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La concorrenza sleale: le nuove tendenze della giurisprudenza e i problemi del look-alike

Relazione tenuta al convegno "Il futuro della proprietà intellettuale", Università di Parma, 22 ottobre 2010
Sommario

PARTE I

CONCORRENZA SLEALE E CODICE DELLA PROPRIETA’ INDUSTRIALE

§ 1 premessa

§ 2 a) CPI e concorrenza sleale: incidenza diretta

§ 2 b) Incidenza indiretta del CPI sulla concorrenza sleale: l’enucleazione di “nuovi” diritti di PI non titolati

§ 3 a) La libertà di concorrenza e i diritti di PI: dalla contrapposizione alla omogeneità

§ 3 b) Riferimenti normativi internazionali e comunitari

§ 4) L’impostazione “programmatica” del CPI

§ 5) La omogeneizzazione codicistica di concorrenza sleale e diritti di PI

§ 6) La centralità del processo industrialistico

§ 7) Sviluppi successivi: la novella del 2010

§ 8 a) Concorrenza sleale e libertà di concorrenza: linee evolutive della giurisprudenza di merito….

§ 8 b ) …e di legittimità: il caso delle vendite sottocosto

PARTE II

LA TUTELA DELLA FORMA TRA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA SLEALE E DELLE PRIVATIVE INDUSTRIALISTICHE

§ 10) Le plurime fonti di tutela della forma del prodotto

§ 11 a) Imitazione servile: i caratteri nella giurisprudenza più recente

§ 11 b) continua: la confondibilità

§ 12) Concorrenza sleale e marchi: interferenza e concorso di tutele

§ 13 a ) L’ambiguità della giurisprudenza in tema di c.s. : due vicende emblematiche.

Il caso Lego

§ 13 b) continua: il caso Ferrari

§ 13 a) Modelli , diritto d’autore, concorrenza sleale e sovraccarico di tutela: un caso veneziano

§ 13 b) segue: una ulteriore ricognizione giurisprudenziale

PARTE III

LOOK ALIKE: UNA NUOVA RICOGNIZIONE

§ 14 a) il l.a. come fenomeno economico

§ 14 b) I l.a. nel sistema giuridico angloamericano

§ 15 ) Il ruolo delle confezioni e degli involucri

§ 16) Il l.a. in Italia come fenomeno anticoncorrenziale

§ 17 ) L’applicazione della disciplina della concorrenza sleale

§ 18 a ) Il giudizio di confusione con riferimento ai l.a.

§ 18 b) Continua: il giudizio di confusione tra contesto d’uso e standardizzazione

§ 19) I l.a. con indicazione del marchio

§ 20) l.a. ed imitazioni non confusorie

§ 21 a) Casistica giurisprudenziale: il caso Gran Turchese

§ 21 b) ulteriori provvedimenti sui l.a.

PARTE I

CONCORRENZA SLEALE E CODICE DELLA PROPRIETA’ INDUSTRIALE

§ 1 premessa

Questo lavoro si propone l’obiettivo di fare il punto (essenzialmente) sulla giurisprudenza degli ultimi anni, successiva al Codice della proprietà industriale (d’ora in avanti: CPI) in tema di concorrenza sleale (d’ora in avanti: c.s.), con particolare riguardo alla tutela della forma e del confezionamento dei prodotti: da qui anche il richiamo, fin dal titolo, al fenomeno del look alike (d’ora in avanti: l.a.).

§ 2 a) CPI e concorrenza sleale: incidenza diretta

Il Codice della proprietà industriale- il testo originario come le novellazioni successive, compresa l’ultima e fondamentale, di cui al D.lgs 1312010- non si occupa della c.s.

L’art. 2598 c.c. è rimasto formalmente immutato, nell’originario testo del 1942.

Nondimeno il Codice ha inciso profondamente sulle molteplici disposizioni di tale cruciale disposizione, direttamente ed indirettamente, venendone a sua volta condizionato, nei termini che si dirà: la c.s. , in definitiva, ha costituito, per il legislatore del 2005 (ma anche del 2010) una sorta di ineludibile convitato di pietra.

