x

x

Due interessanti casi di trust autodichiarati

I due trust in commento sono stati autorizzati dal G.D. Maurizio Atzori della Sez. Fallimentare del Tribunale di Bologna.

 

L’autorizzazione non significa tuttavia certezza di stipula dell’atto in quanto, in base alla Convenzione de L’Aja sulla legge applicabile ai trusts e al loro riconoscimento, sono ammissibili i soli trust volontariamente istituiti.

 

Ciò dipende dalla mancata estensione da parte dello Stato italiano, in sede di ratifica della Convenzione, o successivamente, alla disposizione di cui all’art. 20 della predetta, che consente l’istituzione di trust ordinati giudizialmente: cd. constructive trust.

 

In pratica il G.D. autorizza il curatore a proporre il trust alla parte ma la decisione spetta solo a quest’ultima, in difetto della quale, l’unico rimedio per la curatela, in casi analoghi a quelli di specie, è il ricorso al sequestro conservativo.

 

Va da sé che il sequestro avrebbe reso invendibile i beni in tempi brevi, gravando la procedura di costi ulteriori.

 

L’esiguità degli importi oggetto dei trust conclusi dimostra come sia opportuno ricorrere al trust anche per piccole somme e ciò a maggior ragione in considerazione del carico fiscale relativo.

 

Dal punto di vista tributario questa tipologia di trust pare, oggi, assolutamente competitiva rispetto ad altri strumenti giuridici.

 

Non a caso la frase è dubitativa dato che, sebbene in ambedue i casi sia stata corrisposta la sola imposta di registro in misura fissa, tuttavia la questione non può dirsi assodata.

 

Leggendo la clausola ultima degli atti istitutivi si vede il richiamo espresso alla recente sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Bologna Sezione 2, n. 120-02-09 del 7 ottobre 2009 che ha stabilito la tassazione in misura fissa per i trust di pura garanzia nei quali, evidentemente, alcun intento liberale, o ancor più donativo, sottende al procedimento di formazione della volontà della parte disponente.

 

In qualsivoglia trust di garanzia, e quindi in tutti i trust che dovessero essere istituiti all’interno di procedure concorsuali, lo scopo è sempre, e solo, quello di pagare i creditori, lungi dal porre in essere un atto caratterizzato da animus donandi.

 

Questo concetto, di tale lampante semplicità da rendere persino inutile ogni commento, non sembra tuttavia essere stato compreso dal nostro legislatore tributario che, nell’ansia di “far cassa”, vorrebbe applicare le imposte di donazione a qualsiasi trust, indipendentemente dall’avere lo stesso una causa solutoria, liberale o di garanzia.

 

Anche in questo ambito, così come è stato negli anni passati per ottenere il riconoscimento dei trust interni, non è restato agli operatori che adire la via giudiziale, confidando sulla comprensione dei giudicanti.

 

Ebbene, mai come nel trust, si può dire che il riconoscimento dell’istituto sia dipeso da un’attenta giurisprudenza che ha fatto propri gli insegnamenti della miglior dottrina, comprendendo l’incredibile ventaglio di nuove possibilità che si sarebbero offerte nella pratica.

 

Una recente sentenza del Tribunale di Milano, 16 giugno 2009 (in T&AF, 2009, 533) parla di “entusiastica applicazione” del trust in sede concorsuale e ci sentiamo di affermare, senza paura di essere smentiti, che proprio questi due provvedimenti ne rappresentano un emblematico esempio.

 

Tuttavia, prima di entrare nel merito di questi casi, vorremmo spendere alcune parole su di un esempio di trust, a nostro parere tristissimo, che pare divenuto molto di moda, prendendo sempre più – sciaguratamente – piede: i cd. trust liquidatori.

 

Fortunatamente, proprio il Tribunale di Milano citato, dopo aver ribadito la validità dei trust interni e il loro efficace impiego in ambito concorsuale, non ha esitato a censurare tale fattispecie con una pronuncia di nullità volta a colpire i negozi che abbiano quale unico fine quello di eludere le norme concorsuali e sottrarre i beni al ceto creditorio.

 

Corretta è questa impostazione del giudice meneghino anche se, a nostro sommesso parere, più che di semplice nullità, si sarebbe addirittura potuto parlare di non riconoscibilità di tali negozi ai sensi dell’art. 13 della Convenzione.

