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I marchi: dal diritto dei segni distintivi al diritto della comunicazione d’impresa

Relazione tenuta al convegno "Il futuro della proprietà intellettuale", Università di Parma, 22 ottobre 2010
Internazionalizzazione e globalizzazione dei diritti IP

Oggi più che mai si può dire che il diritto industriale è il cuore stesso dello sviluppo del mondo e che i suoi cambiamenti, sempre più intensi e sempre più rapidi, ne indicano, e spesso ne precedono, le linee di tendenza. Probabilmente il punto di svolta di questa evoluzione è rappresentato dal TRIPs Agreement (Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights), adottato a Marrakech nel 1994 contestualmente all’istituzione del World Trade Organisation, e con il quale il blocco dei Paesi economicamente più progrediti, con in testa gli Stati Uniti, ha subordinato la liberalizzazione del commercio con i Paesi meno sviluppati proprio al rispetto da parte loro di certi standard di protezione dei diritti di proprietà intellettuale, diritti i più importanti dei quali fanno capo appunto a soggetti appartenenti al primo blocco di Paesi: e non a caso le polemiche contro il sistema del WTO e la globalizzazione dell’economia sono state molto spesso dirette verso marchi e brevetti, all’insegna del binomio «No Global» e «No Logo», ma anche «No Patent», come testimoniato dalle ricorrenti campagne di disinformazione contro i brevetti biotecnologici e quelli farmaceutici in genere, e più di recente contro la protezione delle computer implemented inventions, che ha portato alla bocciatura da parete del Parlamento Europeo di una Direttiva volta ad armonizzarne la protezione in ambito comunitario.

La miglior riprova dell’infondatezza di queste critiche radicali, che vedevano nel sistema dei marchi e dei brevetti come uno strumento per perpetuare le disuguaglianze tra Nord e Sud del mondo, a tutto svantaggio di quest’ultimo, viene del resto dal fatto che sono oggi i Paesi più sviluppati a sforzarsi di contenere l’esplosione economica di Cina e India, ma anche di molti altri Paesi dell’Asia e del Sud America (la cui crescita continua, nonostante la crisi mondiale in atto, anche perché è sostenuta dalla crescita della domanda interna di beni di consumo in quei Paesi), e addirittura a cercare di opporsi ingiustificatamente ad un fenomeno come quello del decentramento e dell’integrazione produttiva a livello internazionale, che riveste un’evidente valenza pro-concorrenziale, riducendo i costi e favorendo in ultima analisi proprio i consumatori. Questo è il caso, in particolare, di quanto sta cercando di fare il nostro Paese, con le norme sull’uso dei marchi italiani per prodotti realizzati all’estero contenute nella legge n. 99/2009 e poi nel d.l. n. 135/2009, e più ancora con la nuova disciplina del Made in Italy prevista dal disegno di legge Reguzzoni attualmente in discussione in Parlamento, che introducono assurde disparità di trattamento tra i prodotti fatti realizzare all’estero da imprese italiane e da imprese straniere, anche comunitarie, costituzionalmente illegittima e in aperto contrasto con il diritto comunitario.

Diritti IP e realtà di mercato: il nuovo rapporto tra esclusiva, concorrenza e contratti

A fianco di queste tendenze neo-protezioniste, si deve però registrare la positiva evoluzione dei diritti della proprietà intellettuale verso un approccio concreto alla protezione di essi, fondato sulla considerazione di ciò che le realtà che ne formano oggetto realmente rappresentano sul mercato e, prima ancora, nelle dinamiche dell’attività economica e quindi della comunicazione d’impresa e della ricerca. Questo approccio realistico, o, se si preferisce, fenomenologico, trova una precisa base normativa nelle convenzioni internazionali vigenti nella nostra materia e nello stesso diritto comunitario, che delinea un equilibrio tra esclusive, concorrenza e contratti nel quale la protezione può essere riconosciuta solo a ciò che davvero questa protezione richiede, nella consapevolezza del fatto che le norme sono chiamate a disciplinare realtà concrete e che la giustificazione di esse è strettamente connessa con l’esperienza umana di queste realtà, secondo una prospettiva, che potremmo definire giusnaturalistica, di adeguamento del diritto alle relazioni interpersonali della vita reale.

In questa prospettiva ci si può anzi domandare se una linea di possibile evoluzione dei diritti della proprietà intellettuale non passi attraverso un ripensamento della stessa nozione di esclusiva, e quindi del modello dei diritti IP come diritti illimitatamente opponibili nei confronti dei terzi, secondo il modello proprietario, per dare invece più spazio a relazioni contrattuali, strategie di marketing e strumenti tecnici, che consentano di limitare, se non di escludere, l’attività di free riding, come quelli che passava in rassegna, già più di tre lustri fa, Palmer nell’ampio saggio qui pubblicato. In effetti, nei settori nei quali i «costi di transazione» per l’enforcement dei diritti di proprietà intellettuale sono particolarmente elevati, come per il software e le opere audiovisive e multimediali, il ricorso a mezzi tecnici di protezione è già oggi largamente diffuso; e c’è da pensare che riorientando in questa direzione gli sforzi delle imprese (come accadrebbe se prendesse piede una tendenza contraria all’attribuzione di diritti esclusivi nell’ambito della proprietà intellettuale), questa strada risulterebbe più largamente praticabile anche in altri settori.

Certamente queste linee di tendenza possono oggi apparire labili e tali da evocare tutt’al più riflessioni filosofiche, piuttosto che concrete risposte ai problemi più attuali. Tuttavia già adesso l’approccio concreto al quale si è fatto riferimento ha significative ed immediate ricadute pratiche, nell’interpretazione dei brevetti e dei marchi e nel delinearne i requisiti di proteggibilità, così come l’ambito di protezione ed i suoi limiti. In particolare, esso contiene un forte richiamo a commisurare la protezione attribuita dalla legge alla portata effettiva che i diritti di proprietà industriale hanno nella realtà, abbandonando tutte le costruzioni di tipo «finzionistico», intese a delimitarne in astratto l’ambito di protezione: proprio perché questi diritti comportano una limitazione rispetto alla generale regola della concorrenza, è essenziale che i sacrifici che le esclusive da essi attribuite impongono alla libertà degli operatori economici siano strettamente correlati alla funzione che i diritti che ne formano oggetto svolgono concretamente sul mercato. In questa chiave può anzi venire a risolversi, almeno in parte, anche la tensione tra concorrenza ed esclusiva (e quindi monopolio) che sta al fondo della riflessione sulla proprietà industriale e più in generale sulla proprietà intellettuale.

Dal diritto dei segni distintivi al diritto della comunicazione d’impresa

Ciò è particolarmente evidente in materia di marchi, dove si è giunti al riconoscimento legislativo del ruolo svolto dal marchio come strumento di comunicazione e quindi alla protezione del marchio contro ogni sfruttamento parassitario, sia che questo si verifichi nella forma del pericolo di confusione, sia che avvenga in quella dell’agganciamento, e cioè contro tutte le utilizzazioni di segni eguali o simili che comportino l’appropriazione non autorizzata di quella sorta di “economia esterna” del marchio che è legata al “messaggio” in esso incorporato.

