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Modifiche alla disciplina delle Misure di Prevenzione Patrimoniali: un altro binario nel doppio binario

Le misure di prevenzione costituiscono, nel nostro ordinamento giuridico, un binario parallelo rispetto al più noto sistema processual penalistico, e sono disciplinate da regole specifiche, di gran lunga meno garantiste rispetto a quelle che disciplinano il processo e la fase di indagine preliminare.

La tempistica impiegata dall’ordinamento giudiziario per infliggere condanne definitive e la sempre crescente importanza data dagli organi inquirenti all’individuazione ed al sequestro ai fini di confisca dei patrimoni ottenuti commettendo delitti, ha reso sempre più interessante ed investigativamente remunerativo l’utilizzo del binario delle misure di prevenzione. In particolar modo di quelle di carattere patrimoniale, recentemente interessate da innovazioni legislative di portata molto significativa.

L’attività legislativa degli anni 2008 e 2009 ha determinato – per il settore oggetto di questo contributo – la creazione di una piattaforma normativa basata su tre corpi: la legislazione originaria contenuta nel provvedimento quadro n. 1423 del 1956 (che ab origine ha introdotto le misure di prevenzione), la Legge n. 575 del 1965 (che contiene disposizioni contro la criminalità mafiosa), e da ultimo la Legge n. 152 del 1975 (c.d. Legge Reale), nata in un’epoca molto particolare della storia della nostra Repubblica, che contiene le disposizioni che più interessano in questa sede agli articoli 18, 19, 20, così come modificati dal recente “provvedimento sicurezza” dell’anno 2008 (Decreto Legge n. 92/2008, convertito nella Legge n. 125/2008).

Ora, se già in materia esisteva il c.d. “doppio binario”, che sanciva la sostanziale indipendenza del procedimento penale da quello di prevenzione, dal 2008 la strada del procedimento di prevenzione si è ulteriormente sdoppiata con la separabilità di fatto del procedimento che irroga la misura di prevenzione personale da quello che decreta la misura patrimoniale. Ne vedremo ora le prime traduzioni nella pratica della giurisprudenza, anche attraverso l’analisi della recente pronuncia della Corte di Cassazione, sez. I penale, n. 6000/2009.

L’art. 19 della Legge Reale prevede che le disposizioni relative alle misure di prevenzione patrimoniali contenute nella Legge antimafia n. 575/1965 si applicano “…anche alle persone indicate nell’articolo 1, numeri 1) e 2) della legge 27 dicembre 1956, n. 1423”. Competente all’istruzione della pratica di prevenzione, secondo la deroga introdotta dal “pacchetto sicurezza 2008”, è il Procuratore della Repubblica del circondario nel quale dimora il soggetto proposto; rimane la competenza del Procuratore Distrettuale solo per i soggetti indiziati di appartenere a sodalizio criminale di tipo mafioso.

La Legge 125/2008, di conversione del citato provvedimento-sicurezza, ha tuttavia previsto anche, all’art. 11ter, l’abrogazione di una parte dell’altra fondamentale norma in materia di lotta alla criminalità mafiosa ed organizzata in genere: la legge n. 55 del 1990, che all’art. 14 recitava: “salvo che si tratti di procedimenti di prevenzione già pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, da tale data le disposizioni della legge 31 maggio 1965 n. 575, concernenti le indagini e l’applicazione delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale…” di cui alla normativa quadro antimafia (Legge n. 575 del 1965), si applicano oltre che agli indiziati di appartenere a sodalizi criminali di tipo mafioso, anche ai soggetti “… indicati nel numero 2) del primo comma dell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956 n. 1423 …” solo nella misura in cui abbiano tratto profitto dai delitti previsti e puniti dagli artt. 600, 601, 602,629, 630, 644, 648bis e ter c.p. e dal contrabbando di T.L.E. (ovvero riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, tratta di persone, acquisto e alienazione di schiavi, estorsione, sequestro di persona a scopo di estorsione, usura, riciclaggio, impiego di denaro beni o altra utilità di provenienza illecita e contrabbando di tabacchi lavorati esteri).

In sostanza questa norma introduceva una disposizione di carattere limitativo riguardo all’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali, consentendone la proposta su soggetti cc.dd. “a pericolosità generica” solo se avessero tratto i loro illeciti profitti dalla serie di reati sopra menzionati (lasciando ovviamente salva l’applicazione delle misure patrimoniali di cui agli artt. 2bis e ter della Legge 575/1965 a tutti i soggetti connotati dalla c.d. “pericolosità qualificata”, ovvero indiziati di far parte di sodalizi criminali mafiosi).

Oggi questa norma è stata abrogata.

