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Made in Italy: ultime novità

Commento al DDL Reguzzoni in materia di Made in Italy nei settori tessile, calzaturiero e della pelletteria

Il 17 marzo 2010 è stata approvata dalla Commissione Attività Produttive della Camera la nuova legge sul Made in Italy – non ancora pubblicata in G.U. alla data di redazione del presente articolo – nota anche come Legge “Reguzzoni”, dal nome del suo primo firmatario.

La stampa nazionale pressoché unanime plaude al grande risultato ottenuto e alla natura bipartisan del provvedimento che consentirà il recupero di posti del lavoro nei settori interessati dalla norma e la difesa del prodotto italiano di qualità.

Purtroppo, a ben vedere, il nobile intento di difendere il “Made in Italy”, nel voler rispondere ad un’esigenza manifestata sia da consumatori che da imprenditori, si è tradotto in un testo che difficilmente passerà il vaglio della Comunità Europea, considerato che le numerose imperfezioni del testo e il contrasto con il concetto Comunitario di “Made in …” rischiano di far apparire un goffo proclama politico quella che doveva essere una risolutiva norma tecnica. Ma andiamo con ordine.

La Legge Reguzzoni si applica ai settori del tessile, della pelletteria e delle calzature ed istituisce un sistema di etichettatura obbligatoria dei prodotti finiti e intermedi, intendendosi per tali quelli destinati alla vendita, da cui risulti il luogo di origine di ciascuna fase di lavorazione.

Il 3° comma dell’art. 1 specifica che nell’etichetta dei prodotti finiti e intermedi l’impresa produttrice deve fornire chiare e sintetiche informazioni su:

- conformità dei processi di lavorazione alle norme vigenti in materia di lavoro, nel rispetto delle convenzioni siglate in seno all’Organizzazione internazionale del lavoro lungo tutta la catena di fornitura,

- certificazione di igiene e di sicurezza dei prodotti,

- esclusione dell’impiego di minori nella produzione,

- rispetto della normativa europea e degli accordi internazionali in materia ambientale.

Come verranno indicate dette informazioni sarà chiarito con apposito “decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro per le politiche europee”, da emanarsi entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della Legge Reguzzoni.

Le disposizioni più rilevanti del testo in commento – e la cui contrarietà alle norme comunitarie mina il nulla osta comunitario all’intero provvedimento – sono, almeno ai fini del presente lavoro, quelle contenute nei commi dal 4° al 10° dell’art. 1, che vanno a regolamentare il concetto di “Made in Italy” nei settori oggetto di applicazione della norma.

Necessaria premessa alla disamina che segue è che il diritto doganale rientra fra le materie di competenza esclusiva dell’Unione Europea, quindi gli Stati Membri della Comunità non possono adottare atti normativi contrari a Regolamenti e Direttive comunitari, ma debbono limitarsi a legiferare entro i confini delineati da Bruxelles.

In particolare il vigente Codice Doganale Comunitario (CDC, Reg. (CE) 2913/1992) elenca i requisiti di attribuzione dell’origine cd. "non preferenziale" stabilendo:

una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi è originaria del paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”.

Il “Nuovo” Codice Doganale Comunitario (NCDC, Reg. (CE) 450/2008, che sostituirà progressivamente il CDC) prevede una semplificazione della regola in vigore, disponendo che

Le merci alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi o territori sono considerate originarie del paese o territorio in cui hanno subito l’ultima trasformazione sostanziale”.

La Legge Reguzzoni prescinde invece completamente dal concetto Comunitario di trasformazione sostanziale, stabilendo all’art. 1, co. 4°, la principale novità di tutto il testo di legge, ovvero che

"l’impiego dell’indicazione «Made in Italy» è permesso esclusivamente per prodotti finiti per il quali le fasi di lavorazione, come definite ai commi 5, 6, 7, 8 e 9 hanno avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e in particolare se almeno due delle fasi di lavorazione per ciascun settore sono state eseguite nel territorio medesimo e se per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità" (con modalità che verranno illustrate in un decreto attuativo da emanarsi entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge).

