dicembre 1999, n. 14065).

L’orientamento espresso dalle Sez. Unite trova conferma nell’art. 10, terzo comma, della legge 12 marzo 1999, n. 68, che legittima il licenziamento per giustificato motivo obiettivo del lavoratore invalido nel caso in cui, previa attuazione da parte del datore di lavoro di tutti i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, venga accertata la definitiva impossibilità ad essere riassunto all’interno dell’azienda dalla Commissione di cui all’art. 4 della legge 5 febbraio 1992, n. 104.

In caso di impossibilità sopravvenuta parziale allo svolgimento della prestazione, sussiste il diritto del lavoratore ad essere assegnato a mansioni diverse ed equivalenti (semprechè sussistenti in azienda) ed anche inferiori, dietro manifestazione di consenso del lavoratore alla dequalificazione finalizzata alla salvaguardia del superiore interesse all’occupazione, per le cui richieste al datore di lavoro il lavoratore deve attivarsi precisando le residue attitudini professionali tali da rendergli possibile una diversa collocazione in azienda.

In caso di sopravvenuta inidoneità totale del lavoratore subordinato alla prestazione lavorativa, si configura un caso d’impossibilità assoluta per il venir meno della causa del contratto, con la conseguenza che si determina la risoluzione del rapporto, senza necessità che il datore di lavoro manifesti mediante il negozio di recesso l’assenza di un suo interesse al mantenimento del vincolo giuridico (ormai privo di valore).

Infine, il datore di lavoro ha obbligo, ex art. 2087 c.c., di inibire al lavoratore affetto da malattia contagiosa la prosecuzione della propria attività, ma ha il diritto di risolvere immediatamente il rapporto solo se lo stato patologico contagioso è destinato ad essere permanente, o a prolungarsi oltre il periodo di comporto, e sempre che non sia possibile adibire il lavoratore a mansioni diverse o all’espletamento delle stesse mansioni con modalità diverse, anche spaziali, tali da non costituire pericolo di contagio (Cass., 6 agosto 2002, n. 11798). 

La questione della sopravvenuta inidoneità psicofisica del lavoratore ed il conseguente recesso datoriale è stata ampiamente dibattuta in giurisprudenza.

Ci chiediamo: è sufficiente ai fini della sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento ex art. 3, L. 15 luglio 1966 n. 604, la sopravvenuta infermità permanente del lavoratore e la conseguente impossibilità della prestazione?

La Corte di Cassazione nella sentenza a Sezioni Unite, 7 agosto 1998 n. 7755, ritiene questo dato non sufficiente, ed afferma la necessità di provare che il lavoratore non possa svolgere altra attività riconducibile a mansioni equivalenti o addirittura inferiori rispetto a quelle di assunzione, fermo restando che il datore di Lavoro non è tenuto, al fine di ricollocare il dipendente, a mutare la propria organizzazione aziendale per reperire una nuova collocazione.

Cosa deve dimostrare il Datore di Lavoro?

Deve dimostrare l’impossibilità di assegnare al lavoratore mansioni anche non equivalenti, a condizione che il lavoratore abbia , anche senza formule rituali, manifestato la propria disponibilità ad accettarle (Cass., 6 marzo 2007, n. 5112).

Si tratta del c.d. onere datoriale di repechage.

Con la citata sentenza la questione dell’obbligo di repechage viene affrontata dalla Corte in modo ampio ed approfondito. Secondo la Corte l’obbligo di repechage non troverebbe più fondamento nell’art. 2087 del codice civile, bensì sarebbe subordinato agli oneri probatori incombenti sul datore di lavoro che intende licenziare il prestatore per giustificato motivo oggettivo. Nello stesso senso sembra che la Corte attribuisca particolare rilievo all’obbligo generale del creditore della prestazione (datore di lavoro) di cooperare con il debitore per il raggiungimento del fine comune quale è l’adempimento (seppur parziale) dell’obbligo contrattuale. Il datore di lavoro, infatti, è tenuto non solo a predisporre gli strumenti materiali necessari all’esecuzione del lavoro, ma anche ad utilizzare appieno le capacità lavorative del prestatore.

Inoltre, la legittimità del recesso nel caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, indipendentemente dal superamento del comporto, è ravvisabile soltanto quando la sopravvenuta incapacità fisica abbia carattere definitivo e manchi un apprezzabile interesse del datore di lavoro alle future prestazioni lavorative (ridotte) del dipendente (Cass., 14 dicembre 1999, n. 14065).

L’orientamento espresso dalle Sez. Unite trova conferma nell’art. 10, terzo comma, della legge 12 marzo 1999, n. 68, che legittima il licenziamento per giustificato motivo obiettivo del lavoratore invalido nel caso in cui, previa attuazione da parte del datore di lavoro di tutti i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, venga accertata la definitiva impossibilità ad essere riassunto all’interno dell’azienda dalla Commissione di cui all’art. 4 della legge 5 febbraio 1992, n. 104.

In caso di impossibilità sopravvenuta parziale allo svolgimento della prestazione, sussiste il diritto del lavoratore ad essere assegnato a mansioni diverse ed equivalenti (semprechè sussistenti in azienda) ed anche inferiori, dietro manifestazione di consenso del lavoratore alla dequalificazione finalizzata alla salvaguardia del superiore interesse all’occupazione, per le cui richieste al datore di lavoro il lavoratore deve attivarsi precisando le residue attitudini professionali tali da rendergli possibile una diversa collocazione in azienda.

In caso di sopravvenuta inidoneità totale del lavoratore subordinato alla prestazione lavorativa, si configura un caso d’impossibilità assoluta per il venir meno della causa del contratto, con la conseguenza che si determina la risoluzione del rapporto, senza necessità che il datore di lavoro manifesti mediante il negozio di recesso l’assenza di un suo interesse al mantenimento del vincolo giuridico (ormai privo di valore).

Infine, il datore di lavoro ha obbligo, ex art. 2087 c.c., di inibire al lavoratore affetto da malattia contagiosa la prosecuzione della propria attività, ma ha il diritto di risolvere immediatamente il rapporto solo se lo stato patologico contagioso è destinato ad essere permanente, o a prolungarsi oltre il periodo di comporto, e sempre che non sia possibile adibire il lavoratore a mansioni diverse o all’espletamento delle stesse mansioni con modalità diverse, anche spaziali, tali da non costituire pericolo di contagio (Cass., 6 agosto 2002, n. 11798).