Può ritenersi perciò di nuovo completamente vigente l’art. 19 della legge Reale che, come anzi detto, estende a tutti i “genericamente pericolosi” di cui all’art. 1 nn. 1 e 2 della Legge 1423/1956 l’applicabilità delle misure di prevenzione patrimoniale una volta riservate ai soli mafiosi dalla legge antimafia del 1965. Sul punto è lampante la Corte di Cassazione, sez. I penale, n. 6000/2009: l’art. 14 della legge 55/1990 era speciale rispetto alla più generica portata dell’art. 19 della Legge Reale n. 152/1975. La Legge 55/1990, sostiene la Suprema Corte, si poneva dunque in rapporto derogatorio quale lex specialis posterior, rispetto alla legge Reale citata, che aveva certamente il compito di “… restringere il margine di operatività delle misure di prevenzione patrimoniali … concentrando l’attività di indagine sui casi più gravi…”. Con l’entrata in vigore del provvedimento sicurezza 2008, e la conseguente abrogazione dell’art. 14, non può che rivivere nella sua pienezza – conclude la Corte – l’operatività della norma generale, che non è mai stata modificata o abrogata.

Ciò posto dunque, i soggetti destinatari della severa normativa in materia di prevenzione patrimoniale sono quelli catalogati nelle prime due categorie di cui all’art. 1 della Legge 1423/1956: “coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano abitualmente dediti a traffici delittuosi” e “coloro che per condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose (è esclusa la terza categoria di “coloro che, per il loro comportamento, debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”).

Nei confronti di questa duplice categoria di soggetti, abrogata la limitazione posta dall’art. 14 della Legge 55/1990, sono quindi proponibili le misure di prevenzione patrimoniali da richiedere ad opera del Procuratore della Repubblica del circondario entro il quale dimora il proponendo (art. 11 legge 125/2008 di conversione del Decreto Legge n. 92, stesso anno).

Ciò posto, è necessario considerare un altro intervento molto significativo in materia, sempre ad opera del citato pacchetto sicurezza 2008, ovvero l’inserimento del comma 6 bis nell’art. 2 bis della Legge antimafia del 1965. Una modifica di portata rilevante: “Le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste e applicate disgiuntamente, e per le misure di prevenzione patrimoniali, indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione…”.

La prima parte del nuovo comma costituisce senz’altro una novità normativa ma non una novità applicativa, perché l’orientamento giurisprudenziale già si era diretto nel senso di un’applicazione disgiunta delle due misure. La novità assoluta è un’altra: le misure di prevenzione patrimoniali possono essere richieste ed applicate indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto al momento della richiesta. All’interno di questo secondo binario “preventivo”, dunque, nel quale è già consentita l’applicazione disgiunta delle misure di prevenzione personali e patrimoniali, si crea un’ulteriore facilitazione applicativa che consente di prescindere dal significativo requisito dell’attuale pericolosità sociale del proposto. La pericolosità sociale deve essere dunque certamente accertata, ma non è necessario che essa sia ancora in essere. Si badi bene: la non necessaria attualità vale esplicitamente solo per le misure di prevenzione patrimoniali, poiché le personali continuano a pretendere l’attualità del pericolo per la sicurezza pubblica.

Si potrà pertanto richiedere – ad esempio - una misura di prevenzione patrimoniale a soggetto la cui pericolosità sia stata accertata tramite irrogazione di una pregressa misura di prevenzione personale, oggi cessata. Di converso, se la pericolosità sociale non è mai stata accertata anche in epoca pregressa, si potrà certamente istruire – in presenza dei dovuti requisiti - una richiesta di misura di prevenzione patrimoniale, ma il giudice chiamato a pronunciarsi sulla richiesta in argomento dovrà incidentalmente esprimersi anche sulla pericolosità sociale del proposto, in un qualche periodo della sua vita. Si ritiene di non essere in errore nel desumere che il legislatore, con tali innovativi provvedimenti, abbia spostato il suo interesse dalla pericolosità del soggetto alla pericolosità del bene.

Solo volendo accennare all’ambito operativo, vedremo ora brevemente la valenza soggettiva ed oggettiva dell’indagine patrimoniale: per quanto riguarda i soggetti, l’indagine riguarderà certamente il proposto, il coniuge, i figli e le persone che nell’ultimo quinquennio abbiano avuto rapporti col proposto. L’ambito oggettivo è il tenore di vita, la disponibilità finanziaria ed in generale il patrimonio riconducibile al proposto. Il tenore di vita andrà verificato con riferimento al potere economico complessivo riferibile al soggetto, avuto quindi riguardo anche ai beni di lusso, beni mobili ed immobili, antiquariato, titoli, azioni ed obbligazioni.