Ai succesivi commi è quindi affidato l’elenco delle fasi di lavorazione per ogni settore merceologico interessato dalla Legge Reguzzoni:

- (art. 1, co. 5) tessile: filatura, tessitura, nobilitazione e confezione (anche utilizzando fibre naturali, artificiali o sintetiche di importazione);

- (art. 1, co. 6) pelletteria: concia, taglio, preparazione, assemblaggio e rifinizione (anche utilizzando pellame grezzo di importazione);

- (art. 1, co. 7) calzaturiero: concia, lavorazione della tomaia, assemblaggio e rifinizione (anche utilizzando pellame grezzo di importazione);

- (art. 1, co. 8) prodotto conciario: riviera, concia, riconcia, tintura-ingrasso-rifinizione;

- (art. 1, co. 9) divani: concia, lavorazione del poliuretano, assemblaggio dei fusti, taglio della pelle e del tessuto, cucito della pelle e del tessuto, assemblaggio e rifinizione (anche utilizzando pellame grezzo di importazione).

La “deroga” alle disposizioni comunitarie, rappresentata dal nuovo concetto di "Made in Italy", non è per la verità sfuggita al legislatore, come si evince dal Dossier relativo al progetto di legge, in cui testualmente si dice: “La disposizione che consente l’uso dell’indicazione «Made in Italy» esclusivamente per i prodotti finiti le cui fasi di lavorazione abbiano avuto luogo prevalentemente nel territorio italiano appare in contrasto con l’art. 36 del codice doganale comunitario, di cui al regolamento (CE) n. 450/2008 […]”.

 

La legittima domanda che ci si potrebbe a questo punto porre, relativa alle motivazioni che hanno indotto il legislatore ad approvare un testo conoscendone il contrasto con le norme comunitarie, potrebbe forse trovare risposta se si considerasse la necessità di ridestare l’attenzione dei media e del Parlamento Europeo su un tema fondamentale per l’imprenditoria del Bel paese, ma non è questa la sede appropriata per tali valutazioni.

Quanto qui interessa evidenziare è che il contrasto fra il “Made in …” di matrice comunitaria e quello coniato dalla Legge Reguzzoni comporta l’inapplicabilità della norma italiana, in considerazione del fatto che la legge comunitaria rappresenta una fonte non derogabile dalle norme di uno Stato Membro. Alcuni esempi possono aiutare a comprendere meglio gli effetti della Legge Reguzzoni:

1. un produttore di scarpe importa tomaie lavorate in Cina, quindi effettua in Italia l’assemblaggio e la rifinizione delle scarpe; le calzature così prodotte sono di origine non preferenziale italiana ai sensi del CDC (la lavorazione sostanziale prevista dalla normativa comunitaria, ovvero l’assemblaggio di suola e tomaia, è effettuata in Italia) e possono altresì essere definite “Made in Italy” secondo la Legge Reguzzoni (due fasi della lavorazione sono effettuate in territorio nazionale). In questo caso la nuova legge aggiunge poco alla situazione attuale.

2. Un produttore di scarpe fa conciare e lavorare tomaie in Italia, quindi manda il semilavorato in Serbia, ove le scarpe vengono assemblate e rifinite, per poi essere rispedite in Italia; le calzature così prodotte sono Made in Italy secondo la Legge Reguzzoni (due fasi della lavorazione), ma sono Made in Serbia secondo le norme comunitarie (la lavorazione sostanziale è avvenuta in Serbia). Se le scarpe in questione saranno vendute in Italia dovranno recare la dicitura “Made in Italy”, se saranno vendute dovunque altrove nel mondo dovranno riportare la scritta “Made in Serbia” (laddove la normativa applicabile richieda un’indicazione di origine).