Direttamente riferito alla c.s. è l’art. 134 Cod., che riconduce alla competenza delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale pressoché tutte le fattispecie di concorrenza sleale, con la sola esclusione di quelle – marginalissime e di difficile configurazione “che non interferiscono neppure indirettamente con l’esercizio dei diritti di proprietà industriale”- [1] (così ampliando la previsione dell’art. 3 D.lgs 1682003, istitutivo delle sezioni specializzate medesime).

Quanto al diritto sostanziale, un riferimento sicuro, pur se ellittico, alla c.s. è contenuto nell’art. 21.1 Cod. che (riprendendo l’art. 1 bis. l. marchi) consente il c.d. “uso atipico” del marchio altrui, purchè conforme alla correttezza professionale; la previsione è stata anzi riscritta e generalizzata ad ogni ipotesi di uso atipico (e non più solo con riferimento alla destinazione del prodotto o servizio) dalla novella del 2010.[2]

§ 2 b) Incidenza indiretta del CPI sulla concorrenza sleale: l’enucleazione di “nuovi” diritti di PI non titolati

L’intervento del CPI sulla disciplina della c.s. è stato però soprattutto indiretto: si è realizzato, in primo luogo, con la stessa fondamentalissima enucleazione della categoria dei diritti di proprietà industriale non titolati, la cui disciplina fino ad allora era ampiamente ricondotta proprio alla concorrenza sleale (e tuttora, si noti, le relative fattispecie costitutive- escluso il marchio di fatto- non trovano la propria fonte nel CPI).

Il riferimento è essenzialmente al marchio di fatto, ma anche ai segni geografici (ndicazioni geografiche, denominazioni di origine), di cui agli artt. 29-30 Cod. e alle informazioni segrete, di cui agli artt. 98- 99 Cod,.

La dottrina ha segnalato che le nuove norme non si sono integralmente sostituite alla disciplina della concorrenza slele, che infatti è espressamente tenuta “ferma” per i segni geografici dall’art. 30 e per le informazioni riservate dall’art. 99 cit., norme peraltro entrambe parzialmente novellate nel 2010.[3]

La stessa dottrina ha ancora osservato che la “valorizzazione” codicistica dei segni distintivi diversi dal marchio registrato ha comportato, sul piano dell’oggetto della tutela, l’nvasione “codicistica” dell’ambito di competenza dell’art. 2598 c.c. n. 1

“infatti …le ipotesi confusorie previste da questa norma non possono verificarsi senza la presenza di segni distintivi, e perciò senza l’adozione da parte del concorrente di segni uguali o simili, cioè idonei a produrre confusione con i primi. E precisamente in ciò sta anche la tutela dei medesimi segni prevista dal CPI . Se a ciò si aggiunge che al riguardo non è prevista alcuna esplicita “salvezza” delle norme sulla concorrenza, ci si potrebbe chiedere s l’art. 2598 n,. 1 abbia ancora un senso, o se non debba essere considerato implicitamente abrogato dal codice stesso”.[4]

Una parziale tacita abrogazione dell’art. 2598 c.c. ad opera del Codice, quindi, non può affatto escludersi (ma certo, resta vigente l’art. 10 bis CUP), non rilevando, evidentemente che – al solo fine delle abrogazioni espresse – la norma sulla c.s. non è richiamata dall’art. 246 Cod. (che, infatti, neanche richiama l’art. 3 del D.lgs 1682003 in tema di competenza delle sezioni p.i.i., invece sicuramente abrogato tacitamente, almeno in parte, dall’art. 134 Cod.).

La “restrizione” della c.s. non va però riferita al solo CPI

Né può trascurarsi che comportamenti già soggetti alla disciplina della concorrenza sleale sono stati attratti, con poca coerenza sistematica, dalla ancora recente normativa in tema di pratiche commerciali scorrette, D.lgs 2 agosto 2007, n. 145 e 146.

In particolare il primo decreto ha novellato la materia della pubblicità ingannevole e comparativa, già disciplinata dal Cod. Consumo, (e in precedenza dal D.lgs 741992, che recepiva a sua volta la direttiva 84450), che evidentemente ricomprende fattispecie riconducibili alla c.s.