Nella pratica investigativa è sempre bene tenere presente che essendo il procedimento di prevenzione del tutto autonomo rispetto al procedimento penale, il giudizio sulla pericolosità può formarsi o rafforzarsi anche basandosi sugli atti di un procedimento penale archiviato o da verbali di ricezione di querele rimesse, che non abbiano quindi avuto uno sbocco processuale.

È importante tuttavia, giunti a questo punto, specificare bene la sostanziale differenza che corre tra gli elementi indiziari richiesti per giungere ad un’affermazione di penale responsabilità, e gli elementi di fatto richiesti dalla Legge quadro sulle misure di prevenzione del 1956, dal momento che i secondi si sottraggono – proprio per il diverso binario dei due procedimenti – alle tre note regole processuali per la valutazione degli elementi di prova: l’art. 192 c.p.p., che richiede indizi gravi, precisi e concordanti (ovvero consistenti, correlati con il fatto da provare e convergenti tra loro); il riscontro esterno alle dichiarazioni di collaboratori di giustizia o chiamanti in correità a conferma dell’attendibilità del racconto; la gravità degli indizi, secondo la definizione processuale dell’art. 273 c.p.p., contenente le condizioni generali per l’applicabilità delle misure cautelari personali.

Un accenno a parte, sempre in quest’ambito, merita l’utilizzabilità degli elementi acquisiti nell’indagine penale all’interno del procedimento di prevenzione. Statuisce in proposito Cassazione sez. unite penali 9 aprile 2010 n. 13426, traendo spunto dal caso specifico dell’utilizzabilità di intercettazioni telefoniche ed ambientali di procedimenti penali, che solo gli atti che possono fare legittimamente ingresso nel processo penale possono essere fruibili nel procedimento di prevenzione.

Così, come nel caso esaminato dalla Suprema Corte, intercettazioni processualmente non utilizzabili perché autorizzate su impianti esterni alla Procura della Repubblica con provvedimento carente di motivazione, in violazione dell’art. 268 c.p.p., siccome tacciate di “patologica inutilizzabilità”, non possono fare legittimo ingresso nel procedimento preventivo. Ergo possono trarsi dal procedimento penale tutti gli elementi che si ritengono utili alla finalità di prevenzione (per inciso si evidenzia che la Legge Reale già aveva chiarito che nel procedimento di prevenzione si potevano acquisire elementi probanti con le modalità delle indagini preliminari – all’epoca definite “fase istruttoria” – con l’eccezione degli atti garantiti che implichino la presenza di un difensore) purché non siano stati acquisiti in violazione di legge. Un passaggio testuale della lapidaria sentenza sarà ancora più chiarificatore: “…A proposito, poi, della “fenomenologia” della inutilizzabilità […] la giurisprudenza di questa Corte ha in più occasioni teso a distinguere tra una inutilizzabilità “patologica”, quale è quella che deriva dalla violazione di divieti probatori, ed una inutilizzabilità definita “fisiologica”, in quanto correlata alle caratteristiche del processo ed alla distinzione tra atti delle indagini e prove dibattimentali […]. È evidente che per quest’ultima non si pongono problemi di sorta circa la possibilità di “utilizzare”, come elementi di valutazione e di giudizio, anche gli atti delle indagini ai fini del processo di prevenzione, posto che i “limiti” sono soltanto interni ed esclusivi al procedimento penale […].

Il vero tratto distintivo che qualifica l’autonomia del procedimento di prevenzione dal processo penale, va intravisto nella diversa “grammatica probatoria” che deve sostenere i rispettivi giudizi: una diversità, però, che, proprio in quanto riferita esclusivamente al “modo d’essere” degli elementi di apprezzamento del “merito”, non incide affatto sulla legittimità delle acquisizioni, a prescindere - evidentemente - dalla sede in cui le stesse siano operate. La prova inutilizzabile, ad esempio perché “estorta”, e acquisita, dunque, in violazione dell’art. 188 del codice di rito, non può “proiettarsi” sul terreno della prevenzione, al pari di qualsiasi altra ipotesi di prova “illegale” in quanto assunta in contrasto con i divieti di legge.

Pretendere, dunque, di fondare su di un malinteso concetto di “autonomia” dei procedimenti la possibilità di distinguere il regime di utilizzazione di prove che la legge processuale qualifica come illegittimamente assunte - in un’area, per di più, costituzionalmente presidiata, quale è quella garantita dall’art. 15 Cost. - si rivela operazione concettualmente scorretta, in quanto è solo la legge che ha il compito di delineare (e, quindi, eventualmente circoscrivere) la portata degli effetti demolitori che scaturiscono dalla sanzione di inutilizzabilità, con cui la legge stessa ha inteso presidiare la violazione dei divieti probatori”.