 

Tralasciando quelle osservazioni tecniche nel merito che ci porterebbero a deviare dal presente argomento, volendo comunque rappresentare, seppur in modo semplicistico, cosa sia esattamente un trust liquidatorio di tale “opinabile” fattispecie, basti dire che trattasi, in sostanza, di quei trust istituiti dall’imprenditore, ormai inevitabilmente destinato al fallimento, che cerchi affannosamente di mettere al riparo, tramite una repentina liquidazione della società, gestita attraverso un trust, i pochi beni rimasti.

 

In alcuni casi la fantasia, o forse il coraggio, arriva oltre, avendo avuto notizia di simili operazioni: si pone la società in liquidazione e il pomeriggio di quello stesso giorno viene istituito un trust ove si trasferiscono i pochi beni esistenti, nominando un trustee praticamente irreperibile (spesso di oltralpe). Il giorno dopo la società viene fatta cessare.

 

Tale attività, per inciso, è risultata anche oggetto di messaggi pubblicitari da parte di alcuni studi legali che non soltanto nel proprio sito web, ma addirittura su pagine on line di quotidiani nazionali, in calce a notizie di cronaca che raccontavano di bancarotte manifeste e reati fallimentari, facevano apparire il link di collegamento al proprio sito.

 

L’Associazione il Trust in Italia, che ha su tutti il merito di aver diffuso lo strumento prima fra gli operatori e studiosi, e poi nelle aule di Tribunali (la stragrande maggioranza dei precedenti giurisprudenziali italiani che hanno ammesso e riconosciuto questo strumento sono stati promossi da professionisti iscritti alla citata associazione) ha sentito il dovere di prendere posizione in ordine a questa tipologia di trust, assumendo una serie di provvedimenti precisi, come risulta riportato da Italia Oggi del 30 agosto 2010.

 

Tali usi arbitrari dello strumento producono due danni gravissimi: in primo luogo, illudono l’imprenditore di poter salvare i propri beni, dandogli una rappresentazione mistificata della realtà, in secondo luogo hanno una grave rilevanza sociale, concorrendo a fomentare le opinioni, per fortuna ormai sempre più isolate, di quanti ritengono che il trust serva solo a perseguire scopi fraudolenti o come mezzo per sottrarre i beni ai creditori.

 

Altro caso emblematico fu quello opportunamente censurato dal Tribunale di Crotone del 29 settembre 2008 (in T&AF, 2009, 37 e ss) il quale si rese perfettamente conto che si era fatto ricorso allo strumento solo per eludere le norme imperative sulle gare di appalto pubbliche.

 

L’ordinamento giuridico italiano ha dimostrato da tempo di possedere gli anticorpi necessari a difendersi contro qualsiasi strumento che mini le fondamenta dei propri istituti e non esiste alcun negozio giuridico, trust, contratto o atto unilaterale che da ciò sia esente.

 

Chi scrive ebbe la fortuna di partecipare ad uno dei primi convegni in materia di trust che si tenne a Palermo, dove uno dei relatori, l’allora Presidente del Tribunale delle Misure di Prevenzione, con riflessione illuminata rispetto ai tempi, affermò di non avere alcun preconcetto verso i trust e anzi di comprenderne perfettamente le straordinarie possibilità. Concluse poi il suo intervento aggiungendo che alcun timore gli trasmetteva la tanto dibattuta segregazione patrimoniale posto che laddove questa fosse stata attuata per fini contrari alle legge penale, sarebbero intervenuti sequestri in grado di travolgere qualsiasi trust.

 

Non a caso abbiamo quindi affrontato questo tema.

 

Se è vero, com’è vero, che le potenzialità del trust devono ancora esprimersi appieno in ambito fallimentare, è altresì vero che proprio con riferimento a questa procedura, e alle sue fasi preliminari, ci si può imbattere in molteplici abusi che ci si augura saranno sanzionati senza indugio in modo da disincentivare i solerti operatori che intendessero in futuro suggerire tali strategie ai loro assistiti.

 

Veniamo ora ai due casi in esame.

 

Il primo, atto istitutivo del 22 marzo 2010, nasce da una questione molto semplice.

 

Il fallito, a ridosso del fallimento, trasferisce il proprio immobile a Caio.

 

Passa la proprietà ma non viene pagato il prezzo, il cui saldo è previsto al 31.12.2010.

 

Subentra il fallimento e il curatore intima per iscritto a Caio di pagare il prezzo, alla scadenza stabilita, a proprie mani.

