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Difendere i brevetti veri e difendersi dai brevetti falsi: aspetti sostanziali e strategie processuali in una prospettiva europea

Sommario:

1. Cause in materia brevettuale e strategie processuali.

2. Problem-Solution Approach e sue applicazioni concrete.

3. La ratio della tutela brevettuale e le sue ricadute pratiche.

4. Novità e interpretazione delle anteriorità.

5. Valutazione dell’attività inventiva e rischio dell’analisi ex post facto.

6. (segue) Giudizio ex ante e rilevanza delle anteriorità.

7. Brevetti di nuovo uso e attività inventiva.

8. Il pregiudizio tecnico: nozione e rilevanza.

9. Problema tecnico nuovo e attività inventiva.

10. Contraffazione ed equivalenza: la centralità delle rivendicazioni.

1. Benché l’Italia abbia uniformato sin dal 1979 il suo diritto dei brevetti a quello europeo, aderendo alla Convenzione di Strasburgo e alla Convenzione sul Brevetto Europeo (ed anche a EPC 2000, sia pure con una ratifica arrivata veramente in articulo mortis) ed abbia espressamente inserito nel Codice della Proprietà Industriale, all’art. 52, anche una norma sostanzialmente corrispondente all’art. 69 della C.B.E. ed al relativo Protocollo di Interpretazione, in materia brevettuale il nostro Paese non è riuscita a scrollarsi di dosso il poco ambito titolo di “paradiso dei contraffattori”.

Certamente questa nomea deriva in buona parte dalla durata spesso abnorme delle nostre cause di merito anche in materia industrialistica, certamente oggi meno clamorosa che in passato, specie dopo l’istituzione nel 2003 delle Sezioni Specializzate in materia di Proprietà Industriale e Intellettuale, ma comunque ancora più elevata della media europea, al punto che, una quindicina d’anni fa, era stata “inventata” la strategia processuale delle cosiddette azioni torpedo, ossia di azioni di accertamento negativo della contraffazione con effetti cross-border, cioè estesi a più Paesi europei, diretta a ritardare e a bloccare la cognizione dei Giudici degli altri Paesi proprio facendo leva sulla maggior durata dei nostri processi. In realtà questa strategia costituiva una vera “leggenda nera”, sostanzialmente non corrispondente al vero, dal momento che i nostri Giudici hanno sempre negato di poter conoscere in via di accertamento negativo di contraffazioni effettuate all’estero e quindi relative a brevetti paralleli a quello italiano (o, il che è sostanzialmente lo stesso, a frazioni straniere di un medesimo brevetto europeo) ed avevano “affondato” le azioni torpedo in tempi ragionevolmente brevi, salvo che nell’unico caso in cui l’Italia fosse il Paese da cui l’illecito aveva avuto inizio, cioè quello in cui venivano realizzati i prodotti del cui carattere contraffattorio si discuteva, poi esportati in altri Paesi. In ogni caso, inoltre, nel sistema della Convenzione di Bruxelles del 1968 ed in quello del corrispondente Regolamento n. 2001/44/C.E. le azioni di merito di accertamento negativo non precludevano (e non precludono) al titolare del brevetto la possibilità di chiedere misure cautelari a tutela di esso ai Giudici del Paese in cui il preteso illecito è stato o sta per essere commesso (in argomento rinvio in particolare a Galli, Problemi e prospettive delle cross-border injunctions in materia di proprietà intellettuale, in Riv. dir. ind., 1999, I, 21 e ss.).

La possibilità di azioni cross-border, positive o negative, è stata del resto esclusa, o quanto meno ristretta ad ipotesi sostanzialmente marginali, per effetto delle due pronunce di Corte Giust. C.E., 12 luglio 2006, rese rispettivamente nei procedimenti C-539/03 e C-4/03, che hanno abbattuto i due pilastri della costruzione giuridica favorevole all’ammissibilità dei provvedimenti cross-border: la prima ritenendo che il titolo di giurisdizione di cui all’art. 6.1 della Convenzione e del Regolamento non operi quando la causa petendi invocata nei confronti dei convenuti stranieri sia costituita da atti di contraffazione da essi compiuti nei rispettivi Paesi (diversi da quello del Foro) e relativi alle (autonome) frazioni nazionali efficaci in tali Paesi del medesimo brevetto europeo fatto valere nei confronti del convenuto avente sede nel Paese del Foro; la seconda negando che la circostanza che la questione di validità di un brevetto sia esaminata solo incidenter tantum valga ad escludere l’operatività della riserva di giurisdizione a favore del Giudice del Paese in cui il brevetto opera prevista dall’art. 16 della Convenzione e dall’art. 22 del Regolamento, il che significa che basta che il convenuto eccepisca in modo non ictu oculi strumentale la nullità del brevetto straniero invocato nei suoi confronti, per paralizzare l’azione di contraffazione proposta davanti ad un Giudice diverso da quello individuato dalle due norme richiamate da ultimo (si veda il commento a queste due pronunce in Galli, La Corte di Giustizia C.E. restringe drasticamente lo spazio per le azioni cross-border in materia di brevetti, in Int’l Lis, 2006, ove si discutono anche le possibilità di azioni cross-border che ancora residuano dopo queste sentenze).

Non è neppure vero, d’altra parte, che la protezione dei brevetti nel nostro Paese sia più difficoltosa che altrove. Se è vero infatti che la durata dei processi di merito continua a rappresentare un grave problema, ad esso supplisce l’efficienza della tutela cautelare, che oggi è tornata ad operare efficacemente anche in materia di brevetti, grazie al fatto che si ammette lo svolgimento di consulenze tecniche “abbreviate” in sede cautelare: emblematica è l’ordinanza emessa dal Tribunale di Milano il 29 dicembre 2008 nel caso Drin.it Italia s.r.l. c. Samsung Electronics Italia s.p.a. e Bruno Castoldi s.r.l. (Est. De Sapia), emessa in accoglimento di un ricorso presentato il 5 maggio 2008, appunto dopo che una consulenza tecnica aveva giudicato il brevetto invocato valido e contraffatto. Ancor più di recente Trib. Venezia, ord. 10 luglio 2009, Est. Caprioli, resa nel caso Vorwerk International AG c. Sirman s.p.a., ha disposto una consulenza tecnica in fase di reclamo cautelare, dopo che un provvedimento cautelare era stato concesso inaudita altera parte e poi revocato senza previo contraddittorio tecnico, confermando quindi che la consulenza anche in fase cautelare è la via maestra per conciliare un’efficace tutela dei brevetti con i diritti di difesa di chi è accusato di contraffazione.

Né va dimenticato che in Italia la tutela cautelare può essere concessa anche sulla base di semplici domande di brevetto nazionale od europeo, purché naturalmente rese opponibili al preteso contraffattore con la pubblicazione o la notifica (e nel caso di domanda di brevetto europeo, con il deposito presso l’U.I.B.M. o la notifica all’interessato della traduzione delle rivendicazioni). Ed ancora si può aggiungere che si ammette anche la richiesta in via d’urgenza di una pronuncia di accertamento negativo della contraffazione, sussistendone naturalmente i presupposti sia sotto il profilo dell’interesse che sotto quello dell’urgenza: il che assicura anche da questo punto di vista una ragionevole situazione di “parità delle armi” tra titolare del diritto che si pretende violato e autore dell’ipotetica violazione.

2. Ciò tuttavia non basterebbe ancora, se, come spesso si dice, validità e contraffazione venissero considerate in Italia con criteri sostanzialmente diversi, e meno favorevoli al titolare, di quanto avvenga negli altri Paesi.

Certamente la nostra dottrina non sempre brilla per chiarezza su questo tema, e anche la giurisprudenza presenta pericolose incertezze. Quando si afferma, come fa uno dei nostri più diffusi Manuali di diritto industriale, che il requisito dell’attività inventiva “segna una linea di confine tra ciò che appartiene al divenire normale di ciascun settore, che potrebbe essere realizzato da qualunque operatore del settore, e quindi non merita il brevetto, e ciò che è frutto di una idea che supera le normali prospettive di evoluzione del settore, che non è alla portata dei tanti che in esso operano, e quindi merita l’attribuzione del diritto esclusivo” (Di Cataldo in Vanzetti-Di Cataldo, Manuale di diritto industriale6, Milano, 2009, pp. 389-390), si rischia infatti di introdurre in questa valutazione elementi che vi sono estranei, e che portano a riservare la tutela brevettuale solo ad invenzioni di “livello alto” (dove questa “altezza” presenta tra l’altro forti margini di opinabilità), confinando tutte le innovazioni “incrementali”, di cui in realtà vive l’evoluzione tecnica, fuori dall’ambito della proteggibilità.

Questo atteggiamento riemerge in effetti anche nella pratica giudiziaria e nelle consulenze, dove talvolta si accompagna, quasi per compensazione, ad una sottovalutazione del ruolo delle rivendicazioni nel delimitare l’ambito di protezione del brevetto, attraverso una lettura della dottrina degli equivalenti che fa leva non sulla sostituzione di specifici elementi con altri di cui a priori si poteva conoscere l’idoneità a svolgere la stessa funzione dell’elemento sostituito, bensì sulla coincidenza degli “elementi essenziali dell’invenzione brevettata” (ivi, p. 450), introducendo una distinzione tra elementi tutti egualmente compresi nelle rivendicazioni, che può portare, esattamente all’opposto, a un’ipertrofia della protezione, in contrasto con le esigenze di certezza per i terzi sull’ambito di protezione del brevetto, che il sistema imperniato sulle rivendicazioni necessariamente è invece diretto a soddisfare.

Rispetto a questi due difetti, solo apparentemente opposti, costituiscono certamente un significativo “antidoto” l’esperienza dell’Ufficio Europeo dei Brevetti e quella delle giurisdizioni straniere che più da vicino ne condividono l’impostazione generale, basate su quello che viene chiamato problem-solution approach, ossia l’approccio che attribuisce al problema oggettivo risolto dal brevetto rilievo centrale per valutare l’attività inventiva, e prima ancora per individuare la prior art effettivamente rilevante. Il pregio principale di questo approccio è quello di obiettivare il giudizio sull’attività inventiva, ricostruendo le condizioni in cui un esperto del settore (che disponesse, beninteso, di tutta l’arte nota) si sarebbe trovato nell’affrontare il problema tecnico oggetto del brevetto, così riducendo il più possibile il rischio che le conoscenze ex post di cui inevitabilmente dispone chi compie la valutazione circa la sussistenza dei requisiti di validità del brevetto interferiscano in quest’indagine: così evitando da un lato di cadere nella “trappola” per cui, come il classico uovo di Colombo, ad un’analisi a posteriori può apparire ovvio anche ciò che a priori non lo era affatto, e dall’altro lato nell’errore, forse meno frequente ma non meno insidioso, di prendere per buono un problema inesistente, costruito a tavolino per far apparire non ovvia, sempre a posteriori, una soluzione che in realtà era tale e per giustificare così la concessione di un brevetto che non avrebbe invece dovuto venire rilasciato.

È appena il caso di sottolineare che attraverso questo approccio non ci si propone di ricostruire le condizioni “soggettive” in cui l’inventore è concretamente pervenuto al trovato, che di per sé non sono decisive, per l’ovvia ragione che, di regola, l’inventore “vero” non dispone di tutte le conoscenze che invece vanno attribuite al tecnico del ramo, ma serve per individuare nel modo meno discrezionale possibile l’iter logico che avrebbe seguito l’esperto nel considerare il problema. Questo approccio, d’altra parte, non può essere applicato in modo meccanicistico, facendo del tecnico del ramo una sorta di “cane di Pavlov”, privo di qualsiasi capacità di discernimento, ma, tutto all’opposto, serve a comprendere i passi che ragionevolmente avrebbe compiuto (e i documenti che avrebbe considerato) chi si fosse proposto di affrontare un dato problema: in questo senso, la consueta affermazione dell’Ufficio europeo secondo cui, per dimostrare l’ovvietà dell’invenzione, “It is not sufficient to prove that the man skilled in the art could have arrived at the specific solution by combining known features; the solution is obvious if an average pratictioner would have applied the features in combination to arrive at the subject-matter claimed” (cfr. Knesch, Assessing Inventive Step in Examination and Opposition Proceedings in the EPO, in EPI Information¸1994, 3, 95 e ss.) non significa che la brevettabilità dell’invenzione vada esclusa solo nel caso in cui l’esperto si trovasse di fronte una strada obbligata, dovendosi invece valutare ogni volta, e caso per caso, se l’impiego di determinati accorgimenti fosse suggerito dai documenti che il tecnico avrebbe considerato nell’esaminare il problema (e allora l’invenzione è ovvia), oppure no (e allora il raggiungimento del trovato implica un’attività inventiva). Anche questo punto è stato messo in risalto dalla dottrina straniera, che ha sottolineato come “When it come to estimate the mental likelihood for a skilled person to procede with the available information towards the inventino, a degree of uncertainty may sometimes remain, for instance in chemistry. However the case might still be one which is obvious to try, that is to take the necessary steps towards the claimed solution, in spite of some residual riscks, in view of a high probability of success” e come non sia possible riconocere carattere inventivo “wherein the result would ensue more or less automatically by trying a few variants”, cosicché “This again means that obviousness need not always be fully predictable a priori” (in tal senso Szabo, The problem and Solution Approach in the European Patent Office, in IIC, 1995, 457 e ss.).

Ed anche qui è appena il caso di sottolineare la centralità delle rivendicazioni, che, per quanto si è detto, non riguarda solo la fase dell’accertamento della contraffazione, ma, prima ancora, quello della valutazione dei requisiti di brevettabilità, ed anzitutto di quello dell’attività inventiva, dal momento che solo caratteristiche effettivamente rivendicate possono essere prese in considerazione per stabilire le differenze tra il brevetto e l’arte nota (cfr. ancora Knesch, op. cit., p. 96).