Un breve accenno merita l’arco temporale in cui i beni possibile oggetto di sequestro o confisca debbano ricadere. Si possono infatti confiscare solo i beni entrati nel patrimonio del proposto dopo l’accertamento della sua pericolosità, ovvero anche quelli acquisiti in epoca precedente?

Precisato che il legislatore in tema di misure di prevenzione non parla di illecita provenienza, ma di illegittima provenienza (con la non trascurabile conseguenza che la prova della legittimità della provenienza del patrimonio non potrà facilmente sostenersi avendo alla base atteggiamenti fraudolenti nei confronti del fisco), è opportuno segnalare che in tema di confisca come misura di sicurezza ex art. 12sexies del Decreto Legge 306/1992 (convertito nella Legge n. 356/1992) possono formare oggetto del provvedimento “… denaro, beni o altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica”.

Nessun arco temporale di riferimento, dunque, e nessun nesso di pertinenzialità che possa fermare l’apprensione del patrimonio illecitamente accumulato da parte della misura di sicurezza.

Quid iuris nel procedimento di prevenzione?

La giurisprudenza, nel merito, non è uniforme. Hanno argomentato vari Tribunali di merito che l’affinità tra la confisca speciale prevista dal citato art. 12 sexies e la confisca quale misura di prevenzione antimafia prevista dall’art. 2 ter della Legge n. 575 del 1965 consentirebbe di concludere che quest’ultimo modello è stato largamente mutuato dall’art. 12 sexies; con la sentenza Montella (Cass. Sez. Unite penali n. 920/2003) la Suprema Corte ha appunto ribadito che l’art. 12 sexies citato configura “… una misura di sicurezza atipica con funzione anche dissuasiva parallela all’affine misura di prevenzione antimafia introdotta dalla Legge del 1965 n. 575”. Questo parallelismo parrebbe discendere anche dall’analisi della specifica natura giuridica della confisca prevista dalla Legge n. 575 del 1965, contenuta nella sentenza delle Sezioni Unite n. 18 del 3 luglio 1996, Simonelli.

Secondo questo orientamento, quindi, dovrebbe ritenersi irrilevante sia il nesso di pertinenzialità tra i beni in sequestro ed il compendio indiziario a fondamento della misura di prevenzione, che il rapporto di connessione temporale tra l’attività criminale e l’acquisizione dei beni oggetto del provvedimento reale (nel senso, v. anche Corte Cass. Sez. Unite “Derouach”).

Non si nasconde che questa sia anche l’opinione di chi scrive, ma in senso contrario è opportuno segnalare l’autorevole requisitoria del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, n. Reg. Generale 24721/2006 – Sezione I, nel procedimento relativo al ricorso per Cassazione proposto dall’azienda C.S. S.P.A., già S.I.B. S.P.A., su http://appinter.csm.it/incontri/relaz/13690.pdf.

Sia consentito infine, rimanendo in tema di acquisizione di materiale probante nei procedimenti di prevenzione, aggiungere a questa breve analisi del quadro normativo di riferimento sul tema delle misure di prevenzione, un accenno alla Legge n. 646 del 1982, meglio nota come “Rognoni – La Torre”. Statuisce l’art. 16 che “Il procuratore della Repubblica del luogo dove le operazioni debbono essere eseguite, può autorizzare gli ufficiali di polizia giudiziaria ad intercettare comunicazioni o conversazioni telefoniche o telegrafiche o quelle indicate nell’articolo 623-bis del codice penale, quando lo ritenga necessario al fine di controllare che le persone nei cui confronti sia stata applicata una delle misure di prevenzione previste dall’articolo 3 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, non continuino a porre in essere attività o comportamenti analoghi a quelli che hanno dato luogo all’applicazione della misura di prevenzione”.

Siamo dunque in presenza di una variante delle cc.dd. “intercettazioni preventive”, già autorizzabili ad esempio per la prevenzione dei delitti commessi con finalità di terrorismo ed eversione. Come per le preventive, infatti, in carenza di un provvedimento autorizzativo giurisdizionale, “… Gli elementi acquisiti attraverso le intercettazioni possono essere utilizzati esclusivamente per la prosecuzione delle indagini e sono privi di ogni valore ai fini processuali.

Le registrazioni debbono essere trasmesse al procuratore della Repubblica che ha autorizzato le operazioni, il quale dispone la distruzione delle registrazioni stesse e di ogni loro trascrizione, sia pure parziale” (art. 16 Legge citata).

Ciò nondimeno, anche tenendo ben presente l’insanabile vizio di inutilizzabilità che geneticamente affligge questo tipo di ascolti, non può sottacersi la valenza investigativa di una simile disposizione, che va ad arricchire il ricco panorama di indizi, fonti di prova e metodi per la loro ricerca del lungo alternativo “binario” delle misure di prevenzione.