3. Un industriale tessile fa realizzare filatura, tessitura e nobilitazione di un prodotto tessile in Macedonia, poi manda il semilavorato in Italia dove viene realizzata la confezione completa. Considerato che per il CDC molti indumenti non a maglia, finiti o completi, richiedono come lavorazione sostanziale la confezione completa, il vestito di questo esempio è di origine non preferenziale italiana ai sensi del CDC, ma non potrebbe fregiarsi della dicitura Made in Italy secondo la Legge Reguzzoni (una sola fase realizzata in Italia).

Quest’ultimo esempio va letto anche alla luce del comma 10 dell’art. 1 della Legge Reguzzoni, il quale stabilisce:

Per ciascun prodotto di cui al comma 1, che non abbia i requisiti per l’impiego dell’indicazione « Made in Italy », resta salvo l’obbligo di etichettatura con l’indicazione dello Stato di provenienza, nel rispetto della normativa comunitaria.”

Concedendo che con il termine “provenienza” il legislatore abbia inteso “origine” (se pur restano termini di significato doganale ben differente), il rispetto del citato comma 10 comporta che il prodotto finito dell’esempio 3 di cui sopra, se venduto in Italia, non possa recare l’indicazione “Made in Italy” per la legge Reguzzoni, ma debba obbligatoriamente riportare l’indicazione di provenienza (rectius: origine) nel rispetto del CDC, solo che per il CDC il prodotto è per l’appunto … “Made in Italy”!

Il contrasto fra la Reguzzoni e il CDC comporta il rischio di disapplicazione della norma nazionale da parte del giudice eventualmente interessato della questione, o, in alternativa, di sospensione del giudizio in attesa di una pronuncia della Corte di Giustizia.

Si comprendono dunque le ragioni di chi sostiene che la norma in commento genererà non poche difficoltà in sede di applicazione, anche per quanto concerne l’effettuazione dei controlli, che (art. 2, co. 4) dovranno essere effettuati “nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili” e comunque “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”. Ovvero: ricorrendo al personale esistente, limitandone gli straordinari ….

Per completezza espositiva è opportuno ricordare che è in vigore dalla fine del 2009 la Legge 166/2009 (di conversione del Decreto Legge 135/2009), meglio nota come legge sul “full made in Italy”, anche se non ha ad oggi trovato riscontri pratici, considerando che non sono stati ancora adottati i decreti ministeriali contenenti le modalità di applicazione del comma 1, per il quale si intende:

… “realizzato interamente in Italia il prodotto o la merce, classificabile come made in Italy ai sensi della normativa vigente, e per il quale il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio italiano.”

Disegno e progettazione sono requisiti tradizionalmente estranei al concetto di origine non preferenziale, mentre lavorazione e confezionamento spesso ne rappresentano il nucleo principale. Ebbene, ipotizzando che la “lavorazione” della Legge Reguzzoni equivalga all’insieme di “lavorazione” e “confezione” della Legge 166, in chiave ipotetica si può osservare che un prodotto definibile “Made in Italy” ai sensi della Legge Reguzzoni potrà ulteriormente fregiarsi della dicitura “100% Made in Italy”, “100% Italia”, ecc. se:

- tutte le fasi della lavorazione indicate dalla Legge Reguzzoni siano state effettuate in Italia, e se

- in territorio nazionale abbiano avuto luogo anche disegno e progettazione.

Si tratta però di questione che potrà essere approfondita solo una volta adottati i decreti di cui al secondo comma della Legge 166.

La schematica disamina fin qui condotta non sarebbe completa se non si desse almeno notizia dell’esistenza di una proposta di Regolamento Comunitario sul “Made in …”, depositata nel 2005 e tornata di attualità nelle ultime settimane, di prossima discussione al Parlamento Europeo (relatrice incaricata l’On. Cristiana Muscardini).

L’obiettivo principale della proposta è quello di istituire l’obbligo di apposizione di un marchio di origine su ogni prodotto importato o immesso sul mercato comunitario, dichiarando espressamente che per origine deve intendersi l’“origine non preferenziale” descritta dalle vigenti regole UE.