 

Risponde Caio affermando di non avere tale importo e quindi di aver deciso di mettere in vendita l’immobile al fine di onorare il proprio debito.

 

Il Curatore, nel timore di perdere la garanzia, ipotizza al G.D. due strade, il sequestro dell’immobile o piuttosto un trust autodichiarato con vincolo di destinazione del prezzo derivante dalla vendita dell’immobile, ovviamente trascritto nei Pubblici Registri Immobiliari, a favore della procedura.

 

Il G.D. autorizza il trust e Caio accetta tale soluzione.

 

Sull’atto istitutivo vi sono alcuni aspetti interessanti in relazione al diritto dei trust e al diritto civile.

 

Per la prima fattispecie si noti che il trust è di scopo, non benefico, sicché è stato possibile istituirlo solo scegliendo una legge che ammettesse questa tipologia di trust.

 

La legge prescelta impone, per tali tipologie di trust, l’obbligatoria presenza di un guardiano senza soluzione di continuità a pena di nullità, rendendo quindi necessaria la stesura di una clausola ad hoc che scongiuri qualsiasi periodo di vacatio, anche temporanea, del ruolo di guardiano.

 

Ogni potere che normalmente la legge rimette al trustee, è stato necessariamente transitato sul Curatore, e quindi G.D., quale ad esempio le modifiche del trust, lasciando invece al trustee ogni discrezionalità in ordine alla vendita. Fermo il suo obbligo a non vendere al di sotto del prezzo del quale la procedura risulta creditrice.

 

Dal punto di vista civilistico si noti che non era tanto necessario parlare di vendita, potendo il trustee anche dare in permuta l’immobile, purché la controprestazione fosse rappresentata almeno dal pagamento di detta somma.

 

La trascrizione nei PPRRII dell’obbligo di corrisponderla a mani della procedura ha avuto lo scopo di perseguire due obiettivi: rendere edotti i terzi contraenti dell’esistenza del vincolo, sicché non potranno in buona fede affermare in futuro di non aver saputo che il prezzo andava pagato a mani della curatela e conseguire la certezza che qualsiasi notaio incaricato del trasferimento avrebbe, nei fatti, rogitato solo in presenza del curatore.

 

Tuttavia la natura di trust autodichiarato non ha comportato alcun spostamento del diritto di proprietà dell’immobile e ciò ha reso necessario specificare che ogni onere e dovere che la legge ponga a carico del proprietario cedente, rimane in capo a questi e non può in alcun modo, e per nessun titolo, coinvolgere o interessare curatela e procedura.

 

Venendo invece al secondo atto, esso presenta alcune analogie con il primo in quanto è parimenti autodichiarato, retto della medesima legge e di scopo.

 

La questione è in questo caso più delicata.

 

Il curatore intende promuovere azione di responsabilità contro l’amministratore della società fallita il quale tuttavia non pare solvibile.

 

Un parente si offre di pagare il prezzo, che dovesse essere stabilito in un eventuale transazione raggiunta fra curatela e amministratore, con il ricavato derivante dalla vendita di un suo bene immobile.

 

Del bene viene fatta perizia e il curatore ne ritiene il valore equo come prezzo dell’eventuale transazione.

 

Siamo quindi nell’ambito del contratto a favore di terzo.

 

Il curatore accetta ma posto che la sottoscrizione della transazione appare non immediata, intende prima istituire il trust con il vincolo di destinazione del prezzo di vendita in favore della procedura, al fine di acquisire certezza dell’incasso.

 

Il G. D. autorizza e il parente accetta lo strumento.

 

In ordine a questo secondo trust è interessante notare come sia stato necessario ricorrere alla condizione risolutiva dell’atto rappresentata dalla mancata conclusione della transazione entro il termine previsto.

 

Solo la condizione risolutiva infatti ha consentito di trascrive il vincolo di destinazione nei PPRRII in pendenza delle fase di conclusione della transazione.

 

Parimenti si è resa necessaria una clausola volta a preservare i diritti della curatela nel caso in cui la transazione non verrà di fatto conclusa, evitando che il trust possa poi essere presentato in giudizio, traendo da esso elementi di prova o rinunce di sorta.

 

Entrambi gli atti sono ora in essere e non ci resta che attendere lo spirare dei termini per vedere di fatto quali risultati abbiano prodotto.