Le misure di prevenzione costituiscono, nel nostro ordinamento giuridico, un binario parallelo rispetto al più noto sistema processual penalistico, e sono disciplinate da regole specifiche, di gran lunga meno garantiste rispetto a quelle che disciplinano il processo e la fase di indagine preliminare.

La tempistica impiegata dall’ordinamento giudiziario per infliggere condanne definitive e la sempre crescente importanza data dagli organi inquirenti all’individuazione ed al sequestro ai fini di confisca dei patrimoni ottenuti commettendo delitti, ha reso sempre più interessante ed investigativamente remunerativo l’utilizzo del binario delle misure di prevenzione. In particolar modo di quelle di carattere patrimoniale, recentemente interessate da innovazioni legislative di portata molto significativa.

L’attività legislativa degli anni 2008 e 2009 ha determinato – per il settore oggetto di questo contributo – la creazione di una piattaforma normativa basata su tre corpi: la legislazione originaria contenuta nel provvedimento quadro n. 1423 del 1956 (che ab origine ha introdotto le misure di prevenzione), la Legge n. 575 del 1965 (che contiene disposizioni contro la criminalità mafiosa), e da ultimo la Legge n. 152 del 1975 (c.d. Legge Reale), nata in un’epoca molto particolare della storia della nostra Repubblica, che contiene le disposizioni che più interessano in questa sede agli articoli 18, 19, 20, così come modificati dal recente “provvedimento sicurezza” dell’anno 2008 (Decreto Legge n. 92/2008, convertito nella Legge n. 125/2008).

Ora, se già in materia esisteva il c.d. “doppio binario”, che sanciva la sostanziale indipendenza del procedimento penale da quello di prevenzione, dal 2008 la strada del procedimento di prevenzione si è ulteriormente sdoppiata con la separabilità di fatto del procedimento che irroga la misura di prevenzione personale da quello che decreta la misura patrimoniale. Ne vedremo ora le prime traduzioni nella pratica della giurisprudenza, anche attraverso l’analisi della recente pronuncia della Corte di Cassazione, sez. I penale, n. 6000/2009.

L’art. 19 della Legge Reale prevede che le disposizioni relative alle misure di prevenzione patrimoniali contenute nella Legge antimafia n. 575/1965 si applicano “…anche alle persone indicate nell’articolo 1, numeri 1) e 2) della legge 27 dicembre 1956, n. 1423”. Competente all’istruzione della pratica di prevenzione, secondo la deroga introdotta dal “pacchetto sicurezza 2008”, è il Procuratore della Repubblica del circondario nel quale dimora il soggetto proposto; rimane la competenza del Procuratore Distrettuale solo per i soggetti indiziati di appartenere a sodalizio criminale di tipo mafioso.

La Legge 125/2008, di conversione del citato provvedimento-sicurezza, ha tuttavia previsto anche, all’art. 11ter, l’abrogazione di una parte dell’altra fondamentale norma in materia di lotta alla criminalità mafiosa ed organizzata in genere: la legge n. 55 del 1990, che all’art. 14 recitava: “salvo che si tratti di procedimenti di prevenzione già pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, da tale data le disposizioni della legge 31 maggio 1965 n. 575, concernenti le indagini e l’applicazione delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale…” di cui alla normativa quadro antimafia (Legge n. 575 del 1965), si applicano oltre che agli indiziati di appartenere a sodalizi criminali di tipo mafioso, anche ai soggetti “… indicati nel numero 2) del primo comma dell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956 n. 1423 …” solo nella misura in cui abbiano tratto profitto dai delitti previsti e puniti dagli artt. 600, 601, 602,629, 630, 644, 648bis e ter c.p. e dal contrabbando di T.L.E. (ovvero riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, tratta di persone, acquisto e alienazione di schiavi, estorsione, sequestro di persona a scopo di estorsione, usura, riciclaggio, impiego di denaro beni o altra utilità di provenienza illecita e contrabbando di tabacchi lavorati esteri).

In sostanza questa norma introduceva una disposizione di carattere limitativo riguardo all’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali, consentendone la proposta su soggetti cc.dd. “a pericolosità generica” solo se avessero tratto i loro illeciti profitti dalla serie di reati sopra menzionati (lasciando ovviamente salva l’applicazione delle misure patrimoniali di cui agli artt. 2bis e ter della Legge 575/1965 a tutti i soggetti connotati dalla c.d. “pericolosità qualificata”, ovvero indiziati di far parte di sodalizi criminali mafiosi).

Oggi questa norma è stata abrogata.