Ulteriori tratti salienti del Regolamento depositato sono:

- applicazione a 11 settori merceologici (tra cui gli indumenti e gli accessori di abbigliamento, le borse, le materie tessili e i loro manufatti, le calzature, la ceramica, gli oggetti di vetro, i mobili, le scope e le spazzole, l’oreficeria; restano espressamente esclusi la pesca, l’acquacoltura e l’agroalimentare);

- applicazione alle merci d’importazione (quindi non si applica alle merci di origine comunitaria) tranne quelle di origine turca (così nella proposta depositata nel 2005);

- il marchio di origine deve essere materialmente presente sulle merci (e, se confezionate, sui relativi imballaggi) al momento dell’importazione, con la dicitura – in una delle lingue ufficiali della Comunità – “Fabbricato in …” (nome Paese);

- in caso di non conformità delle merci (ovvero: mancanza del marchio di origine, non corrispondenza del marchio apposto all’origine effettiva, rimozione o manomissione del marchio) è previsto l’obbligo del proprietario o di altro responsabile di apporre il marchio conforme.

Infine, nel ricordare che l’efficacia delle disposizioni più significative (commi 1° e 3°) della Legge Reguzzoni è stata posticipata al 1° ottobre 2010 – data entro la quale dovrebbero essere non solo adottati i decreti attuativi previsti dall’art. 2, ma anche effettuata la notifica a Bruxelles di tutto il pacchetto “Made in Italy” – è doveroso esprimere l’auspicio che entro ottobre di quest’anno il Parlamento Europeo si muova risolutamente verso l’approvazione del regolamento Comunitario proposto nell’ormai lontano 2005, sì che il legislatore italiano sia incoraggiato ad abrogare una legge tanto apprezzabile nei fini quanto deprecabile nelle modalità attuative e nei risvolti pratici, le cui incongruenze potrebbero ormai essere solo smussate dai decreti attuativi, restandone però immutato l’impianto principale.

Il 17 marzo 2010 è stata approvata dalla Commissione Attività Produttive della Camera la nuova legge sul Made in Italy – non ancora pubblicata in G.U. alla data di redazione del presente articolo – nota anche come Legge “Reguzzoni”, dal nome del suo primo firmatario.

La stampa nazionale pressoché unanime plaude al grande risultato ottenuto e alla natura bipartisan del provvedimento che consentirà il recupero di posti del lavoro nei settori interessati dalla norma e la difesa del prodotto italiano di qualità.

Purtroppo, a ben vedere, il nobile intento di difendere il “Made in Italy”, nel voler rispondere ad un’esigenza manifestata sia da consumatori che da imprenditori, si è tradotto in un testo che difficilmente passerà il vaglio della Comunità Europea, considerato che le numerose imperfezioni del testo e il contrasto con il concetto Comunitario di “Made in …” rischiano di far apparire un goffo proclama politico quella che doveva essere una risolutiva norma tecnica. Ma andiamo con ordine.

La Legge Reguzzoni si applica ai settori del tessile, della pelletteria e delle calzature ed istituisce un sistema di etichettatura obbligatoria dei prodotti finiti e intermedi, intendendosi per tali quelli destinati alla vendita, da cui risulti il luogo di origine di ciascuna fase di lavorazione.

Il 3° comma dell’art. 1 specifica che nell’etichetta dei prodotti finiti e intermedi l’impresa produttrice deve fornire chiare e sintetiche informazioni su:

- conformità dei processi di lavorazione alle norme vigenti in materia di lavoro, nel rispetto delle convenzioni siglate in seno all’Organizzazione internazionale del lavoro lungo tutta la catena di fornitura,

- certificazione di igiene e di sicurezza dei prodotti,

- esclusione dell’impiego di minori nella produzione,

- rispetto della normativa europea e degli accordi internazionali in materia ambientale.