3. Questi generalissimi principî si giustificano anche in una prospettiva che potremmo definire “economica”, o pro-concorrenziale, ma che almeno sino a un certo punto può anche dirsi di diritto naturale, essendo rivolta a commisurare la protezione dei diritti di proprietà industriale alla portata che essi concretamente assolvono nel “mondo della vita”.

È infatti certamente vero che il brevetto svolge una funzione fondamentale nel promuovere l’innovazione, sulla base del rilievo che, se si vuole stimolare un soggetto a creare qualcosa di nuovo, occorre che il ritorno economico che il creatore si aspetta dallo sfruttamento della sua creazione sia superiore ai costi preventivati, e che l’unico strumento compatibile con un sistema economico di mercato per arrivare a questo risultato è appunto quello della concessione di un’esclusiva, ossia dell’istituzione dei diritti di proprietà intellettuale [in argomento richiamo per tutti la classica analisi svolta da Landes-Posner, An Economic Analysis of Copyright Law, in 18 Journal of Legal Studies (1989), p. 325 s., dove si osserva – a proposito dei diritti d’autore, ma con considerazioni almeno in parte estensibili anche ad altri diritti della proprietà intellettuale, ed anzitutto a quelli sulle innovazioni tecniche – che “For a new work to be created the expected return – typically, and we shall assume exclusively, from the sale of copies – must exceed the expected costs”; per le obiezioni che sono state mosse a questa impostazione rinvio alla mia Introduzione e ad alcuni dei saggi raccolti in Aa.Vv., La proprietà (intellettuale) è un furto? Riflessioni su un diritto per il futuro, Treviglio-Soveria Mannelli, 2007].

Occorre però in pari tempo evitare che questo stimolo possa diventare un freno, particolarmente nel campo della c.d. innovazione derivata, e cioè evitare che dilatando l’ambito dell’esclusiva si finisca per tradire la ratio di fondo del sistema brevettuale, le cui norme sono proprio ispirate all’esigenza di far sì che “l’invenzione, ancorché brevettata, entri al più presto nel patrimonio dei dati tecnico-scientifici a tutti accessibili” e quindi costituisca la base per innovazione ulteriore (così Marchetti, Commento all’art. 1 l. invenzioni, in Aa.Vv., Revisione della legislazione nazionale in materia di brevetti per invenzioni industriali in applicazione della delega di cui alla legge 26 maggio 1978 n. 260. Commentario, in Nuove leggi civ. comm., 1981, 677; e più ampiamente il mio L’uso sperimentale dell’altrui invenzione brevettata, in Riv. dir. ind., 1998, I,17 e ss., dove richiamavo anche la la considerazione dei valori di rango costituzionale in giuoco, ed in particolare di quello della promozione della “ricerca scientifica e tecnica” di cui all’art. 9 Cost., norma che, non va dimenticato, venne posta a fondamento della sentenza con la quale nel 1978 la Corte Costituzionale giudicò illegittimo e fece quindi venir meno il divieto di brevettazione dei farmaci: Corte Cost., 20 marzo 1978, n. 20, in Riv. dir. ind., 1978, II, 3 e ss.).

In questo senso, anzi, possiamo dire che i brevetti costituiscono la più grande miniera d’informazioni tecniche al mondo e quindi le nostre imprese dovrebbero abituarsi a consultare le banche dati, non solo per sapere che cosa non devono fare per evitare di diventare contraffattori, ma anche per ricavarne quello che devono conoscere, per diventare a loro volta innovatori, ed anche semplicemente per fare agli innovatori una legittima concorrenza, utilizzando la parte di ciò che hanno realizzato che non è coperta da esclusiva.

E ancora si deve aggiungere che a un sistema nel quale la protezione può riguardare anche innovazioni “incrementali”, di contenuto limitato, deve necessariamente corrispondere – anche in una prospettiva di bilanciamento d’interessi – una correlativa limitazione della protezione, che sia commisurata a quanto espressamente rivendicato, con i soli ampliamenti derivanti dall’applicazione del principio dell’equivalenza (e naturalmente alla dottrina delle invenzioni dipendenti), inteso però nel senso che si è detto sopra e cioè sempre misurato sulla portata delle rivendicazioni, che vanno bensì interpretate, ovviamente, anche alla luce delle rivendicazioni e dei disegni (e più in generale delle conoscenze dell’esperto del settore, al quale si rivolgono), ma devono comunque rimanere il punto di riferimento centrale e ineludibile dell’analisi brevettuale.

4. Alla luce di queste considerazioni è evidente che anche le affermazioni più diffuse e tralatizie devono essere riconsiderate: non necessariamente per abbandonarle, ma piuttosto per meglio comprenderne la portata e le implicazioni.

Ciò vale anzitutto per la novità, che nel nostro sistema, tradizionalmente, viene considerata assente solo in presenza di una singola anteriorità che anticipi sotto ogni profilo il trovato brevettato, e cioè che contenga l’identico oggetto della privativa. Sul punto si veda da ultimo, in giurisprudenza, App. Milano, 28 febbraio 2003, in Giur. ann. dir. ind., 2003, n. 4551, che ha appunto affermato “Un’invenzione è priva di novità solo allorché, considerata nel suo complesso, risulti anticipata in tutti i suoi elementi da un’anteriorità che riproduca integralmente i medesimi elementi: anteriorità che deve pertanto consistere in un unico brevetto e non nella sommatoria di due o più brevetti anteriori”; e nello stesso senso, con particolare chiarezza, tra le molte, App. Milano, 29 dicembre 1992, ivi, 1992, n. 2923, secondo cui “Il fatto che le anteriorità opposte ad un brevetto per invenzione non abbiano contenuto ‘identicò a quello del brevetto stesso comporta che a quest’ultimo sia riconosciuto il requisito della novità estrinseca”; e in dottrina, per tutti, Di Cataldo, I brevetti per invenzione e per modello², Milano, 2000, p. 99, il quale a sua volta scrive che “L’esame di novità viene svolto confrontando l’invenzione che si giudica con ciascuna delle anteriorità, e si ha assenza di novità se l’invenzione coincide integralmente con una di esse. Se però l’invenzione coincide con una somma di anteriorità, ciascuna identica ad una parte dell’invenzione, questa dev’essere considerata provvista di novità; in altri termini, ai fini del giudizio di novità le anteriorità non si compongono in mosaico, ma restano isolate ciascuna nella propria individualità”.

Può pertanto lasciare a prima vista stupiti notare che l’E.P.O. ha affermato, in materia di modifica della domanda di brevetto, che “il test per stabilire se vi è materia aggiuntiva corrisponde al test di novità, essendo richiesto in entrambi i casi che si accerti se l’informazione sia o meno derivabile in modo diretto e non ambiguo da quella precedentemente presentata, rispettivamente nella domanda di brevetto originaria e in un documento della tecnica nota. L’emendamento non è consentito se il cambiamento nel contenuto della domanda che ne deriva, ossia la materia introdotta dall’emendamento, è nuova rispetto al contenuto della domanda originaria.” (“The test for additional subject-matter corresponds to the test for novelty only insofar as both require assessment of whether or not information is directly and unambiguously derivable from that previously presented, in the originally filed application or in a prior document respectively. An amendment is not allowable if the resulting change in content of the application, in other words the subject-matter generated by the amendment, is novel when compared with the content of the original application. ”: così espressamente T 194/84, in EPO Case Law, disponibile sul sito Internet www.epoline.eu). E sempre in sede E.P.O. si è osservato che, ai fini anzidetti, si deve “verificare se nella domanda divisionale siano state introdotte informazioni tecniche che l’esperto del ramo non avrebbe potuto obiettivamente ed in modo non ambiguo far discendere dalla domanda originaria così come depositata” (“it has to be established whether technical information has been introduced into that divisional application which a skilled person would not have objectively and unambiguously derived from the earlier application as filed”: così, T 402/00, T 423/03 in EPO Case Law, cit.).

Ciò ovviamente non contraddice, ma approfondisce la nostra impostazione tradizionale, perché è vero che il test di novità continua ad essere basato sul confronto tra l’invenzione di cui si discute e ogni singola anteriorità isolatamente considerata, ma non richiede necessariamente, per configurare l’anticipazione, un’identità “fotografica”, giacché comunue quest’anteriorità va interpretata e considerata distruttiva della novità ogni volta che da essa l’esperto del ramo sia in grado di ricavare da essa in maniera non ambigua l’insegnamento che forma oggetto del brevetto considerato, appunto avvalendosi del medesimo test sulla base del quale si deve verificare se una modifica delle rivendicazioni è ammissibile o meno, ed in relazione al quale sempre il Board of Appeal dell’E.P.O. ha esattamente affermato che “la modifica di una rivendicazione con l’introduzione di un elemento tecnico isolato dalla descrizione di una specifica forma di realizzazione non è ammissibile se non è chiaro oltre ogni dubbio per la persona esperta del ramo dalla documentazione della domanda di brevetto come depositata che l’oggetto della rivendicazione così emendato rappresenta la completa soluzione al problema tecnico riconoscibile in maniera non ambigua dalla domanda” (“In T 284/94 [OJ 1999, 464] the board stated that an amendment of a claim by the introduction of a technical feature taken in isolation from the description of a specific embodiment is not allowable under Art. 123(2) EPC if it is not clear beyond any doubt for a skilled reader from the application documents as filed that the subject-matter of the claim thus amended provides a complete solution to a technical problem unambiguously recognizable from the application”: cfr. EPO Case Law, cit.); ed ancora che “la combinazione, non supportata nella domanda di brevetto come depositata, di un elemento per ciascuna di due liste di elementi significa che, sebbene l’applicazione possa concettualmente contenere l’oggetto rivendicato, essa non lo insegna in quella particolare e specifica forma. Per questa sola ragione la rivendicazione non è supportata dalla descrizione” (“the combination - unsupported in the application as filed - of one item from each of two lists of features meant that although the application might conceptually comprise the claimed subject-matter, it did not disclose it in that particular individual form. For that reason alone, claim 1 of the main request was not supported by the description”: così T 727/00, in EPO Case Law, cit.): e ciò in quanto, come ha egualmente precisato con grande rigore concettuale la giurisprudenza del Board of Appeal, “il contenuto di un documento non può essere considerato come una riserva dalla quale caratteristiche pertinenti a specifiche realizzazioni possano essere combinate allo scopo di creare artificialmente una particolare realizzazione” (“the content of a document was not to be viewed as a reservoir from which features pertaining to separate embodiments could be combined in order to artificially create a particular embodiment”: così, T 296/96, in EPO Case Law, cit).

5. Certamente però l’aspetto più delicato della valutazione dei requisiti di validità del brevetto è quello che concerne l’accertamento dell’attività inventiva, ed in particolare il rischio che, come si accennava, attraverso un’analisi ex post facto la conoscenza della soluzione brevettata faccia apparire ovvio a posteriori ciò che a priori non lo era – il che costituisce forse l’errore di diritto più frequente fra quelli compiuti nell’esame dei brevetti –, ma anche per evitare che vengano riconosciute inventive soluzioni in realtà ovvie, ma presentate come problematiche sempre a posteriori, per creare le (apparenti) premesse di una valida brevettazione, il che è particolarmente frequente nel settore farmaceutico.

In questo senso, e con estrema chiarezza, si esprimono le Guidelines dell’Ufficio Europeo dei Brevetti, al punto 9.10.2, intitolato proprio “Ex post facto analysis”, dove si dice che “It should be remembered that an invention which at first sight appears obvious might in fact involve an inventive step. Once a new idea has been formulated it can often be shown theoretically how might be arrived at, starting for something known, by a series if apparently easy steps. The examiner should be wary of ex post facto analisys of this kind” (“Bisogna ricordare che un’invenzione che di primo acchito appare ovvia potrebbe in realtà implicare un’attività inventiva. Una volta che una nuova idea è stata formulata si può spesso mostrare in teoria come ci si è potuti arrivare, partendo da qualcosa di noto, attraverso passaggi apparentemente semplici. L’esaminatore deve essere circospetto rispetto a queste analisi ex post facto”).

E ancora nello stesso senso è particolarmente esplicita la giurisprudenza del Board of Appeal dell’Ufficio Europeo dei Brevetti, che ha affermato ad esempio che “la determinazione del contributo tecnico raggiunto dall’invenzione rispetto allo stato della tecnica più prossimo richiede una obiettiva e tecnicamente significativa e logica comparazione della rivendicazione … con le informazioni tecniche comunicate all’esperto del settore dallo stato tecnica nota più prossima. Ogni tentativo di interpretazione (…) dello stato della tecnica anteriore (…) basato sulla conoscenza con il senno di poi dell’invenzione (…) rischia di occultare ingiustamente il contributo tecnico dell’invenzione” (“the determination of the technical contribution achieved by the invention over the closest state of the art requires an objective and technically meaningful and consistent comparison of the claimed combination of structural and functional features with the technical information conveyed to the skilled person by the closest state of the art. Any attempt to interpret the disclosure of the closest prior art … based on hindsight knowledge of the invention … would risk unfairly and tendentiously concealing the technical contribution of the invention”: così, la pronuncia nel caso T 970/00, sempre reperibile in EPO Case Law, cit.).

Queste affermazioni non hanno in realtà niente di sorprendente, e si ritrovano frequentemente anche nella nostra giurisprudenza e nella nostra dottrina, che su questo punto, almeno in termini generali, non hanno mancato di osservare che “Per valutare l’originalità dell’invenzione occorre fare riferimento alle nozioni accessibili al tecnico medio al momento del deposito della domanda, spogliandosi idealmente di tutte le conoscenze successivamente acquisite dallo stato della tecnica e che potrebbero facilmente far apparire evidente ciò che al momento della domanda non era assolutamente tale” (così Pret. Modena, 1° giugno 1999, in Giur. ann. dir. ind., 2000, 245 e ss.); ed ancora che “Ai fini di accertare se le caratteristiche tecniche proprie del trovato contraffatto siano o meno frutto di autonoma attività inventiva e perciò non evidenti, l’indagine deve essere svolta con riferimento alla data di deposito del brevetto e non della pretesa contraffazione” (così Trib. Parma, 18 dicembre 2002, ivi, 2003, 651 e ss.; già in precedenza questo principio era stato peraltro espresso innumerevoli volte dalla nostra giurisprudenza, essendo di portata basilare per l’indagine brevettuale: fra le moltissime pronunce si vedano ad esempio quelle di App. Milano, 20 settembre 1996, ivi, 1997, 332 e ss., che sottolinea come debba essere riconosciuto il requisito dell’originalità anche al trovato “visto a posteriori semplice”; e di App. Milano, 24 settembre 1985, ivi, 1985, n. 1915, che si esprime in termini del tutto analoghi.