Può ritenersi perciò di nuovo completamente vigente l’art. 19 della legge Reale che, come anzi detto, estende a tutti i “genericamente pericolosi” di cui all’art. 1 nn. 1 e 2 della Legge 1423/1956 l’applicabilità delle misure di prevenzione patrimoniale una volta riservate ai soli mafiosi dalla legge antimafia del 1965. Sul punto è lampante la Corte di Cassazione, sez. I penale, n. 6000/2009: l’art. 14 della legge 55/1990 era speciale rispetto alla più generica portata dell’art. 19 della Legge Reale n. 152/1975. La Legge 55/1990, sostiene la Suprema Corte, si poneva dunque in rapporto derogatorio quale lex specialis posterior, rispetto alla legge Reale citata, che aveva certamente il compito di “… restringere il margine di operatività delle misure di prevenzione patrimoniali … concentrando l’attività di indagine sui casi più gravi…”. Con l’entrata in vigore del provvedimento sicurezza 2008, e la conseguente abrogazione dell’art. 14, non può che rivivere nella sua pienezza – conclude la Corte – l’operatività della norma generale, che non è mai stata modificata o abrogata.

Ciò posto dunque, i soggetti destinatari della severa normativa in materia di prevenzione patrimoniale sono quelli catalogati nelle prime due categorie di cui all’art. 1 della Legge 1423/1956: “coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano abitualmente dediti a traffici delittuosi” e “coloro che per condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose (è esclusa la terza categoria di “coloro che, per il loro comportamento, debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”).

Nei confronti di questa duplice categoria di soggetti, abrogata la limitazione posta dall’art. 14 della Legge 55/1990, sono quindi proponibili le misure di prevenzione patrimoniali da richiedere ad opera del Procuratore della Repubblica del circondario entro il quale dimora il proponendo (art. 11 legge 125/2008 di conversione del Decreto Legge n. 92, stesso anno).

Ciò posto, è necessario considerare un altro intervento molto significativo in materia, sempre ad opera del citato pacchetto sicurezza 2008, ovvero l’inserimento del comma 6 bis nell’art. 2 bis della Legge antimafia del 1965. Una modifica di portata rilevante: “Le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste e applicate disgiuntamente, e per le misure di prevenzione patrimoniali, indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione…”.

La prima parte del nuovo comma costituisce senz’altro una novità normativa ma non una novità applicativa, perché l’orientamento giurisprudenziale già si era diretto nel senso di un’applicazione disgiunta delle due misure. La novità assoluta è un’altra: le misure di prevenzione patrimoniali possono essere richieste ed applicate indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto al momento della richiesta. All’interno di questo secondo binario “preventivo”, dunque, nel quale è già consentita l’applicazione disgiunta delle misure di prevenzione personali e patrimoniali, si crea un’ulteriore facilitazione applicativa che consente di prescindere dal significativo requisito dell’attuale pericolosità sociale del proposto. La pericolosità sociale deve essere dunque certamente accertata, ma non è necessario che essa sia ancora in essere. Si badi bene: la non necessaria attualità vale esplicitamente solo per le misure di prevenzione patrimoniali, poiché le personali continuano a pretendere l’attualità del pericolo per la sicurezza pubblica.

Si potrà pertanto richiedere – ad esempio - una misura di prevenzione patrimoniale a soggetto la cui pericolosità sia stata accertata tramite irrogazione di una pregressa misura di prevenzione personale, oggi cessata. Di converso, se la pericolosità sociale non è mai stata accertata anche in epoca pregressa, si potrà certamente istruire – in presenza dei dovuti requisiti - una richiesta di misura di prevenzione patrimoniale, ma il giudice chiamato a pronunciarsi sulla richiesta in argomento dovrà incidentalmente esprimersi anche sulla pericolosità sociale del proposto, in un qualche periodo della sua vita. Si ritiene di non essere in errore nel desumere che il legislatore, con tali innovativi provvedimenti, abbia spostato il suo interesse dalla pericolosità del soggetto alla pericolosità del bene.

Solo volendo accennare all’ambito operativo, vedremo ora brevemente la valenza soggettiva ed oggettiva dell’indagine patrimoniale: per quanto riguarda i soggetti, l’indagine riguarderà certamente il proposto, il coniuge, i figli e le persone che nell’ultimo quinquennio abbiano avuto rapporti col proposto. L’ambito oggettivo è il tenore di vita, la disponibilità finanziaria ed in generale il patrimonio riconducibile al proposto. Il tenore di vita andrà verificato con riferimento al potere economico complessivo riferibile al soggetto, avuto quindi riguardo anche ai beni di lusso, beni mobili ed immobili, antiquariato, titoli, azioni ed obbligazioni.