Come verranno indicate dette informazioni sarà chiarito con apposito “decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro per le politiche europee”, da emanarsi entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della Legge Reguzzoni.

Le disposizioni più rilevanti del testo in commento – e la cui contrarietà alle norme comunitarie mina il nulla osta comunitario all’intero provvedimento – sono, almeno ai fini del presente lavoro, quelle contenute nei commi dal 4° al 10° dell’art. 1, che vanno a regolamentare il concetto di “Made in Italy” nei settori oggetto di applicazione della norma.

Necessaria premessa alla disamina che segue è che il diritto doganale rientra fra le materie di competenza esclusiva dell’Unione Europea, quindi gli Stati Membri della Comunità non possono adottare atti normativi contrari a Regolamenti e Direttive comunitari, ma debbono limitarsi a legiferare entro i confini delineati da Bruxelles.

In particolare il vigente Codice Doganale Comunitario (CDC, Reg. (CE) 2913/1992) elenca i requisiti di attribuzione dell’origine cd. "non preferenziale" stabilendo:

una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi è originaria del paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”.

Il “Nuovo” Codice Doganale Comunitario (NCDC, Reg. (CE) 450/2008, che sostituirà progressivamente il CDC) prevede una semplificazione della regola in vigore, disponendo che

Le merci alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi o territori sono considerate originarie del paese o territorio in cui hanno subito l’ultima trasformazione sostanziale”.

La Legge Reguzzoni prescinde invece completamente dal concetto Comunitario di trasformazione sostanziale, stabilendo all’art. 1, co. 4°, la principale novità di tutto il testo di legge, ovvero che

"l’impiego dell’indicazione «Made in Italy» è permesso esclusivamente per prodotti finiti per il quali le fasi di lavorazione, come definite ai commi 5, 6, 7, 8 e 9 hanno avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e in particolare se almeno due delle fasi di lavorazione per ciascun settore sono state eseguite nel territorio medesimo e se per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità" (con modalità che verranno illustrate in un decreto attuativo da emanarsi entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge).

Ai succesivi commi è quindi affidato l’elenco delle fasi di lavorazione per ogni settore merceologico interessato dalla Legge Reguzzoni:

- (art. 1, co. 5) tessile: filatura, tessitura, nobilitazione e confezione (anche utilizzando fibre naturali, artificiali o sintetiche di importazione);

- (art. 1, co. 6) pelletteria: concia, taglio, preparazione, assemblaggio e rifinizione (anche utilizzando pellame grezzo di importazione);

- (art. 1, co. 7) calzaturiero: concia, lavorazione della tomaia, assemblaggio e rifinizione (anche utilizzando pellame grezzo di importazione);

- (art. 1, co. 8) prodotto conciario: riviera, concia, riconcia, tintura-ingrasso-rifinizione;

- (art. 1, co. 9) divani: concia, lavorazione del poliuretano, assemblaggio dei fusti, taglio della pelle e del tessuto, cucito della pelle e del tessuto, assemblaggio e rifinizione (anche utilizzando pellame grezzo di importazione).

La “deroga” alle disposizioni comunitarie, rappresentata dal nuovo concetto di "Made in Italy", non è per la verità sfuggita al legislatore, come si evince dal Dossier relativo al progetto di legge, in cui testualmente si dice: “La disposizione che consente l’uso dell’indicazione «Made in Italy» esclusivamente per i prodotti finiti le cui fasi di lavorazione abbiano avuto luogo prevalentemente nel territorio italiano appare in contrasto con l’art. 36 del codice doganale comunitario, di cui al regolamento (CE) n. 450/2008 […]”.

 

La legittima domanda che ci si potrebbe a questo punto porre, relativa alle motivazioni che hanno indotto il legislatore ad approvare un testo conoscendone il contrasto con le norme comunitarie, potrebbe forse trovare risposta se si considerasse la necessità di ridestare l’attenzione dei media e del Parlamento Europeo su un tema fondamentale per l’imprenditoria del Bel paese, ma non è questa la sede appropriata per tali valutazioni.