Allo stesso modo la nostra dottrina ha sempre sottolineato che si deve “evita(re) di cadere nel facile equivoco psicologico di considerare come ovvia l’idea raggiunta dall’autore, senza tenere conto del fatto che, a posteriori, molte soluzioni, faticosamente o fortuitamente trovate, appaiono di tutta evidenza” (in questo senso Sena, I diritti sulle invenzioni ed i modelli industriali 3, Milano, 1990, p. 148); e che il giudizio di non evidenza “deve essere sempre retrodatato al momento del deposito della domanda di brevetto, evitando di dare ascolto a suggestioni ex post che, molto spesso, inducono a far ritenere evidente anche ciò che, ex ante, non lo era affatto” (così ancora Di Cataldo in Vanzetti-Di Cataldo, Manuale di diritto industriale6, cit., p. 392, anche se poi introduce in quest’impostazione elementi che rischiano di rivelarsi fuorvianti, scrivendo che “il giudizio di non evidenza … esprime un rapporto tra l’invenzione ed il divenire normale del settore cui l’invenzione attiene (e) quindi richiede una conoscenza articolata del settore e delle sue vicende, ed una specifica competenza tecnica, che consentano di individuare correttamente, nel confronto tra la storia e la realtà del settore pertinente, quei caratteri dell’invenzione che possono dare indicazioni utili in ordine alla presenza o all’assenza della originalità”: e cioè sembra spostare la valutazione dell’attività inventiva allontanarsi dalla considerazione specifica del problema tecnico affrontato e delle premesse da cui l’esperto del ramo avrebbe preso le mosse nell’affrontarlo, per concentrarsi sulla distinzione, necessariamente a posteriori tra “divenire normale del settore cui l’invenzione attiene” e “idea che supera le normali prospettive di evoluzione del settore”, che nell’intenzione dell’Autore è chiaramente equivalente, ma che può invece indurre in errore l’interprete.

Anche in questo caso non si tratta dunque di stravolgere gli insegnamenti più tradizionali della nostra dottrina e della nostra giurisprudenza, quanto piuttosto di approfondirli e, soprattutto, di applicarli ai singoli casi in modo coerente con la ratio della protezione brevettuale.

6. Tre recentissime pronunce giudiziarie ancora inedite (tranne una, che si legge in IP Law Galli Newsletter, Settembre 2009) la prima della Sezione Specializzata in Proprietà Industriale e Intellettuale del Tribunale di Torino e le altre due di quella di Milano, hanno avuto occasione di affrontare questi temi con una particolare consapevolezza dei problemi giuridici ad essi sottostanti, affrontandoli in una prospettiva che si presta a considerazioni di carattere più generale, anche al di là delle fattispecie concretamente esaminate (e sulle quali ovviamente mi astengo dal prendere posizione, trattandosi di vicende che ho seguito come difensore della parte vittoriosa). In tutti e tre i casi (due pronunce di merito ed una cautelare) la pronuncia era stata preceduta da una consulenza tecnica d’ufficio, ed è significativo che in due dei tre casi i Giudici abbiano ritenuto di discostarsi motivatamente dalle conclusioni raggiunte dalla consulenza espletata, appunto sulla base di rilievi di ordine giuridico relativi alla nozione di attività inventiva ed ai metodi da seguire per accertarne la sussistenza.

Nella prima sentenza (Trib. Torino, 23 febbraio 2009, Est. Contini, nel caso Pharmaland S.A. e altri c. L’Oreal Italia s.p.a.) veniva in considerazione essenzialmente l’impiego di una determinata sostanza chimica (gli acidi boswellici) per la produzione di un preparato cosmetico e/o dermatologico per il trattamento eudermico e/o trofico del biochimismo cutaneo”, in pratica per il trattamento di inestetismi come rughe e smagliature; e la validità di tale brevetto era stata messa in discussione sulla base dell’esistenza di anteriorità costituite da creme e preparati cosmetici contenenti, insieme a numerosi altri ingredienti, anche un estratto vegetale (l’olibano) del quale gli acidi boswellici rappresentano una delle molteplici componenti (nell’ordine delle centinaia).

I Giudici torinesi hanno invece escluso questa portata invalidante, in quanto hanno valorizzato la circostanza che non fosse stata dimostrata l’esistenza di indicazioni nella tecnica nota che potessero portare l’esperto del ramo ad attribuire l’efficacia cosmetica proprio all’olibano, e non agli altri ingredienti dei preparati anteriori, ovvero all’azione sinergica dei diversi ingredienti, mentre gli unici usi degli acidi boswellici in sé considerati che fossero già noti allo stesso della tecnica erano quelli come antinfiammatori, antiflogistici e sostanze da impiegare nella cura delle lesioni; e su questa base il Tribunale ha concluso che “con un giudizio ex ante il tecnico medio non (aveva) ragioni per ritenere evidente, alla data di deposito del brevetto, un impiego cosmetico di questo componente (gli acidi boswellici: n.d.r.) dell’olibano (del quale, invece, senza specificazione dei suoi componenti, erano noti diversi impieghi curativi e cosmetici)”, correggendo così le opposte conclusioni raggiunte dal C.T.U., appunto nella prospettiva di porsi nelle condizioni in cui sarebbe venuto a trovarsi un tecnico del ramo che si fosse interrogato sul problema tecnico risolto dal brevetto.

7. Il tema della valutazione ex ante dell’attività inventiva connessa all’identificazione di un nuovo uso di una sostanza già nota, che veniva in considerazione anche in questa pronuncia, ha formato più specifico oggetto di approfondimento nella seconda delle tre pronunce qui considerate – ossia quella di Trib. Milano, 14 maggio 2009, nel caso IBSA S.A. c. Pfizer Italia s.r.l. (Est. Rosa), in IP Law Galli Newsletter, Settembre 2009 –, che ha egualmente messo al centro della sua riflessione il problema tecnico affrontato dall’esperto del ramo e gli elementi di cui era ragionevole pensare che questi si avvalesse per affrontarlo.

Il carattere inventivo del nuovo uso è da lungo tempo riconosciuto nella nostra esperienza dottrinale e giurisprudenziale, che sin dal risalente precedente di Cass., 22 giugno 1972, n. 2070, in Giur. ann. dir. ind., 1972, n. 11 ha ritenuto dotato di attività inventiva il trovato concernente appunto l’uso di una sostanza nota per un uso che per tale sostanza non era precedentemente noto (si parla, in particolare, nella sentenza richiamata dell’ “idea nuova di utilizzare un prodotto chimico, già noto in sé e quanto al metodo di fabbricazione, nel settore dei diserbanti a seguito della scoperta della sua proprietà, prima ignota, di impedire la fotosintesi delle sole malerbe”); e anche di recente, la Suprema Corte ha ribadito che “Il concetto di nuovo uso nel campo dei brevetti chimici corrisponde a quello di traslazione nel campo dei brevetti della meccanica; è pertanto possibile nel campo della chimica la brevettabilità dell’applicazione nuova di un uso già noto, purché ciò avvenga da una materia ad un’altra ed in tale passaggio si realizzi una funzione in quanto tale sconosciuta alla precedente applicazione” (così, Cass., 28 giugno 2001, n. 8879, in Giur. ann. dir. ind., 2001, 91 e ss.). È del resto l’art. 54 n. 5 della Convenzione sul Brevetto Europeo (corrispondente all’art. 46, 4° comma, del Codice della Proprietà Industriale), a stabilire che le disposizioni in materia di novità dell’invenzione “non escludono la brevettabilità … di una sostanza o di una composizione di sostanze già considerata nello stato della tecnica, a condizione che la sua utilizzazione … non sia compresa nello stato della tecnica”; ed appunto sulla base di questa norma il Board of Appeal dell’E.P.O. ha sviluppato la sua giurisprudenza sul cosiddetto Swiss Type Claim.

Sennonché, come emerge anche da queste indicazioni, il nuovo uso rappresenta in questi casi l’unico presupposto e l’unica giustificazione di un’esclusiva che rappresenta un’eccezione al principio generale della libera disponibilità per il mercato di ciò che appartiene allo stato della tecnica, cosicché della sussistenza di tale requisito dev’essere data una lettura rigorosa, veriricando in concreto e caso per caso se via sia stato un reale contributo allo stato della tecnica da parte dell’inventore. In tale prospettiva le pronunce del Board of Appeal dell’E.P.O. hanno ad esempio chiarito che un nuovo uso in sé non è sufficiente a garantire una valida brevettazione, “se lo stato della tecnica anteriore indicasse un ben assodato legame fra il primo uso della sostanza e quello successivo” rivendicato (“if the prior art indicated a well-established link between the earlier and later uses”: cfr. T 59/87, punto 8.2. della raccolta EPO Case Law; nello stesso senso cfr. anche T 544/94), e soprattutto, hanno indicato con forza che tale nuovo uso deve necessariamente sussistere, non potendo essere sostituito con eventuali altri “vantaggi”.

In tal senso si veda ad esempio la decisione T 56/97, resa in un caso in cui si discuteva della brevettabilità di un’invenzione che insegnava che la somministrazione orale e a certi dosaggi di una sostanza nota come ipertensivo, facendo sì che la stessa producesse comunque questo effetto terapeutico senza tuttavia l’effetto collaterale di indurre la diuresi. In questo caso, il Board of Appeal ha escluso l’applicabilità della disposizione sul “secondo uso”, affermando che esso “aveva ritenuto che tutto ciò che era stato insegnato (dal brevetto: n.d.r.) era che, se i diuretici thiazide venisse somministrato in unità di dosaggio sufficientemente basse, il loro effetto diuretico sarebbe inferiore (vedi: insufficiente a produrre effettivamente diuresì) e addirittura possibilmente assente, mentre l’attività ipertensiva rimarrebbe inalterata. Anche ritenendo che questo non fosse noto allo stato della tecnica, ciò potrebbe essere considerato, secondo l’opinione del Board, solo come una parte addizionale di conoscenza rispetto alla nota applicazione terapeutica (sottolineatura nel testo) del diuretico thiazide all’ipertensione per curare ad alleviare i sintomi ed i … dell’ipertensione in soggetti umani o animali che ne avessero necessità, ma non può di per sé conferire novità a tale applicazione terapeutica. Per l’accertamento di novità, la scoperta richiederebbe di portare ad una nuova applicazione o finalità terapeutica (sottolineatura nel testo). Non essendo questo il caso, il Board non vede come la rivendicazione n. 1 possa essere ricostruita come relativa ad un secondo o ulteriore uso medico” (cfr. T 56/97, in EPO Case Law: “The board held that all that had been discovered was that, if thiazide diuretics were administered in sufficiently low dosage units, their diuretic effect would be to a certain extent less (see ‘insufficient to achieve effective diuresis’) it even possibly absent, while the antihypertensive activity remains. Even assuming that this was not known in the state of the art, it could only be regarded, in the board’s judgment, as an additional item of knowledge about the known therapeutic application of thiazide diuretic for the treatment of hypertension to alleviate and cure the symptoms and complaints of hypertension in an human or animal subject in need of it, but could not in itself confer novelty on this therapeutic application. For the acknowledgment of novelty, such a finding or discover would be required to lead to a specific new therapeutic application or purpose. That not being the case here, the board could not see how claim 1 could be construed as relating to a second or further medical use”).

Questa era appunto la situazione che il Tribunale di Milano, nella sua sentenza del 14 maggio 2009, ha ritenuto sussistesse anche per alcune delle rivendicazioni dei brevetti che gli erano stati sottoposti, rispetto alle quali ha rilevato che “Sebbene l’impostazione del tema sotto il profilo della novità (estrinseca) sia accettabile sul piano giuridico, appare di tutta evidenza che – essendo l’invenzione strutturata su di un risultato migliorativo del problema della prevenzione della mortalità post infartuale – l’omissione nel testo brevettuale di qualunque indicazione al riguardo per una o più delle rivendicazioni (indipendenti) si risolve – alternativamente – in un difetto della descrizione ovvero in un difetto di altezza inventiva, essendo il brevetto privo dal presupposto fondamentale della tutela giuridica assegnata dall’ordinamento (costituito dal miglioramento della tecnica)”.

8. Per le rivendicazioni residue (concernenti la somministrazione di EPA + DHA in forma di esteri etilici a pazienti post-infartuati per prevenirne la morte improvvisa), la sentenza ha affrontato un ulteriore profilo, e cioè quello della possibile valenza inventiva che consegue alla circostanza che la soluzione oggetto del trovato, pur in sé banale, fosse scoraggiata dall’esistenza di un pregiudizio tecnico che l’inventore ha superato.

Anche in questo caso, la sentenza ha preso le mosse dall’“approccio giuridico”, seguito anche dalla consulenza d’ufficio, scandito nelle tre fasi di “problema tecnico enunciato, soluzione proposta, evidenza o meno della soluzione rispetto allo stato dell’arte”: ma proprio sulla base di questo approccio ha negato che nel caso di specie l’attività inventiva fosse riscontrabile, in considerazione, da un lato, dell’omogeneità della “nuova” indicazione terapeutica con quelle già note e del fatto che la tecnica nota metteva a disposizione dell’esperto del ramo elementi idonei ad orientarlo verso la soluzione adottata dal brevetto; e dall’altro lato dalla circostanza che il pregiudizio tecnico invocato dal titolare del brevetto – e che in questa situazione sarebbe stato suo onere dimostrare – in realtà non poteva dirsi sussistente.

