x

x

Spunti sulla recente giurisprudenza in materia di quantificazione dell’ammontare della Tarsu

Distribuzione del carico tributario tra i contribuenti e ripartizione della competenza tra Consiglio e Giunta municipale
Premessa

La produzione giurisprudenziale più recente in materia di fiscalità locale mostra come nell’esercizio dell’attività di imposizione siano evidenti i segni di disattenzione da parte degli Organi e degli Uffici comunali in merito alla osservanza di doveri inderogabili, come quello relativo alla indicazione dei presupposti di fatto e di diritto degli atti e provvedimenti di competenza.

Non sembrano infatti da ritenere isolati quei casi di deliberazioni del Consiglio e della Giunta o di atti e provvedimenti degli uffici comunali che, malgrado le chiare disposizioni direttive fornite dal sistema normativo, sovente mostrano grave carenza di considerazione o totale inosservanza di quest’obbligo fondamentale, posto come ineludibile dalla disciplina applicativa dei tributi locali di competenza, ragion per cui vengono in sede contenziosa agevolmente fatti oggetto di radicale censura e, di conseguenza, resi privi di efficacia giuridica.

Simili carenze ed omissioni rivelano peraltro una preoccupante forma di inottemperanza alle disposizioni recate dallo Statuto del contribuente , dalla legge n. 241/1990 nonché dalle norme istitutive delle singole forme di prelievo o da quelle che disciplinano l’esercizio dell’attività impositiva degli enti locali (cfr D.lgs. n. 32/2001). Ciò non manca di provocare, nelle interpretazioni di primo impatto, la previsione di preoccupanti ripercussioni sulla garanzia del diritto di difesa dei contribuenti.

L’incremento del contenzioso in materia trova fra le ragioni di spinta proprio l’inosservanza di tali doveri da parte degli eell, che in virtù della più recente evoluzione normativa, costituiscono la categoria di enti in prima linea nella gestione di una sempre più rilevante quota della fiscalità generale.

Fra i tributi comunali che più mostrano i segni evidenti di simili incidenze rientra certamente la vecchia, ma ancora attuale, TARSU, che, in una multiforme realtà di pratica giuridica, si prospetta, nel suo piccolo, come rigenerata in un ginepraio di disposizioni non facilmente esplorabile, in mezzo al quale risulta piuttosto difficoltoso muovere ogni attività di indagine sia per l’operatore che per l’interprete.

Si tratta di un tributo in relazione al quale il D.lgs. 15-11-1993, n. 507 conferisce ai Comuni il potere-dovere di operare una complessa articolazione di norme attuative, finalizzate ad una distribuzione del peso fiscale il più possibile equamente proporzionata ai molteplici aspetti rilevanti ai fini della determinazione dell’ammontare del prelievo.

Al riguardo si sono rivelate piuttosto significative le recenti sentenze con le quali il Tar Sicilia e la Commissione tributaria provinciale di Palermo si sono pronunciate sulla legittimità delle determinazioni della Giunta municipale con le quali veniva disposto un aumento generalizzato della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, con un incremento pari al 75% rispetto all’esercizio precedente per ogni tipologia di classe, e si procedeva alla ripartizione del carico tributario tra le diverse categorie di utenza.

La determinazione della misura del prelievo: l’indicazione dei criteri e dell’iter logico-giuridico

Con la sentenza n. 1550/2009 il Tar Palermo affronta due dei profili più rilevanti dell’esercizio della potestà impositiva locale, quali quelli relativi al potere di differenziazione della misura del prelievo e ai presupposti e modalità di relativo esercizio , e quello concernente la ripartizione della potestà impositiva tra Consiglio e Giunta municipale.

Si tratta di aspetti particolarmente delicati e rilevanti, anche in considerazione della diretta incidenza sulle garanzie previste dall’ordinamento a favore dei contribuenti.

La disciplina dei presupposti e delle condizioni di variazione del prelievo tributario concerne infatti la garanzia di valori di rango costituzionale quali la trasparenza dell’attività amministrativa , l’uguaglianza tra i cittadini, l’esercizio del diritto di difesa.

Le problematiche relative alla ripartizione di competenza tra gli organi locali investono invece il tema della necessaria correlazione tra imposizione e rappresentatività.

Con il gravame proposto al Tar la locale Associazione degli industriali censura, chiedendone l’annullamento - previa sospensione degli effetti - la delibera della Giunta municipale di Palermo con cui sono state quantificate le aliquote, le tariffe, le agevolazioni e le detrazioni per il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU) per l’esercizio finanziario 2006, prevedendo un generalizzato aumento della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, con un incremento pari al 75% rispetto all’esercizio precedente per ogni tipologia di classe

A sostegno della dedotta illegittimità della delibera impugnata vengono articolati una serie di motivi concernenti rispettivamente l’incompetenza della Giunta municipale, la violazione e falsa applicazione degli artt.58 e ss. D.Lgs.507/93, l’eccesso di potere per omessa motivazione ed omessa istruttoria.

Il Collegio affronta in via preliminare l’eccezione di inammissibilità proposta dalla difesa comunale concernente la mancanza di legittimazione ad agire dell’Associazione ricorrente.

In merito l’orientamento giurisprudenziale prevalente ritiene che le Associazioni di settore siano legittimate a difendere in sede giurisdizionale gli interessi di categoria dei soggetti di cui hanno la rappresentanza istituzionale o di fatto ogniqualvolta si tratti di perseguire il conseguimento di vantaggi, sia pure di carattere puramente strumentale, giuridicamente riferibili alla sfera della categoria , o non siano comunque rinvenibili posizioni differenziate o disomogenee dei singoli associati.

Ne consegue che se l’interesse che legittima tali Associazioni ad agire a tutela dei propri associati sussiste anche quando si tratti di perseguire vantaggi di carattere strumentale giuridicamente riferibili alla sfera della categoria , tale legittimazione non può essere negata in relazione alla censura di un provvedimento che comporta un generale aumento del 75% circa della TARSU per ognuna delle classi previste nel regolamento. Ciò a maggior ragione se si considera che l’ Associazione ricorrente è essa stessa soggetto inciso dall’aumento, in quanto inclusa fra i contribuenti tenuti al pagamento della TARSU.

Nel merito le censure di legittimità proposte vengono ritenute dal Tar meritevoli di accoglimento sia in relazione al profilo concernente la competenza a deliberare le variazione della misura del tributo in oggetto, sia in ordine alla necessaria istruttoria a supporto della scelta di operare l’incremento della pressione fiscale.

Sotto quest’ultimo profilo vengono ritenuti sussistenti i dedotti vizi della violazione di legge e dell’eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, poiché dal provvedimento impugnato non risulta ricavabile alcun elemento idoneo a ricostruire i presupposti di fatto e di diritto che hanno determinato la Giunta al cospicuo aumento della tariffa.

Simile omissione determina una evidente violazione degli oneri esplicativi posti a carico degli enti locali dalla normativa che disciplina l’esercizio della potestà impositiva agli stessi devoluta.

In particolare, ai sensi dell’art. 7 della legge 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), gli Organi e gli Uffici degli Enti territoriali devono indicare gli elementi di fatto e le ragioni giuridiche che determinano l’emissione di atti e provvedimenti diretti al contribuente espressivi di una pretesa fiscale.

Dette disposizioni sono espressamente riferite alla attività dell’Amministrazione erariale, tuttavia, in virtù della loro natura di principi generali dell’ordinamento tributario (quale risulta dalla autoqualificazione contenuta nell’art. 1 della legge n. 212) devono ritenersi estese ad ogni settore ed ambito della fiscalità in genere, compresa naturalmente la finanza locale, stante l’obbligo delle Autonomie territoriali di adeguare la propria normativa ai principi contenuti nella legge.

Peraltro anche nell’orientamento della Corte di Cassazione la disciplina recata dall’art. 7 l. n. 212/2000 si inquadra a pieno titolo nel paradigma dei principi generali ed immanenti del diritto e dell’azione amministrativa in materia tributaria, in virtù della relativa funzione di diretta attuazione degli artt. 3,23,53,97 Cost..

Sicché non residuano margini di dubbio in ordine alla estensione di dette disposizioni all’ambito della fiscalità territoriale, con l’effetto di orientare l’attività normativa ed amministrativa degli Enti locali in sede di attuazione della relativa disciplina verso il pieno rispetto dei valori e diritti oggetto di tutela. Ne consegue l’imposizione a carico degli stessi del dovere di adeguare statuti e regolamenti alle previsioni contenute nella medesima legge, e di recepire i relativi principi nello svolgimento dell’attività di previsione normativa e gestione amministrativa della disciplina dei tributi locali, anche al fine di prevenire o ridurre le occasioni e i motivi di contenzioso.

Per effetto delle citate disposizioni, dunque, tutti gli atti di imposizione delle Amministrazioni e dei soggetti incaricati delle attività di liquidazione, accertamento e riscossione dei tributi locali, oltre a mostrare chiarezza di esposizione, devono recare l’ indicazione dei presupposti di fatto su cui si fondano e degli istituti giuridici rilevanti e concretamente applicati per la disciplina del rapporto, sì da esternare adeguatamente la logica del provvedere seguita dall’Organo o dall’Ufficio, e rendere chiara la correlazione tra ratio e contenuto dell’atto.

Ciò in quanto la motivazione ha lo scopo di consentire al cittadino la ricostruzione dell’iter logico-giuridico attraverso cui l’amministrazione si è determinata ad adottare un determinato atto o provvedimento, al fine di verificare il corretto esercizio del potere alla stessa conferito dalla legge e di far valere eventualmente nelle opportune sedi, giustiziali o giurisdizionali, le proprie ragioni.

Questo ruolo dell’obbligo di esplicazione delle ragioni degli atti di imposizione come fondamentale elemento di legittimità della pretesa impositiva discende da una visione non meramente formale della garanzia del diritto di difesa del contribuente e dei principi di trasparenza e di lealtà desumibili dall’articolo 97 della Costituzione.

L’ampia discrezionalità riconosciuta ad organi di governo e di rappresentanza politica in una determinata materia non sottrae i relativi provvedimenti al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, diretto a controllare, proprio attraverso l’esame della motivazione, l’esercizio del potere sotto il profilo della logicità, razionalità e congruità, per evitare che possa scadere nel mero arbitrio.