Qui l’esistenza di diritti di esclusiva è sempre stata connaturata a un sistema di economia di mercato: informando il pubblico della provenienza dei prodotti o servizi per cui è usato da una determinata impresa e quindi dell’esistenza di un’esclusiva di quest’impresa sull’uso di esso in un determinato settore, ossia attraverso la sua tradizionale «funzione di indicazione di provenienza», il marchio (e con esso tutti gli altri segni distintivi imprenditoriali, che su di esso sono sostanzialmente modellati) è il cardine di un sistema basato sulla concorrenza di prestazione tra prodotti e servizi, perché consente al pubblico di attribuire il merito (o il biasimo) circa le caratteristiche e la qualità di un determinato prodotto o servizio all’imprenditore dal quale esso proviene, anche se sconosciuto, contribuendo così in modo decisivo alla trasparenza e all’efficienza del sistema. Ciò tuttavia è anche più vero in relazione alla nuova protezione del marchio che è stata riconosciuta, anche nel nostro Paese, sulla base di una Direttiva comunitaria (la Direttiva n. 89/104/C.E.E.), che ha ricompreso nell’ambito di esclusiva del titolare del marchio tutti gli usi in commercio di un segno identico o simile al marchio quando questo marchio goda di rinomanza e l’uso del segno consenta senza giusto motivo di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca ad essi pregiudizio, anche se non si verifica un pericolo di confusione e quindi anche se il pubblico è consapevole che i prodotti o i servizi dell’imitatore provengono da una fonte imprenditoriale diversa dal titolare del marchio e non collegata ad essa.

Anche questa nuova protezione «allargata» dà infatti luogo ad un equilibrio di interessi di mercato che è certamente diverso da quello tradizionale basato sulla protezione della (sola) funzione di indicazione di provenienza, ma sembra a sua volta assolvere una funzione pro-concorrenziale, più adatta ad un mercato nel quale è profondamente mutata, rispetto a un passato anche recente, l’importanza relativa delle diverse forme di comunicazione commerciale.

Questo equilibrio si fonda infatti sul riconoscimento di ciò che il marchio e gli altri segni distintivi sono diventati nel “mondo della vita”, appunto come strumenti di comunicazione: riconoscimento che si concreta da un lato nel diritto attribuito al titolare di un marchio di vietare ai terzi ogni forma di agganciamento parassitario ai «messaggi» di cui ciascun singolo marchio è portatore, realizzata mediante l’uso di segni eguali o simili ad esso, e dall’altro lato nella previsione a carico del medesimo titolare di un’articolata posizione di responsabilità in ordine alla rispondenza al vero di tali «messaggi».

In un’epoca nella quale la principale fonte di informazioni sui prodotti – quando non l’unica – era costituita dalle precedenti esperienze di acquisto, si comprende infatti bene come il punto di equilibrio tra gli interessi, diversi e spesso contrapposti, di cui sono portatrici le imprese (ovvero i soggetti non imprenditori che siano titolari del marchio) e gli interessi dei consumatori potesse essere trovato nella previ¬sione di un collegamento stabile tra il marchio e l’azienda (o alternati-vamente l’impresa) da cui quei prodotti provenivano, che permettesse al consumatore di contare sul fatto che un prodotto acquistato oggi e recante un dato marchio provenisse dallo stesso nucleo aziendale ovvero dallo stesso imprenditore da cui proveniva quello acquistato ieri recante lo stesso marchio. Ma nel momento in cui la fonte principale di infor¬mazioni per i consumatori diventa la pubblicità, ogni prospettiva di «lungo periodo», fondata sulla ripetizione degli acquisti nel tempo, viene svalutata, perché le aspettative del pubblico si fondano princi¬palmente su quanto viene via via comunicato direttamente dall’im¬prenditore appunto mediante la pubblicità, e solo secondariamente – e cioè in quanto non sia contraddetta da queste comunicazioni – sull’esperienza diretta del consumatore connessa all’uso anteriore che del segno sia stato fatto, cosicché al pubblico quel che veramente impor¬ta è sapere di poter contare in qualsiasi momento sulla «promessa» diretta che in quel momento il titolare del segno gli fa attraverso il messaggio che viene collegato al suo marchio, pur sapendo che questa promessa potrà venire modificata o cancellata in prosieguo.

Si noti che questo discorso è valido, da un punto di vista economico, anche per le componenti suggestive del messaggio collegato al marchio attraverso la pubblicità; rispetto a queste componenti si è suggerito (ad esempio da ECONOMIDES, The Economics of Trademark, in 78 TMR (1988), p. 523 s., spec. pp. 532-535) di parlare di «perception advertising», in quanto esse aggiungono al prodotto un valore rilevante nel giudizio del pubblico, costituito dalle «immagini mentali» di cui il marchio è stato caricato; e si è altresì messo in luce che queste immagini sono, in un certo senso, esse stesse un prodotto, poiché rispondono ad un bisogno dei consumatori, che sono disposti a pagare per averle, il che impone di riconsiderare anche la contrapposizione tra concorrenza di prestazione e concorrenza di immagine, giacché è proprio la protezione dei marchi che consente l’esistenza di un mercato nel quale gli operatori possono competere tra loro nel fornire questo tipo di «prodotto» (ivi, p. 533, dove osserva che proprio «The existence of a trademark makes advertising of perceived images possible. Instead of limiting competition, trademarks allow firms to compete in one more dimension»; e pone in luce come questa competizione abbia sul mercato in generale effetti benefici prevalenti rispetto a quelli distorsivi).

Per i consumatori, infatti, acquistare prodotti che recano un marchio il quale comunica, oltre al messaggio sulla provenienza, anche queste componenti suggestive, rappresenta una forma di «investment in reputation capital» (per usare l’efficace espressione di LANDES e POSNER, Trademark Law: an Economic Perspective, in 30 Journ. of Law and Econ. (1987), p. 265 s., poi ripubblicato con modifiche come The Economics of Trademark Law, in 78 TMR (1988), p. 267 s., spec. pp. 304-306), perché usando (e sfoggiando) questi prodotti essi comunicano all’esterno una certa immagine di se stessi coerente con le specifiche suggestioni collegate a questi marchi. Ed in questa chiave si può dunque comprendere come si sia potuto egualmente parlare di consumer trade mark – cioè di un marchio che si inquadra in «a comprehensive system in which one is safely adding value to the medium of communication, but at the same time demanding that the message had better be correct» (così KAMPERMANN SANDERS e MANIATIS, A Consumer Trade Mark: Protection Based on Origin and Quality, in EIPR, 1993, 406 e ss., spec. pp. 411 e 415; e più ampiamente GALLI, Protezione del marchio e interessi del mercato, in AA. VV., Studi Vanzetti, Milano, 2005, p. 661 e ss.) – per definire sinteticamente il nuovo equilibrio d’interessi che la protezione del marchio attualmente riconosciuta dal nostro come dai principali ordinamenti viene a configurare.