Appunto in questa prospettiva il Tribunale ha approfondito, probabilmente per la prima volta nel nostro Paese, la nozione di pregiudizio tecnico, ritenendo che esso sussista solo in presenza di una convinzione diffusa e radicata, che non può essere dimostrata sulla base di semplici opinioni di portata individuale: anche questo punto era stato chiarito già dalla giurisprudenza del Board of Appeal E.P.O., che ha sottolineato come di pregiudizio tecnico si possa parlare solo in presenza di “un’opinione o un’idea preconcetta largamente o universalmente sostenuta dagli esperti del settore” (in questo senso cfr. fra le altre, T341/94, T 531/95, T 452/96, T 695/90, T 60/1982, T 631/89, T tutte in consultabili in EPO Case Law, cit.); e ha quindi concluso che “Il pregiudizio tecnico deve essere largamente o universalmente sostenuto dagli esperti del settore interessato” (“The prejudice must be widely or universally held by export in the relevant field” : T 1212/01, ibidem). Sempre il Board of Appeal E.P.O. ha sottolineato al riguardo che “Il pregiudizio non può essere dimostrato partendo dal contenuto di un singolo documento brevettuale, perché le informazioni tecniche in un singolo documento brevettale o in articolo scientifico possono essere basate su speciali premesse ovvero sul punto di vista personale dell’autore” (“… prejudice cannot be demonstrated by a statement in a single patent specification, since the technical information in a patent specification ora a scientific artiche might be based on special premises or on the personal view of the author”), con la sola eccezione del caso in cui il pregiudizio risulti dalle “spiegazioni contenute in un lavoro standard o in un libro di testo che rappresentino le comuni conoscenze dell’esperto nel settore interessato” (“However, this principle does not apply to explanations in a standard work or textbook which reflected the common knowledge in the special field concerned”); e ancora ha affermato che “Una soluzione prospettata come il superamento di un problema tecnico deve contrastare con l’insegnamento prevalente degli esperti del settore, cioè sulle loro unanimi esperienze e nozioni, piuttosto che sulla mera citazione del fatto che essa è respinta da singoli specialisti” (“A solution put forward as overcoming a prejudice must clash with the prevailing teaching of experts in the field, ie their unanimous experience and notions, rather than merely citing its rejection by individual specialists”: cfr., fra le altre, T 19/81, T 104/93, T 321/87, T 900/95, T 1212/01, T 62/82: tutte consultabili in EPO Case Law, cit.).

Esattamente in linea con quest’impostazione, il Tribunale di Milano ha esaminato i diversi elementi di cui disponeva l’esperto del ramo che si fosse posto il problema oggetto del brevetto in esame, riscontrando che le indicazioni contrarie al brevetto erano limitate a due studi che venivano controbilanciati da altri di segno opposto e soprattutto dall’esistenza di un protocollo di sperimentazioni cliniche la cui applicazione avrebbe condotto esattamente ai risultati poi rivendicati: ed ha quindi concluso che “il pregiudizio tecnico attribuito agli esteri etilici – di cui il brevetto non fa alcuna menzione – è mera ricostruzione a posteriori, ispirata ad esigenze di salvamento di un inammissibile brevetto di pura sperimentazione su progetto (già) noto”.

Al di là del caso di specie, questo rilievo permette dunque di apprezzare come il rifiuto di valutazioni ex post facto non necessariamente conduca ad un apprezzamento più “generoso” dell’attività inventiva, ma al contrario renda possibile una considerazione più realistica dell’apporto dell’inventore, nella già indicata prospettiva di commisuri la protezione dei diritti di proprietà industriale alla portata che essi concretamente assolvono.

9. Di un altro aspetto significativo, appunto nella prospettiva dell’approccio “concreto” all’accertamento dell’attività inventiva, si è occupata la terza recentissima pronuncia a cui si è fatto cenno, e cioè l’ordinanza di Trib. Milano, 29 dicembre 2008 (Est. De Sapia), resa nel caso Drin.it Italia s.r.l. c. Samsung Electronics Italia s.p.a. e Bruno Castoldi s.r.l., già menzionata come esempio della possibilità di ottenere provvedimenti cautelari in tempi ragionevoli anche in sede cautelare.

In questo caso, uno degli aspetti che è stato valorizzato, anzitutto dalla consulenza tecnica e poi dalla pronuncia giudiziaria, nella chiave di valutare il carattere inventivo del trovato di cui si discuteva, era rappresentato dalla circostanza che “Il problema risolto dal brevetto non è in alcun modo menzionato nei documenti citati; pertanto non vi è nulla nell’arte nota che possa portare la persona esperta del ramo a pensare a tale problema, e tanto meno alla sua soluzione. Infatti, tutti i documenti in questione indirizzano problemi del tutto diversi” (Relazione del C.T.U. ing. Pezzoli, p. 19). Ed in effetti che questo sia un caso di trovato dotato di altezza inventiva, è riconosciuto anche dalle Guidelines dell’E.P.O., ossia dell’Ufficio Europeo dei Brevetti, che menzionano quest’ipotesi proprio come il primo esempio di valido brevetto sotto il profilo dell’attività inventiva. Si legge infatti in tali Guidelines, all’inizio del paragrafo 6 del capitolo 11, dedicato appunto all’attività inventiva, che “Un’invenzione può, ad esempio, essere basata su quanto segue: (i) la formulazione di una nuova idea o di un problema tecnico da risolvere ancora non riconosciuto come tale (ancorché la soluzione sia ovvia una volta che il problema sia chiaramente dichiarato)” [An invention may, for example, be based on the following: (i) the formulation of a new idea or of a yet unrecognised problem to be solved (the solution being obvious once the problem is clearly stated]. Ed anche nella dottrina straniera si è enfatizzata “the possible exixtence of problem inventions, or more appropriately ‘problem discoveries’” rispetto all’arte nota e si è osservato che in questi casi “The consequence is that the claimed subject-matter is necessarily non obvious with respect to such art” (così ancora Szabo, The problem and Solution Approach in the European Patent Office, cit., alle pp. 470-471, dove richiama in senso conforme anche la pronuncia di T 2/83, in EPO Case Law, cit.).

Anche in questo caso, si tratta dunque di riconoscere che l’elemento decisivo nella valutazione dell’attività inventiva è quello di ricostruire le condizioni obiettive in cui un esperto del settore si sarebbe trovato nell’affrontare il problema tecnico oggetto del brevetto, traendo quindi da questa ricostruzione le conseguenze giuridiche in termini di evidenza o non evidenza del trovato rivendicato dal brevetto stesso.

10. Il discorso non è in realtà diverso se si considera l’ambito di tutela da riservare a ciascun brevetto. A questo riguardo pare necessario prendere le mosse, per la sua chiarezza, anzitutto dal Protocollo Interpretativo relativo all’art. 69 della Convenzione sul Brevetto Europeo, che già nel suo testo originario affermava che “l’Art. 69 non dovrebbe essere interpretato nel senso che l’ambito di protezione conferito da un brevetto europeo debba essere determinato come quello definito dal significato ristretto e letterale della parole usate nelle rivendicazioni, la descrizione e i disegni servendo soltanto per dissipare un’ambiguità individuata nelle rivendicazioni. Neppure esso dovrebbe essere interpretato nel senso che le rivendicazioni servano soltanto come una linea guida e che l’effettiva protezione conferita possa estendersi a quanto, considerando la descrizione ed i disegni da parte di una persona esperta nel ramo, il titolare del brevetto ha contemplato. Al contrario essa deve essere interpretata come definente una posizione fra questi estremi che assicura al tempo stesso una protezione equa per il titolare del brevetto ed un ragionevole grado di certezza per i terzi”. Con l’entrata in vigore della nuova versione della Convenzione nota come EPC 2000, anche il Protocollo Interpretativo dell’art. 69 è stato modificato, con l’aggiunta, dopo la previsione appena riportata, che ora costituisce l’art. 1 (“Principi generali”) del Protocollo, di una seconda disposizione (art. 2) espressamente intitolata “Equivalenti”, che prevede che “Per determinare la portata della protezione conferita dal brevetto europeo, si tiene debitamente conto di ogni elemento equivalente ad un elemento indicato nelle rivendicazioni”.

In tal modo viene ribadita con forza la centralità delle rivendicazioni anche nell’accertamento della contraffazione “per equivalenti”, anche qui in linea con la ratio fondamentale del sistema dei brevetti, che abbiamo identificato sopra nell’equilibrio tra esclusiva e concorrenza e nell’esigenza di far sì che la protezione riservata al titolare costituisca un incentivo al progresso tecnico. Questa ratio è ben presente alla nostra dottrina che non a caso ha messo in luce, anche recentemente, che “l’esigenza del terzi di non trovarsi di fronte ad ostacoli non (facilmente) identificabili è un’esigenza primaria. L’economia non potrebbe altrimenti svilupparsi. Il brevetto non è solo uno strumento che consente all’inventore di monopolizzare una soluzione tecnologica, ma una pubblicazione che insegna ai terzi certe soluzioni. Infatti i terzi possono non solo riprodurre l’invenzione alla scadenza del brevetto, ma anche fin dalla data di pubblicazione del titolo acquisire quelle nozioni e procedere a proprie ideazioni, con un’attività di ‘designing around’. Il contenuto normativo del brevetto è riservato all’inventore, ma il contributo scientifico è posto a disposizione di tutti. Quindi è ragionevole porre a carico del brevettante l’onere di parlare chiaro più che ai terzi di comprendere lo scuro. E quindi se una soluzione poteva essere prevista dall’inventore, e lo stesso non l’ha menzionata, si deve pensare che lo stesso non abbia voluto o saputo o non si sia dato pena di rivendicarla”; ed ha anzi aggiunto che “la tendenza di molti C.T.U. di largheggiare con l’equivalenza spesse volte è diretta, anche se inconsciamente, a coprire (mi si consenta l’impertinenza) un lavoro non perfetto da parte del consulente brevettuale, che si traduce in manchevolezze nella stesura del brevetto. Questo atteggiamento è da respingere: i brevetti vanno scritti con cura, poiché dalla loro violazione discendono conseguenze assai gravi (addirittura penali, in certi casi)” (così Franzosi, Il concetto di equivalenza, ne Il Dir. Ind., 2005).

Da quanto precede risulta evidente che all’ampliamento della protezione brevettale mediante in ricorso alla nozione di equivalenza si potrà procedere soltanto quando la struttura “equivalente” costituisca una sostituzione ovvia della struttura rivendicata dal brevetto, attraverso la sostituzione di specifici “elementi” con altri che, già a priori (e quindi non sulla base di un comodo giudizio ex post) risultassero tutti in grado di assolvere la medesima funzione di quella brevettata. Per accertare l’equivalenza non si può dunque pensare di fare riferimento ad una sorta di versione “ideale” del trovato brevettato (l’“idea di soluzione”), ricostruita a posteriori, elidendo dal brevetto le caratteristiche considerate “non essenziali”, ma si dovrà fare riferimento al trovato così come esso è stato brevettato, e quindi a tutte le sue caratteristiche comprese nelle rivendicazioni, senza aribitrarie eliminazioni, ma dovendosi giustificare appunto in termini di equivalenza ciascuna singola sostituzione.

In questo caso il tema, benché a sua volta sia stato ampiamente trattato dalla giurisprudenza, non è ancora emerso da essa con affermazioni del tutto scevre di ambiguità: forse una delle enunciazioni più chiare è quella di Trib. Roma, 9 settembre 2004, in Giur. ann. dir. ind., 2005, 462 e ss., secondo cui “Il giudizio di equivalenza pone a confronto l’invenzione brevettata con la realizzazione del terzo, verificando dapprima l’identità degli elementi di struttura e funzione dei due termini di paragone, in relazione alla soluzione del problema tecnico offerto dall’invenzione”; e si può probabilmente richiamare anche uno spunto contenuto in Cass., 13 gennaio 2004, n. 257, in Giur. ann. dir. ind., 2004, 69 e ss., che ha affermato che “Per valutare se la realizzazione accusata di contraffazione possa considerarsi equivalente a quella brevettata, occorre chiedersi se … essa presenti carattere di originalità, offrendo una risposta non banale, né ripetitiva, della precedente”, e che solo se la risposta a questa domanda è negativa si può parlare di equivalenza: il che sembra indicare che la contraffazione per equivalenti presuppone necessariamente la sussistenza di una reale e completa identità funzionale fra gli elementi presenti nel trovato brevettato e quelli ad essi sostituiti dal preteso contraffattore, consistendo tale contraffazione nella (banale e ripetitiva, appunto) sostituzione da parte del contraffattore di (alcuni elementi) della struttura o del processo rivendicato con altri che a priori potevano essere considerati idonei a conseguire lo stesso risultato.

In tal modo il cerchio si chiude. Abbiamo visto all’inizio che dalle rivendicazioni si deve partire per determinare il problema tecnico obiettivo che forma oggetto del brevetto e per confrontarsi con le anteriorità e con l’insegnamento in esse contenuto, così da valutare prima la novità e poi l’attività inventiva del trovato nella prospettiva di ricostruire le condizioni obiettive in cui questo problema si presentava all’esperto del settore; ed alle rivendicazioni si ritorna per determinare lo spazio di esclusiva effettivamente riservato al titolare, ancorché sempre atraverso un’attività d’interpretazione del brevetto, che deve necessariamente essere condotta dal punto di vista dell’esperto del settore (così per tutti Di Cataldo, I brevetti per invenzione e per modello2, in Commentario al Codice Civile a cura di Schlesinger, Milano, 2000, p. 48, dove scrive che “Nella lettura delle rivendicazioni e della descrizione occorre tener presente che il soggetto dell’operazione è il tecnico medio del settore, dotato del bagaglio di conoscenze e capacità che possono a lui attribuirsi alla data di deposito della domanda di brevetto”).

E ciò consente di configurare un equilibrio tra gli interessi dei diversi attori coinvolti (il titolare del brevetto, i suoi concorrenti, i consumatori finali), conforme alla funzione che in generale la protezione dell’innovazione è in grado di svolgere nella realtà economica attuale.