Una simile prospettazione, come è evidente, non va al di là di una ricognizione degli elementi strutturali della motivazione, con finalità puramente definitorie, in quanto il contenuto concreto degli oneri relativi deve essere accertato caso per caso, in relazione alla tipologia del tributo, alla natura dell’atto, agli elementi che l’Amministrazione si propone in concreto di dimostrare, nonché alle argomentazione che le stessa intende utilizzare al riguardo ( es. eventuale deroga, ove ammessa, ai criteri di valutazione previsti dalla legge).

Pertanto è bene tener presente che tanto la definizione della motivazione come apparato argomentativo idoneo ad esternare “i momenti ricognitivi e logico-deduttivi” dell’atto (secondo una formula spesso adoperata dalla giurisprudenza) quanto la indicazione e descrizione degli elementi che ne compongono la struttura, sono operazioni a carattere puramente declaratorio ed illustrativo. Servono cioè a sintetizzare in chiave teorica il significato e la consistenza dell’obbligo relativo, la cui applicazione pratica si realizza poi in funzione di un caso concreto; così il contenuto minimo inderogabile dell’onere esplicativo deve essere accertato caso per caso in rapporto alla tipologia del tributo, alla natura dell’atto, nonché alle circostanze specifiche ( eventuale deroga, ove ammessa, ai criteri di valutazione previsti dalla legge, mutamento di indirizzo rispetto a precedenti determinaizone ecc) .

Ciò perché l’onere della motivazione, in considerazione della funzione di ordinatore degli interessi pubblici e di contemperamento tra questi e quelli privati che è propria di ogni atto di imposizione, non può rispondere ad uno standard fisso ed immutabile, ma varia necessariamente in ragione degli effetti, ampliativi o restrittivi, che il provvedimento è destinato a produrre nella sfera giuridica dei destinatari e della più o meno elevata interferenza degli interessi privati con quello pubblico perseguito.

Così, nell’impossibilità di identificare un contenuto esplicativo standard valevole per tutte indistintamente le tipologie di atti impositivi, la costruzione dell’impianto argomentativo di volta in volta necessario in relazione alle concrete esigenze dell’atto, è dovuta in larga misura all’opera della giurisprudenza che, interpretando le norme di disciplina delle specifiche fattispecie alla luce dei principi e delle disposizioni in materia di motivazione dei provvedimenti impositivi ha, in relazione ai singoli rapporti giuridici tributari, adeguato il contenuto esplicativo alle esigenze cognitive specifiche.

In considerazione della diversità di natura e caratteristiche degli atti compresi nelle previsioni legislative della struttura impositiva, e della conseguente infungibilità dei singoli elementi esplicativi, strettamente correlati alla fattispecie di riferimento, al fine di individuare il contenuto dell’onere a carico dell’ente impositore si rende necessaria la qualificazione del provvedimento di determinazione del prelievo.

A tal fine il Tar, sulla scorta della giurisprudenza maggioritaria, qualifica la delibera comunale di variazione delle tariffe come atto amministrativo generale a contenuto non normativo, e da tale qualificazione fa discendere che sulla disciplina prevista dalla legge L.241/90 prevale, per il suo carattere di specialità e maggiore garanzia procedimentale, la norma di cui all’art.69 co.2 D.Lgs.507/93, poiché tale disposizione comporta l’obbligo per l’Amministrazione di motivare analiticamente le scelte espresse nelle relative deliberazioni.

In sostanza, anche se gli atti a contenuto generale non soggiacciono all’obbligo di specifica motivazione, stante l’espressa esclusione dall’ambito di applicabilità dell’art. 3 della legge n. 241/’90, l’autonomia locale nella gestione dei tributi di propria devoluzione deve necessariamente svolgersi nel pieno rispetto delle direttive fornite dalla fonte di rango primario, e, in un simile contesto, la individuazione in via legislativa di un preciso limite all’esercizio delle prerogative riconosciute ai Comuni in materia di determinazione dell’ammontare della TARSU, vale ad individuare uno specifico obbligo di giustificare la relativa attività in relazione alla piena ottemperanza ai requisiti e alle condizioni richiesti dalle prescrizioni legislative.

Per quanto specificamente attiene alla TARSU , dunque, il contenuto effettivo della struttura argomentativa necessaria a motivare adeguatamente la pretesa fiscale risulta dal coordinamento delle disposizioni legislative generali sulla legittimità dell’azione pubblica in materia fiscale (art. 7 della legge n. 212/2000, art. del D.Lgs. n. 32/2001) con la normativa recante la disciplina del tributo, costituita dal D. Lgs. 507/1993.

In particolare, a mente dell’art. 65, comma 2 del d.lgs. n. 507/1993, le aliquote della Tarsu devono essere "determinate dal Comune secondo il rapporto di copertura del costo prescelto entro i limiti di legge, moltiplicando il costo di smaltimento per unità di superficie imponibile accertata, previsto per l’anno successivo, per uno o più coefficienti di produttività quantitativa e qualitativa di rifiuti".

Mentre, ai sensi dell’art. 69 , comma 2, della citata disposizione, “Ai fini del controllo di legittimita’, la deliberazione deve indicare le ragioni dei rapporti stabiliti tra le tariffe, i dati consuntivi e previsionali relativi ai costi del servizio discriminati in base alla loro classificazione economica, nonche’ i dati e le circostanze che hanno determinato l’aumento per la copertura minima obbligatoria del costo”.

Con riguardo alla quantificazione della misura del prelievo l’art. 49, del D.Lgs.22/97 prevede che durante il periodo transitorio per il passaggio dalla Tarsu alla Tariffa per la gestione dei rifiuti urbani, i comuni, per garantire il graduale raggiungimento dell’integrale copertura dei costi del servizio di gestione dei rifiuti urbani da parte dei comuni (comma 16) possono, in via sperimentale (comma 5), attivare il sistema tariffario (comma 1 bis) secondo le disposizioni transitorie emanate dal Ministro dell’ambiente di concerto con il Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento.

Di conseguenza, la scelta di fare riferimento ai coefficienti tariffari per garantire un avvicinamento graduale alla copertura dei costi, costituisce esercizio non irragionevole della discrezionalità che il legislatore riserva all’amministrazione in sede di graduazione ed eventuale accelerazione del processo di copertura del costo del servizio.

Ne deriva che il previsto passaggio graduale dal regime di "tassa" a quello di "tariffa", non impedisce che il metodo per il calcolo dell’aliquota tariffaria non possa essere applicato anche per il calcolo della tassa sullo smaltimento dei rifiuti. E tanto specie ove tale sistema inneschi un’accelerazione nel processo di copertura dei costi del servizio di gestione dei rifiuti solidi urbani da parte dei contribuenti.

Ma, nel caso della delibera della Giunta comunale impugnata, secondo i giudici amministrativi “ né l’aumento generalizzato della TARSU pari al 75% rispetto all’esercizio finanziario precedente può obiettivamente dirsi graduale, né la determinazione impugnata può ritenersi una introduzione in via sperimentale della nuova tariffa ai sensi dei mentovati commi 1bis e 16 art.49 cit.”.

Peraltro l’orientamento prevalente in giurisprudenza ritiene che nel caso della TARSU, e in generale di tutti i tributi finalizzati al finanziamento di un servizio pubblico i cui oneri vengono ripartiti tra tutti gli utenti, l’Ente impositore è tenuto a motivare l’incremento delle prestazioni tributarie richiesto ai contribuenti in relazione all’aumento dei costi relativi.

In particolare ai sensi dell’art. 61 del d.lgs. n. 507/1993 il gettito complessivo non può superare il costo di esercizio del servizio, né essere inferiore al 50%, inteso al netto delle entrate derivanti dal recupero e dal riciclo dei rifiuti (co.3 art.61 D.Lg.cit.) e al netto della deduzione dell’importo (oscillante tra il 5% e il 15%) a titolo di costo di spezzamento (co.3 bis). Per quanto più specificamente riguarda il Comune di Palermo, ai sensi del regolamento adottato in applicazione del D.Lgs. 507/93 (di cui alla delibera C.C. n.37 del 17/4/97), il gettito della TARSU corrisponde al c.d. <costo convenzionale> che, indipendentemente dalla percentuale della copertura del costo di servizio che il Comune scelga di coprire con il prelievo impositivo, è comunque inferiore (per le deduzioni di cui in premessa) al costo complessivo del servizio in parola.

Il legislatore, rapportando la misura del prelievo al costo di gestione del servizio pubblico, seppur non secondo un rapporto di piena corrispettività, ha posto pertanto un limite alla discrezionalità dell’Ente nella quantificazione del tributo.

Stante la rilevata correlazione tra costo della tassa e costo del servizio di N.U., quest’ultimo diviene il necessario imprescindibile riferimento per la quantificazione del prelievo e quindi anche per ogni variazione dell’ammontare dello stesso. Detto ineludibile rapporto di tendenziale corrispettività pertanto, oltre a stabilire un tetto alla misura del prelievo, varrebbe ad individuare un limite alla discrezionalità nell’esercizio del potere impositivo degli Enti locali, vincolando il gettito del tributo al raggiungimento di un fine preciso, con l’effetto di onerare il soggetto impositore a motivare adeguatamente le proprie scelte e determinazioni in relazione alla idoneità e strumentalità al perseguimento di detto obiettivo.

A sostegno della tesi interpretativa in commento militano peraltro anche ragioni tutt’altro che secondarie relative al necessario rispetto del fondamentale principio, di rango costituzionale (art. 97), del buon andamento della P.A. sotto il profilo della trasparenza delle scelte amministrative, peraltro intimamente connesse con la natura e funzione proprie della motivazione, consistente nella garanzia del controllo delle scelte amministrative.

Sotto questo aspetto, infatti, pur ammettendo la sussistenza in capo all’Ente di un potere discrezionale di quantificare l’ammontare della TARSU, soltanto una congrua attività istruttoria e di piena esternazione delle ragioni che hanno determinato le scelte assunte è in grado di assicurare il necessario controllo, principalmente da parte degli amministrati, della legittimità delle decisioni adottate dai pubblici poteri nell’esercizio di prerogative caratterizzate da ampia autonomia decisionale.