In materia di tutela giurisdizionale resta comunque salva, anche con la nuova normativa, la giurisdizione del giudice ordinario in materia di atti di concorrenza sleale (nonché della normativa in materia di diritto d’autore e privative, per quanto concerne la pubblicita’ comparativa).

Di grande interesse, in relazione all’oggetto di questo lavoro, sono poi gli artt. 21 e 23 Cod. consumo, novellati dal D.lgs 1462007, che hanno introdotto fattispecie di pratiche commerciali ingannatorie interferenti, in termini ambigui, con la c.s. confusoria.[5]

§ 3 a) La libertà di concorrenza e i diritti di PI: dalla contrapposizione alla omogeneità

Siffatta restrizione delle fattispecie riconducibili alla c.s. si è però accompagnata ad un fenomeno speculare, avvertito con intensità via via maggiore (e non solo dagli autori giuridici): l’estensione dei valori sottesi al principio di libertà di concorrenza (questi sì non estranei all’art. 2598 cit., almeno in linea di principio) ai diritti di proprietà industriale.[6]

La libertà di concorrenza è sempre più e meglio vista anzi come la vera “ stella polare” del sistema industrialistico nel suo complesso: ciò nel senso che l’ordinamento tutela in primo luogo – ed in ogni ambito giuridico- la fisionomia concorrenziale del mercato.

Se così è, allora, le privative di diritto industrale possono trovare accoglienza e tutela se e fino a quando risultino coerenti con il principio guida della libera concorenza; in altri termini le discipline che le riguardano vanno lette in chiave proconcorrenziale.[7]

Lo stesso richiamo alla proprietà, anzi alla disciplina dei diritti reali, che ancora il CPI ha conservato fin dall’intitolazione (ma cfr art. 6, in tema di comunione), è vista con notevole “imbarazzo”, e ci si è affrettati a precisare (dopo la codificazione) che si tratta di proprietà sui generis, con il significato di “esclusiva” ovvero di “diritto asoluto”, un microsistema a sé, che ha ben pochi contatti con la proprietà di diritto civile:

“la formula “proprietà industriale” può essere intesa nel senso di prendere sul serio”, da far valere all’interno del nostro sistema giuridico, con tutta l’attenzione che merita in settori sensibili”.[8]

Il rifiuto della contigurazone proprietaria è stato ripreso di recente, a fronte del “rischio” di estensione ai procedimenti indistrialistici della nuova disciplina sulla mediazione obbligatoria, cfr infra.

Si noti che anche altri in ordinamenti , quale quello francese (ove pure i riferimenti alla proprietà sono frequenti più che nel CPI: il Code de la propriété intellectuelle prevede la proprietà del brevetto) si fa riferimento ad una proprietà solo “simbolica” o anche ai diritti di PI come “diritti di clientela” (nel senso che i diritti di PI pongono il titolare in una posizione preferenziale nelle relazioni con i clienti, che ne ricavano così benefici nella concorrenza economica).[9]

Da qui, evidente, l’affermazione della profonda omogeneità, pur se talora sotterranea, tra diritti di PI e la c.s.: la loro giustapposizione, pur tradizionale e “facilissima”, dato l’elemento di monopolio che caratterizza i primi, è profondamente errata: gli uni e l’altra, infatti, assolvano alla medesima funzione ultima, quella di rendere il mercato più concorrenziale.[10]

Siffatta impostazione trova sempre più spesso riscontro giurisprudenziale; si è così affermato che la repressione della c.s. costitusce una azione che ha senso solo se rapportata alla protezione della PI, di cui costituisce strumento essenziale di tutela, ponendosi – rispetto ad essa – su un piano non diverso. [11]

L’argomento è stato sviluppato, successivamente all’entrata in vigore del D.lgs 1682003, al fine di ricomprendere la c.s. nell’ambito di competenza delle sezioni specializate p.i.i. , nonostante le limitazioni di cui all’art. 3 D D.lgs cit. e – ora – dello stesso art. 134 Cod. (cfr nota 1).

§ 3 b) Riferimenti normativi internazionali e comunitari

In termini più strettamente normativi, la richiamata profonda omogeneità tra disciplina dei diritti di PI e concorrenza trova conferma e fondamento già nelle convenzioni internazionali e nel diritto comunitario.