Sommario:

1. Cause in materia brevettuale e strategie processuali.

2. Problem-Solution Approach e sue applicazioni concrete.

3. La ratio della tutela brevettuale e le sue ricadute pratiche.

4. Novità e interpretazione delle anteriorità.

5. Valutazione dell’attività inventiva e rischio dell’analisi ex post facto.

6. (segue) Giudizio ex ante e rilevanza delle anteriorità.

7. Brevetti di nuovo uso e attività inventiva.

8. Il pregiudizio tecnico: nozione e rilevanza.

9. Problema tecnico nuovo e attività inventiva.

10. Contraffazione ed equivalenza: la centralità delle rivendicazioni.

1. Benché l’Italia abbia uniformato sin dal 1979 il suo diritto dei brevetti a quello europeo, aderendo alla Convenzione di Strasburgo e alla Convenzione sul Brevetto Europeo (ed anche a EPC 2000, sia pure con una ratifica arrivata veramente in articulo mortis) ed abbia espressamente inserito nel Codice della Proprietà Industriale, all’art. 52, anche una norma sostanzialmente corrispondente all’art. 69 della C.B.E. ed al relativo Protocollo di Interpretazione, in materia brevettuale il nostro Paese non è riuscita a scrollarsi di dosso il poco ambito titolo di “paradiso dei contraffattori”.

Certamente questa nomea deriva in buona parte dalla durata spesso abnorme delle nostre cause di merito anche in materia industrialistica, certamente oggi meno clamorosa che in passato, specie dopo l’istituzione nel 2003 delle Sezioni Specializzate in materia di Proprietà Industriale e Intellettuale, ma comunque ancora più elevata della media europea, al punto che, una quindicina d’anni fa, era stata “inventata” la strategia processuale delle cosiddette azioni torpedo, ossia di azioni di accertamento negativo della contraffazione con effetti cross-border, cioè estesi a più Paesi europei, diretta a ritardare e a bloccare la cognizione dei Giudici degli altri Paesi proprio facendo leva sulla maggior durata dei nostri processi. In realtà questa strategia costituiva una vera “leggenda nera”, sostanzialmente non corrispondente al vero, dal momento che i nostri Giudici hanno sempre negato di poter conoscere in via di accertamento negativo di contraffazioni effettuate all’estero e quindi relative a brevetti paralleli a quello italiano (o, il che è sostanzialmente lo stesso, a frazioni straniere di un medesimo brevetto europeo) ed avevano “affondato” le azioni torpedo in tempi ragionevolmente brevi, salvo che nell’unico caso in cui l’Italia fosse il Paese da cui l’illecito aveva avuto inizio, cioè quello in cui venivano realizzati i prodotti del cui carattere contraffattorio si discuteva, poi esportati in altri Paesi. In ogni caso, inoltre, nel sistema della Convenzione di Bruxelles del 1968 ed in quello del corrispondente Regolamento n. 2001/44/C.E. le azioni di merito di accertamento negativo non precludevano (e non precludono) al titolare del brevetto la possibilità di chiedere misure cautelari a tutela di esso ai Giudici del Paese in cui il preteso illecito è stato o sta per essere commesso (in argomento rinvio in particolare a Galli, Problemi e prospettive delle cross-border injunctions in materia di proprietà intellettuale, in Riv. dir. ind., 1999, I, 21 e ss.).

La possibilità di azioni cross-border, positive o negative, è stata del resto esclusa, o quanto meno ristretta ad ipotesi sostanzialmente marginali, per effetto delle due pronunce di Corte Giust. C.E., 12 luglio 2006, rese rispettivamente nei procedimenti C-539/03 e C-4/03, che hanno abbattuto i due pilastri della costruzione giuridica favorevole all’ammissibilità dei provvedimenti cross-border: la prima ritenendo che il titolo di giurisdizione di cui all’art. 6.1 della Convenzione e del Regolamento non operi quando la causa petendi invocata nei confronti dei convenuti stranieri sia costituita da atti di contraffazione da essi compiuti nei rispettivi Paesi (diversi da quello del Foro) e relativi alle (autonome) frazioni nazionali efficaci in tali Paesi del medesimo brevetto europeo fatto valere nei confronti del convenuto avente sede nel Paese del Foro; la seconda negando che la circostanza che la questione di validità di un brevetto sia esaminata solo incidenter tantum valga ad escludere l’operatività della riserva di giurisdizione a favore del Giudice del Paese in cui il brevetto opera prevista dall’art. 16 della Convenzione e dall’art. 22 del Regolamento, il che significa che basta che il convenuto eccepisca in modo non ictu oculi strumentale la nullità del brevetto straniero invocato nei suoi confronti, per paralizzare l’azione di contraffazione proposta davanti ad un Giudice diverso da quello individuato dalle due norme richiamate da ultimo (si veda il commento a queste due pronunce in Galli, La Corte di Giustizia C.E. restringe drasticamente lo spazio per le azioni cross-border in materia di brevetti, in Int’l Lis, 2006, ove si discutono anche le possibilità di azioni cross-border che ancora residuano dopo queste sentenze).

Non è neppure vero, d’altra parte, che la protezione dei brevetti nel nostro Paese sia più difficoltosa che altrove. Se è vero infatti che la durata dei processi di merito continua a rappresentare un grave problema, ad esso supplisce l’efficienza della tutela cautelare, che oggi è tornata ad operare efficacemente anche in materia di brevetti, grazie al fatto che si ammette lo svolgimento di consulenze tecniche “abbreviate” in sede cautelare: emblematica è l’ordinanza emessa dal Tribunale di Milano il 29 dicembre 2008 nel caso Drin.it Italia s.r.l. c. Samsung Electronics Italia s.p.a. e Bruno Castoldi s.r.l. (Est. De Sapia), emessa in accoglimento di un ricorso presentato il 5 maggio 2008, appunto dopo che una consulenza tecnica aveva giudicato il brevetto invocato valido e contraffatto. Ancor più di recente Trib. Venezia, ord. 10 luglio 2009, Est. Caprioli, resa nel caso Vorwerk International AG c. Sirman s.p.a., ha disposto una consulenza tecnica in fase di reclamo cautelare, dopo che un provvedimento cautelare era stato concesso inaudita altera parte e poi revocato senza previo contraddittorio tecnico, confermando quindi che la consulenza anche in fase cautelare è la via maestra per conciliare un’efficace tutela dei brevetti con i diritti di difesa di chi è accusato di contraffazione.

Né va dimenticato che in Italia la tutela cautelare può essere concessa anche sulla base di semplici domande di brevetto nazionale od europeo, purché naturalmente rese opponibili al preteso contraffattore con la pubblicazione o la notifica (e nel caso di domanda di brevetto europeo, con il deposito presso l’U.I.B.M. o la notifica all’interessato della traduzione delle rivendicazioni). Ed ancora si può aggiungere che si ammette anche la richiesta in via d’urgenza di una pronuncia di accertamento negativo della contraffazione, sussistendone naturalmente i presupposti sia sotto il profilo dell’interesse che sotto quello dell’urgenza: il che assicura anche da questo punto di vista una ragionevole situazione di “parità delle armi” tra titolare del diritto che si pretende violato e autore dell’ipotetica violazione.

2. Ciò tuttavia non basterebbe ancora, se, come spesso si dice, validità e contraffazione venissero considerate in Italia con criteri sostanzialmente diversi, e meno favorevoli al titolare, di quanto avvenga negli altri Paesi.

Certamente la nostra dottrina non sempre brilla per chiarezza su questo tema, e anche la giurisprudenza presenta pericolose incertezze. Quando si afferma, come fa uno dei nostri più diffusi Manuali di diritto industriale, che il requisito dell’attività inventiva “segna una linea di confine tra ciò che appartiene al divenire normale di ciascun settore, che potrebbe essere realizzato da qualunque operatore del settore, e quindi non merita il brevetto, e ciò che è frutto di una idea che supera le normali prospettive di evoluzione del settore, che non è alla portata dei tanti che in esso operano, e quindi merita l’attribuzione del diritto esclusivo” (Di Cataldo in Vanzetti-Di Cataldo, Manuale di diritto industriale6, Milano, 2009, pp. 389-390), si rischia infatti di introdurre in questa valutazione elementi che vi sono estranei, e che portano a riservare la tutela brevettuale solo ad invenzioni di “livello alto” (dove questa “altezza” presenta tra l’altro forti margini di opinabilità), confinando tutte le innovazioni “incrementali”, di cui in realtà vive l’evoluzione tecnica, fuori dall’ambito della proteggibilità.

Questo atteggiamento riemerge in effetti anche nella pratica giudiziaria e nelle consulenze, dove talvolta si accompagna, quasi per compensazione, ad una sottovalutazione del ruolo delle rivendicazioni nel delimitare l’ambito di protezione del brevetto, attraverso una lettura della dottrina degli equivalenti che fa leva non sulla sostituzione di specifici elementi con altri di cui a priori si poteva conoscere l’idoneità a svolgere la stessa funzione dell’elemento sostituito, bensì sulla coincidenza degli “elementi essenziali dell’invenzione brevettata” (ivi, p. 450), introducendo una distinzione tra elementi tutti egualmente compresi nelle rivendicazioni, che può portare, esattamente all’opposto, a un’ipertrofia della protezione, in contrasto con le esigenze di certezza per i terzi sull’ambito di protezione del brevetto, che il sistema imperniato sulle rivendicazioni necessariamente è invece diretto a soddisfare.

Rispetto a questi due difetti, solo apparentemente opposti, costituiscono certamente un significativo “antidoto” l’esperienza dell’Ufficio Europeo dei Brevetti e quella delle giurisdizioni straniere che più da vicino ne condividono l’impostazione generale, basate su quello che viene chiamato problem-solution approach, ossia l’approccio che attribuisce al problema oggettivo risolto dal brevetto rilievo centrale per valutare l’attività inventiva, e prima ancora per individuare la prior art effettivamente rilevante. Il pregio principale di questo approccio è quello di obiettivare il giudizio sull’attività inventiva, ricostruendo le condizioni in cui un esperto del settore (che disponesse, beninteso, di tutta l’arte nota) si sarebbe trovato nell’affrontare il problema tecnico oggetto del brevetto, così riducendo il più possibile il rischio che le conoscenze ex post di cui inevitabilmente dispone chi compie la valutazione circa la sussistenza dei requisiti di validità del brevetto interferiscano in quest’indagine: così evitando da un lato di cadere nella “trappola” per cui, come il classico uovo di Colombo, ad un’analisi a posteriori può apparire ovvio anche ciò che a priori non lo era affatto, e dall’altro lato nell’errore, forse meno frequente ma non meno insidioso, di prendere per buono un problema inesistente, costruito a tavolino per far apparire non ovvia, sempre a posteriori, una soluzione che in realtà era tale e per giustificare così la concessione di un brevetto che non avrebbe invece dovuto venire rilasciato.

È appena il caso di sottolineare che attraverso questo approccio non ci si propone di ricostruire le condizioni “soggettive” in cui l’inventore è concretamente pervenuto al trovato, che di per sé non sono decisive, per l’ovvia ragione che, di regola, l’inventore “vero” non dispone di tutte le conoscenze che invece vanno attribuite al tecnico del ramo, ma serve per individuare nel modo meno discrezionale possibile l’iter logico che avrebbe seguito l’esperto nel considerare il problema. Questo approccio, d’altra parte, non può essere applicato in modo meccanicistico, facendo del tecnico del ramo una sorta di “cane di Pavlov”, privo di qualsiasi capacità di discernimento, ma, tutto all’opposto, serve a comprendere i passi che ragionevolmente avrebbe compiuto (e i documenti che avrebbe considerato) chi si fosse proposto di affrontare un dato problema: in questo senso, la consueta affermazione dell’Ufficio europeo secondo cui, per dimostrare l’ovvietà dell’invenzione, “It is not sufficient to prove that the man skilled in the art could have arrived at the specific solution by combining known features; the solution is obvious if an average pratictioner would have applied the features in combination to arrive at the subject-matter claimed” (cfr. Knesch, Assessing Inventive Step in Examination and Opposition Proceedings in the EPO, in EPI Information¸1994, 3, 95 e ss.) non significa che la brevettabilità dell’invenzione vada esclusa solo nel caso in cui l’esperto si trovasse di fronte una strada obbligata, dovendosi invece valutare ogni volta, e caso per caso, se l’impiego di determinati accorgimenti fosse suggerito dai documenti che il tecnico avrebbe considerato nell’esaminare il problema (e allora l’invenzione è ovvia), oppure no (e allora il raggiungimento del trovato implica un’attività inventiva). Anche questo punto è stato messo in risalto dalla dottrina straniera, che ha sottolineato come “When it come to estimate the mental likelihood for a skilled person to procede with the available information towards the inventino, a degree of uncertainty may sometimes remain, for instance in chemistry. However the case might still be one which is obvious to try, that is to take the necessary steps towards the claimed solution, in spite of some residual riscks, in view of a high probability of success” e come non sia possible riconocere carattere inventivo “wherein the result would ensue more or less automatically by trying a few variants”, cosicché “This again means that obviousness need not always be fully predictable a priori” (in tal senso Szabo, The problem and Solution Approach in the European Patent Office, in IIC, 1995, 457 e ss.).

Ed anche qui è appena il caso di sottolineare la centralità delle rivendicazioni, che, per quanto si è detto, non riguarda solo la fase dell’accertamento della contraffazione, ma, prima ancora, quello della valutazione dei requisiti di brevettabilità, ed anzitutto di quello dell’attività inventiva, dal momento che solo caratteristiche effettivamente rivendicate possono essere prese in considerazione per stabilire le differenze tra il brevetto e l’arte nota (cfr. ancora Knesch, op. cit., p. 96).

3. Questi generalissimi principî si giustificano anche in una prospettiva che potremmo definire “economica”, o pro-concorrenziale, ma che almeno sino a un certo punto può anche dirsi di diritto naturale, essendo rivolta a commisurare la protezione dei diritti di proprietà industriale alla portata che essi concretamente assolvono nel “mondo della vita”.