Detto controllo viene ritenuto ancora più necessario in un contesto, come quello attuale, caratterizzato da un rilevante allentamento del sistema dei controlli sugli atti degli Enti locali, dalla connessa semplificazione dei procedimenti amministrativi che libera l’attività decisionale degli enti territoriali da numerosi vincoli, nonché dal lento, ma oramai quasi compiuto, radicamento nel sistema del principio di sussidiarietà. Tutti elementi - portati dal progressivo affermarsi di una tendenza sempre più decisa al decentramento delle scelte pubbliche - che contribuiscono ad aumentare il grado di autonomia degli enti locali nell’esercizio delle prerogative di competenza, ma rendono al contempo necessario un efficace controllo della legittimità delle decisioni, preventivo rispetto alla eventuale fase contenziosa.

Nel caso di specie risulta del tutto carente il riferimento all’istruttoria compiuta dal Comune per la predisposizione degli aumenti, considerato che“nella delibera impugnata e nei relativi allegati è totalmente omessa ogni e qualsiasi indicazione relativa al rispetto e conformità all’iter di determinazione dell’ammontare del prelievo, nonché manca ogni e qualsiasi specificazione e giustificazione dell’importo del costo del servizio: infatti, dagli atti si evince semplicemente che l’importo del costo, da inserire nel redigendo bilancio di previsione, è stato comunicato (telefonicamente) dalla Ragioneria Generale del Settore Tributi. Manca, in altri termini, qualsiasi indicazione dei criteri seguiti ed adottati per la determinazione del costo e del relativo iter seguito”.

L’ omissione di ogni riferimento all’istruttoria eventualmente compiuta dal Comune per la predisposizione degli aumenti risulta ancora più grave in considerazione del fatto che con le precedenti delibere concernenti la TARSU relativa all’ esercizio finanziario 2006 (la n.60 del 10/3/2006 e la n.131 del 08/05/2006) la stessa Giunta aveva già statuito di mantenere inalterata, per ognuna delle classi dei soggetti obbligati, la misura della TARSU già prevista nel precedente esercizio 2005.

Ed invero, “a ragione del repentino revirement sulle determinazioni già assunte e confermate, il provvedimento impugnato –pur nella vigenza del periodo transitorio per il passaggio graduale dalla TARSU alla Tariffa di cui all’art.49 D.Lgs.22/97- richiama laconicamente solo generiche “direttive politiche” connesse alla ritenuta e sopravvenuta esigenza di raggiungere la copertura dei costi complessivi (diretti ed indiretti) del servizio di che trattasi”.

La ripartizione di competenza in materia di determinazione delle aliquote

Nel vigore della L. 8 giugno 1990, n. 142 di riforma del sistema delle autonomie locali l’ art. 32, lettera g) demandava alla competenza dei Consigli comunali "l’istituzione e l’ordinamento dei tributi", mentre alla giunta veniva attribuita competenza residuale, cioè relativa a questioni non espressamente riservate ad altro organo.

Da ciò il consolidato orientamento dottrinale e giurisprudenziale faceva discendere l’attribuzione al Consiglio della potestà di determinazione delle aliquote, sull’assunto che con l’espressione "istituzione e ordinamento dei tributi" il legislatore del 1990 avesse inteso riferirsi alla regolamentazione di tutti gli elementi fondamentali del rapporto tributario, compresa quindi anche la determinazione del quantum della prestazione.

In altri termini, considerato che la fissazione dell’aliquota rappresenta da sempre momento qualificante dell’autonomia tributaria degli enti locali ( molto spesso, soprattutto in passato, costituiva l’unica forma concreta di intervento nella disciplina dei tributi) detta attività si inserisce nella definizione degli elementi strutturali dell’obbligazione di imposta e appartiene quindi alla regolamentazione generale (e cioè al c.d. ordinamento) del tributo, e non può essere intesa come momento di mera "specificazione" concreta della tariffa.

In questa prospettiva, sulla base della interpretazione sistematica della normativa citata, l’orientamento ermeneutico prevalente rilevava che il legislatore del 1990 con il termine "istituzione" non intendeva riferirsi alla fase genetica del tributo, di esclusiva competenza del legislatore nazionale, bensì proprio al potere di determinazione del quantum della prestazione connessa al tributo medesimo.

Ciò perché al tempo della promulgazione di tale legge non esistevano tributi di cui fosse facoltativa l’istituzione da parte del comune o della provincia.

Avvalora tale conclusione il rilievo per cui se all’organo rappresentativo dell’intero corpo elettorale compete deliberare bilanci, piani finanziari e l’istituzione dei tributi dell’ente, sembra illogico non riconoscere allo stesso la possibilità di determinare la fissazione di aliquote e di tariffe, disconoscendo la correlata potestà di determinare anche gli elementi essenziali e decisivi della politica fiscale e finanziaria dello stesso ente, quali - appunto - la fissazione delle aliquote e delle tariffe dei tributi imponibili.

Un ulteriore argomento a sostegno di detta impostazione veniva ricavato dalla constatazione che nel disegno degli assetti istituzionali degli enti locali, si e’ da sempre cercato di riprodurre gli equilibri tra poteri a livello centrale, sicché il Consiglio di Stato, ha ritenuto che il legislatore del 1990 abbia voluto trasfondere nell’art. 32, comma 2, lettera g), della L. n. 142 il noto e universale principio no taxation without representation.

In tal senso il Supremo Collegio amministrativo ha affermato che “la citata disposizione, attraverso l’individuazione di una sfera riservata di competenza in favore del Consiglio comunale comprensiva anche degli atti di istituzione dei tributi e di disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni e dei servizi, ricalcherebbe a livello locale l’art. 23 della Costituzione, secondo il quale nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge".

In sostanza, se il principio regolatore della ripartizione di competenze in materia impositiva è quello della correlazione tra prelievo e rappresentanza, per cui ogni prelievo di ricchezza dal patrimonio dei privati contribuenti può avere luogo soltanto in base ad un atto del Parlamento che e’ l’organo rappresentativo della volontà popolare, appare coerente che a livello locale il potere impositivo (inteso lato sensu) sia esercitato dal Consiglio comunale, che riceve direttamente dal popolo il suo potere rappresentativo, e non dalla giunta municipale, priva di una diretta legittimazione democratica.

In tal senso, il Consiglio comunale deve ritenersi competente in via esclusiva non solo per l’istituzione, ma anche per l’adeguamento delle tariffe, sia perchè l’enunciato normativo non consente una simile discriminazione, sia in quanto anche l’adeguamento implica l’esercizio di un potere impositivo attribuito dalla legge in via esclusiva all’organo comunale rappresentativo, che si sostanzia nella determinazione ex novo del quantum debeatur , sicché non ha natura diversa dall’atto istitutivo della prestazione patrimoniale.

Quando il legislatore ha inteso derogare a tale principio lo ha dovuto prevedere espressamente, come nel caso della formulazione originaria dell’art. 6 del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, vigente fino al 1996, che affidava la fissazione dell’aliquota dell’imposta comunale sugli immobili (Ici) a "deliberazione della giunta comunale", con ciò facendo eccezione rispetto al panorama della legislazione in materia di fiscalità locale, che generalmente conferiva al Consiglio i poteri relativi all’istituzione e alla determinazione della misura dei tributi.

Solo con l’art. 42, comma 2, lettera f), del d.lg. n. 267/2000 (nuovo "Testo unico delle leggi in materia di ordinamento degli enti locali" ) è stata introdotta la distinzione tra l’istituzione e l’ordinamento dei tributi da un lato e la determinazione delle relative aliquote dall’altro, escludendo il secondo profilo dalla competenza consiliare.

Tale disposizione stabilisce infatti che il Consiglio comunale (o provinciale) "ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali:...; f) istituzione e ordinamento dei tributi, con esclusione della determinazione delle relative aliquote; disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni e servizi".

Proprio il tenore letterale dell’art. 42, comma 2, lettera f), del nuovo T.U. in materia di ordinamento degli enti locali chiarisce il significato della norma preesistente.

Invero, stabilire che e’ attribuzione esclusiva del Consiglio comunale o provinciale "l’istituzione ed ordinamento dei tributi, con esclusione della determinazione delle relative aliquote" equivale ad affermare che, di per sè, la nozione di "istituzione e ordinamento" comprende al suo interno anche la determinazione del quantum della prestazione tributaria. In altri termini, il legislatore del Testo Unico, enucleando dalla complessiva attività di regolamentazione del tributo la fissazione delle aliquote, ha dato prova di ritenere che quest’ultima non rappresenta un momento diverso ed ulteriore, ma si inserisce nella definizione degli elementi strutturali dell’obbligazione di imposta oggetto dell’attività’ di regolamentazione generale (la disciplina dell’ordinamento tributario).

L’interpretazione letterale conferma, quindi, che il legislatore del 2000 ha introdotto una disposizione volutamente innovativa che individua nella giunta l’organo competente a determinare le aliquote, e contemporaneamente avvalora la tesi secondo cui il previgente e corrispondente art. 32, comma 2, lettera g), della L. n. 142/1990 attribuisse tale competenza al Consiglio.

Ciò conferma che tale norma - la quale si limitava a disporre che l’istituzione e ordinamento dei tributi e’ atto fondamentale di competenza del Consiglio - era correttamente interpretata da coloro i quali ritenevano che con esso il legislatore del 1990 avesse voluto attribuire la determinazione delle aliquote all’organo consiliare.

Tuttavia l’art. 42, comma 2, lettera f), del nuovo T.U, non risulta immediatamente applicabile nell’ambito della Regione Siciliana, perché non ha costituito oggetto di recepimento da parte del legislatore regionale, che in subiecta materia gode di potestà legislativa esclusiva, sicché nel territorio regionale può trovare applicazione ancora oggi solo l’art.32 lett.g) L.142/90, come recepito in modo statico nella regione Sicilia dall’art.1 lett.e) L.R.48/1991.

Motivo per cui la delibera della Giunta municipale di Palermo di rideterminazione delle tariffe Tarsu viene ritenuta dal Tar illegittima in quanto affetta da incompetenza funzionale.

A tale soluzione induce peraltro l’interpretazione sistematica delle disposizioni dello Statuto dell’ente, che all’art. 49 assegna alla Giunta la competenza a “procedere a variazioni delle tariffe e aliquote dei tributi comunali e dei corrispettivi dei servizi a domanda individuale <<entro i limiti indicati dalla legge o dal Consiglio comunale>>, al quale organo spetta – ai sensi dell’art.14 del regolamento TARSU adottato con delibera C.C. n.37 del 26/02/1997 - la competenza esclusiva in ordine alla determinazione del <fattore> (compreso tra 0,5 ed 1) che esprime esprimere il grado di copertura del costo del servizio, da statuire annualmente all’atto di approvazione delle tariffe unitarie.