I segni distintivi nel mondo della vita

Le considerazioni che precedono aprono la strada ad una riflessione critica sugli istituti in cui si sostanzia il diritto industriale, diretta a verificare se essi possano dirsi giustificati in una prospettiva (che potremmo definire di diritto naturale) di adeguamento del diritto alle relazioni interpersonali della vita reale.

Un’analisi che si limitasse a prendere atto delle norme poste dal legislatore, riducendo la valutazione giuridica alla descrizione e all’interpretazione di esse nella loro positività, sarebbe infatti pericolosamente limitata. E’ invece indispensabile non perdere di vista il fatto fondamentale che le norme sono dettate per disciplinare realtà concrete e che la giustificazione di esse è strettamente connessa con l’esperienza umana di queste realtà: solo alla luce di questa esperienza è dunque possibile esprimere dei giudizi di valore sui diritti e sui doveri che da queste norme scaturiscono, ricevendo altresì indicazioni necessarie per fornirne un’interpretazione il più possibile adeguata alle reali esigenze ad esse sottostanti. D’altra parte risolvere il problema della legittimità nella semplice legalità, ossia nella conformità al diritto positivo, pur sotto la parvenza di una maggiore «oggettività», comporta un drammatico impoverimento della riflessione giuridica, che viene ridotta a pura tecnica, perdendo contatto con la realtà concreta ad essa sottostante, e dunque «banalizzata» e privata della sua base più autentica, che risiede necessariamente nel mondo della vita (e su questi temi rimando da una parte ai fondamentali studi di CAPOGRASSI, Analisi dell’esperienza comune (1930), Milano, 1975, spec. pp. 39-46 e ID., Il problema della scienza del diritto (1937), Milano, 1962, spec. p. 140; e di COTTA, Il diritto nell’esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica, Milano, 1991, spec. pp. 244-246; e dall’altro alla critica di ogni nozione di oggettivismo sganciata dai suoi fondamenti sensibili che domina il pensiero di Edmund Husserl, di cui si veda in particolare HUSSERL, La crisi delle sceienze europee e la fenomenologia trascendentale. Un’introduzione alla filosofia fenomenologica, Milano, 1961, ed altresì, nella stessa prospettiva, BÊLOHRADSKÝ, Il mondo della vita: un problema politico, Milano, 1981, spec. p. 7; ARENDT, La banalità del male, Milano, 1964 e ID., Tra passato e futuro, Firenze, 1970, spec. p. 95 s.; e PATOČKA, Il mondo naturale e la fenomenologia a cura di A. PANTANO, Milano, 2003).

Se dunque applichiamo queste nozioni alla proprietà industriale, ci accorgiamo anzitutto che esse contengono un forte richiamo a commisurare la protezione attribuita dalla legge alla portata effettiva che questi diritti hanno nella realtà, abbandonando tutte le costruzioni di tipo «finzionistico», intese a delimitarne in astratto l’ambito di protezione: proprio perché questi diritti comportano una limitazione rispetto alla generale regola della concorrenza, è essenziale che i sacrifici che queste esclusive impongono alla libertà degli operatori economici siano strettamente correlate alla funzione che i diritti che ne formano oggetto appunto sul mercato svolgono concretamente. In questa chiave può anzi venire a risolversi, almeno in parte, anche la tensione tra concorrenza ed esclusiva (e quindi monopolio) che abbiamo visto essere al fondo della riflessione sulla proprietà industriale e più in generale sulla proprietà intellettuale. Ciò è particolarmente evidente in materia di diritti sui segni distintivi ed in tal senso si è in effetti venuta orientando la giurisprudenza comunitaria, che fa da guida a quelle nazionali, in quanto, come pure già si è accennato, il diritto dei marchi è stato armonizzatome elemento decisivo, sia per stabilire se il marchio è tutelabile – il che presupppone che esso consista in una realtà che i consumatori percepiscano appunto come “segno”, ovvero come portatrice di un significato, e che questo significato sia specifico, e quindi indicatore (anche) l’esistenza di un’esclusiva sull’uso di e a livello comunitario (in argomento rinvio ai miei saggi I marchi nella prospettiva del diritto comunitario: dal diritto dei segni distintivi al diritto della comunicazione d’impresa, in AIDA, 2007 e La proprietà industriale tra diritto internazionale e diritti naturali, di prossima pubblicazione.

Tutto questo ha portato a valorizzare sempre di più la percezione del pubblico co sso in un determinato settore in apo ad un soggetto che assume la responsabilità per le caratteristiche dei prodotti o dei servizi da esso contrassegnati – sia per delimitarne l’ambito di tutela.

Anche se tale evoluzione è principalmente frutto dell’opera dei Giudici comunitari, la nostra giurisprudenza nazionale può considerarsi all’avanguardia in questo campo. Tra i leading cases in materia si segnalano Trib. Milano, 28 ottobre 2005 e Trib. Milano, 16 gennaio 2009, che hanno tutelato il marchio Bulgari contro l’uso nell’attività economica del nome Bulgari come pseudonimo di un’attrice pornografica; Trib. Milano, 27 agosto 2007, che ha tutelato un noto marchio di beachwear (Pin-Up Star) contro l’uso di un segno simile (Upstar) per abbigliamento casual, ritenendo che determinasse un agganciamento al primo marchio; e Trib. Milano, 5 agosto 2008 e 11 ottobre 2009, che ha protetto il colore rosso come marchio non registrato di Ferrari contro l’uso di esso per prodotti legati alle gare di Formula 1 (nel primo caso auto giocattolo, ma nel secondo anche prodotti di abbigliamento e di merchandising in genere, contenenti elementi di richiamo alla Formula 1).

I segni distintivi nella revisione del Codice della Proprietà Industriale: la tutela contro il parassitismo come nuovo asse portante del diritto IP

Anche la recente revisione del Codice della Proprietà Industriale, operata dal d.lg. n. 131/2010, le novità apportate dal Codice al diritto dei segni distintivi si caratterizzano per una forte attenzione a ciò che questi segni rappresentano nella realtà di mercato, come elementi cardine della comunicazione d’impresa, e più in generale nel “mondo della vita”. Nel loro complesso le modifiche inserite nel Codice in questo campo appaiono infatti dirette a rendere più compiuta e coerente la protezione dei marchi, degli altri segni distintivi e delle denominazioni di origine contro i comportamenti diretti a sfruttare indebitamente i valori di avviamento commerciale incorporati in questi segni, nella prospettiva generale – che con questa riforma è divenuta uno degli assi portanti del Codice – di attribuire alle imprese la possibilità di valorizzare tutte le esternalità positive derivanti dall’uso dei loro diritti di proprietà industriale, vietando ogni forma di free-riding e di sfruttamento parassitario dei loro investimenti.