Nella pratica investigativa è sempre bene tenere presente che essendo il procedimento di prevenzione del tutto autonomo rispetto al procedimento penale, il giudizio sulla pericolosità può formarsi o rafforzarsi anche basandosi sugli atti di un procedimento penale archiviato o da verbali di ricezione di querele rimesse, che non abbiano quindi avuto uno sbocco processuale.

È importante tuttavia, giunti a questo punto, specificare bene la sostanziale differenza che corre tra gli elementi indiziari richiesti per giungere ad un’affermazione di penale responsabilità, e gli elementi di fatto richiesti dalla Legge quadro sulle misure di prevenzione del 1956, dal momento che i secondi si sottraggono – proprio per il diverso binario dei due procedimenti – alle tre note regole processuali per la valutazione degli elementi di prova: l’art. 192 c.p.p., che richiede indizi gravi, precisi e concordanti (ovvero consistenti, correlati con il fatto da provare e convergenti tra loro); il riscontro esterno alle dichiarazioni di collaboratori di giustizia o chiamanti in correità a conferma dell’attendibilità del racconto; la gravità degli indizi, secondo la definizione processuale dell’art. 273 c.p.p., contenente le condizioni generali per l’applicabilità delle misure cautelari personali.

Un accenno a parte, sempre in quest’ambito, merita l’utilizzabilità degli elementi acquisiti nell’indagine penale all’interno del procedimento di prevenzione. Statuisce in proposito Cassazione sez. unite penali 9 aprile 2010 n. 13426, traendo spunto dal caso specifico dell’utilizzabilità di intercettazioni telefoniche ed ambientali di procedimenti penali, che solo gli atti che possono fare legittimamente ingresso nel processo penale possono essere fruibili nel procedimento di prevenzione.

Così, come nel caso esaminato dalla Suprema Corte, intercettazioni processualmente non utilizzabili perché autorizzate su impianti esterni alla Procura della Repubblica con provvedimento carente di motivazione, in violazione dell’art. 268 c.p.p., siccome tacciate di “patologica inutilizzabilità”, non possono fare legittimo ingresso nel procedimento preventivo. Ergo possono trarsi dal procedimento penale tutti gli elementi che si ritengono utili alla finalità di prevenzione (per inciso si evidenzia che la Legge Reale già aveva chiarito che nel procedimento di prevenzione si potevano acquisire elementi probanti con le modalità delle indagini preliminari – all’epoca definite “fase istruttoria” – con l’eccezione degli atti garantiti che implichino la presenza di un difensore) purché non siano stati acquisiti in violazione di legge. Un passaggio testuale della lapidaria sentenza sarà ancora più chiarificatore: “…A proposito, poi, della “fenomenologia” della inutilizzabilità […] la giurisprudenza di questa Corte ha in più occasioni teso a distinguere tra una inutilizzabilità “patologica”, quale è quella che deriva dalla violazione di divieti probatori, ed una inutilizzabilità definita “fisiologica”, in quanto correlata alle caratteristiche del processo ed alla distinzione tra atti delle indagini e prove dibattimentali […]. È evidente che per quest’ultima non si pongono problemi di sorta circa la possibilità di “utilizzare”, come elementi di valutazione e di giudizio, anche gli atti delle indagini ai fini del processo di prevenzione, posto che i “limiti” sono soltanto interni ed esclusivi al procedimento penale […].

Il vero tratto distintivo che qualifica l’autonomia del procedimento di prevenzione dal processo penale, va intravisto nella diversa “grammatica probatoria” che deve sostenere i rispettivi giudizi: una diversità, però, che, proprio in quanto riferita esclusivamente al “modo d’essere” degli elementi di apprezzamento del “merito”, non incide affatto sulla legittimità delle acquisizioni, a prescindere - evidentemente - dalla sede in cui le stesse siano operate. La prova inutilizzabile, ad esempio perché “estorta”, e acquisita, dunque, in violazione dell’art. 188 del codice di rito, non può “proiettarsi” sul terreno della prevenzione, al pari di qualsiasi altra ipotesi di prova “illegale” in quanto assunta in contrasto con i divieti di legge.

Pretendere, dunque, di fondare su di un malinteso concetto di “autonomia” dei procedimenti la possibilità di distinguere il regime di utilizzazione di prove che la legge processuale qualifica come illegittimamente assunte - in un’area, per di più, costituzionalmente presidiata, quale è quella garantita dall’art. 15 Cost. - si rivela operazione concettualmente scorretta, in quanto è solo la legge che ha il compito di delineare (e, quindi, eventualmente circoscrivere) la portata degli effetti demolitori che scaturiscono dalla sanzione di inutilizzabilità, con cui la legge stessa ha inteso presidiare la violazione dei divieti probatori”.