È infatti certamente vero che il brevetto svolge una funzione fondamentale nel promuovere l’innovazione, sulla base del rilievo che, se si vuole stimolare un soggetto a creare qualcosa di nuovo, occorre che il ritorno economico che il creatore si aspetta dallo sfruttamento della sua creazione sia superiore ai costi preventivati, e che l’unico strumento compatibile con un sistema economico di mercato per arrivare a questo risultato è appunto quello della concessione di un’esclusiva, ossia dell’istituzione dei diritti di proprietà intellettuale [in argomento richiamo per tutti la classica analisi svolta da Landes-Posner, An Economic Analysis of Copyright Law, in 18 Journal of Legal Studies (1989), p. 325 s., dove si osserva – a proposito dei diritti d’autore, ma con considerazioni almeno in parte estensibili anche ad altri diritti della proprietà intellettuale, ed anzitutto a quelli sulle innovazioni tecniche – che “For a new work to be created the expected return – typically, and we shall assume exclusively, from the sale of copies – must exceed the expected costs”; per le obiezioni che sono state mosse a questa impostazione rinvio alla mia Introduzione e ad alcuni dei saggi raccolti in Aa.Vv., La proprietà (intellettuale) è un furto? Riflessioni su un diritto per il futuro, Treviglio-Soveria Mannelli, 2007].

Occorre però in pari tempo evitare che questo stimolo possa diventare un freno, particolarmente nel campo della c.d. innovazione derivata, e cioè evitare che dilatando l’ambito dell’esclusiva si finisca per tradire la ratio di fondo del sistema brevettuale, le cui norme sono proprio ispirate all’esigenza di far sì che “l’invenzione, ancorché brevettata, entri al più presto nel patrimonio dei dati tecnico-scientifici a tutti accessibili” e quindi costituisca la base per innovazione ulteriore (così Marchetti, Commento all’art. 1 l. invenzioni, in Aa.Vv., Revisione della legislazione nazionale in materia di brevetti per invenzioni industriali in applicazione della delega di cui alla legge 26 maggio 1978 n. 260. Commentario, in Nuove leggi civ. comm., 1981, 677; e più ampiamente il mio L’uso sperimentale dell’altrui invenzione brevettata, in Riv. dir. ind., 1998, I,17 e ss., dove richiamavo anche la la considerazione dei valori di rango costituzionale in giuoco, ed in particolare di quello della promozione della “ricerca scientifica e tecnica” di cui all’art. 9 Cost., norma che, non va dimenticato, venne posta a fondamento della sentenza con la quale nel 1978 la Corte Costituzionale giudicò illegittimo e fece quindi venir meno il divieto di brevettazione dei farmaci: Corte Cost., 20 marzo 1978, n. 20, in Riv. dir. ind., 1978, II, 3 e ss.).

In questo senso, anzi, possiamo dire che i brevetti costituiscono la più grande miniera d’informazioni tecniche al mondo e quindi le nostre imprese dovrebbero abituarsi a consultare le banche dati, non solo per sapere che cosa non devono fare per evitare di diventare contraffattori, ma anche per ricavarne quello che devono conoscere, per diventare a loro volta innovatori, ed anche semplicemente per fare agli innovatori una legittima concorrenza, utilizzando la parte di ciò che hanno realizzato che non è coperta da esclusiva.

E ancora si deve aggiungere che a un sistema nel quale la protezione può riguardare anche innovazioni “incrementali”, di contenuto limitato, deve necessariamente corrispondere – anche in una prospettiva di bilanciamento d’interessi – una correlativa limitazione della protezione, che sia commisurata a quanto espressamente rivendicato, con i soli ampliamenti derivanti dall’applicazione del principio dell’equivalenza (e naturalmente alla dottrina delle invenzioni dipendenti), inteso però nel senso che si è detto sopra e cioè sempre misurato sulla portata delle rivendicazioni, che vanno bensì interpretate, ovviamente, anche alla luce delle rivendicazioni e dei disegni (e più in generale delle conoscenze dell’esperto del settore, al quale si rivolgono), ma devono comunque rimanere il punto di riferimento centrale e ineludibile dell’analisi brevettuale.

4. Alla luce di queste considerazioni è evidente che anche le affermazioni più diffuse e tralatizie devono essere riconsiderate: non necessariamente per abbandonarle, ma piuttosto per meglio comprenderne la portata e le implicazioni.

Ciò vale anzitutto per la novità, che nel nostro sistema, tradizionalmente, viene considerata assente solo in presenza di una singola anteriorità che anticipi sotto ogni profilo il trovato brevettato, e cioè che contenga l’identico oggetto della privativa. Sul punto si veda da ultimo, in giurisprudenza, App. Milano, 28 febbraio 2003, in Giur. ann. dir. ind., 2003, n. 4551, che ha appunto affermato “Un’invenzione è priva di novità solo allorché, considerata nel suo complesso, risulti anticipata in tutti i suoi elementi da un’anteriorità che riproduca integralmente i medesimi elementi: anteriorità che deve pertanto consistere in un unico brevetto e non nella sommatoria di due o più brevetti anteriori”; e nello stesso senso, con particolare chiarezza, tra le molte, App. Milano, 29 dicembre 1992, ivi, 1992, n. 2923, secondo cui “Il fatto che le anteriorità opposte ad un brevetto per invenzione non abbiano contenuto ‘identicò a quello del brevetto stesso comporta che a quest’ultimo sia riconosciuto il requisito della novità estrinseca”; e in dottrina, per tutti, Di Cataldo, I brevetti per invenzione e per modello², Milano, 2000, p. 99, il quale a sua volta scrive che “L’esame di novità viene svolto confrontando l’invenzione che si giudica con ciascuna delle anteriorità, e si ha assenza di novità se l’invenzione coincide integralmente con una di esse. Se però l’invenzione coincide con una somma di anteriorità, ciascuna identica ad una parte dell’invenzione, questa dev’essere considerata provvista di novità; in altri termini, ai fini del giudizio di novità le anteriorità non si compongono in mosaico, ma restano isolate ciascuna nella propria individualità”.

Può pertanto lasciare a prima vista stupiti notare che l’E.P.O. ha affermato, in materia di modifica della domanda di brevetto, che “il test per stabilire se vi è materia aggiuntiva corrisponde al test di novità, essendo richiesto in entrambi i casi che si accerti se l’informazione sia o meno derivabile in modo diretto e non ambiguo da quella precedentemente presentata, rispettivamente nella domanda di brevetto originaria e in un documento della tecnica nota. L’emendamento non è consentito se il cambiamento nel contenuto della domanda che ne deriva, ossia la materia introdotta dall’emendamento, è nuova rispetto al contenuto della domanda originaria.” (“The test for additional subject-matter corresponds to the test for novelty only insofar as both require assessment of whether or not information is directly and unambiguously derivable from that previously presented, in the originally filed application or in a prior document respectively. An amendment is not allowable if the resulting change in content of the application, in other words the subject-matter generated by the amendment, is novel when compared with the content of the original application. ”: così espressamente T 194/84, in EPO Case Law, disponibile sul sito Internet www.epoline.eu). E sempre in sede E.P.O. si è osservato che, ai fini anzidetti, si deve “verificare se nella domanda divisionale siano state introdotte informazioni tecniche che l’esperto del ramo non avrebbe potuto obiettivamente ed in modo non ambiguo far discendere dalla domanda originaria così come depositata” (“it has to be established whether technical information has been introduced into that divisional application which a skilled person would not have objectively and unambiguously derived from the earlier application as filed”: così, T 402/00, T 423/03 in EPO Case Law, cit.).

Ciò ovviamente non contraddice, ma approfondisce la nostra impostazione tradizionale, perché è vero che il test di novità continua ad essere basato sul confronto tra l’invenzione di cui si discute e ogni singola anteriorità isolatamente considerata, ma non richiede necessariamente, per configurare l’anticipazione, un’identità “fotografica”, giacché comunue quest’anteriorità va interpretata e considerata distruttiva della novità ogni volta che da essa l’esperto del ramo sia in grado di ricavare da essa in maniera non ambigua l’insegnamento che forma oggetto del brevetto considerato, appunto avvalendosi del medesimo test sulla base del quale si deve verificare se una modifica delle rivendicazioni è ammissibile o meno, ed in relazione al quale sempre il Board of Appeal dell’E.P.O. ha esattamente affermato che “la modifica di una rivendicazione con l’introduzione di un elemento tecnico isolato dalla descrizione di una specifica forma di realizzazione non è ammissibile se non è chiaro oltre ogni dubbio per la persona esperta del ramo dalla documentazione della domanda di brevetto come depositata che l’oggetto della rivendicazione così emendato rappresenta la completa soluzione al problema tecnico riconoscibile in maniera non ambigua dalla domanda” (“In T 284/94 [OJ 1999, 464] the board stated that an amendment of a claim by the introduction of a technical feature taken in isolation from the description of a specific embodiment is not allowable under Art. 123(2) EPC if it is not clear beyond any doubt for a skilled reader from the application documents as filed that the subject-matter of the claim thus amended provides a complete solution to a technical problem unambiguously recognizable from the application”: cfr. EPO Case Law, cit.); ed ancora che “la combinazione, non supportata nella domanda di brevetto come depositata, di un elemento per ciascuna di due liste di elementi significa che, sebbene l’applicazione possa concettualmente contenere l’oggetto rivendicato, essa non lo insegna in quella particolare e specifica forma. Per questa sola ragione la rivendicazione non è supportata dalla descrizione” (“the combination - unsupported in the application as filed - of one item from each of two lists of features meant that although the application might conceptually comprise the claimed subject-matter, it did not disclose it in that particular individual form. For that reason alone, claim 1 of the main request was not supported by the description”: così T 727/00, in EPO Case Law, cit.): e ciò in quanto, come ha egualmente precisato con grande rigore concettuale la giurisprudenza del Board of Appeal, “il contenuto di un documento non può essere considerato come una riserva dalla quale caratteristiche pertinenti a specifiche realizzazioni possano essere combinate allo scopo di creare artificialmente una particolare realizzazione” (“the content of a document was not to be viewed as a reservoir from which features pertaining to separate embodiments could be combined in order to artificially create a particular embodiment”: così, T 296/96, in EPO Case Law, cit).

5. Certamente però l’aspetto più delicato della valutazione dei requisiti di validità del brevetto è quello che concerne l’accertamento dell’attività inventiva, ed in particolare il rischio che, come si accennava, attraverso un’analisi ex post facto la conoscenza della soluzione brevettata faccia apparire ovvio a posteriori ciò che a priori non lo era – il che costituisce forse l’errore di diritto più frequente fra quelli compiuti nell’esame dei brevetti –, ma anche per evitare che vengano riconosciute inventive soluzioni in realtà ovvie, ma presentate come problematiche sempre a posteriori, per creare le (apparenti) premesse di una valida brevettazione, il che è particolarmente frequente nel settore farmaceutico.

In questo senso, e con estrema chiarezza, si esprimono le Guidelines dell’Ufficio Europeo dei Brevetti, al punto 9.10.2, intitolato proprio “Ex post facto analysis”, dove si dice che “It should be remembered that an invention which at first sight appears obvious might in fact involve an inventive step. Once a new idea has been formulated it can often be shown theoretically how might be arrived at, starting for something known, by a series if apparently easy steps. The examiner should be wary of ex post facto analisys of this kind” (“Bisogna ricordare che un’invenzione che di primo acchito appare ovvia potrebbe in realtà implicare un’attività inventiva. Una volta che una nuova idea è stata formulata si può spesso mostrare in teoria come ci si è potuti arrivare, partendo da qualcosa di noto, attraverso passaggi apparentemente semplici. L’esaminatore deve essere circospetto rispetto a queste analisi ex post facto”).

E ancora nello stesso senso è particolarmente esplicita la giurisprudenza del Board of Appeal dell’Ufficio Europeo dei Brevetti, che ha affermato ad esempio che “la determinazione del contributo tecnico raggiunto dall’invenzione rispetto allo stato della tecnica più prossimo richiede una obiettiva e tecnicamente significativa e logica comparazione della rivendicazione … con le informazioni tecniche comunicate all’esperto del settore dallo stato tecnica nota più prossima. Ogni tentativo di interpretazione (…) dello stato della tecnica anteriore (…) basato sulla conoscenza con il senno di poi dell’invenzione (…) rischia di occultare ingiustamente il contributo tecnico dell’invenzione” (“the determination of the technical contribution achieved by the invention over the closest state of the art requires an objective and technically meaningful and consistent comparison of the claimed combination of structural and functional features with the technical information conveyed to the skilled person by the closest state of the art. Any attempt to interpret the disclosure of the closest prior art … based on hindsight knowledge of the invention … would risk unfairly and tendentiously concealing the technical contribution of the invention”: così, la pronuncia nel caso T 970/00, sempre reperibile in EPO Case Law, cit.).

Queste affermazioni non hanno in realtà niente di sorprendente, e si ritrovano frequentemente anche nella nostra giurisprudenza e nella nostra dottrina, che su questo punto, almeno in termini generali, non hanno mancato di osservare che “Per valutare l’originalità dell’invenzione occorre fare riferimento alle nozioni accessibili al tecnico medio al momento del deposito della domanda, spogliandosi idealmente di tutte le conoscenze successivamente acquisite dallo stato della tecnica e che potrebbero facilmente far apparire evidente ciò che al momento della domanda non era assolutamente tale” (così Pret. Modena, 1° giugno 1999, in Giur. ann. dir. ind., 2000, 245 e ss.); ed ancora che “Ai fini di accertare se le caratteristiche tecniche proprie del trovato contraffatto siano o meno frutto di autonoma attività inventiva e perciò non evidenti, l’indagine deve essere svolta con riferimento alla data di deposito del brevetto e non della pretesa contraffazione” (così Trib. Parma, 18 dicembre 2002, ivi, 2003, 651 e ss.; già in precedenza questo principio era stato peraltro espresso innumerevoli volte dalla nostra giurisprudenza, essendo di portata basilare per l’indagine brevettuale: fra le moltissime pronunce si vedano ad esempio quelle di App. Milano, 20 settembre 1996, ivi, 1997, 332 e ss., che sottolinea come debba essere riconosciuto il requisito dell’originalità anche al trovato “visto a posteriori semplice”; e di App. Milano, 24 settembre 1985, ivi, 1985, n. 1915, che si esprime in termini del tutto analoghi.