La sentenza della Commissione tributaria provinciale: la differenziazione del prelievo tra le categorie di utenza. Presupposti di legittimità.

La decisione della Commissione tributaria provinciale di Palermo affronta invece la tematica dei criteri di differenziazione del prelievo tra i contribuenti.

Il contenzioso origina da un ricorso avverso una cartella esattoriale con la quale il Comune di Palermo richiedeva al ricorrente il pagamento di euro 25.365,68 a titolo di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani relativa agli anni 2001, 2002, 2003, 2004 e 2006.

La società ricorrente sosteneva l’illegittimità dell’iscrizione a ruolo operata dall’ente comunale che, in contrasto con l’art. 68 del D. Lgs. 507/93, aveva inserito gli alberghi in una categoria tariffaria differente dalle abitazioni, con applicazione di una tariffa a mq. di gran lunga superiore.

A sostegno dell’illegittimità della pretesa tributaria comunale venivano altresì articolate argomentazioni concernenti la violazione da parte del regolamento Tarsu adottato dal Comune di Palermo, degli artt. 61 e 69 del D. Lgs. n. 507/93, il vizio di competenza (atteso che le delibere di modifica erano state adottate dalla Giunta e non dal Consiglio comunale) e l’assoluta mancanza di motivazione nell’adozione di tariffe differenziate, in violazione dell’art. 7 della L. n. 135/2001.

Il ricorrente concludeva chiedendo, in via principale, l’annullamento, previa sospensione cautelare, dell’iscrizione a ruolo e della cartella impugnata, in via subordinata, la riduzione degli importi richiesti, sulla base della tariffa prevista per le abitazioni, in estremo subordine, la riduzione degli importi richiesti, sulla base della tariffa prevista per gli insediamenti industriali.

I criteri e le modalità di quantificazione della Tarsu sono disciplinati dall’art. 65 D. Lgs. cit., nel testo modificato dal 3" comma art. 68,l. 28 dicembre 1995, n. 549, che prevede che “La tassa può essere commisurata o in base alla quantità e qualità medie ordinarie per unità di superficie imponibile dei rifiuti solidi urbani interni (...) producibili nei locali ed aree per il tipo di uso cui i medesimi sono destinati, e al costo dello smaltimento; oppure, per i comuni aventi popolazione inferiore a 35.000 abitanti, in base alla qualità, alla quantità effettivamente prodotta, dei rifiuti solidi urbani e al costo dello smaltimento.

Il secondo comma della citata disposizione dispone inoltre che "Le tariffe per ogni categoria o sottocategoria omogenea sono determinate dal comune, secondo il rapporto di copertura del costo prescelto entro i limiti di legge, moltiplicando il costo di smaltimento per unità di superficie imponibile accertata, previsto per l’anno successivo, per uno o più coefficienti di produttività quantitativa e qualitativa di rifiuti".

Ma la quantificazione del prelievo in relazione alle varie tipologie di utenza trova specifica disciplina anche attraverso i commi 1 e 2 dell’art. 68, in cui, per la parte che qui rileva, è previsto che:

a. la classificazione delle categorie ed eventuali sottocategorie di locali ed aree con omogenea potenzialità di rifiuti e tassabili con la medesima misura tariffaria;

b. le modalità di applicazione dei parametri di cui all’art. 65;

2. L’articolazione delle categorie e delle eventuali sottocategorie è effettuata, ai fini della determinazione comparativa delle tariffe, tenendo conto, in via di massima, dei seguenti gruppi di attività o di utilizzazione:

c. locali ed aree ad uso abitativo per nuclei familiari, collettività e convivenze, esercizi alberghieri;

Dal coacervo di tali norme si ricava che il legislatore non fissa solo un metodo per la determinazione della qualità e quantità di rifiuti solidi urbani prodotti per categorie di utenza, ma persegue anche lo scopo di stabilire i parametri e i criteri sulla base dei quali gli Enti locali devono calcolare la tariffa stessa per classi di utenza.

Alla luce del delineato quadro normativo il Collegio statuisce che nulla vieta agli organi comunali di adottare tariffe differenziate tra case ed esercizi alberghieri o case vacanze, ove l’utilizzazione è, peraltro, qualitativamente e quantitativamente diversa dalle case private. Tuttavia l’espressione "in linea di massima" induce a ritenere che una significativa differenziazione delle tariffe, ai fini del controllo di legittimità. vada adeguatamente motivata.

Lo sviluppo della concezione restrittiva in relazione all’obbligo di motivazione degli atti tributari degli Enti locali ha infatti propiziato l’orientamento costante per cui in materia di TARSU l’organo comunale competente è tenuto ad indicare in sede di applicazione i parametri di ripartizione del carico tributario tra le singole categorie che fruiscono del relativo servizio pubblico in ragione della attitudine alla produzione di rifiuti. Peraltro, qualora si voglia assumere quale criterio per la classificazione delle utenze l’attività economica esercitata dal contribuente, la relativa delibera deve, a pena di illegittimità, indicare in maniera precisa le ragioni di tale scelta, evidenziando adeguatamente il rapporto di congruenza tra la natura delle attività considerate e lo scopo dell’atto, che deve consistere nella copertura dei costi del servizio, per giustificare la differenziazione del carico tributario tra le diverse attività produttive.

Sul punto si segnala l’esistenza di diverse pronunce espressive di un opposto orientamento, secondo il quale la scelta della legge di rinviare alla concreta determinazione tariffaria dell’Ente implica che la classificazione delle categorie dei contribuenti costituisce una valutazione di merito, che non abbisogna di puntuale motivazione, ed è sindacabile in sede di legittimità soltanto qualora emergano in modo univoco la incongruità e irragionevolezza della statuizione.

Ma la giurisprudenza maggioritaria, nel dirimere le controversie in materia, ha stabilito il principio per cui il Comune deve rendere intelligibili le ragioni che si pongono a fondamento delle determinazioni assunte in materia fiscale e dirette a produrre effetti sulle posizioni giuridiche dei contribuenti, indicando i criteri e le modalità seguite nelle operazioni di classificazione delle utenze, poste in essere in ottemperanza alle prescrizioni contenute nell’art. 65 del D.Lgs.507/93,e motivando adeguatamente tali scelte in relazione alla congruenza tra la natura delle attività considerate e le finalità di copertura del servizio che il provvedimento di definizione tariffaria deve perseguire. Ai fini infatti della quantificazione degli importi dovuti dal soggetto passivo, le scelte di classificazione devono basarsi sulla idoneità dei locali o aree a produrre rifiuti, dovendosi in quella sede ripartire il costo globale della prestazione pubblica tra tutti i contribuenti assoggettati al prelievo in relazione all’incidenza della tipologia delle superfici sul costo complessivo del servizio.

Ciò comporta per l’Ente l’obbligo di specificare gli elementi e i dati di natura fattuale che costituiscono oggetto di valutazione ai fini dell’adozione dell’atto, ma anche le ragioni giuridiche, che consistono essenzialmente nei procedimenti che attraverso l’applicazione della disciplina normativa ai fatti riscontrati e dedotti, conducono all’accertamento, in relazione alle singole fattispecie, della realizzazione del presupposto dell’obbligazione tributaria, i cui effetti giuridici vengono disciplinati dal provvedimento.

Il prelievo può essere quantificato facoltativamente in base ad uno dei due metodi indicati nell’art. 65, comma 1, del d. lgs. 1993/507, riguardanti rispettivamente la commisurazione della tassa alla specifica produttività quantitativa e qualitativa di rifiuti per tipologia di attività con elaborazione di appositi coefficienti(comma2), ovvero alla produzione di rifiuti effettivamente conferiti al servizio pubblico, metodo quest’ultimo che presuppone l’organizzazione di adeguate modalità di rilevazione potendo essere basato solo in misura marginale e in via cautelativa sulla presunzione della produzione minima di rifiuti.

In proposito le determinazioni di quantificazione della tassa in relazione alle classi di utenza assunte sulla base dei criteri indicati dall’art. 65, comma 1, del più volte citato decreto n. 507, devono essere sorrette da idonea motivazione in relazione all’applicazione dei parametri di commisurazione delle tariffe del tributo e delle modalità procedurali di adozione delle deliberazioni di definizione delle stesse, qualora comportino una diversificazione del regime della tassazione tra le varie fattispecie imponibili,e vengano poste in essere assumendo quale criterio per differenziare le tariffe la natura dell’attività economica esercitata nell’ambito degli immobili oggetto del prelievo, considerata come proiezione della determinazione d’uso in relazione all’incidenza sui costi del servizio.

Sulla scorta del costante orientamento della giurisprudenza tributaria e amministrativa in materia, pertanto il Collegio, rileva che, alla luce della "omologazione" di massima di cui all’art. 68, la maggiore capacità delle aziende alberghiere (o delle strutture ad esse assimilate) o di parti di esse di produrre rifiuti, deve essere adeguatamente motivata in quanto vi sono aree molto vaste di tali strutture che non sono produttive di rifiuti mentre altre lo sono di più.

In particolare i giudici tributari sottolineano che la circostanza il regolamento comunale sottoponga a tassazione l’intera superficie alberghiera - ivi compresi gli enormi spazi liberi di cui le strutture ricettive sono dotate - evidenzia tutta l’illogicità di una quantificazione del tributo arbitraria e iniqua, tanto più se si considera l’assoluta mancanza di motivazione.

In definitiva le rilevanti differenze tra locali ad uso abitativo e locali ad uso alberghiero finiscono per sganciare le due tipologie di tariffa dalla capacità di produzione di rifiuti, per ricollegarle, invece, ad altri, peraltro neppure esplicitati, criteri (primo fra tutti la redditività dell’attività svolta), non contemplati dalla legislazione vigente.

Tenuto conto della totale assenza di una motivazione che illustri i criteri utilizzati nella rideterminazione delle tariffe - una simile differenza di trattamento appare al Collegio assolutamente illogica e, conseguentemente, illegittima.

Sulla base di simili rilevazioni vengono pertanto disapplicati gli atti di normazione secondaria in riferimento all’oggetto del giudizio, e viene stabilito che, in mancanza di adeguata motivazione, la tariffa deve essere ridotta ed equiparata a quella delle abitazioni civili.