Quanto qui interessa evidenziare è che il contrasto fra il “Made in …” di matrice comunitaria e quello coniato dalla Legge Reguzzoni comporta l’inapplicabilità della norma italiana, in considerazione del fatto che la legge comunitaria rappresenta una fonte non derogabile dalle norme di uno Stato Membro. Alcuni esempi possono aiutare a comprendere meglio gli effetti della Legge Reguzzoni:

1. un produttore di scarpe importa tomaie lavorate in Cina, quindi effettua in Italia l’assemblaggio e la rifinizione delle scarpe; le calzature così prodotte sono di origine non preferenziale italiana ai sensi del CDC (la lavorazione sostanziale prevista dalla normativa comunitaria, ovvero l’assemblaggio di suola e tomaia, è effettuata in Italia) e possono altresì essere definite “Made in Italy” secondo la Legge Reguzzoni (due fasi della lavorazione sono effettuate in territorio nazionale). In questo caso la nuova legge aggiunge poco alla situazione attuale.

2. Un produttore di scarpe fa conciare e lavorare tomaie in Italia, quindi manda il semilavorato in Serbia, ove le scarpe vengono assemblate e rifinite, per poi essere rispedite in Italia; le calzature così prodotte sono Made in Italy secondo la Legge Reguzzoni (due fasi della lavorazione), ma sono Made in Serbia secondo le norme comunitarie (la lavorazione sostanziale è avvenuta in Serbia). Se le scarpe in questione saranno vendute in Italia dovranno recare la dicitura “Made in Italy”, se saranno vendute dovunque altrove nel mondo dovranno riportare la scritta “Made in Serbia” (laddove la normativa applicabile richieda un’indicazione di origine).

3. Un industriale tessile fa realizzare filatura, tessitura e nobilitazione di un prodotto tessile in Macedonia, poi manda il semilavorato in Italia dove viene realizzata la confezione completa. Considerato che per il CDC molti indumenti non a maglia, finiti o completi, richiedono come lavorazione sostanziale la confezione completa, il vestito di questo esempio è di origine non preferenziale italiana ai sensi del CDC, ma non potrebbe fregiarsi della dicitura Made in Italy secondo la Legge Reguzzoni (una sola fase realizzata in Italia).

Quest’ultimo esempio va letto anche alla luce del comma 10 dell’art. 1 della Legge Reguzzoni, il quale stabilisce:

Per ciascun prodotto di cui al comma 1, che non abbia i requisiti per l’impiego dell’indicazione « Made in Italy », resta salvo l’obbligo di etichettatura con l’indicazione dello Stato di provenienza, nel rispetto della normativa comunitaria.”

Concedendo che con il termine “provenienza” il legislatore abbia inteso “origine” (se pur restano termini di significato doganale ben differente), il rispetto del citato comma 10 comporta che il prodotto finito dell’esempio 3 di cui sopra, se venduto in Italia, non possa recare l’indicazione “Made in Italy” per la legge Reguzzoni, ma debba obbligatoriamente riportare l’indicazione di provenienza (rectius: origine) nel rispetto del CDC, solo che per il CDC il prodotto è per l’appunto … “Made in Italy”!

Il contrasto fra la Reguzzoni e il CDC comporta il rischio di disapplicazione della norma nazionale da parte del giudice eventualmente interessato della questione, o, in alternativa, di sospensione del giudizio in attesa di una pronuncia della Corte di Giustizia.

Si comprendono dunque le ragioni di chi sostiene che la norma in commento genererà non poche difficoltà in sede di applicazione, anche per quanto concerne l’effettuazione dei controlli, che (art. 2, co. 4) dovranno essere effettuati “nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili” e comunque “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”. Ovvero: ricorrendo al personale esistente, limitandone gli straordinari ….