 

Questa è quindi solo la prima puntata.

 

I due trust in commento sono stati autorizzati dal G.D. Maurizio Atzori della Sez. Fallimentare del Tribunale di Bologna.

 

L’autorizzazione non significa tuttavia certezza di stipula dell’atto in quanto, in base alla Convenzione de L’Aja sulla legge applicabile ai trusts e al loro riconoscimento, sono ammissibili i soli trust volontariamente istituiti.

 

Ciò dipende dalla mancata estensione da parte dello Stato italiano, in sede di ratifica della Convenzione, o successivamente, alla disposizione di cui all’art. 20 della predetta, che consente l’istituzione di trust ordinati giudizialmente: cd. constructive trust.

 

In pratica il G.D. autorizza il curatore a proporre il trust alla parte ma la decisione spetta solo a quest’ultima, in difetto della quale, l’unico rimedio per la curatela, in casi analoghi a quelli di specie, è il ricorso al sequestro conservativo.

 

Va da sé che il sequestro avrebbe reso invendibile i beni in tempi brevi, gravando la procedura di costi ulteriori.

 

L’esiguità degli importi oggetto dei trust conclusi dimostra come sia opportuno ricorrere al trust anche per piccole somme e ciò a maggior ragione in considerazione del carico fiscale relativo.

 

Dal punto di vista tributario questa tipologia di trust pare, oggi, assolutamente competitiva rispetto ad altri strumenti giuridici.

 

Non a caso la frase è dubitativa dato che, sebbene in ambedue i casi sia stata corrisposta la sola imposta di registro in misura fissa, tuttavia la questione non può dirsi assodata.

 

Leggendo la clausola ultima degli atti istitutivi si vede il richiamo espresso alla recente sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Bologna Sezione 2, n. 120-02-09 del 7 ottobre 2009 che ha stabilito la tassazione in misura fissa per i trust di pura garanzia nei quali, evidentemente, alcun intento liberale, o ancor più donativo, sottende al procedimento di formazione della volontà della parte disponente.

 

In qualsivoglia trust di garanzia, e quindi in tutti i trust che dovessero essere istituiti all’interno di procedure concorsuali, lo scopo è sempre, e solo, quello di pagare i creditori, lungi dal porre in essere un atto caratterizzato da animus donandi.

 

Questo concetto, di tale lampante semplicità da rendere persino inutile ogni commento, non sembra tuttavia essere stato compreso dal nostro legislatore tributario che, nell’ansia di “far cassa”, vorrebbe applicare le imposte di donazione a qualsiasi trust, indipendentemente dall’avere lo stesso una causa solutoria, liberale o di garanzia.

 

Anche in questo ambito, così come è stato negli anni passati per ottenere il riconoscimento dei trust interni, non è restato agli operatori che adire la via giudiziale, confidando sulla comprensione dei giudicanti.

 

Ebbene, mai come nel trust, si può dire che il riconoscimento dell’istituto sia dipeso da un’attenta giurisprudenza che ha fatto propri gli insegnamenti della miglior dottrina, comprendendo l’incredibile ventaglio di nuove possibilità che si sarebbero offerte nella pratica.

 

Una recente sentenza del Tribunale di Milano, 16 giugno 2009 (in T&AF, 2009, 533) parla di “entusiastica applicazione” del trust in sede concorsuale e ci sentiamo di affermare, senza paura di essere smentiti, che proprio questi due provvedimenti ne rappresentano un emblematico esempio.

 

Tuttavia, prima di entrare nel merito di questi casi, vorremmo spendere alcune parole su di un esempio di trust, a nostro parere tristissimo, che pare divenuto molto di moda, prendendo sempre più – sciaguratamente – piede: i cd. trust liquidatori.

 

Fortunatamente, proprio il Tribunale di Milano citato, dopo aver ribadito la validità dei trust interni e il loro efficace impiego in ambito concorsuale, non ha esitato a censurare tale fattispecie con una pronuncia di nullità volta a colpire i negozi che abbiano quale unico fine quello di eludere le norme concorsuali e sottrarre i beni al ceto creditorio.

 

Corretta è questa impostazione del giudice meneghino anche se, a nostro sommesso parere, più che di semplice nullità, si sarebbe addirittura potuto parlare di non riconoscibilità di tali negozi ai sensi dell’art. 13 della Convenzione.