Ivi, nella nozione di proprietà intellettuale (comprensiva, nella nozione universalmente accettata, delle “italiane” proprietà industriale ed intellettuale, quest’ultima riferita al solo diritto d’autore) rientra, anzi, l’intera disciplina della concorrenza sleale.

Così l’art. l’art. 1.2 CUP afferma che “la protezione della proprietà industriale ha per oggetto” anche “la repressione della concorrenza sleale”; d’altro canto, si è correttamente osservato che la nozione di concorrenza sleale rilevante ex art. 1.2 CUP si estende quantomeno a tutte le fattispecie ivi previste dall’art. 10bis della convenzione stessa.

Ancor più rilevante, ai fini che qui interessano, è l’accordo TRIPs., che costituisce la massima espressione di quell’interazione fra la liberazione del commercio mondiale e la protezione mondiale della propriertà determinato, o almeno favorito, dal fenomeno della “globalizzazione” delle economie mondiali[12]

In particolare l’art. 2.2 dei TRIPs stabilisce che

“nessuna disposizione delle parti da I a IV del presente accordo pregiudica gli eventuali obblighi reciproci incombenti ai membri in forza della convenzione di Parigi” e, dunque, la qualificazione come concorrenza sleale di tutte le fattispecie dichiarate tali dalla CUP.

Anche la direttiva 2004/48/CE del parlamento europeo e del consiglio del 29 aprile 2004, sul rispetto dei diritti di proprietà industriale, c.d. direttiva sull’enforcement, adotta una nozione larghissima di proprietà intellettuale (v. considerando 13), comprensiva, conformemente alle fonti vincolanti prima richiamate (l’UE aderisce ai TRIPs) anche della concorrenza sleale.

§ 4) L’impostazione “programmatica” del CPI

L’esigenza da un lato di di far emergere la profonda omogeneità tra privative di PI e c.s., dall’altro, e coerentemente, di respingere, come superata, ogni contrapposizione tra diritti di monopolio, posti dalle privative industrialistiche, e principio di libertà/lealtà di concorrenza, costituisce un vero e proprio caposaldo del CPI.

E’ ripudiata, in particolare, l’idea che nella tutela contro la concorrenza sleale abbiano rilevanza interessi diversi ed antagonistici rispetto a quello del titolare del diritto (compreso però l’interesse dei consumatori, cfr infra) e che tale rilevanza possa segnare una distinzione rispetto alla impostazione dominicale della proprietà industriale.

Nell’impostazione originaria del 2005 tanto discendeva dalla struttura stessa del Codice, che “ricostruisce in un quadro nuovo e moderno i nessi sistematici che collegano i molteplici diritti di proprietà industriale”, alla stregua sia di “una più rigorosa impostazione dogmatica dei rapporti intercorrenti fra proprietà industriale e concorrenza sleale, sia (delle) indicazioni che provengono dai TRIP’s” (così la Relazione).

Un autore- non estraneo alla redazione del Codice e di quella relazione - ancor più icasticamente, era giunto a configurare, certo problematicamente, la relazione tra proprietà industriale ed intellettuale e tutela della concorrenza in termini di “interfaccia”.

La concorrenzialità del mercato, quindi, non è un valore antagonistico rispetto alle restrizioni derivanti dai diritti esclusivi ma – in una ottica di complementarietà – costituisce

“un vero e proprio fattore interno di definizione non soltanto dello scopo ma anche delle limitazioni da assegnare alle proprietà intellettuali”. [13]

Sotto tale profilo anche il brevetto ha una funzione concorrenziale, come stimolo all’innovazione

Già in precedenza chi scrive aveva rilevato che[14]:

“Gli stessi istituti della proprietà intellettuale, ivi compresi i diritti di privativa, che in quanto tali soddisfano un interesse monopolistico del singolo, sono però anche un mezzo per perseguire uno scopo di interesse generale e di rango costituzionale, di stimolo dell’attività di ricerca: il riferimento è evidentemente all’art. 9 Cost.