Allo stesso modo la nostra dottrina ha sempre sottolineato che si deve “evita(re) di cadere nel facile equivoco psicologico di considerare come ovvia l’idea raggiunta dall’autore, senza tenere conto del fatto che, a posteriori, molte soluzioni, faticosamente o fortuitamente trovate, appaiono di tutta evidenza” (in questo senso Sena, I diritti sulle invenzioni ed i modelli industriali 3, Milano, 1990, p. 148); e che il giudizio di non evidenza “deve essere sempre retrodatato al momento del deposito della domanda di brevetto, evitando di dare ascolto a suggestioni ex post che, molto spesso, inducono a far ritenere evidente anche ciò che, ex ante, non lo era affatto” (così ancora Di Cataldo in Vanzetti-Di Cataldo, Manuale di diritto industriale6, cit., p. 392, anche se poi introduce in quest’impostazione elementi che rischiano di rivelarsi fuorvianti, scrivendo che “il giudizio di non evidenza … esprime un rapporto tra l’invenzione ed il divenire normale del settore cui l’invenzione attiene (e) quindi richiede una conoscenza articolata del settore e delle sue vicende, ed una specifica competenza tecnica, che consentano di individuare correttamente, nel confronto tra la storia e la realtà del settore pertinente, quei caratteri dell’invenzione che possono dare indicazioni utili in ordine alla presenza o all’assenza della originalità”: e cioè sembra spostare la valutazione dell’attività inventiva allontanarsi dalla considerazione specifica del problema tecnico affrontato e delle premesse da cui l’esperto del ramo avrebbe preso le mosse nell’affrontarlo, per concentrarsi sulla distinzione, necessariamente a posteriori tra “divenire normale del settore cui l’invenzione attiene” e “idea che supera le normali prospettive di evoluzione del settore”, che nell’intenzione dell’Autore è chiaramente equivalente, ma che può invece indurre in errore l’interprete.

Anche in questo caso non si tratta dunque di stravolgere gli insegnamenti più tradizionali della nostra dottrina e della nostra giurisprudenza, quanto piuttosto di approfondirli e, soprattutto, di applicarli ai singoli casi in modo coerente con la ratio della protezione brevettuale.

6. Tre recentissime pronunce giudiziarie ancora inedite (tranne una, che si legge in IP Law Galli Newsletter, Settembre 2009) la prima della Sezione Specializzata in Proprietà Industriale e Intellettuale del Tribunale di Torino e le altre due di quella di Milano, hanno avuto occasione di affrontare questi temi con una particolare consapevolezza dei problemi giuridici ad essi sottostanti, affrontandoli in una prospettiva che si presta a considerazioni di carattere più generale, anche al di là delle fattispecie concretamente esaminate (e sulle quali ovviamente mi astengo dal prendere posizione, trattandosi di vicende che ho seguito come difensore della parte vittoriosa). In tutti e tre i casi (due pronunce di merito ed una cautelare) la pronuncia era stata preceduta da una consulenza tecnica d’ufficio, ed è significativo che in due dei tre casi i Giudici abbiano ritenuto di discostarsi motivatamente dalle conclusioni raggiunte dalla consulenza espletata, appunto sulla base di rilievi di ordine giuridico relativi alla nozione di attività inventiva ed ai metodi da seguire per accertarne la sussistenza.

Nella prima sentenza (Trib. Torino, 23 febbraio 2009, Est. Contini, nel caso Pharmaland S.A. e altri c. L’Oreal Italia s.p.a.) veniva in considerazione essenzialmente l’impiego di una determinata sostanza chimica (gli acidi boswellici) per la produzione di un preparato cosmetico e/o dermatologico per il trattamento eudermico e/o trofico del biochimismo cutaneo”, in pratica per il trattamento di inestetismi come rughe e smagliature; e la validità di tale brevetto era stata messa in discussione sulla base dell’esistenza di anteriorità costituite da creme e preparati cosmetici contenenti, insieme a numerosi altri ingredienti, anche un estratto vegetale (l’olibano) del quale gli acidi boswellici rappresentano una delle molteplici componenti (nell’ordine delle centinaia).

I Giudici torinesi hanno invece escluso questa portata invalidante, in quanto hanno valorizzato la circostanza che non fosse stata dimostrata l’esistenza di indicazioni nella tecnica nota che potessero portare l’esperto del ramo ad attribuire l’efficacia cosmetica proprio all’olibano, e non agli altri ingredienti dei preparati anteriori, ovvero all’azione sinergica dei diversi ingredienti, mentre gli unici usi degli acidi boswellici in sé considerati che fossero già noti allo stesso della tecnica erano quelli come antinfiammatori, antiflogistici e sostanze da impiegare nella cura delle lesioni; e su questa base il Tribunale ha concluso che “con un giudizio ex ante il tecnico medio non (aveva) ragioni per ritenere evidente, alla data di deposito del brevetto, un impiego cosmetico di questo componente (gli acidi boswellici: n.d.r.) dell’olibano (del quale, invece, senza specificazione dei suoi componenti, erano noti diversi impieghi curativi e cosmetici)”, correggendo così le opposte conclusioni raggiunte dal C.T.U., appunto nella prospettiva di porsi nelle condizioni in cui sarebbe venuto a trovarsi un tecnico del ramo che si fosse interrogato sul problema tecnico risolto dal brevetto.

7. Il tema della valutazione ex ante dell’attività inventiva connessa all’identificazione di un nuovo uso di una sostanza già nota, che veniva in considerazione anche in questa pronuncia, ha formato più specifico oggetto di approfondimento nella seconda delle tre pronunce qui considerate – ossia quella di Trib. Milano, 14 maggio 2009, nel caso IBSA S.A. c. Pfizer Italia s.r.l. (Est. Rosa), in IP Law Galli Newsletter, Settembre 2009 –, che ha egualmente messo al centro della sua riflessione il problema tecnico affrontato dall’esperto del ramo e gli elementi di cui era ragionevole pensare che questi si avvalesse per affrontarlo.

Il carattere inventivo del nuovo uso è da lungo tempo riconosciuto nella nostra esperienza dottrinale e giurisprudenziale, che sin dal risalente precedente di Cass., 22 giugno 1972, n. 2070, in Giur. ann. dir. ind., 1972, n. 11 ha ritenuto dotato di attività inventiva il trovato concernente appunto l’uso di una sostanza nota per un uso che per tale sostanza non era precedentemente noto (si parla, in particolare, nella sentenza richiamata dell’ “idea nuova di utilizzare un prodotto chimico, già noto in sé e quanto al metodo di fabbricazione, nel settore dei diserbanti a seguito della scoperta della sua proprietà, prima ignota, di impedire la fotosintesi delle sole malerbe”); e anche di recente, la Suprema Corte ha ribadito che “Il concetto di nuovo uso nel campo dei brevetti chimici corrisponde a quello di traslazione nel campo dei brevetti della meccanica; è pertanto possibile nel campo della chimica la brevettabilità dell’applicazione nuova di un uso già noto, purché ciò avvenga da una materia ad un’altra ed in tale passaggio si realizzi una funzione in quanto tale sconosciuta alla precedente applicazione” (così, Cass., 28 giugno 2001, n. 8879, in Giur. ann. dir. ind., 2001, 91 e ss.). È del resto l’art. 54 n. 5 della Convenzione sul Brevetto Europeo (corrispondente all’art. 46, 4° comma, del Codice della Proprietà Industriale), a stabilire che le disposizioni in materia di novità dell’invenzione “non escludono la brevettabilità … di una sostanza o di una composizione di sostanze già considerata nello stato della tecnica, a condizione che la sua utilizzazione … non sia compresa nello stato della tecnica”; ed appunto sulla base di questa norma il Board of Appeal dell’E.P.O. ha sviluppato la sua giurisprudenza sul cosiddetto Swiss Type Claim.

Sennonché, come emerge anche da queste indicazioni, il nuovo uso rappresenta in questi casi l’unico presupposto e l’unica giustificazione di un’esclusiva che rappresenta un’eccezione al principio generale della libera disponibilità per il mercato di ciò che appartiene allo stato della tecnica, cosicché della sussistenza di tale requisito dev’essere data una lettura rigorosa, veriricando in concreto e caso per caso se via sia stato un reale contributo allo stato della tecnica da parte dell’inventore. In tale prospettiva le pronunce del Board of Appeal dell’E.P.O. hanno ad esempio chiarito che un nuovo uso in sé non è sufficiente a garantire una valida brevettazione, “se lo stato della tecnica anteriore indicasse un ben assodato legame fra il primo uso della sostanza e quello successivo” rivendicato (“if the prior art indicated a well-established link between the earlier and later uses”: cfr. T 59/87, punto 8.2. della raccolta EPO Case Law; nello stesso senso cfr. anche T 544/94), e soprattutto, hanno indicato con forza che tale nuovo uso deve necessariamente sussistere, non potendo essere sostituito con eventuali altri “vantaggi”.

In tal senso si veda ad esempio la decisione T 56/97, resa in un caso in cui si discuteva della brevettabilità di un’invenzione che insegnava che la somministrazione orale e a certi dosaggi di una sostanza nota come ipertensivo, facendo sì che la stessa producesse comunque questo effetto terapeutico senza tuttavia l’effetto collaterale di indurre la diuresi. In questo caso, il Board of Appeal ha escluso l’applicabilità della disposizione sul “secondo uso”, affermando che esso “aveva ritenuto che tutto ciò che era stato insegnato (dal brevetto: n.d.r.) era che, se i diuretici thiazide venisse somministrato in unità di dosaggio sufficientemente basse, il loro effetto diuretico sarebbe inferiore (vedi: insufficiente a produrre effettivamente diuresì) e addirittura possibilmente assente, mentre l’attività ipertensiva rimarrebbe inalterata. Anche ritenendo che questo non fosse noto allo stato della tecnica, ciò potrebbe essere considerato, secondo l’opinione del Board, solo come una parte addizionale di conoscenza rispetto alla nota applicazione terapeutica (sottolineatura nel testo) del diuretico thiazide all’ipertensione per curare ad alleviare i sintomi ed i … dell’ipertensione in soggetti umani o animali che ne avessero necessità, ma non può di per sé conferire novità a tale applicazione terapeutica. Per l’accertamento di novità, la scoperta richiederebbe di portare ad una nuova applicazione o finalità terapeutica (sottolineatura nel testo). Non essendo questo il caso, il Board non vede come la rivendicazione n. 1 possa essere ricostruita come relativa ad un secondo o ulteriore uso medico” (cfr. T 56/97, in EPO Case Law: “The board held that all that had been discovered was that, if thiazide diuretics were administered in sufficiently low dosage units, their diuretic effect would be to a certain extent less (see ‘insufficient to achieve effective diuresis’) it even possibly absent, while the antihypertensive activity remains. Even assuming that this was not known in the state of the art, it could only be regarded, in the board’s judgment, as an additional item of knowledge about the known therapeutic application of thiazide diuretic for the treatment of hypertension to alleviate and cure the symptoms and complaints of hypertension in an human or animal subject in need of it, but could not in itself confer novelty on this therapeutic application. For the acknowledgment of novelty, such a finding or discover would be required to lead to a specific new therapeutic application or purpose. That not being the case here, the board could not see how claim 1 could be construed as relating to a second or further medical use”).

Questa era appunto la situazione che il Tribunale di Milano, nella sua sentenza del 14 maggio 2009, ha ritenuto sussistesse anche per alcune delle rivendicazioni dei brevetti che gli erano stati sottoposti, rispetto alle quali ha rilevato che “Sebbene l’impostazione del tema sotto il profilo della novità (estrinseca) sia accettabile sul piano giuridico, appare di tutta evidenza che – essendo l’invenzione strutturata su di un risultato migliorativo del problema della prevenzione della mortalità post infartuale – l’omissione nel testo brevettuale di qualunque indicazione al riguardo per una o più delle rivendicazioni (indipendenti) si risolve – alternativamente – in un difetto della descrizione ovvero in un difetto di altezza inventiva, essendo il brevetto privo dal presupposto fondamentale della tutela giuridica assegnata dall’ordinamento (costituito dal miglioramento della tecnica)”.

8. Per le rivendicazioni residue (concernenti la somministrazione di EPA + DHA in forma di esteri etilici a pazienti post-infartuati per prevenirne la morte improvvisa), la sentenza ha affrontato un ulteriore profilo, e cioè quello della possibile valenza inventiva che consegue alla circostanza che la soluzione oggetto del trovato, pur in sé banale, fosse scoraggiata dall’esistenza di un pregiudizio tecnico che l’inventore ha superato.

Anche in questo caso, la sentenza ha preso le mosse dall’“approccio giuridico”, seguito anche dalla consulenza d’ufficio, scandito nelle tre fasi di “problema tecnico enunciato, soluzione proposta, evidenza o meno della soluzione rispetto allo stato dell’arte”: ma proprio sulla base di questo approccio ha negato che nel caso di specie l’attività inventiva fosse riscontrabile, in considerazione, da un lato, dell’omogeneità della “nuova” indicazione terapeutica con quelle già note e del fatto che la tecnica nota metteva a disposizione dell’esperto del ramo elementi idonei ad orientarlo verso la soluzione adottata dal brevetto; e dall’altro lato dalla circostanza che il pregiudizio tecnico invocato dal titolare del brevetto – e che in questa situazione sarebbe stato suo onere dimostrare – in realtà non poteva dirsi sussistente.