Premessa

La produzione giurisprudenziale più recente in materia di fiscalità locale mostra come nell’esercizio dell’attività di imposizione siano evidenti i segni di disattenzione da parte degli Organi e degli Uffici comunali in merito alla osservanza di doveri inderogabili, come quello relativo alla indicazione dei presupposti di fatto e di diritto degli atti e provvedimenti di competenza.

Non sembrano infatti da ritenere isolati quei casi di deliberazioni del Consiglio e della Giunta o di atti e provvedimenti degli uffici comunali che, malgrado le chiare disposizioni direttive fornite dal sistema normativo, sovente mostrano grave carenza di considerazione o totale inosservanza di quest’obbligo fondamentale, posto come ineludibile dalla disciplina applicativa dei tributi locali di competenza, ragion per cui vengono in sede contenziosa agevolmente fatti oggetto di radicale censura e, di conseguenza, resi privi di efficacia giuridica.

Simili carenze ed omissioni rivelano peraltro una preoccupante forma di inottemperanza alle disposizioni recate dallo Statuto del contribuente , dalla legge n. 241/1990 nonché dalle norme istitutive delle singole forme di prelievo o da quelle che disciplinano l’esercizio dell’attività impositiva degli enti locali (cfr D.lgs. n. 32/2001). Ciò non manca di provocare, nelle interpretazioni di primo impatto, la previsione di preoccupanti ripercussioni sulla garanzia del diritto di difesa dei contribuenti.

L’incremento del contenzioso in materia trova fra le ragioni di spinta proprio l’inosservanza di tali doveri da parte degli eell, che in virtù della più recente evoluzione normativa, costituiscono la categoria di enti in prima linea nella gestione di una sempre più rilevante quota della fiscalità generale.

Fra i tributi comunali che più mostrano i segni evidenti di simili incidenze rientra certamente la vecchia, ma ancora attuale, TARSU, che, in una multiforme realtà di pratica giuridica, si prospetta, nel suo piccolo, come rigenerata in un ginepraio di disposizioni non facilmente esplorabile, in mezzo al quale risulta piuttosto difficoltoso muovere ogni attività di indagine sia per l’operatore che per l’interprete.

Si tratta di un tributo in relazione al quale il D.lgs. 15-11-1993, n. 507 conferisce ai Comuni il potere-dovere di operare una complessa articolazione di norme attuative, finalizzate ad una distribuzione del peso fiscale il più possibile equamente proporzionata ai molteplici aspetti rilevanti ai fini della determinazione dell’ammontare del prelievo.

Al riguardo si sono rivelate piuttosto significative le recenti sentenze con le quali il Tar Sicilia e la Commissione tributaria provinciale di Palermo si sono pronunciate sulla legittimità delle determinazioni della Giunta municipale con le quali veniva disposto un aumento generalizzato della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, con un incremento pari al 75% rispetto all’esercizio precedente per ogni tipologia di classe, e si procedeva alla ripartizione del carico tributario tra le diverse categorie di utenza.

La determinazione della misura del prelievo: l’indicazione dei criteri e dell’iter logico-giuridico

Con la sentenza n. 1550/2009 il Tar Palermo affronta due dei profili più rilevanti dell’esercizio della potestà impositiva locale, quali quelli relativi al potere di differenziazione della misura del prelievo e ai presupposti e modalità di relativo esercizio , e quello concernente la ripartizione della potestà impositiva tra Consiglio e Giunta municipale.

Si tratta di aspetti particolarmente delicati e rilevanti, anche in considerazione della diretta incidenza sulle garanzie previste dall’ordinamento a favore dei contribuenti.

La disciplina dei presupposti e delle condizioni di variazione del prelievo tributario concerne infatti la garanzia di valori di rango costituzionale quali la trasparenza dell’attività amministrativa , l’uguaglianza tra i cittadini, l’esercizio del diritto di difesa.

Le problematiche relative alla ripartizione di competenza tra gli organi locali investono invece il tema della necessaria correlazione tra imposizione e rappresentatività.

Con il gravame proposto al Tar la locale Associazione degli industriali censura, chiedendone l’annullamento - previa sospensione degli effetti - la delibera della Giunta municipale di Palermo con cui sono state quantificate le aliquote, le tariffe, le agevolazioni e le detrazioni per il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU) per l’esercizio finanziario 2006, prevedendo un generalizzato aumento della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, con un incremento pari al 75% rispetto all’esercizio precedente per ogni tipologia di classe

A sostegno della dedotta illegittimità della delibera impugnata vengono articolati una serie di motivi concernenti rispettivamente l’incompetenza della Giunta municipale, la violazione e falsa applicazione degli artt.58 e ss. D.Lgs.507/93, l’eccesso di potere per omessa motivazione ed omessa istruttoria.

Il Collegio affronta in via preliminare l’eccezione di inammissibilità proposta dalla difesa comunale concernente la mancanza di legittimazione ad agire dell’Associazione ricorrente.

In merito l’orientamento giurisprudenziale prevalente ritiene che le Associazioni di settore siano legittimate a difendere in sede giurisdizionale gli interessi di categoria dei soggetti di cui hanno la rappresentanza istituzionale o di fatto ogniqualvolta si tratti di perseguire il conseguimento di vantaggi, sia pure di carattere puramente strumentale, giuridicamente riferibili alla sfera della categoria , o non siano comunque rinvenibili posizioni differenziate o disomogenee dei singoli associati.

Ne consegue che se l’interesse che legittima tali Associazioni ad agire a tutela dei propri associati sussiste anche quando si tratti di perseguire vantaggi di carattere strumentale giuridicamente riferibili alla sfera della categoria , tale legittimazione non può essere negata in relazione alla censura di un provvedimento che comporta un generale aumento del 75% circa della TARSU per ognuna delle classi previste nel regolamento. Ciò a maggior ragione se si considera che l’ Associazione ricorrente è essa stessa soggetto inciso dall’aumento, in quanto inclusa fra i contribuenti tenuti al pagamento della TARSU.

Nel merito le censure di legittimità proposte vengono ritenute dal Tar meritevoli di accoglimento sia in relazione al profilo concernente la competenza a deliberare le variazione della misura del tributo in oggetto, sia in ordine alla necessaria istruttoria a supporto della scelta di operare l’incremento della pressione fiscale.

Sotto quest’ultimo profilo vengono ritenuti sussistenti i dedotti vizi della violazione di legge e dell’eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, poiché dal provvedimento impugnato non risulta ricavabile alcun elemento idoneo a ricostruire i presupposti di fatto e di diritto che hanno determinato la Giunta al cospicuo aumento della tariffa.

Simile omissione determina una evidente violazione degli oneri esplicativi posti a carico degli enti locali dalla normativa che disciplina l’esercizio della potestà impositiva agli stessi devoluta.

In particolare, ai sensi dell’art. 7 della legge 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), gli Organi e gli Uffici degli Enti territoriali devono indicare gli elementi di fatto e le ragioni giuridiche che determinano l’emissione di atti e provvedimenti diretti al contribuente espressivi di una pretesa fiscale.

Dette disposizioni sono espressamente riferite alla attività dell’Amministrazione erariale, tuttavia, in virtù della loro natura di principi generali dell’ordinamento tributario (quale risulta dalla autoqualificazione contenuta nell’art. 1 della legge n. 212) devono ritenersi estese ad ogni settore ed ambito della fiscalità in genere, compresa naturalmente la finanza locale, stante l’obbligo delle Autonomie territoriali di adeguare la propria normativa ai principi contenuti nella legge.

Peraltro anche nell’orientamento della Corte di Cassazione la disciplina recata dall’art. 7 l. n. 212/2000 si inquadra a pieno titolo nel paradigma dei principi generali ed immanenti del diritto e dell’azione amministrativa in materia tributaria, in virtù della relativa funzione di diretta attuazione degli artt. 3,23,53,97 Cost..

Sicché non residuano margini di dubbio in ordine alla estensione di dette disposizioni all’ambito della fiscalità territoriale, con l’effetto di orientare l’attività normativa ed amministrativa degli Enti locali in sede di attuazione della relativa disciplina verso il pieno rispetto dei valori e diritti oggetto di tutela. Ne consegue l’imposizione a carico degli stessi del dovere di adeguare statuti e regolamenti alle previsioni contenute nella medesima legge, e di recepire i relativi principi nello svolgimento dell’attività di previsione normativa e gestione amministrativa della disciplina dei tributi locali, anche al fine di prevenire o ridurre le occasioni e i motivi di contenzioso.

Per effetto delle citate disposizioni, dunque, tutti gli atti di imposizione delle Amministrazioni e dei soggetti incaricati delle attività di liquidazione, accertamento e riscossione dei tributi locali, oltre a mostrare chiarezza di esposizione, devono recare l’ indicazione dei presupposti di fatto su cui si fondano e degli istituti giuridici rilevanti e concretamente applicati per la disciplina del rapporto, sì da esternare adeguatamente la logica del provvedere seguita dall’Organo o dall’Ufficio, e rendere chiara la correlazione tra ratio e contenuto dell’atto.

Ciò in quanto la motivazione ha lo scopo di consentire al cittadino la ricostruzione dell’iter logico-giuridico attraverso cui l’amministrazione si è determinata ad adottare un determinato atto o provvedimento, al fine di verificare il corretto esercizio del potere alla stessa conferito dalla legge e di far valere eventualmente nelle opportune sedi, giustiziali o giurisdizionali, le proprie ragioni.

Questo ruolo dell’obbligo di esplicazione delle ragioni degli atti di imposizione come fondamentale elemento di legittimità della pretesa impositiva discende da una visione non meramente formale della garanzia del diritto di difesa del contribuente e dei principi di trasparenza e di lealtà desumibili dall’articolo 97 della Costituzione.

L’ampia discrezionalità riconosciuta ad organi di governo e di rappresentanza politica in una determinata materia non sottrae i relativi provvedimenti al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, diretto a controllare, proprio attraverso l’esame della motivazione, l’esercizio del potere sotto il profilo della logicità, razionalità e congruità, per evitare che possa scadere nel mero arbitrio.