Tuttavia la successiva attività di produzione e commercializzazione dei frutti della produzione si colloca in una cornice costituzionale ispirata al principio di libertà di concorrenza: qui il richiamo è al fondamentale art. 41 Cost.

Soprattutto l’interprete deve evitare ogni surrettizia l’attribuzione di funzioni di tutela esclusiva ad altre discipline che in ragione di funzioni diverse possono riferirsi ad oggetti tutelati o tutelabili con il diritto esclusivo, e quindi deve preferire una lettura delle norme in chiave pro concorrenziale, rispetto ad altre letture pur testualmente possibili. In caso contrario vi è il rischio che il diritto industriale, da strumento di innovazione e di sviluppo competitivo, si trasformi in barriera protezionistica in favore delle imprese dominanti”

§ 5) La omogeneizzazione codicistica di concorrenza sleale e diritti di PI

Stando così le cose, la differenza tra diritti di proprietà industriale e c.s. non è qualitativa, ma “quantitativa”, ed infatti è ricondotta, dalla Relazione cit., alla

“maggiore o minore "oggettività" della protezione” accordata.

Si spiega allora, alla stregua di siffatti parametri di riferimento, come il Codice abbia potuto agevolmente ritagliare – senza alcuno “strappo” – alcune fattispecie dall’ambito di quella norma “quadro” che è l’art. 2598 c.c., dando loro consistenza autonoma di diritti di proprietà industriale e ampliando il novero di questi ultimi, come sopra accennato.

In altri termini, sono stati individuati e “isolati” diritti che, protetti in precedenza con le norme contro la concorrenza sleale, possedevano però un’oggettività sufficiente per essere ricompresi nello schema di quelli di proprietà industriale, al punto che

“non vi è più ragione di distinguere la fonte della tutela e la sua stessa articolazione funzionale”.

La “pietra di paragone” era (ed è) appunto l’oggettività degli istituti, figura per la verità ben poco oggettiva e che può riconoscersi nella completezza della configurazione data agli istituti in questione dall’elaborazione giurisprudenziale.

Il riferimento, come pure già detto, è al marchio di fatto, ai segni geografici, alle informazioni riservate. [15]

I diritti di proprietà industriale costituiscono, quindi, una categoria aperta, suscettibile di evoluzione e di ampliamento, ma anche sostanzialmente omogenea rispetto agli istituti di concorrenza sleale.

§ 6) La centralità del processo industrialistico

Nel testo originario del Codice l’avvicinamento tra diritti di proprietà industriale, titolati o meno, e disciplina della concorrenza sleale trovava però riscontro essenzialmente nel processo industrialistico, attesa la generalizzata applicazione dei medesimi istituti, in primo luogo in tema di competenza delle sezioni specializzate.

Tale omogeneizzazione della tutela processuale è uscita evidentemente rafforzata dalla profonda novellazione delle norme processuali attuata dal D. lg 1402006 cit., c.d. sull’enforcement, e quindi dalla stessa novellazione del 2010.

La disciplina processuale, unitaria – tendenzialmente – per tutti i diritti di proprietà industriale – costituisce la maggiore smentita della tesi, sostenuta da autorevoli autori all’indomani dell’entrata in vigore del Codice, che questo si sarebbe limitato ad assemblare discipline normative comunque eterogenee.

Non vi è più dubbio alcuno, quindi, sulla piena applicazione degli istituti processuali codicistici ai segni distintivi diversi dal marchio registrato, quali la ditta, o anche il marchio di fatto. [16]

Tanto con ricadute anche di diritto sostanziale, evidentemente non considerate dal legislatore.[17]

La giurisprudenza, tuttavia, mostra ancora esitazioni nell’affermare l’applicazione alle fattispecie di c.s., almeno a quelle rimesse alla competenza delle sezioni p.i.i., degli istituti processuali codicistici.[18]

La questione è di grande rilievo perché, a fronte della specialità e della completezza degli istituti cautelari (specie cautelari e in ambito probatorio) a tutela delle privative, la repressione della c.s. si fonda, essenzialmente, sugli ordinari istituti processualcivilistici