Appunto in questa prospettiva il Tribunale ha approfondito, probabilmente per la prima volta nel nostro Paese, la nozione di pregiudizio tecnico, ritenendo che esso sussista solo in presenza di una convinzione diffusa e radicata, che non può essere dimostrata sulla base di semplici opinioni di portata individuale: anche questo punto era stato chiarito già dalla giurisprudenza del Board of Appeal E.P.O., che ha sottolineato come di pregiudizio tecnico si possa parlare solo in presenza di “un’opinione o un’idea preconcetta largamente o universalmente sostenuta dagli esperti del settore” (in questo senso cfr. fra le altre, T341/94, T 531/95, T 452/96, T 695/90, T 60/1982, T 631/89, T tutte in consultabili in EPO Case Law, cit.); e ha quindi concluso che “Il pregiudizio tecnico deve essere largamente o universalmente sostenuto dagli esperti del settore interessato” (“The prejudice must be widely or universally held by export in the relevant field” : T 1212/01, ibidem). Sempre il Board of Appeal E.P.O. ha sottolineato al riguardo che “Il pregiudizio non può essere dimostrato partendo dal contenuto di un singolo documento brevettuale, perché le informazioni tecniche in un singolo documento brevettale o in articolo scientifico possono essere basate su speciali premesse ovvero sul punto di vista personale dell’autore” (“… prejudice cannot be demonstrated by a statement in a single patent specification, since the technical information in a patent specification ora a scientific artiche might be based on special premises or on the personal view of the author”), con la sola eccezione del caso in cui il pregiudizio risulti dalle “spiegazioni contenute in un lavoro standard o in un libro di testo che rappresentino le comuni conoscenze dell’esperto nel settore interessato” (“However, this principle does not apply to explanations in a standard work or textbook which reflected the common knowledge in the special field concerned”); e ancora ha affermato che “Una soluzione prospettata come il superamento di un problema tecnico deve contrastare con l’insegnamento prevalente degli esperti del settore, cioè sulle loro unanimi esperienze e nozioni, piuttosto che sulla mera citazione del fatto che essa è respinta da singoli specialisti” (“A solution put forward as overcoming a prejudice must clash with the prevailing teaching of experts in the field, ie their unanimous experience and notions, rather than merely citing its rejection by individual specialists”: cfr., fra le altre, T 19/81, T 104/93, T 321/87, T 900/95, T 1212/01, T 62/82: tutte consultabili in EPO Case Law, cit.).

Esattamente in linea con quest’impostazione, il Tribunale di Milano ha esaminato i diversi elementi di cui disponeva l’esperto del ramo che si fosse posto il problema oggetto del brevetto in esame, riscontrando che le indicazioni contrarie al brevetto erano limitate a due studi che venivano controbilanciati da altri di segno opposto e soprattutto dall’esistenza di un protocollo di sperimentazioni cliniche la cui applicazione avrebbe condotto esattamente ai risultati poi rivendicati: ed ha quindi concluso che “il pregiudizio tecnico attribuito agli esteri etilici – di cui il brevetto non fa alcuna menzione – è mera ricostruzione a posteriori, ispirata ad esigenze di salvamento di un inammissibile brevetto di pura sperimentazione su progetto (già) noto”.

Al di là del caso di specie, questo rilievo permette dunque di apprezzare come il rifiuto di valutazioni ex post facto non necessariamente conduca ad un apprezzamento più “generoso” dell’attività inventiva, ma al contrario renda possibile una considerazione più realistica dell’apporto dell’inventore, nella già indicata prospettiva di commisuri la protezione dei diritti di proprietà industriale alla portata che essi concretamente assolvono.

9. Di un altro aspetto significativo, appunto nella prospettiva dell’approccio “concreto” all’accertamento dell’attività inventiva, si è occupata la terza recentissima pronuncia a cui si è fatto cenno, e cioè l’ordinanza di Trib. Milano, 29 dicembre 2008 (Est. De Sapia), resa nel caso Drin.it Italia s.r.l. c. Samsung Electronics Italia s.p.a. e Bruno Castoldi s.r.l., già menzionata come esempio della possibilità di ottenere provvedimenti cautelari in tempi ragionevoli anche in sede cautelare.

In questo caso, uno degli aspetti che è stato valorizzato, anzitutto dalla consulenza tecnica e poi dalla pronuncia giudiziaria, nella chiave di valutare il carattere inventivo del trovato di cui si discuteva, era rappresentato dalla circostanza che “Il problema risolto dal brevetto non è in alcun modo menzionato nei documenti citati; pertanto non vi è nulla nell’arte nota che possa portare la persona esperta del ramo a pensare a tale problema, e tanto meno alla sua soluzione. Infatti, tutti i documenti in questione indirizzano problemi del tutto diversi” (Relazione del C.T.U. ing. Pezzoli, p. 19). Ed in effetti che questo sia un caso di trovato dotato di altezza inventiva, è riconosciuto anche dalle Guidelines dell’E.P.O., ossia dell’Ufficio Europeo dei Brevetti, che menzionano quest’ipotesi proprio come il primo esempio di valido brevetto sotto il profilo dell’attività inventiva. Si legge infatti in tali Guidelines, all’inizio del paragrafo 6 del capitolo 11, dedicato appunto all’attività inventiva, che “Un’invenzione può, ad esempio, essere basata su quanto segue: (i) la formulazione di una nuova idea o di un problema tecnico da risolvere ancora non riconosciuto come tale (ancorché la soluzione sia ovvia una volta che il problema sia chiaramente dichiarato)” [An invention may, for example, be based on the following: (i) the formulation of a new idea or of a yet unrecognised problem to be solved (the solution being obvious once the problem is clearly stated]. Ed anche nella dottrina straniera si è enfatizzata “the possible exixtence of problem inventions, or more appropriately ‘problem discoveries’” rispetto all’arte nota e si è osservato che in questi casi “The consequence is that the claimed subject-matter is necessarily non obvious with respect to such art” (così ancora Szabo, The problem and Solution Approach in the European Patent Office, cit., alle pp. 470-471, dove richiama in senso conforme anche la pronuncia di T 2/83, in EPO Case Law, cit.).

Anche in questo caso, si tratta dunque di riconoscere che l’elemento decisivo nella valutazione dell’attività inventiva è quello di ricostruire le condizioni obiettive in cui un esperto del settore si sarebbe trovato nell’affrontare il problema tecnico oggetto del brevetto, traendo quindi da questa ricostruzione le conseguenze giuridiche in termini di evidenza o non evidenza del trovato rivendicato dal brevetto stesso.

10. Il discorso non è in realtà diverso se si considera l’ambito di tutela da riservare a ciascun brevetto. A questo riguardo pare necessario prendere le mosse, per la sua chiarezza, anzitutto dal Protocollo Interpretativo relativo all’art. 69 della Convenzione sul Brevetto Europeo, che già nel suo testo originario affermava che “l’Art. 69 non dovrebbe essere interpretato nel senso che l’ambito di protezione conferito da un brevetto europeo debba essere determinato come quello definito dal significato ristretto e letterale della parole usate nelle rivendicazioni, la descrizione e i disegni servendo soltanto per dissipare un’ambiguità individuata nelle rivendicazioni. Neppure esso dovrebbe essere interpretato nel senso che le rivendicazioni servano soltanto come una linea guida e che l’effettiva protezione conferita possa estendersi a quanto, considerando la descrizione ed i disegni da parte di una persona esperta nel ramo, il titolare del brevetto ha contemplato. Al contrario essa deve essere interpretata come definente una posizione fra questi estremi che assicura al tempo stesso una protezione equa per il titolare del brevetto ed un ragionevole grado di certezza per i terzi”. Con l’entrata in vigore della nuova versione della Convenzione nota come EPC 2000, anche il Protocollo Interpretativo dell’art. 69 è stato modificato, con l’aggiunta, dopo la previsione appena riportata, che ora costituisce l’art. 1 (“Principi generali”) del Protocollo, di una seconda disposizione (art. 2) espressamente intitolata “Equivalenti”, che prevede che “Per determinare la portata della protezione conferita dal brevetto europeo, si tiene debitamente conto di ogni elemento equivalente ad un elemento indicato nelle rivendicazioni”.

In tal modo viene ribadita con forza la centralità delle rivendicazioni anche nell’accertamento della contraffazione “per equivalenti”, anche qui in linea con la ratio fondamentale del sistema dei brevetti, che abbiamo identificato sopra nell’equilibrio tra esclusiva e concorrenza e nell’esigenza di far sì che la protezione riservata al titolare costituisca un incentivo al progresso tecnico. Questa ratio è ben presente alla nostra dottrina che non a caso ha messo in luce, anche recentemente, che “l’esigenza del terzi di non trovarsi di fronte ad ostacoli non (facilmente) identificabili è un’esigenza primaria. L’economia non potrebbe altrimenti svilupparsi. Il brevetto non è solo uno strumento che consente all’inventore di monopolizzare una soluzione tecnologica, ma una pubblicazione che insegna ai terzi certe soluzioni. Infatti i terzi possono non solo riprodurre l’invenzione alla scadenza del brevetto, ma anche fin dalla data di pubblicazione del titolo acquisire quelle nozioni e procedere a proprie ideazioni, con un’attività di ‘designing around’. Il contenuto normativo del brevetto è riservato all’inventore, ma il contributo scientifico è posto a disposizione di tutti. Quindi è ragionevole porre a carico del brevettante l’onere di parlare chiaro più che ai terzi di comprendere lo scuro. E quindi se una soluzione poteva essere prevista dall’inventore, e lo stesso non l’ha menzionata, si deve pensare che lo stesso non abbia voluto o saputo o non si sia dato pena di rivendicarla”; ed ha anzi aggiunto che “la tendenza di molti C.T.U. di largheggiare con l’equivalenza spesse volte è diretta, anche se inconsciamente, a coprire (mi si consenta l’impertinenza) un lavoro non perfetto da parte del consulente brevettuale, che si traduce in manchevolezze nella stesura del brevetto. Questo atteggiamento è da respingere: i brevetti vanno scritti con cura, poiché dalla loro violazione discendono conseguenze assai gravi (addirittura penali, in certi casi)” (così Franzosi, Il concetto di equivalenza, ne Il Dir. Ind., 2005).

Da quanto precede risulta evidente che all’ampliamento della protezione brevettale mediante in ricorso alla nozione di equivalenza si potrà procedere soltanto quando la struttura “equivalente” costituisca una sostituzione ovvia della struttura rivendicata dal brevetto, attraverso la sostituzione di specifici “elementi” con altri che, già a priori (e quindi non sulla base di un comodo giudizio ex post) risultassero tutti in grado di assolvere la medesima funzione di quella brevettata. Per accertare l’equivalenza non si può dunque pensare di fare riferimento ad una sorta di versione “ideale” del trovato brevettato (l’“idea di soluzione”), ricostruita a posteriori, elidendo dal brevetto le caratteristiche considerate “non essenziali”, ma si dovrà fare riferimento al trovato così come esso è stato brevettato, e quindi a tutte le sue caratteristiche comprese nelle rivendicazioni, senza aribitrarie eliminazioni, ma dovendosi giustificare appunto in termini di equivalenza ciascuna singola sostituzione.

In questo caso il tema, benché a sua volta sia stato ampiamente trattato dalla giurisprudenza, non è ancora emerso da essa con affermazioni del tutto scevre di ambiguità: forse una delle enunciazioni più chiare è quella di Trib. Roma, 9 settembre 2004, in Giur. ann. dir. ind., 2005, 462 e ss., secondo cui “Il giudizio di equivalenza pone a confronto l’invenzione brevettata con la realizzazione del terzo, verificando dapprima l’identità degli elementi di struttura e funzione dei due termini di paragone, in relazione alla soluzione del problema tecnico offerto dall’invenzione”; e si può probabilmente richiamare anche uno spunto contenuto in Cass., 13 gennaio 2004, n. 257, in Giur. ann. dir. ind., 2004, 69 e ss., che ha affermato che “Per valutare se la realizzazione accusata di contraffazione possa considerarsi equivalente a quella brevettata, occorre chiedersi se … essa presenti carattere di originalità, offrendo una risposta non banale, né ripetitiva, della precedente”, e che solo se la risposta a questa domanda è negativa si può parlare di equivalenza: il che sembra indicare che la contraffazione per equivalenti presuppone necessariamente la sussistenza di una reale e completa identità funzionale fra gli elementi presenti nel trovato brevettato e quelli ad essi sostituiti dal preteso contraffattore, consistendo tale contraffazione nella (banale e ripetitiva, appunto) sostituzione da parte del contraffattore di (alcuni elementi) della struttura o del processo rivendicato con altri che a priori potevano essere considerati idonei a conseguire lo stesso risultato.

In tal modo il cerchio si chiude. Abbiamo visto all’inizio che dalle rivendicazioni si deve partire per determinare il problema tecnico obiettivo che forma oggetto del brevetto e per confrontarsi con le anteriorità e con l’insegnamento in esse contenuto, così da valutare prima la novità e poi l’attività inventiva del trovato nella prospettiva di ricostruire le condizioni obiettive in cui questo problema si presentava all’esperto del settore; ed alle rivendicazioni si ritorna per determinare lo spazio di esclusiva effettivamente riservato al titolare, ancorché sempre atraverso un’attività d’interpretazione del brevetto, che deve necessariamente essere condotta dal punto di vista dell’esperto del settore (così per tutti Di Cataldo, I brevetti per invenzione e per modello2, in Commentario al Codice Civile a cura di Schlesinger, Milano, 2000, p. 48, dove scrive che “Nella lettura delle rivendicazioni e della descrizione occorre tener presente che il soggetto dell’operazione è il tecnico medio del settore, dotato del bagaglio di conoscenze e capacità che possono a lui attribuirsi alla data di deposito della domanda di brevetto”).

E ciò consente di configurare un equilibrio tra gli interessi dei diversi attori coinvolti (il titolare del brevetto, i suoi concorrenti, i consumatori finali), conforme alla funzione che in generale la protezione dell’innovazione è in grado di svolgere nella realtà economica attuale.