Per completezza espositiva è opportuno ricordare che è in vigore dalla fine del 2009 la Legge 166/2009 (di conversione del Decreto Legge 135/2009), meglio nota come legge sul “full made in Italy”, anche se non ha ad oggi trovato riscontri pratici, considerando che non sono stati ancora adottati i decreti ministeriali contenenti le modalità di applicazione del comma 1, per il quale si intende:

… “realizzato interamente in Italia il prodotto o la merce, classificabile come made in Italy ai sensi della normativa vigente, e per il quale il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio italiano.”

Disegno e progettazione sono requisiti tradizionalmente estranei al concetto di origine non preferenziale, mentre lavorazione e confezionamento spesso ne rappresentano il nucleo principale. Ebbene, ipotizzando che la “lavorazione” della Legge Reguzzoni equivalga all’insieme di “lavorazione” e “confezione” della Legge 166, in chiave ipotetica si può osservare che un prodotto definibile “Made in Italy” ai sensi della Legge Reguzzoni potrà ulteriormente fregiarsi della dicitura “100% Made in Italy”, “100% Italia”, ecc. se:

- tutte le fasi della lavorazione indicate dalla Legge Reguzzoni siano state effettuate in Italia, e se

- in territorio nazionale abbiano avuto luogo anche disegno e progettazione.

Si tratta però di questione che potrà essere approfondita solo una volta adottati i decreti di cui al secondo comma della Legge 166.

La schematica disamina fin qui condotta non sarebbe completa se non si desse almeno notizia dell’esistenza di una proposta di Regolamento Comunitario sul “Made in …”, depositata nel 2005 e tornata di attualità nelle ultime settimane, di prossima discussione al Parlamento Europeo (relatrice incaricata l’On. Cristiana Muscardini).

L’obiettivo principale della proposta è quello di istituire l’obbligo di apposizione di un marchio di origine su ogni prodotto importato o immesso sul mercato comunitario, dichiarando espressamente che per origine deve intendersi l’“origine non preferenziale” descritta dalle vigenti regole UE.

Ulteriori tratti salienti del Regolamento depositato sono:

- applicazione a 11 settori merceologici (tra cui gli indumenti e gli accessori di abbigliamento, le borse, le materie tessili e i loro manufatti, le calzature, la ceramica, gli oggetti di vetro, i mobili, le scope e le spazzole, l’oreficeria; restano espressamente esclusi la pesca, l’acquacoltura e l’agroalimentare);

- applicazione alle merci d’importazione (quindi non si applica alle merci di origine comunitaria) tranne quelle di origine turca (così nella proposta depositata nel 2005);

- il marchio di origine deve essere materialmente presente sulle merci (e, se confezionate, sui relativi imballaggi) al momento dell’importazione, con la dicitura – in una delle lingue ufficiali della Comunità – “Fabbricato in …” (nome Paese);

- in caso di non conformità delle merci (ovvero: mancanza del marchio di origine, non corrispondenza del marchio apposto all’origine effettiva, rimozione o manomissione del marchio) è previsto l’obbligo del proprietario o di altro responsabile di apporre il marchio conforme.

Infine, nel ricordare che l’efficacia delle disposizioni più significative (commi 1° e 3°) della Legge Reguzzoni è stata posticipata al 1° ottobre 2010 – data entro la quale dovrebbero essere non solo adottati i decreti attuativi previsti dall’art. 2, ma anche effettuata la notifica a Bruxelles di tutto il pacchetto “Made in Italy” – è doveroso esprimere l’auspicio che entro ottobre di quest’anno il Parlamento Europeo si muova risolutamente verso l’approvazione del regolamento Comunitario proposto nell’ormai lontano 2005, sì che il legislatore italiano sia incoraggiato ad abrogare una legge tanto apprezzabile nei fini quanto deprecabile nelle modalità attuative e nei risvolti pratici, le cui incongruenze potrebbero ormai essere solo smussate dai decreti attuativi, restandone però immutato l’impianto principale.