Significativa è già la scelta del Codice di fare riferimento ai «nomi a dominio di siti usati nell’attività economica» come oggetto di possibile interferenza con altrui diritti di marchio, ditta o insegna (ma anche di possibile protezione), sostituendo l’ambigua definizione precedente di «nomi a dominio aziendali» con un’espressione che riprende quella usata all’art. 20 c.p.i. per definire l’ambito di protezione dei marchi e rende quindi evidente che la protezione riguarda tutti i casi in cui un segno sia utilizzato per finalità economiche, anche al di fuori di un’attività d’impresa.

Ancora più importanti, sempre in questa chiave, sono la modifica dell’art. 8 del Codice, nel quale, oltre alla registrazione, viene proibito anche l’uso non autorizzato dei segni notori in campo extracommerciale, appunto per impedire l’agganciamento parassitario ad essi da parte di terzi; e l’aggiunta di ogni «altro segno distintivo» all’elencazione di segni che possono interferire con il marchio (e con cui il marchio può interferire) contenuta nell’art. 22 c.p.i. rubricato «Unitarietà dei segni distintivi».

Nella stessa prospettiva si collocano anche la riformulazione della norma che delinea l’ambito di protezione delle indicazioni geografiche (art. 30), ma anche la modifica della disposizione che consente l’uso nel commercio dei nomi geografici, ancorché registrati come marchio collettivo, ora subordinato alla sola condizione che quest’uso sia conforme alla correttezza professionale, con la cancellazione della limitazione della liceità di quest’uso al caso in cui il nome sia usato «in funzione di indicazione di provenienza» geografica (art. 11). L’art. 30, in particolare, riprende ora pressoché alla lettera il dettato dell’art. 13.1, lett. a del Reg. n. 2006/510/CE in materia di DOP e IGP, che impone agli Stati membri di proteggere queste denominazioni anche contro ogni uso non autorizzato di esse che «consenta di sfruttare indebitamente la reputazione della denominazione protetta», e cioè appunto contro lo sfruttamento parassitario; l’art. 11, per converso, stabilisce la liceità dell’uso dei nomi geografici che non determini né confusione, né agganciamento, applicando anche ai marchi collettivi la regola prevista dall’art. 21 c.p.i. per i marchi individuali.

In tutti i casi il parassitismo segna così la misura ed il limite della protezione, prendendo anche atto del progressivo avvicinamento tra la disciplina delle denominazioni di origine e quella dei marchi, intervenuto non solo sul versante della tutela, ma anche su quello – strettamente correlato al primo sul piano del bilanciamento di interessi – del rilievo primario attribuito alla non ingannevolezza del segno (che è da sempre fondamentale per le denominazioni di origine e che è ora divenuto anche la chiave di volta del nuovo diritto dei marchi), creando una sorta di diritto comune dei segni commerciali: che non significa ovviamente uniformità di disciplina per segni di tipo diverso, ma certamente esistenza di un denominatore comune tra essi.

Ed anche qui è appena il caso di rilevare come appaia infondata la preoccupazione di chi paventa che prevedere questa regola anche a favore dei segni notori, così come delle denominazioni geografiche «qualificate», ma non registrate, possa creare problemi di certezza del diritto, giacché lo sfruttamento della rinomanza presuppone appunto la rinomanza e quindi una situazione di notorietà generale: sostanzialmente la stessa situazione che giustifica per i marchi la protezione anche al di là dei limiti della registrazione, e che è a sua volta una situazione di fatto, derivante dall’uso, alla quale vengono ricollegati effetti giuridici; anche questo è stato chiarito proprio dalla giurisprudenza comunitaria, che ha anzi rifiutato di ricorrere a criteri «meccanici» (come una determinata percentuale di conoscenza del segno presso il pubblico interessato) per la determinazione del presupposto della rinomanza.

I problemi aperti e le prospettive di evoluzione: gli usi «non indebiti» del marchio altrui, il divieto d’inganno, il rapporto tra creazione e comunicazione

Vi sono tuttavia almeno due temi sui quali si possono ancora aspettare significativi sviluppi in avvenire: il primo è rappresentato dal limite alla protezione dei marchi che si desume dall’aggettivo «indebito» che qualifica il vantaggio dell’imitatore e dalla nozione di «giusto motivo» egualmente contemplata come scriminante «interna» dall’art. 5.2 della Direttiva n. 89/104/C.E.E. e dal corrispondente art. 20, comma 1°, lett. c C.P.I.: la stessa Corte di Giustizia C.E. ha affermato (nella sua sentenza del 23 febbraio 2006, resa nel procedimento C-59/05) che «non si può ritenere che chi fa pubblicità tragga indebitamente vantaggio dalla notorietà collegata a segni distintivi del suo concorrente qualora un riferimento a tali segni sia il presupposto per un’effettiva concorrenza nel mercato di cui trattasi», così offrendo un esempio concreto di come questi temi possano diventare la chiave di volta per il contemperamento dei diversi interessi in gioco in questa materia.

In una prospettiva analoga un rilievo significativo, e che forse non si è ancora rivelato appieno in tutte le sue potenzialità, nel delineare un nuovo equilibrio di interessi tra titolare del marchio, concorrenti e consumatori, rivestono il divieto d’inganno del pubblico e le relative sanzioni, che riguardano tutte le informazioni e gli altri elementi di tale messaggio percepiti dal pubblico come collegati a un marchio, e dunque vanno presi in attenta considerazione anche in relazione alle licenze e agli altri contratti relativi ai marchi, a cominciare da quelli che costituiscono su di essi diritti reali di garanzia e che a loro volta assumono un’importanza sempre crescente nella vita economica.

Ancora un terzo tema foriero di sviluppi importanti riguarda il rapporto tra creazione e comunicazione in relazione alle forme, dove: i prodotti che divengono, come spesso si dice, icone, assumono infatti una valenza di strumento di comunicazione che soverchia i valori intrinseci di esse, consentendone la protezione come segni distintivi, o comunque anche come segni distintivi; e nel processo di riconoscimento di questo valore i confini tra cultura e moda, marketing e comunicazione si fanno sempre più labili, essendo però chiaro che ciò che assume valore dirimente è, sempre e comunque, l’attitudine che i consumatori finali vengono ad assumere nei confronti di tali prodotti, e quindi ancora una volta la percezione del pubblico di riferimento.

Dunque è a un diritto industriale in evoluzione che ci troviamo di fronte: forse a un diritto al bivio, tra una proprietà industriale delle astrazioni ed una della realtà: con i limiti, talvolta le incoerenze, ma anche la vitalità di ciò che è concreto. E se il nostro sistema saprà raccogliere le sfide che la globalizzazione dell’economia gli sta lanciando, forse un po’ di merito sarà anche di questa visione, moderna, ma soprattutto umana, dei diritti IP.