 

Tralasciando quelle osservazioni tecniche nel merito che ci porterebbero a deviare dal presente argomento, volendo comunque rappresentare, seppur in modo semplicistico, cosa sia esattamente un trust liquidatorio di tale “opinabile” fattispecie, basti dire che trattasi, in sostanza, di quei trust istituiti dall’imprenditore, ormai inevitabilmente destinato al fallimento, che cerchi affannosamente di mettere al riparo, tramite una repentina liquidazione della società, gestita attraverso un trust, i pochi beni rimasti.

 

In alcuni casi la fantasia, o forse il coraggio, arriva oltre, avendo avuto notizia di simili operazioni: si pone la società in liquidazione e il pomeriggio di quello stesso giorno viene istituito un trust ove si trasferiscono i pochi beni esistenti, nominando un trustee praticamente irreperibile (spesso di oltralpe). Il giorno dopo la società viene fatta cessare.

 

Tale attività, per inciso, è risultata anche oggetto di messaggi pubblicitari da parte di alcuni studi legali che non soltanto nel proprio sito web, ma addirittura su pagine on line di quotidiani nazionali, in calce a notizie di cronaca che raccontavano di bancarotte manifeste e reati fallimentari, facevano apparire il link di collegamento al proprio sito.

 

L’Associazione il Trust in Italia, che ha su tutti il merito di aver diffuso lo strumento prima fra gli operatori e studiosi, e poi nelle aule di Tribunali (la stragrande maggioranza dei precedenti giurisprudenziali italiani che hanno ammesso e riconosciuto questo strumento sono stati promossi da professionisti iscritti alla citata associazione) ha sentito il dovere di prendere posizione in ordine a questa tipologia di trust, assumendo una serie di provvedimenti precisi, come risulta riportato da Italia Oggi del 30 agosto 2010.

 

Tali usi arbitrari dello strumento producono due danni gravissimi: in primo luogo, illudono l’imprenditore di poter salvare i propri beni, dandogli una rappresentazione mistificata della realtà, in secondo luogo hanno una grave rilevanza sociale, concorrendo a fomentare le opinioni, per fortuna ormai sempre più isolate, di quanti ritengono che il trust serva solo a perseguire scopi fraudolenti o come mezzo per sottrarre i beni ai creditori.

 

Altro caso emblematico fu quello opportunamente censurato dal Tribunale di Crotone del 29 settembre 2008 (in T&AF, 2009, 37 e ss) il quale si rese perfettamente conto che si era fatto ricorso allo strumento solo per eludere le norme imperative sulle gare di appalto pubbliche.

 

L’ordinamento giuridico italiano ha dimostrato da tempo di possedere gli anticorpi necessari a difendersi contro qualsiasi strumento che mini le fondamenta dei propri istituti e non esiste alcun negozio giuridico, trust, contratto o atto unilaterale che da ciò sia esente.

 

Chi scrive ebbe la fortuna di partecipare ad uno dei primi convegni in materia di trust che si tenne a Palermo, dove uno dei relatori, l’allora Presidente del Tribunale delle Misure di Prevenzione, con riflessione illuminata rispetto ai tempi, affermò di non avere alcun preconcetto verso i trust e anzi di comprenderne perfettamente le straordinarie possibilità. Concluse poi il suo intervento aggiungendo che alcun timore gli trasmetteva la tanto dibattuta segregazione patrimoniale posto che laddove questa fosse stata attuata per fini contrari alle legge penale, sarebbero intervenuti sequestri in grado di travolgere qualsiasi trust.

 

Non a caso abbiamo quindi affrontato questo tema.

 

Se è vero, com’è vero, che le potenzialità del trust devono ancora esprimersi appieno in ambito fallimentare, è altresì vero che proprio con riferimento a questa procedura, e alle sue fasi preliminari, ci si può imbattere in molteplici abusi che ci si augura saranno sanzionati senza indugio in modo da disincentivare i solerti operatori che intendessero in futuro suggerire tali strategie ai loro assistiti.

 

Veniamo ora ai due casi in esame.

 

Il primo, atto istitutivo del 22 marzo 2010, nasce da una questione molto semplice.

 

Il fallito, a ridosso del fallimento, trasferisce il proprio immobile a Caio.

 

Passa la proprietà ma non viene pagato il prezzo, il cui saldo è previsto al 31.12.2010.

 

Subentra il fallimento e il curatore intima per iscritto a Caio di pagare il prezzo, alla scadenza stabilita, a proprie mani.