Un breve accenno merita l’arco temporale in cui i beni possibile oggetto di sequestro o confisca debbano ricadere. Si possono infatti confiscare solo i beni entrati nel patrimonio del proposto dopo l’accertamento della sua pericolosità, ovvero anche quelli acquisiti in epoca precedente?

Precisato che il legislatore in tema di misure di prevenzione non parla di illecita provenienza, ma di illegittima provenienza (con la non trascurabile conseguenza che la prova della legittimità della provenienza del patrimonio non potrà facilmente sostenersi avendo alla base atteggiamenti fraudolenti nei confronti del fisco), è opportuno segnalare che in tema di confisca come misura di sicurezza ex art. 12sexies del Decreto Legge 306/1992 (convertito nella Legge n. 356/1992) possono formare oggetto del provvedimento “… denaro, beni o altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica”.

Nessun arco temporale di riferimento, dunque, e nessun nesso di pertinenzialità che possa fermare l’apprensione del patrimonio illecitamente accumulato da parte della misura di sicurezza.

Quid iuris nel procedimento di prevenzione?

La giurisprudenza, nel merito, non è uniforme. Hanno argomentato vari Tribunali di merito che l’affinità tra la confisca speciale prevista dal citato art. 12 sexies e la confisca quale misura di prevenzione antimafia prevista dall’art. 2 ter della Legge n. 575 del 1965 consentirebbe di concludere che quest’ultimo modello è stato largamente mutuato dall’art. 12 sexies; con la sentenza Montella (Cass. Sez. Unite penali n. 920/2003) la Suprema Corte ha appunto ribadito che l’art. 12 sexies citato configura “… una misura di sicurezza atipica con funzione anche dissuasiva parallela all’affine misura di prevenzione antimafia introdotta dalla Legge del 1965 n. 575”. Questo parallelismo parrebbe discendere anche dall’analisi della specifica natura giuridica della confisca prevista dalla Legge n. 575 del 1965, contenuta nella sentenza delle Sezioni Unite n. 18 del 3 luglio 1996, Simonelli.

Secondo questo orientamento, quindi, dovrebbe ritenersi irrilevante sia il nesso di pertinenzialità tra i beni in sequestro ed il compendio indiziario a fondamento della misura di prevenzione, che il rapporto di connessione temporale tra l’attività criminale e l’acquisizione dei beni oggetto del provvedimento reale (nel senso, v. anche Corte Cass. Sez. Unite “Derouach”).

Non si nasconde che questa sia anche l’opinione di chi scrive, ma in senso contrario è opportuno segnalare l’autorevole requisitoria del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, n. Reg. Generale 24721/2006 – Sezione I, nel procedimento relativo al ricorso per Cassazione proposto dall’azienda C.S. S.P.A., già S.I.B. S.P.A., su http://appinter.csm.it/incontri/relaz/13690.pdf.

Sia consentito infine, rimanendo in tema di acquisizione di materiale probante nei procedimenti di prevenzione, aggiungere a questa breve analisi del quadro normativo di riferimento sul tema delle misure di prevenzione, un accenno alla Legge n. 646 del 1982, meglio nota come “Rognoni – La Torre”. Statuisce l’art. 16 che “Il procuratore della Repubblica del luogo dove le operazioni debbono essere eseguite, può autorizzare gli ufficiali di polizia giudiziaria ad intercettare comunicazioni o conversazioni telefoniche o telegrafiche o quelle indicate nell’articolo 623-bis del codice penale, quando lo ritenga necessario al fine di controllare che le persone nei cui confronti sia stata applicata una delle misure di prevenzione previste dall’articolo 3 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, non continuino a porre in essere attività o comportamenti analoghi a quelli che hanno dato luogo all’applicazione della misura di prevenzione”.

Siamo dunque in presenza di una variante delle cc.dd. “intercettazioni preventive”, già autorizzabili ad esempio per la prevenzione dei delitti commessi con finalità di terrorismo ed eversione. Come per le preventive, infatti, in carenza di un provvedimento autorizzativo giurisdizionale, “… Gli elementi acquisiti attraverso le intercettazioni possono essere utilizzati esclusivamente per la prosecuzione delle indagini e sono privi di ogni valore ai fini processuali.

Le registrazioni debbono essere trasmesse al procuratore della Repubblica che ha autorizzato le operazioni, il quale dispone la distruzione delle registrazioni stesse e di ogni loro trascrizione, sia pure parziale” (art. 16 Legge citata).

Ciò nondimeno, anche tenendo ben presente l’insanabile vizio di inutilizzabilità che geneticamente affligge questo tipo di ascolti, non può sottacersi la valenza investigativa di una simile disposizione, che va ad arricchire il ricco panorama di indizi, fonti di prova e metodi per la loro ricerca del lungo alternativo “binario” delle misure di prevenzione.