Internazionalizzazione e globalizzazione dei diritti IP

Oggi più che mai si può dire che il diritto industriale è il cuore stesso dello sviluppo del mondo e che i suoi cambiamenti, sempre più intensi e sempre più rapidi, ne indicano, e spesso ne precedono, le linee di tendenza. Probabilmente il punto di svolta di questa evoluzione è rappresentato dal TRIPs Agreement (Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights), adottato a Marrakech nel 1994 contestualmente all’istituzione del World Trade Organisation, e con il quale il blocco dei Paesi economicamente più progrediti, con in testa gli Stati Uniti, ha subordinato la liberalizzazione del commercio con i Paesi meno sviluppati proprio al rispetto da parte loro di certi standard di protezione dei diritti di proprietà intellettuale, diritti i più importanti dei quali fanno capo appunto a soggetti appartenenti al primo blocco di Paesi: e non a caso le polemiche contro il sistema del WTO e la globalizzazione dell’economia sono state molto spesso dirette verso marchi e brevetti, all’insegna del binomio «No Global» e «No Logo», ma anche «No Patent», come testimoniato dalle ricorrenti campagne di disinformazione contro i brevetti biotecnologici e quelli farmaceutici in genere, e più di recente contro la protezione delle computer implemented inventions, che ha portato alla bocciatura da parete del Parlamento Europeo di una Direttiva volta ad armonizzarne la protezione in ambito comunitario.

La miglior riprova dell’infondatezza di queste critiche radicali, che vedevano nel sistema dei marchi e dei brevetti come uno strumento per perpetuare le disuguaglianze tra Nord e Sud del mondo, a tutto svantaggio di quest’ultimo, viene del resto dal fatto che sono oggi i Paesi più sviluppati a sforzarsi di contenere l’esplosione economica di Cina e India, ma anche di molti altri Paesi dell’Asia e del Sud America (la cui crescita continua, nonostante la crisi mondiale in atto, anche perché è sostenuta dalla crescita della domanda interna di beni di consumo in quei Paesi), e addirittura a cercare di opporsi ingiustificatamente ad un fenomeno come quello del decentramento e dell’integrazione produttiva a livello internazionale, che riveste un’evidente valenza pro-concorrenziale, riducendo i costi e favorendo in ultima analisi proprio i consumatori. Questo è il caso, in particolare, di quanto sta cercando di fare il nostro Paese, con le norme sull’uso dei marchi italiani per prodotti realizzati all’estero contenute nella legge n. 99/2009 e poi nel d.l. n. 135/2009, e più ancora con la nuova disciplina del Made in Italy prevista dal disegno di legge Reguzzoni attualmente in discussione in Parlamento, che introducono assurde disparità di trattamento tra i prodotti fatti realizzare all’estero da imprese italiane e da imprese straniere, anche comunitarie, costituzionalmente illegittima e in aperto contrasto con il diritto comunitario.

Diritti IP e realtà di mercato: il nuovo rapporto tra esclusiva, concorrenza e contratti

A fianco di queste tendenze neo-protezioniste, si deve però registrare la positiva evoluzione dei diritti della proprietà intellettuale verso un approccio concreto alla protezione di essi, fondato sulla considerazione di ciò che le realtà che ne formano oggetto realmente rappresentano sul mercato e, prima ancora, nelle dinamiche dell’attività economica e quindi della comunicazione d’impresa e della ricerca. Questo approccio realistico, o, se si preferisce, fenomenologico, trova una precisa base normativa nelle convenzioni internazionali vigenti nella nostra materia e nello stesso diritto comunitario, che delinea un equilibrio tra esclusive, concorrenza e contratti nel quale la protezione può essere riconosciuta solo a ciò che davvero questa protezione richiede, nella consapevolezza del fatto che le norme sono chiamate a disciplinare realtà concrete e che la giustificazione di esse è strettamente connessa con l’esperienza umana di queste realtà, secondo una prospettiva, che potremmo definire giusnaturalistica, di adeguamento del diritto alle relazioni interpersonali della vita reale.

In questa prospettiva ci si può anzi domandare se una linea di possibile evoluzione dei diritti della proprietà intellettuale non passi attraverso un ripensamento della stessa nozione di esclusiva, e quindi del modello dei diritti IP come diritti illimitatamente opponibili nei confronti dei terzi, secondo il modello proprietario, per dare invece più spazio a relazioni contrattuali, strategie di marketing e strumenti tecnici, che consentano di limitare, se non di escludere, l’attività di free riding, come quelli che passava in rassegna, già più di tre lustri fa, Palmer nell’ampio saggio qui pubblicato. In effetti, nei settori nei quali i «costi di transazione» per l’enforcement dei diritti di proprietà intellettuale sono particolarmente elevati, come per il software e le opere audiovisive e multimediali, il ricorso a mezzi tecnici di protezione è già oggi largamente diffuso; e c’è da pensare che riorientando in questa direzione gli sforzi delle imprese (come accadrebbe se prendesse piede una tendenza contraria all’attribuzione di diritti esclusivi nell’ambito della proprietà intellettuale), questa strada risulterebbe più largamente praticabile anche in altri settori.

Certamente queste linee di tendenza possono oggi apparire labili e tali da evocare tutt’al più riflessioni filosofiche, piuttosto che concrete risposte ai problemi più attuali. Tuttavia già adesso l’approccio concreto al quale si è fatto riferimento ha significative ed immediate ricadute pratiche, nell’interpretazione dei brevetti e dei marchi e nel delinearne i requisiti di proteggibilità, così come l’ambito di protezione ed i suoi limiti. In particolare, esso contiene un forte richiamo a commisurare la protezione attribuita dalla legge alla portata effettiva che i diritti di proprietà industriale hanno nella realtà, abbandonando tutte le costruzioni di tipo «finzionistico», intese a delimitarne in astratto l’ambito di protezione: proprio perché questi diritti comportano una limitazione rispetto alla generale regola della concorrenza, è essenziale che i sacrifici che le esclusive da essi attribuite impongono alla libertà degli operatori economici siano strettamente correlati alla funzione che i diritti che ne formano oggetto svolgono concretamente sul mercato. In questa chiave può anzi venire a risolversi, almeno in parte, anche la tensione tra concorrenza ed esclusiva (e quindi monopolio) che sta al fondo della riflessione sulla proprietà industriale e più in generale sulla proprietà intellettuale.

Dal diritto dei segni distintivi al diritto della comunicazione d’impresa

Ciò è particolarmente evidente in materia di marchi, dove si è giunti al riconoscimento legislativo del ruolo svolto dal marchio come strumento di comunicazione e quindi alla protezione del marchio contro ogni sfruttamento parassitario, sia che questo si verifichi nella forma del pericolo di confusione, sia che avvenga in quella dell’agganciamento, e cioè contro tutte le utilizzazioni di segni eguali o simili che comportino l’appropriazione non autorizzata di quella sorta di “economia esterna” del marchio che è legata al “messaggio” in esso incorporato.