Una simile prospettazione, come è evidente, non va al di là di una ricognizione degli elementi strutturali della motivazione, con finalità puramente definitorie, in quanto il contenuto concreto degli oneri relativi deve essere accertato caso per caso, in relazione alla tipologia del tributo, alla natura dell’atto, agli elementi che l’Amministrazione si propone in concreto di dimostrare, nonché alle argomentazione che le stessa intende utilizzare al riguardo ( es. eventuale deroga, ove ammessa, ai criteri di valutazione previsti dalla legge).

Pertanto è bene tener presente che tanto la definizione della motivazione come apparato argomentativo idoneo ad esternare “i momenti ricognitivi e logico-deduttivi” dell’atto (secondo una formula spesso adoperata dalla giurisprudenza) quanto la indicazione e descrizione degli elementi che ne compongono la struttura, sono operazioni a carattere puramente declaratorio ed illustrativo. Servono cioè a sintetizzare in chiave teorica il significato e la consistenza dell’obbligo relativo, la cui applicazione pratica si realizza poi in funzione di un caso concreto; così il contenuto minimo inderogabile dell’onere esplicativo deve essere accertato caso per caso in rapporto alla tipologia del tributo, alla natura dell’atto, nonché alle circostanze specifiche ( eventuale deroga, ove ammessa, ai criteri di valutazione previsti dalla legge, mutamento di indirizzo rispetto a precedenti determinaizone ecc) .

Ciò perché l’onere della motivazione, in considerazione della funzione di ordinatore degli interessi pubblici e di contemperamento tra questi e quelli privati che è propria di ogni atto di imposizione, non può rispondere ad uno standard fisso ed immutabile, ma varia necessariamente in ragione degli effetti, ampliativi o restrittivi, che il provvedimento è destinato a produrre nella sfera giuridica dei destinatari e della più o meno elevata interferenza degli interessi privati con quello pubblico perseguito.

Così, nell’impossibilità di identificare un contenuto esplicativo standard valevole per tutte indistintamente le tipologie di atti impositivi, la costruzione dell’impianto argomentativo di volta in volta necessario in relazione alle concrete esigenze dell’atto, è dovuta in larga misura all’opera della giurisprudenza che, interpretando le norme di disciplina delle specifiche fattispecie alla luce dei principi e delle disposizioni in materia di motivazione dei provvedimenti impositivi ha, in relazione ai singoli rapporti giuridici tributari, adeguato il contenuto esplicativo alle esigenze cognitive specifiche.

In considerazione della diversità di natura e caratteristiche degli atti compresi nelle previsioni legislative della struttura impositiva, e della conseguente infungibilità dei singoli elementi esplicativi, strettamente correlati alla fattispecie di riferimento, al fine di individuare il contenuto dell’onere a carico dell’ente impositore si rende necessaria la qualificazione del provvedimento di determinazione del prelievo.

A tal fine il Tar, sulla scorta della giurisprudenza maggioritaria, qualifica la delibera comunale di variazione delle tariffe come atto amministrativo generale a contenuto non normativo, e da tale qualificazione fa discendere che sulla disciplina prevista dalla legge L.241/90 prevale, per il suo carattere di specialità e maggiore garanzia procedimentale, la norma di cui all’art.69 co.2 D.Lgs.507/93, poiché tale disposizione comporta l’obbligo per l’Amministrazione di motivare analiticamente le scelte espresse nelle relative deliberazioni.

In sostanza, anche se gli atti a contenuto generale non soggiacciono all’obbligo di specifica motivazione, stante l’espressa esclusione dall’ambito di applicabilità dell’art. 3 della legge n. 241/’90, l’autonomia locale nella gestione dei tributi di propria devoluzione deve necessariamente svolgersi nel pieno rispetto delle direttive fornite dalla fonte di rango primario, e, in un simile contesto, la individuazione in via legislativa di un preciso limite all’esercizio delle prerogative riconosciute ai Comuni in materia di determinazione dell’ammontare della TARSU, vale ad individuare uno specifico obbligo di giustificare la relativa attività in relazione alla piena ottemperanza ai requisiti e alle condizioni richiesti dalle prescrizioni legislative.

Per quanto specificamente attiene alla TARSU , dunque, il contenuto effettivo della struttura argomentativa necessaria a motivare adeguatamente la pretesa fiscale risulta dal coordinamento delle disposizioni legislative generali sulla legittimità dell’azione pubblica in materia fiscale (art. 7 della legge n. 212/2000, art. del D.Lgs. n. 32/2001) con la normativa recante la disciplina del tributo, costituita dal D. Lgs. 507/1993.

In particolare, a mente dell’art. 65, comma 2 del d.lgs. n. 507/1993, le aliquote della Tarsu devono essere "determinate dal Comune secondo il rapporto di copertura del costo prescelto entro i limiti di legge, moltiplicando il costo di smaltimento per unità di superficie imponibile accertata, previsto per l’anno successivo, per uno o più coefficienti di produttività quantitativa e qualitativa di rifiuti".

Mentre, ai sensi dell’art. 69 , comma 2, della citata disposizione, “Ai fini del controllo di legittimita’, la deliberazione deve indicare le ragioni dei rapporti stabiliti tra le tariffe, i dati consuntivi e previsionali relativi ai costi del servizio discriminati in base alla loro classificazione economica, nonche’ i dati e le circostanze che hanno determinato l’aumento per la copertura minima obbligatoria del costo”.

Con riguardo alla quantificazione della misura del prelievo l’art. 49, del D.Lgs.22/97 prevede che durante il periodo transitorio per il passaggio dalla Tarsu alla Tariffa per la gestione dei rifiuti urbani, i comuni, per garantire il graduale raggiungimento dell’integrale copertura dei costi del servizio di gestione dei rifiuti urbani da parte dei comuni (comma 16) possono, in via sperimentale (comma 5), attivare il sistema tariffario (comma 1 bis) secondo le disposizioni transitorie emanate dal Ministro dell’ambiente di concerto con il Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento.

Di conseguenza, la scelta di fare riferimento ai coefficienti tariffari per garantire un avvicinamento graduale alla copertura dei costi, costituisce esercizio non irragionevole della discrezionalità che il legislatore riserva all’amministrazione in sede di graduazione ed eventuale accelerazione del processo di copertura del costo del servizio.

Ne deriva che il previsto passaggio graduale dal regime di "tassa" a quello di "tariffa", non impedisce che il metodo per il calcolo dell’aliquota tariffaria non possa essere applicato anche per il calcolo della tassa sullo smaltimento dei rifiuti. E tanto specie ove tale sistema inneschi un’accelerazione nel processo di copertura dei costi del servizio di gestione dei rifiuti solidi urbani da parte dei contribuenti.

Ma, nel caso della delibera della Giunta comunale impugnata, secondo i giudici amministrativi “ né l’aumento generalizzato della TARSU pari al 75% rispetto all’esercizio finanziario precedente può obiettivamente dirsi graduale, né la determinazione impugnata può ritenersi una introduzione in via sperimentale della nuova tariffa ai sensi dei mentovati commi 1bis e 16 art.49 cit.”.

Peraltro l’orientamento prevalente in giurisprudenza ritiene che nel caso della TARSU, e in generale di tutti i tributi finalizzati al finanziamento di un servizio pubblico i cui oneri vengono ripartiti tra tutti gli utenti, l’Ente impositore è tenuto a motivare l’incremento delle prestazioni tributarie richiesto ai contribuenti in relazione all’aumento dei costi relativi.

In particolare ai sensi dell’art. 61 del d.lgs. n. 507/1993 il gettito complessivo non può superare il costo di esercizio del servizio, né essere inferiore al 50%, inteso al netto delle entrate derivanti dal recupero e dal riciclo dei rifiuti (co.3 art.61 D.Lg.cit.) e al netto della deduzione dell’importo (oscillante tra il 5% e il 15%) a titolo di costo di spezzamento (co.3 bis). Per quanto più specificamente riguarda il Comune di Palermo, ai sensi del regolamento adottato in applicazione del D.Lgs. 507/93 (di cui alla delibera C.C. n.37 del 17/4/97), il gettito della TARSU corrisponde al c.d. <costo convenzionale> che, indipendentemente dalla percentuale della copertura del costo di servizio che il Comune scelga di coprire con il prelievo impositivo, è comunque inferiore (per le deduzioni di cui in premessa) al costo complessivo del servizio in parola.

Il legislatore, rapportando la misura del prelievo al costo di gestione del servizio pubblico, seppur non secondo un rapporto di piena corrispettività, ha posto pertanto un limite alla discrezionalità dell’Ente nella quantificazione del tributo.

Stante la rilevata correlazione tra costo della tassa e costo del servizio di N.U., quest’ultimo diviene il necessario imprescindibile riferimento per la quantificazione del prelievo e quindi anche per ogni variazione dell’ammontare dello stesso. Detto ineludibile rapporto di tendenziale corrispettività pertanto, oltre a stabilire un tetto alla misura del prelievo, varrebbe ad individuare un limite alla discrezionalità nell’esercizio del potere impositivo degli Enti locali, vincolando il gettito del tributo al raggiungimento di un fine preciso, con l’effetto di onerare il soggetto impositore a motivare adeguatamente le proprie scelte e determinazioni in relazione alla idoneità e strumentalità al perseguimento di detto obiettivo.

A sostegno della tesi interpretativa in commento militano peraltro anche ragioni tutt’altro che secondarie relative al necessario rispetto del fondamentale principio, di rango costituzionale (art. 97), del buon andamento della P.A. sotto il profilo della trasparenza delle scelte amministrative, peraltro intimamente connesse con la natura e funzione proprie della motivazione, consistente nella garanzia del controllo delle scelte amministrative.

Sotto questo aspetto, infatti, pur ammettendo la sussistenza in capo all’Ente di un potere discrezionale di quantificare l’ammontare della TARSU, soltanto una congrua attività istruttoria e di piena esternazione delle ragioni che hanno determinato le scelte assunte è in grado di assicurare il necessario controllo, principalmente da parte degli amministrati, della legittimità delle decisioni adottate dai pubblici poteri nell’esercizio di prerogative caratterizzate da ampia autonomia decisionale.

