Se il lavoratore ha un pessimo carattere non c’è mobbing
NOTA
Ai sensi dell’art. 2087 del Codice Civile il datore di lavoro ha l’obbligo di “di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore” (Corte di Cassazione, 18 settembre 2009 n. 20272; Corte di Cassazione, 6 marzo 2006 n. 4774).
Detto obbligo rappresenta il fondamento giuridico della responsabilità del datore di lavoro nei confronti del lavoratore nel caso di “mobbing”, termine che indica quella “condotta scientemente vessatoria nei confronti di un lavoratore posta in essere dal datore di lavoro - o da altri dipendenti - al fine di isolare o espellere il dipendente dal contesto lavorativo” (Corte di Cassazione, 9 settembre 2008 n. 22893; cfr. anche Corte di Cassazione, 20 marzo 2009 n. 6907).
Secondo la recente giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione, 17 febbraio 2009 n. 3785), ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti:
(i) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
(ii) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
(iii) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;
(iv) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.
Sempre dall’art. 2087 del Codice Civile deriva poi la responsabilità del datore di lavoro in caso di mobbing c.d. “orizzontale”, che si verifica quando il comportamento materiale lesivo sia posto in essere da altro dipendente (Corte di Cassazione, 20 luglio 2007 n. 16148).
Afferma infatti la Suprema Corte che “anche se il diretto comportamento in esame è caratterizzato da uno specifico intento lesivo, la responsabilità del datore (ove il comportamento sia direttamente riferibile ad altri dipendenti aziendali) può discendere, attraverso l’art. 2049 c.c., da colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo (in tale ipotesi esigendosi tuttavia intrinseca illiceità soggettiva ed oggettiva di tale diretto comportamento ed il rapporto di occasionalità necessaria fra l’attività lavorativa e danno subito)” (Corte di Cassazione, 6 marzo 2008 n. 6033; Corte di Cassazione, 4 marzo 2005 n. 4742).
Nel caso in commento un’infermiera aveva adito il Giudice del Lavoro esponendo di essere stata per anni oggetto di continue vesssazioni da parte di colleghi e superiori che, a suo dire, le avevano cagionato una sindrome ansioso-depressiva, nonché di essere stata demansionata.
Chiedeva quindi al Tribunale la condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni alla professionalità, biologico, morale ed esistenziale.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello (che confermava la decisione di primo grado, rigettando le richieste della ricorrente e attribuendo la conflittualità a problemi caratteriali di quest’ultima determinati da un suo disagio esistenziale ovvero a una condizione psicologica alterata) la lavoratrice proponeva ricorso per Cassazione.
La Suprema Corte rigettava però il ricorso, ritenendo correttamente e approfonditamente valutate, in entrambi i gradi di giudizio, le risultanze probatorie.
Queste avevano infatti evidenziato che quelle che la ricorrente definiva “vessazioni” non erano altro che “doverosi richiami” che i superiori gerarchici erano tenuti a fare alla ricorrente in occasione dei suoi errori professionali.
Il clima di conflitto che si era creato all’interno dell’ambiente di lavoro pareva, al contrario, derivare più che altro da problemi caratteriali e di rapporto della ricorrente con i colleghi, problemi che peraltro si erano verificati in tutti i vari reparti in cui questa aveva operato.
A ciò si aggiunga che sia il responsabile del personale che la responsabile del servizio infermieristico si erano adeguatamente attivati, sia pure inutilmente, per risolvere la situazione, trasferendo la ricorrente ad altro reparto.
La Cassazione dunque, uniformandosi alle precedenti pronunce delle corti territoriali, ha escluso qualunque intento mobbizzante nella condotta del datore di lavoro e dei colleghi della ricorrente, riconducendo l’origine dei conflitti in ufficio al “pessimo carattere” della dipendente, tale da estrinsecarsi addirittura in un vero e proprio disagio esistenziale.
NOTA
Ai sensi dell’art. 2087 del Codice Civile il datore di lavoro ha l’obbligo di “di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore” (Corte di Cassazione, 18 settembre 2009 n. 20272; Corte di Cassazione, 6 marzo 2006 n. 4774).
Detto obbligo rappresenta il fondamento giuridico della responsabilità del datore di lavoro nei confronti del lavoratore nel caso di “mobbing”, termine che indica quella “condotta scientemente vessatoria nei confronti di un lavoratore posta in essere dal datore di lavoro - o da altri dipendenti - al fine di isolare o espellere il dipendente dal contesto lavorativo” (Corte di Cassazione, 9 settembre 2008 n. 22893; cfr. anche Corte di Cassazione, 20 marzo 2009 n. 6907).
Secondo la recente giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione, 17 febbraio 2009 n. 3785), ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti:
(i) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
(ii) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
(iii) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;
(iv) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.
Sempre dall’art. 2087 del Codice Civile deriva poi la responsabilità del datore di lavoro in caso di mobbing c.d. “orizzontale”, che si verifica quando il comportamento materiale lesivo sia posto in essere da altro dipendente (Corte di Cassazione, 20 luglio 2007 n. 16148).
Afferma infatti la Suprema Corte che “anche se il diretto comportamento in esame è caratterizzato da uno specifico intento lesivo, la responsabilità del datore (ove il comportamento sia direttamente riferibile ad altri dipendenti aziendali) può discendere, attraverso l’art. 2049 c.c., da colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo (in tale ipotesi esigendosi tuttavia intrinseca illiceità soggettiva ed oggettiva di tale diretto comportamento ed il rapporto di occasionalità necessaria fra l’attività lavorativa e danno subito)” (Corte di Cassazione, 6 marzo 2008 n. 6033; Corte di Cassazione, 4 marzo 2005 n. 4742).
Nel caso in commento un’infermiera aveva adito il Giudice del Lavoro esponendo di essere stata per anni oggetto di continue vesssazioni da parte di colleghi e superiori che, a suo dire, le avevano cagionato una sindrome ansioso-depressiva, nonché di essere stata demansionata.
Chiedeva quindi al Tribunale la condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni alla professionalità, biologico, morale ed esistenziale.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello (che confermava la decisione di primo grado, rigettando le richieste della ricorrente e attribuendo la conflittualità a problemi caratteriali di quest’ultima determinati da un suo disagio esistenziale ovvero a una condizione psicologica alterata) la lavoratrice proponeva ricorso per Cassazione.
La Suprema Corte rigettava però il ricorso, ritenendo correttamente e approfonditamente valutate, in entrambi i gradi di giudizio, le risultanze probatorie.
Queste avevano infatti evidenziato che quelle che la ricorrente definiva “vessazioni” non erano altro che “doverosi richiami” che i superiori gerarchici erano tenuti a fare alla ricorrente in occasione dei suoi errori professionali.
Il clima di conflitto che si era creato all’interno dell’ambiente di lavoro pareva, al contrario, derivare più che altro da problemi caratteriali e di rapporto della ricorrente con i colleghi, problemi che peraltro si erano verificati in tutti i vari reparti in cui questa aveva operato.
A ciò si aggiunga che sia il responsabile del personale che la responsabile del servizio infermieristico si erano adeguatamente attivati, sia pure inutilmente, per risolvere la situazione, trasferendo la ricorrente ad altro reparto.
La Cassazione dunque, uniformandosi alle precedenti pronunce delle corti territoriali, ha escluso qualunque intento mobbizzante nella condotta del datore di lavoro e dei colleghi della ricorrente, riconducendo l’origine dei conflitti in ufficio al “pessimo carattere” della dipendente, tale da estrinsecarsi addirittura in un vero e proprio disagio esistenziale.