Qui l’esistenza di diritti di esclusiva è sempre stata connaturata a un sistema di economia di mercato: informando il pubblico della provenienza dei prodotti o servizi per cui è usato da una determinata impresa e quindi dell’esistenza di un’esclusiva di quest’impresa sull’uso di esso in un determinato settore, ossia attraverso la sua tradizionale «funzione di indicazione di provenienza», il marchio (e con esso tutti gli altri segni distintivi imprenditoriali, che su di esso sono sostanzialmente modellati) è il cardine di un sistema basato sulla concorrenza di prestazione tra prodotti e servizi, perché consente al pubblico di attribuire il merito (o il biasimo) circa le caratteristiche e la qualità di un determinato prodotto o servizio all’imprenditore dal quale esso proviene, anche se sconosciuto, contribuendo così in modo decisivo alla trasparenza e all’efficienza del sistema. Ciò tuttavia è anche più vero in relazione alla nuova protezione del marchio che è stata riconosciuta, anche nel nostro Paese, sulla base di una Direttiva comunitaria (la Direttiva n. 89/104/C.E.E.), che ha ricompreso nell’ambito di esclusiva del titolare del marchio tutti gli usi in commercio di un segno identico o simile al marchio quando questo marchio goda di rinomanza e l’uso del segno consenta senza giusto motivo di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca ad essi pregiudizio, anche se non si verifica un pericolo di confusione e quindi anche se il pubblico è consapevole che i prodotti o i servizi dell’imitatore provengono da una fonte imprenditoriale diversa dal titolare del marchio e non collegata ad essa.

Anche questa nuova protezione «allargata» dà infatti luogo ad un equilibrio di interessi di mercato che è certamente diverso da quello tradizionale basato sulla protezione della (sola) funzione di indicazione di provenienza, ma sembra a sua volta assolvere una funzione pro-concorrenziale, più adatta ad un mercato nel quale è profondamente mutata, rispetto a un passato anche recente, l’importanza relativa delle diverse forme di comunicazione commerciale.

Questo equilibrio si fonda infatti sul riconoscimento di ciò che il marchio e gli altri segni distintivi sono diventati nel “mondo della vita”, appunto come strumenti di comunicazione: riconoscimento che si concreta da un lato nel diritto attribuito al titolare di un marchio di vietare ai terzi ogni forma di agganciamento parassitario ai «messaggi» di cui ciascun singolo marchio è portatore, realizzata mediante l’uso di segni eguali o simili ad esso, e dall’altro lato nella previsione a carico del medesimo titolare di un’articolata posizione di responsabilità in ordine alla rispondenza al vero di tali «messaggi».

In un’epoca nella quale la principale fonte di informazioni sui prodotti – quando non l’unica – era costituita dalle precedenti esperienze di acquisto, si comprende infatti bene come il punto di equilibrio tra gli interessi, diversi e spesso contrapposti, di cui sono portatrici le imprese (ovvero i soggetti non imprenditori che siano titolari del marchio) e gli interessi dei consumatori potesse essere trovato nella previ¬sione di un collegamento stabile tra il marchio e l’azienda (o alternati-vamente l’impresa) da cui quei prodotti provenivano, che permettesse al consumatore di contare sul fatto che un prodotto acquistato oggi e recante un dato marchio provenisse dallo stesso nucleo aziendale ovvero dallo stesso imprenditore da cui proveniva quello acquistato ieri recante lo stesso marchio. Ma nel momento in cui la fonte principale di infor¬mazioni per i consumatori diventa la pubblicità, ogni prospettiva di «lungo periodo», fondata sulla ripetizione degli acquisti nel tempo, viene svalutata, perché le aspettative del pubblico si fondano princi¬palmente su quanto viene via via comunicato direttamente dall’im¬prenditore appunto mediante la pubblicità, e solo secondariamente – e cioè in quanto non sia contraddetta da queste comunicazioni – sull’esperienza diretta del consumatore connessa all’uso anteriore che del segno sia stato fatto, cosicché al pubblico quel che veramente impor¬ta è sapere di poter contare in qualsiasi momento sulla «promessa» diretta che in quel momento il titolare del segno gli fa attraverso il messaggio che viene collegato al suo marchio, pur sapendo che questa promessa potrà venire modificata o cancellata in prosieguo.

Si noti che questo discorso è valido, da un punto di vista economico, anche per le componenti suggestive del messaggio collegato al marchio attraverso la pubblicità; rispetto a queste componenti si è suggerito (ad esempio da ECONOMIDES, The Economics of Trademark, in 78 TMR (1988), p. 523 s., spec. pp. 532-535) di parlare di «perception advertising», in quanto esse aggiungono al prodotto un valore rilevante nel giudizio del pubblico, costituito dalle «immagini mentali» di cui il marchio è stato caricato; e si è altresì messo in luce che queste immagini sono, in un certo senso, esse stesse un prodotto, poiché rispondono ad un bisogno dei consumatori, che sono disposti a pagare per averle, il che impone di riconsiderare anche la contrapposizione tra concorrenza di prestazione e concorrenza di immagine, giacché è proprio la protezione dei marchi che consente l’esistenza di un mercato nel quale gli operatori possono competere tra loro nel fornire questo tipo di «prodotto» (ivi, p. 533, dove osserva che proprio «The existence of a trademark makes advertising of perceived images possible. Instead of limiting competition, trademarks allow firms to compete in one more dimension»; e pone in luce come questa competizione abbia sul mercato in generale effetti benefici prevalenti rispetto a quelli distorsivi).

Per i consumatori, infatti, acquistare prodotti che recano un marchio il quale comunica, oltre al messaggio sulla provenienza, anche queste componenti suggestive, rappresenta una forma di «investment in reputation capital» (per usare l’efficace espressione di LANDES e POSNER, Trademark Law: an Economic Perspective, in 30 Journ. of Law and Econ. (1987), p. 265 s., poi ripubblicato con modifiche come The Economics of Trademark Law, in 78 TMR (1988), p. 267 s., spec. pp. 304-306), perché usando (e sfoggiando) questi prodotti essi comunicano all’esterno una certa immagine di se stessi coerente con le specifiche suggestioni collegate a questi marchi. Ed in questa chiave si può dunque comprendere come si sia potuto egualmente parlare di consumer trade mark – cioè di un marchio che si inquadra in «a comprehensive system in which one is safely adding value to the medium of communication, but at the same time demanding that the message had better be correct» (così KAMPERMANN SANDERS e MANIATIS, A Consumer Trade Mark: Protection Based on Origin and Quality, in EIPR, 1993, 406 e ss., spec. pp. 411 e 415; e più ampiamente GALLI, Protezione del marchio e interessi del mercato, in AA. VV., Studi Vanzetti, Milano, 2005, p. 661 e ss.) – per definire sinteticamente il nuovo equilibrio d’interessi che la protezione del marchio attualmente riconosciuta dal nostro come dai principali ordinamenti viene a configurare.