 

Risponde Caio affermando di non avere tale importo e quindi di aver deciso di mettere in vendita l’immobile al fine di onorare il proprio debito.

 

Il Curatore, nel timore di perdere la garanzia, ipotizza al G.D. due strade, il sequestro dell’immobile o piuttosto un trust autodichiarato con vincolo di destinazione del prezzo derivante dalla vendita dell’immobile, ovviamente trascritto nei Pubblici Registri Immobiliari, a favore della procedura.

 

Il G.D. autorizza il trust e Caio accetta tale soluzione.

 

Sull’atto istitutivo vi sono alcuni aspetti interessanti in relazione al diritto dei trust e al diritto civile.

 

Per la prima fattispecie si noti che il trust è di scopo, non benefico, sicché è stato possibile istituirlo solo scegliendo una legge che ammettesse questa tipologia di trust.

 

La legge prescelta impone, per tali tipologie di trust, l’obbligatoria presenza di un guardiano senza soluzione di continuità a pena di nullità, rendendo quindi necessaria la stesura di una clausola ad hoc che scongiuri qualsiasi periodo di vacatio, anche temporanea, del ruolo di guardiano.

 

Ogni potere che normalmente la legge rimette al trustee, è stato necessariamente transitato sul Curatore, e quindi G.D., quale ad esempio le modifiche del trust, lasciando invece al trustee ogni discrezionalità in ordine alla vendita. Fermo il suo obbligo a non vendere al di sotto del prezzo del quale la procedura risulta creditrice.

 

Dal punto di vista civilistico si noti che non era tanto necessario parlare di vendita, potendo il trustee anche dare in permuta l’immobile, purché la controprestazione fosse rappresentata almeno dal pagamento di detta somma.

 

La trascrizione nei PPRRII dell’obbligo di corrisponderla a mani della procedura ha avuto lo scopo di perseguire due obiettivi: rendere edotti i terzi contraenti dell’esistenza del vincolo, sicché non potranno in buona fede affermare in futuro di non aver saputo che il prezzo andava pagato a mani della curatela e conseguire la certezza che qualsiasi notaio incaricato del trasferimento avrebbe, nei fatti, rogitato solo in presenza del curatore.

 

Tuttavia la natura di trust autodichiarato non ha comportato alcun spostamento del diritto di proprietà dell’immobile e ciò ha reso necessario specificare che ogni onere e dovere che la legge ponga a carico del proprietario cedente, rimane in capo a questi e non può in alcun modo, e per nessun titolo, coinvolgere o interessare curatela e procedura.

 

Venendo invece al secondo atto, esso presenta alcune analogie con il primo in quanto è parimenti autodichiarato, retto della medesima legge e di scopo.

 

La questione è in questo caso più delicata.

 

Il curatore intende promuovere azione di responsabilità contro l’amministratore della società fallita il quale tuttavia non pare solvibile.

 

Un parente si offre di pagare il prezzo, che dovesse essere stabilito in un eventuale transazione raggiunta fra curatela e amministratore, con il ricavato derivante dalla vendita di un suo bene immobile.

 

Del bene viene fatta perizia e il curatore ne ritiene il valore equo come prezzo dell’eventuale transazione.

 

Siamo quindi nell’ambito del contratto a favore di terzo.

 

Il curatore accetta ma posto che la sottoscrizione della transazione appare non immediata, intende prima istituire il trust con il vincolo di destinazione del prezzo di vendita in favore della procedura, al fine di acquisire certezza dell’incasso.

 

Il G. D. autorizza e il parente accetta lo strumento.

 

In ordine a questo secondo trust è interessante notare come sia stato necessario ricorrere alla condizione risolutiva dell’atto rappresentata dalla mancata conclusione della transazione entro il termine previsto.

 

Solo la condizione risolutiva infatti ha consentito di trascrive il vincolo di destinazione nei PPRRII in pendenza delle fase di conclusione della transazione.

 

Parimenti si è resa necessaria una clausola volta a preservare i diritti della curatela nel caso in cui la transazione non verrà di fatto conclusa, evitando che il trust possa poi essere presentato in giudizio, traendo da esso elementi di prova o rinunce di sorta.

 

Entrambi gli atti sono ora in essere e non ci resta che attendere lo spirare dei termini per vedere di fatto quali risultati abbiano prodotto.

 

Questa è quindi solo la prima puntata.