Detto controllo viene ritenuto ancora più necessario in un contesto, come quello attuale, caratterizzato da un rilevante allentamento del sistema dei controlli sugli atti degli Enti locali, dalla connessa semplificazione dei procedimenti amministrativi che libera l’attività decisionale degli enti territoriali da numerosi vincoli, nonché dal lento, ma oramai quasi compiuto, radicamento nel sistema del principio di sussidiarietà. Tutti elementi - portati dal progressivo affermarsi di una tendenza sempre più decisa al decentramento delle scelte pubbliche - che contribuiscono ad aumentare il grado di autonomia degli enti locali nell’esercizio delle prerogative di competenza, ma rendono al contempo necessario un efficace controllo della legittimità delle decisioni, preventivo rispetto alla eventuale fase contenziosa.

Nel caso di specie risulta del tutto carente il riferimento all’istruttoria compiuta dal Comune per la predisposizione degli aumenti, considerato che“nella delibera impugnata e nei relativi allegati è totalmente omessa ogni e qualsiasi indicazione relativa al rispetto e conformità all’iter di determinazione dell’ammontare del prelievo, nonché manca ogni e qualsiasi specificazione e giustificazione dell’importo del costo del servizio: infatti, dagli atti si evince semplicemente che l’importo del costo, da inserire nel redigendo bilancio di previsione, è stato comunicato (telefonicamente) dalla Ragioneria Generale del Settore Tributi. Manca, in altri termini, qualsiasi indicazione dei criteri seguiti ed adottati per la determinazione del costo e del relativo iter seguito”.

L’ omissione di ogni riferimento all’istruttoria eventualmente compiuta dal Comune per la predisposizione degli aumenti risulta ancora più grave in considerazione del fatto che con le precedenti delibere concernenti la TARSU relativa all’ esercizio finanziario 2006 (la n.60 del 10/3/2006 e la n.131 del 08/05/2006) la stessa Giunta aveva già statuito di mantenere inalterata, per ognuna delle classi dei soggetti obbligati, la misura della TARSU già prevista nel precedente esercizio 2005.

Ed invero, “a ragione del repentino revirement sulle determinazioni già assunte e confermate, il provvedimento impugnato –pur nella vigenza del periodo transitorio per il passaggio graduale dalla TARSU alla Tariffa di cui all’art.49 D.Lgs.22/97- richiama laconicamente solo generiche “direttive politiche” connesse alla ritenuta e sopravvenuta esigenza di raggiungere la copertura dei costi complessivi (diretti ed indiretti) del servizio di che trattasi”.

La ripartizione di competenza in materia di determinazione delle aliquote

Nel vigore della L. 8 giugno 1990, n. 142 di riforma del sistema delle autonomie locali l’ art. 32, lettera g) demandava alla competenza dei Consigli comunali "l’istituzione e l’ordinamento dei tributi", mentre alla giunta veniva attribuita competenza residuale, cioè relativa a questioni non espressamente riservate ad altro organo.

Da ciò il consolidato orientamento dottrinale e giurisprudenziale faceva discendere l’attribuzione al Consiglio della potestà di determinazione delle aliquote, sull’assunto che con l’espressione "istituzione e ordinamento dei tributi" il legislatore del 1990 avesse inteso riferirsi alla regolamentazione di tutti gli elementi fondamentali del rapporto tributario, compresa quindi anche la determinazione del quantum della prestazione.

In altri termini, considerato che la fissazione dell’aliquota rappresenta da sempre momento qualificante dell’autonomia tributaria degli enti locali ( molto spesso, soprattutto in passato, costituiva l’unica forma concreta di intervento nella disciplina dei tributi) detta attività si inserisce nella definizione degli elementi strutturali dell’obbligazione di imposta e appartiene quindi alla regolamentazione generale (e cioè al c.d. ordinamento) del tributo, e non può essere intesa come momento di mera "specificazione" concreta della tariffa.

In questa prospettiva, sulla base della interpretazione sistematica della normativa citata, l’orientamento ermeneutico prevalente rilevava che il legislatore del 1990 con il termine "istituzione" non intendeva riferirsi alla fase genetica del tributo, di esclusiva competenza del legislatore nazionale, bensì proprio al potere di determinazione del quantum della prestazione connessa al tributo medesimo.

Ciò perché al tempo della promulgazione di tale legge non esistevano tributi di cui fosse facoltativa l’istituzione da parte del comune o della provincia.

Avvalora tale conclusione il rilievo per cui se all’organo rappresentativo dell’intero corpo elettorale compete deliberare bilanci, piani finanziari e l’istituzione dei tributi dell’ente, sembra illogico non riconoscere allo stesso la possibilità di determinare la fissazione di aliquote e di tariffe, disconoscendo la correlata potestà di determinare anche gli elementi essenziali e decisivi della politica fiscale e finanziaria dello stesso ente, quali - appunto - la fissazione delle aliquote e delle tariffe dei tributi imponibili.

Un ulteriore argomento a sostegno di detta impostazione veniva ricavato dalla constatazione che nel disegno degli assetti istituzionali degli enti locali, si e’ da sempre cercato di riprodurre gli equilibri tra poteri a livello centrale, sicché il Consiglio di Stato, ha ritenuto che il legislatore del 1990 abbia voluto trasfondere nell’art. 32, comma 2, lettera g), della L. n. 142 il noto e universale principio no taxation without representation.

In tal senso il Supremo Collegio amministrativo ha affermato che “la citata disposizione, attraverso l’individuazione di una sfera riservata di competenza in favore del Consiglio comunale comprensiva anche degli atti di istituzione dei tributi e di disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni e dei servizi, ricalcherebbe a livello locale l’art. 23 della Costituzione, secondo il quale nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge".

In sostanza, se il principio regolatore della ripartizione di competenze in materia impositiva è quello della correlazione tra prelievo e rappresentanza, per cui ogni prelievo di ricchezza dal patrimonio dei privati contribuenti può avere luogo soltanto in base ad un atto del Parlamento che e’ l’organo rappresentativo della volontà popolare, appare coerente che a livello locale il potere impositivo (inteso lato sensu) sia esercitato dal Consiglio comunale, che riceve direttamente dal popolo il suo potere rappresentativo, e non dalla giunta municipale, priva di una diretta legittimazione democratica.

In tal senso, il Consiglio comunale deve ritenersi competente in via esclusiva non solo per l’istituzione, ma anche per l’adeguamento delle tariffe, sia perchè l’enunciato normativo non consente una simile discriminazione, sia in quanto anche l’adeguamento implica l’esercizio di un potere impositivo attribuito dalla legge in via esclusiva all’organo comunale rappresentativo, che si sostanzia nella determinazione ex novo del quantum debeatur , sicché non ha natura diversa dall’atto istitutivo della prestazione patrimoniale.

Quando il legislatore ha inteso derogare a tale principio lo ha dovuto prevedere espressamente, come nel caso della formulazione originaria dell’art. 6 del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, vigente fino al 1996, che affidava la fissazione dell’aliquota dell’imposta comunale sugli immobili (Ici) a "deliberazione della giunta comunale", con ciò facendo eccezione rispetto al panorama della legislazione in materia di fiscalità locale, che generalmente conferiva al Consiglio i poteri relativi all’istituzione e alla determinazione della misura dei tributi.

Solo con l’art. 42, comma 2, lettera f), del d.lg. n. 267/2000 (nuovo "Testo unico delle leggi in materia di ordinamento degli enti locali" ) è stata introdotta la distinzione tra l’istituzione e l’ordinamento dei tributi da un lato e la determinazione delle relative aliquote dall’altro, escludendo il secondo profilo dalla competenza consiliare.

Tale disposizione stabilisce infatti che il Consiglio comunale (o provinciale) "ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali:...; f) istituzione e ordinamento dei tributi, con esclusione della determinazione delle relative aliquote; disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni e servizi".

Proprio il tenore letterale dell’art. 42, comma 2, lettera f), del nuovo T.U. in materia di ordinamento degli enti locali chiarisce il significato della norma preesistente.

Invero, stabilire che e’ attribuzione esclusiva del Consiglio comunale o provinciale "l’istituzione ed ordinamento dei tributi, con esclusione della determinazione delle relative aliquote" equivale ad affermare che, di per sè, la nozione di "istituzione e ordinamento" comprende al suo interno anche la determinazione del quantum della prestazione tributaria. In altri termini, il legislatore del Testo Unico, enucleando dalla complessiva attività di regolamentazione del tributo la fissazione delle aliquote, ha dato prova di ritenere che quest’ultima non rappresenta un momento diverso ed ulteriore, ma si inserisce nella definizione degli elementi strutturali dell’obbligazione di imposta oggetto dell’attività’ di regolamentazione generale (la disciplina dell’ordinamento tributario).

L’interpretazione letterale conferma, quindi, che il legislatore del 2000 ha introdotto una disposizione volutamente innovativa che individua nella giunta l’organo competente a determinare le aliquote, e contemporaneamente avvalora la tesi secondo cui il previgente e corrispondente art. 32, comma 2, lettera g), della L. n. 142/1990 attribuisse tale competenza al Consiglio.

Ciò conferma che tale norma - la quale si limitava a disporre che l’istituzione e ordinamento dei tributi e’ atto fondamentale di competenza del Consiglio - era correttamente interpretata da coloro i quali ritenevano che con esso il legislatore del 1990 avesse voluto attribuire la determinazione delle aliquote all’organo consiliare.

Tuttavia l’art. 42, comma 2, lettera f), del nuovo T.U, non risulta immediatamente applicabile nell’ambito della Regione Siciliana, perché non ha costituito oggetto di recepimento da parte del legislatore regionale, che in subiecta materia gode di potestà legislativa esclusiva, sicché nel territorio regionale può trovare applicazione ancora oggi solo l’art.32 lett.g) L.142/90, come recepito in modo statico nella regione Sicilia dall’art.1 lett.e) L.R.48/1991.

Motivo per cui la delibera della Giunta municipale di Palermo di rideterminazione delle tariffe Tarsu viene ritenuta dal Tar illegittima in quanto affetta da incompetenza funzionale.

A tale soluzione induce peraltro l’interpretazione sistematica delle disposizioni dello Statuto dell’ente, che all’art. 49 assegna alla Giunta la competenza a “procedere a variazioni delle tariffe e aliquote dei tributi comunali e dei corrispettivi dei servizi a domanda individuale <<entro i limiti indicati dalla legge o dal Consiglio comunale>>, al quale organo spetta – ai sensi dell’art.14 del regolamento TARSU adottato con delibera C.C. n.37 del 26/02/1997 - la competenza esclusiva in ordine alla determinazione del <fattore> (compreso tra 0,5 ed 1) che esprime esprimere il grado di copertura del costo del servizio, da statuire annualmente all’atto di approvazione delle tariffe unitarie.