I segni distintivi nel mondo della vita

Le considerazioni che precedono aprono la strada ad una riflessione critica sugli istituti in cui si sostanzia il diritto industriale, diretta a verificare se essi possano dirsi giustificati in una prospettiva (che potremmo definire di diritto naturale) di adeguamento del diritto alle relazioni interpersonali della vita reale.

Un’analisi che si limitasse a prendere atto delle norme poste dal legislatore, riducendo la valutazione giuridica alla descrizione e all’interpretazione di esse nella loro positività, sarebbe infatti pericolosamente limitata. E’ invece indispensabile non perdere di vista il fatto fondamentale che le norme sono dettate per disciplinare realtà concrete e che la giustificazione di esse è strettamente connessa con l’esperienza umana di queste realtà: solo alla luce di questa esperienza è dunque possibile esprimere dei giudizi di valore sui diritti e sui doveri che da queste norme scaturiscono, ricevendo altresì indicazioni necessarie per fornirne un’interpretazione il più possibile adeguata alle reali esigenze ad esse sottostanti. D’altra parte risolvere il problema della legittimità nella semplice legalità, ossia nella conformità al diritto positivo, pur sotto la parvenza di una maggiore «oggettività», comporta un drammatico impoverimento della riflessione giuridica, che viene ridotta a pura tecnica, perdendo contatto con la realtà concreta ad essa sottostante, e dunque «banalizzata» e privata della sua base più autentica, che risiede necessariamente nel mondo della vita (e su questi temi rimando da una parte ai fondamentali studi di CAPOGRASSI, Analisi dell’esperienza comune (1930), Milano, 1975, spec. pp. 39-46 e ID., Il problema della scienza del diritto (1937), Milano, 1962, spec. p. 140; e di COTTA, Il diritto nell’esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica, Milano, 1991, spec. pp. 244-246; e dall’altro alla critica di ogni nozione di oggettivismo sganciata dai suoi fondamenti sensibili che domina il pensiero di Edmund Husserl, di cui si veda in particolare HUSSERL, La crisi delle sceienze europee e la fenomenologia trascendentale. Un’introduzione alla filosofia fenomenologica, Milano, 1961, ed altresì, nella stessa prospettiva, BÊLOHRADSKÝ, Il mondo della vita: un problema politico, Milano, 1981, spec. p. 7; ARENDT, La banalità del male, Milano, 1964 e ID., Tra passato e futuro, Firenze, 1970, spec. p. 95 s.; e PATOČKA, Il mondo naturale e la fenomenologia a cura di A. PANTANO, Milano, 2003).

Se dunque applichiamo queste nozioni alla proprietà industriale, ci accorgiamo anzitutto che esse contengono un forte richiamo a commisurare la protezione attribuita dalla legge alla portata effettiva che questi diritti hanno nella realtà, abbandonando tutte le costruzioni di tipo «finzionistico», intese a delimitarne in astratto l’ambito di protezione: proprio perché questi diritti comportano una limitazione rispetto alla generale regola della concorrenza, è essenziale che i sacrifici che queste esclusive impongono alla libertà degli operatori economici siano strettamente correlate alla funzione che i diritti che ne formano oggetto appunto sul mercato svolgono concretamente. In questa chiave può anzi venire a risolversi, almeno in parte, anche la tensione tra concorrenza ed esclusiva (e quindi monopolio) che abbiamo visto essere al fondo della riflessione sulla proprietà industriale e più in generale sulla proprietà intellettuale. Ciò è particolarmente evidente in materia di diritti sui segni distintivi ed in tal senso si è in effetti venuta orientando la giurisprudenza comunitaria, che fa da guida a quelle nazionali, in quanto, come pure già si è accennato, il diritto dei marchi è stato armonizzatome elemento decisivo, sia per stabilire se il marchio è tutelabile – il che presupppone che esso consista in una realtà che i consumatori percepiscano appunto come “segno”, ovvero come portatrice di un significato, e che questo significato sia specifico, e quindi indicatore (anche) l’esistenza di un’esclusiva sull’uso di e a livello comunitario (in argomento rinvio ai miei saggi I marchi nella prospettiva del diritto comunitario: dal diritto dei segni distintivi al diritto della comunicazione d’impresa, in AIDA, 2007 e La proprietà industriale tra diritto internazionale e diritti naturali, di prossima pubblicazione.

Tutto questo ha portato a valorizzare sempre di più la percezione del pubblico co sso in un determinato settore in apo ad un soggetto che assume la responsabilità per le caratteristiche dei prodotti o dei servizi da esso contrassegnati – sia per delimitarne l’ambito di tutela.

Anche se tale evoluzione è principalmente frutto dell’opera dei Giudici comunitari, la nostra giurisprudenza nazionale può considerarsi all’avanguardia in questo campo. Tra i leading cases in materia si segnalano Trib. Milano, 28 ottobre 2005 e Trib. Milano, 16 gennaio 2009, che hanno tutelato il marchio Bulgari contro l’uso nell’attività economica del nome Bulgari come pseudonimo di un’attrice pornografica; Trib. Milano, 27 agosto 2007, che ha tutelato un noto marchio di beachwear (Pin-Up Star) contro l’uso di un segno simile (Upstar) per abbigliamento casual, ritenendo che determinasse un agganciamento al primo marchio; e Trib. Milano, 5 agosto 2008 e 11 ottobre 2009, che ha protetto il colore rosso come marchio non registrato di Ferrari contro l’uso di esso per prodotti legati alle gare di Formula 1 (nel primo caso auto giocattolo, ma nel secondo anche prodotti di abbigliamento e di merchandising in genere, contenenti elementi di richiamo alla Formula 1).

I segni distintivi nella revisione del Codice della Proprietà Industriale: la tutela contro il parassitismo come nuovo asse portante del diritto IP

Anche la recente revisione del Codice della Proprietà Industriale, operata dal d.lg. n. 131/2010, le novità apportate dal Codice al diritto dei segni distintivi si caratterizzano per una forte attenzione a ciò che questi segni rappresentano nella realtà di mercato, come elementi cardine della comunicazione d’impresa, e più in generale nel “mondo della vita”. Nel loro complesso le modifiche inserite nel Codice in questo campo appaiono infatti dirette a rendere più compiuta e coerente la protezione dei marchi, degli altri segni distintivi e delle denominazioni di origine contro i comportamenti diretti a sfruttare indebitamente i valori di avviamento commerciale incorporati in questi segni, nella prospettiva generale – che con questa riforma è divenuta uno degli assi portanti del Codice – di attribuire alle imprese la possibilità di valorizzare tutte le esternalità positive derivanti dall’uso dei loro diritti di proprietà industriale, vietando ogni forma di free-riding e di sfruttamento parassitario dei loro investimenti.