La sentenza della Commissione tributaria provinciale: la differenziazione del prelievo tra le categorie di utenza. Presupposti di legittimità.

La decisione della Commissione tributaria provinciale di Palermo affronta invece la tematica dei criteri di differenziazione del prelievo tra i contribuenti.

Il contenzioso origina da un ricorso avverso una cartella esattoriale con la quale il Comune di Palermo richiedeva al ricorrente il pagamento di euro 25.365,68 a titolo di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani relativa agli anni 2001, 2002, 2003, 2004 e 2006.

La società ricorrente sosteneva l’illegittimità dell’iscrizione a ruolo operata dall’ente comunale che, in contrasto con l’art. 68 del D. Lgs. 507/93, aveva inserito gli alberghi in una categoria tariffaria differente dalle abitazioni, con applicazione di una tariffa a mq. di gran lunga superiore.

A sostegno dell’illegittimità della pretesa tributaria comunale venivano altresì articolate argomentazioni concernenti la violazione da parte del regolamento Tarsu adottato dal Comune di Palermo, degli artt. 61 e 69 del D. Lgs. n. 507/93, il vizio di competenza (atteso che le delibere di modifica erano state adottate dalla Giunta e non dal Consiglio comunale) e l’assoluta mancanza di motivazione nell’adozione di tariffe differenziate, in violazione dell’art. 7 della L. n. 135/2001.

Il ricorrente concludeva chiedendo, in via principale, l’annullamento, previa sospensione cautelare, dell’iscrizione a ruolo e della cartella impugnata, in via subordinata, la riduzione degli importi richiesti, sulla base della tariffa prevista per le abitazioni, in estremo subordine, la riduzione degli importi richiesti, sulla base della tariffa prevista per gli insediamenti industriali.

I criteri e le modalità di quantificazione della Tarsu sono disciplinati dall’art. 65 D. Lgs. cit., nel testo modificato dal 3" comma art. 68,l. 28 dicembre 1995, n. 549, che prevede che “La tassa può essere commisurata o in base alla quantità e qualità medie ordinarie per unità di superficie imponibile dei rifiuti solidi urbani interni (...) producibili nei locali ed aree per il tipo di uso cui i medesimi sono destinati, e al costo dello smaltimento; oppure, per i comuni aventi popolazione inferiore a 35.000 abitanti, in base alla qualità, alla quantità effettivamente prodotta, dei rifiuti solidi urbani e al costo dello smaltimento.

Il secondo comma della citata disposizione dispone inoltre che "Le tariffe per ogni categoria o sottocategoria omogenea sono determinate dal comune, secondo il rapporto di copertura del costo prescelto entro i limiti di legge, moltiplicando il costo di smaltimento per unità di superficie imponibile accertata, previsto per l’anno successivo, per uno o più coefficienti di produttività quantitativa e qualitativa di rifiuti".

Ma la quantificazione del prelievo in relazione alle varie tipologie di utenza trova specifica disciplina anche attraverso i commi 1 e 2 dell’art. 68, in cui, per la parte che qui rileva, è previsto che:

a. la classificazione delle categorie ed eventuali sottocategorie di locali ed aree con omogenea potenzialità di rifiuti e tassabili con la medesima misura tariffaria;

b. le modalità di applicazione dei parametri di cui all’art. 65;

2. L’articolazione delle categorie e delle eventuali sottocategorie è effettuata, ai fini della determinazione comparativa delle tariffe, tenendo conto, in via di massima, dei seguenti gruppi di attività o di utilizzazione:

c. locali ed aree ad uso abitativo per nuclei familiari, collettività e convivenze, esercizi alberghieri;

Dal coacervo di tali norme si ricava che il legislatore non fissa solo un metodo per la determinazione della qualità e quantità di rifiuti solidi urbani prodotti per categorie di utenza, ma persegue anche lo scopo di stabilire i parametri e i criteri sulla base dei quali gli Enti locali devono calcolare la tariffa stessa per classi di utenza.

Alla luce del delineato quadro normativo il Collegio statuisce che nulla vieta agli organi comunali di adottare tariffe differenziate tra case ed esercizi alberghieri o case vacanze, ove l’utilizzazione è, peraltro, qualitativamente e quantitativamente diversa dalle case private. Tuttavia l’espressione "in linea di massima" induce a ritenere che una significativa differenziazione delle tariffe, ai fini del controllo di legittimità. vada adeguatamente motivata.

Lo sviluppo della concezione restrittiva in relazione all’obbligo di motivazione degli atti tributari degli Enti locali ha infatti propiziato l’orientamento costante per cui in materia di TARSU l’organo comunale competente è tenuto ad indicare in sede di applicazione i parametri di ripartizione del carico tributario tra le singole categorie che fruiscono del relativo servizio pubblico in ragione della attitudine alla produzione di rifiuti. Peraltro, qualora si voglia assumere quale criterio per la classificazione delle utenze l’attività economica esercitata dal contribuente, la relativa delibera deve, a pena di illegittimità, indicare in maniera precisa le ragioni di tale scelta, evidenziando adeguatamente il rapporto di congruenza tra la natura delle attività considerate e lo scopo dell’atto, che deve consistere nella copertura dei costi del servizio, per giustificare la differenziazione del carico tributario tra le diverse attività produttive.

Sul punto si segnala l’esistenza di diverse pronunce espressive di un opposto orientamento, secondo il quale la scelta della legge di rinviare alla concreta determinazione tariffaria dell’Ente implica che la classificazione delle categorie dei contribuenti costituisce una valutazione di merito, che non abbisogna di puntuale motivazione, ed è sindacabile in sede di legittimità soltanto qualora emergano in modo univoco la incongruità e irragionevolezza della statuizione.

Ma la giurisprudenza maggioritaria, nel dirimere le controversie in materia, ha stabilito il principio per cui il Comune deve rendere intelligibili le ragioni che si pongono a fondamento delle determinazioni assunte in materia fiscale e dirette a produrre effetti sulle posizioni giuridiche dei contribuenti, indicando i criteri e le modalità seguite nelle operazioni di classificazione delle utenze, poste in essere in ottemperanza alle prescrizioni contenute nell’art. 65 del D.Lgs.507/93,e motivando adeguatamente tali scelte in relazione alla congruenza tra la natura delle attività considerate e le finalità di copertura del servizio che il provvedimento di definizione tariffaria deve perseguire. Ai fini infatti della quantificazione degli importi dovuti dal soggetto passivo, le scelte di classificazione devono basarsi sulla idoneità dei locali o aree a produrre rifiuti, dovendosi in quella sede ripartire il costo globale della prestazione pubblica tra tutti i contribuenti assoggettati al prelievo in relazione all’incidenza della tipologia delle superfici sul costo complessivo del servizio.

Ciò comporta per l’Ente l’obbligo di specificare gli elementi e i dati di natura fattuale che costituiscono oggetto di valutazione ai fini dell’adozione dell’atto, ma anche le ragioni giuridiche, che consistono essenzialmente nei procedimenti che attraverso l’applicazione della disciplina normativa ai fatti riscontrati e dedotti, conducono all’accertamento, in relazione alle singole fattispecie, della realizzazione del presupposto dell’obbligazione tributaria, i cui effetti giuridici vengono disciplinati dal provvedimento.

Il prelievo può essere quantificato facoltativamente in base ad uno dei due metodi indicati nell’art. 65, comma 1, del d. lgs. 1993/507, riguardanti rispettivamente la commisurazione della tassa alla specifica produttività quantitativa e qualitativa di rifiuti per tipologia di attività con elaborazione di appositi coefficienti(comma2), ovvero alla produzione di rifiuti effettivamente conferiti al servizio pubblico, metodo quest’ultimo che presuppone l’organizzazione di adeguate modalità di rilevazione potendo essere basato solo in misura marginale e in via cautelativa sulla presunzione della produzione minima di rifiuti.

In proposito le determinazioni di quantificazione della tassa in relazione alle classi di utenza assunte sulla base dei criteri indicati dall’art. 65, comma 1, del più volte citato decreto n. 507, devono essere sorrette da idonea motivazione in relazione all’applicazione dei parametri di commisurazione delle tariffe del tributo e delle modalità procedurali di adozione delle deliberazioni di definizione delle stesse, qualora comportino una diversificazione del regime della tassazione tra le varie fattispecie imponibili,e vengano poste in essere assumendo quale criterio per differenziare le tariffe la natura dell’attività economica esercitata nell’ambito degli immobili oggetto del prelievo, considerata come proiezione della determinazione d’uso in relazione all’incidenza sui costi del servizio.

Sulla scorta del costante orientamento della giurisprudenza tributaria e amministrativa in materia, pertanto il Collegio, rileva che, alla luce della "omologazione" di massima di cui all’art. 68, la maggiore capacità delle aziende alberghiere (o delle strutture ad esse assimilate) o di parti di esse di produrre rifiuti, deve essere adeguatamente motivata in quanto vi sono aree molto vaste di tali strutture che non sono produttive di rifiuti mentre altre lo sono di più.

In particolare i giudici tributari sottolineano che la circostanza il regolamento comunale sottoponga a tassazione l’intera superficie alberghiera - ivi compresi gli enormi spazi liberi di cui le strutture ricettive sono dotate - evidenzia tutta l’illogicità di una quantificazione del tributo arbitraria e iniqua, tanto più se si considera l’assoluta mancanza di motivazione.

In definitiva le rilevanti differenze tra locali ad uso abitativo e locali ad uso alberghiero finiscono per sganciare le due tipologie di tariffa dalla capacità di produzione di rifiuti, per ricollegarle, invece, ad altri, peraltro neppure esplicitati, criteri (primo fra tutti la redditività dell’attività svolta), non contemplati dalla legislazione vigente.

Tenuto conto della totale assenza di una motivazione che illustri i criteri utilizzati nella rideterminazione delle tariffe - una simile differenza di trattamento appare al Collegio assolutamente illogica e, conseguentemente, illegittima.

Sulla base di simili rilevazioni vengono pertanto disapplicati gli atti di normazione secondaria in riferimento all’oggetto del giudizio, e viene stabilito che, in mancanza di adeguata motivazione, la tariffa deve essere ridotta ed equiparata a quella delle abitazioni civili.