Significativa è già la scelta del Codice di fare riferimento ai «nomi a dominio di siti usati nell’attività economica» come oggetto di possibile interferenza con altrui diritti di marchio, ditta o insegna (ma anche di possibile protezione), sostituendo l’ambigua definizione precedente di «nomi a dominio aziendali» con un’espressione che riprende quella usata all’art. 20 c.p.i. per definire l’ambito di protezione dei marchi e rende quindi evidente che la protezione riguarda tutti i casi in cui un segno sia utilizzato per finalità economiche, anche al di fuori di un’attività d’impresa.

Ancora più importanti, sempre in questa chiave, sono la modifica dell’art. 8 del Codice, nel quale, oltre alla registrazione, viene proibito anche l’uso non autorizzato dei segni notori in campo extracommerciale, appunto per impedire l’agganciamento parassitario ad essi da parte di terzi; e l’aggiunta di ogni «altro segno distintivo» all’elencazione di segni che possono interferire con il marchio (e con cui il marchio può interferire) contenuta nell’art. 22 c.p.i. rubricato «Unitarietà dei segni distintivi».

Nella stessa prospettiva si collocano anche la riformulazione della norma che delinea l’ambito di protezione delle indicazioni geografiche (art. 30), ma anche la modifica della disposizione che consente l’uso nel commercio dei nomi geografici, ancorché registrati come marchio collettivo, ora subordinato alla sola condizione che quest’uso sia conforme alla correttezza professionale, con la cancellazione della limitazione della liceità di quest’uso al caso in cui il nome sia usato «in funzione di indicazione di provenienza» geografica (art. 11). L’art. 30, in particolare, riprende ora pressoché alla lettera il dettato dell’art. 13.1, lett. a del Reg. n. 2006/510/CE in materia di DOP e IGP, che impone agli Stati membri di proteggere queste denominazioni anche contro ogni uso non autorizzato di esse che «consenta di sfruttare indebitamente la reputazione della denominazione protetta», e cioè appunto contro lo sfruttamento parassitario; l’art. 11, per converso, stabilisce la liceità dell’uso dei nomi geografici che non determini né confusione, né agganciamento, applicando anche ai marchi collettivi la regola prevista dall’art. 21 c.p.i. per i marchi individuali.

In tutti i casi il parassitismo segna così la misura ed il limite della protezione, prendendo anche atto del progressivo avvicinamento tra la disciplina delle denominazioni di origine e quella dei marchi, intervenuto non solo sul versante della tutela, ma anche su quello – strettamente correlato al primo sul piano del bilanciamento di interessi – del rilievo primario attribuito alla non ingannevolezza del segno (che è da sempre fondamentale per le denominazioni di origine e che è ora divenuto anche la chiave di volta del nuovo diritto dei marchi), creando una sorta di diritto comune dei segni commerciali: che non significa ovviamente uniformità di disciplina per segni di tipo diverso, ma certamente esistenza di un denominatore comune tra essi.

Ed anche qui è appena il caso di rilevare come appaia infondata la preoccupazione di chi paventa che prevedere questa regola anche a favore dei segni notori, così come delle denominazioni geografiche «qualificate», ma non registrate, possa creare problemi di certezza del diritto, giacché lo sfruttamento della rinomanza presuppone appunto la rinomanza e quindi una situazione di notorietà generale: sostanzialmente la stessa situazione che giustifica per i marchi la protezione anche al di là dei limiti della registrazione, e che è a sua volta una situazione di fatto, derivante dall’uso, alla quale vengono ricollegati effetti giuridici; anche questo è stato chiarito proprio dalla giurisprudenza comunitaria, che ha anzi rifiutato di ricorrere a criteri «meccanici» (come una determinata percentuale di conoscenza del segno presso il pubblico interessato) per la determinazione del presupposto della rinomanza.

I problemi aperti e le prospettive di evoluzione: gli usi «non indebiti» del marchio altrui, il divieto d’inganno, il rapporto tra creazione e comunicazione

Vi sono tuttavia almeno due temi sui quali si possono ancora aspettare significativi sviluppi in avvenire: il primo è rappresentato dal limite alla protezione dei marchi che si desume dall’aggettivo «indebito» che qualifica il vantaggio dell’imitatore e dalla nozione di «giusto motivo» egualmente contemplata come scriminante «interna» dall’art. 5.2 della Direttiva n. 89/104/C.E.E. e dal corrispondente art. 20, comma 1°, lett. c C.P.I.: la stessa Corte di Giustizia C.E. ha affermato (nella sua sentenza del 23 febbraio 2006, resa nel procedimento C-59/05) che «non si può ritenere che chi fa pubblicità tragga indebitamente vantaggio dalla notorietà collegata a segni distintivi del suo concorrente qualora un riferimento a tali segni sia il presupposto per un’effettiva concorrenza nel mercato di cui trattasi», così offrendo un esempio concreto di come questi temi possano diventare la chiave di volta per il contemperamento dei diversi interessi in gioco in questa materia.

In una prospettiva analoga un rilievo significativo, e che forse non si è ancora rivelato appieno in tutte le sue potenzialità, nel delineare un nuovo equilibrio di interessi tra titolare del marchio, concorrenti e consumatori, rivestono il divieto d’inganno del pubblico e le relative sanzioni, che riguardano tutte le informazioni e gli altri elementi di tale messaggio percepiti dal pubblico come collegati a un marchio, e dunque vanno presi in attenta considerazione anche in relazione alle licenze e agli altri contratti relativi ai marchi, a cominciare da quelli che costituiscono su di essi diritti reali di garanzia e che a loro volta assumono un’importanza sempre crescente nella vita economica.

Ancora un terzo tema foriero di sviluppi importanti riguarda il rapporto tra creazione e comunicazione in relazione alle forme, dove: i prodotti che divengono, come spesso si dice, icone, assumono infatti una valenza di strumento di comunicazione che soverchia i valori intrinseci di esse, consentendone la protezione come segni distintivi, o comunque anche come segni distintivi; e nel processo di riconoscimento di questo valore i confini tra cultura e moda, marketing e comunicazione si fanno sempre più labili, essendo però chiaro che ciò che assume valore dirimente è, sempre e comunque, l’attitudine che i consumatori finali vengono ad assumere nei confronti di tali prodotti, e quindi ancora una volta la percezione del pubblico di riferimento.

Dunque è a un diritto industriale in evoluzione che ci troviamo di fronte: forse a un diritto al bivio, tra una proprietà industriale delle astrazioni ed una della realtà: con i limiti, talvolta le incoerenze, ma anche la vitalità di ciò che è concreto. E se il nostro sistema saprà raccogliere le sfide che la globalizzazione dell’economia gli sta lanciando, forse un po’ di merito sarà anche di questa visione, moderna, ma soprattutto umana, dei diritti IP.