Così ad esempio, mancando misure tipiche, la tutela cautelare inibitoria (e non solo) della c.s. era riconosciuta solo ai sensi dell’art. 700 c.p.c.; la differenza è sostanziale, anche perché il periculum in mora, per quest’ultimo, va accertato con rigore ben maggiore che per quello previsto per le misure cautelari tipiche di diritto industriale.[19]

Né la tutela della c.s. – a fronte della completezza di quella garantita dal CPI ai diritti di PI- è realmente “arricchita” dalla previsione dell’art. 2599 , che prevede l’adozione di “opportuni provvedimenti” per la rimozione degli effetti della condotta illecita.[20]

Chi scrive ha di contro reiteratamente affermato che alle fattispecie di concorrenza sleale di competenza delle sezioni specializzate si applicano integralmente le norme processuali del capo III del Codice, nonostante il frequente riferimento, in tali norme, ai diritti di proprietà industriale.

Tanto è imposto, in primo luogo, da esignze di coerenza sistematica (non si spiegherebbe altrimenti perché , una volta affermata la competenza del giudice specializzato, dovrebbe negarsi, per la sola c.s., oltretutto spesso connessa inestricabilmente a diritti di PI, dovrebbe negarsi l’applicazione degli istituti processuali che a quel giudice fanno capo).

“Vi è però una ulteriore dato da considerare, e di ben maggior rilievo: la profonda omogeneità, in primo luogo sostanziale, della concorrenza sleale con gli istituti disciplinati dal Codice….Da qui – allora – la piena applicazione anche alle fattispecie di concorrenza sleale non “oggettivizzate” , ma di competenza delle sezioni, delle disposizioni processuali del Codice.

Così l’art. 125 Cod., in materia di risarcimento del danno, finisce per sostituire, o comunque integrare, il ben meno analitico art. 2600 c.c.

Soprattutto, per quanto qui interessa, la repressione delle condotte di concorrenza sleale di competenza delle sezioni specializzate potrà essere chiesta e disposta non più ex art. 700 c.p.c. (ovvero – quanto ai sequestri – facendo applicazione delle norme su quello conservativo o giudiziario) ma – come per tutti gli altri diritti di P.I.– secondo le ben più complesse norme degli artt. 128 ss Cod. La innovazione è sostanziale: basta ricordare l’efficacia anche verso i terzi delle misure industrialistiche tipiche della descrizione e del sequestro”.[21]

Altri hanno invece sostenuto che proprio l’art. 134 citt. Distingue ancora tra azioni di c.s. e quelle a tutela delle privative, anche quando le prime sono di competenza delle sezioni specializzate, sicchè quando la scelta dell’attore ricada sulla tutela concorrenziale, gli istituti processuali invocabili saranno solo quelli propri di quest’ultima (pur se, di fatto, gli attori iricorrenti imposteranno le domande sotto il profilo della PI, così’ godendo della relativa tutela).[22]

§ 7) Sviluppi successivi: la novella del 2010

Il riconoscimento della profonda omogeneità tra diritto della concorrenza e diritti di proprietà industriale era destinato ad avere ulteriori ricadute, in prospettiva ben più rilevanti, la cui “evidenziazione” era rimessa, evidentemente, all’opera della giurisprudenza.

Si noti, oltretutto, che – nonostante la codificazione – non si è interrotta la tendenza del legislatore a favorire una tutela sempre più onnicomprensiva e bulimica dei diritti di PI (il riferimento è alle norme norme assurdamente neoprotezionistiche, in tema di made in Italy). [23]

L’”irruzione” dei valori di libertà concorrenziale nell’ambito dei diritti di proprietà industriale, contro ogni tentazione neoprotezionistica, se non francamente corporativistica, ha trovato però conferma e compimento nella novella del 2010, il D.lgs 1312010, che - come si è felicemente osservato – è passato da una impostazione talora ancora “proprietaria” a un approccio market-oriented

Ai diritti di proprietà industriale si è voluto riconoscere, in estrema sintesi, la massima tutela possibile, senza però che ciò si risolva nella protezione esasperata e corporativa di mere posizioni di privilegio, vere e proprie rendite di posizione: ciò proprio in un’ottica di tutela della libertà di concorrenza, alla base – come fino ad ora essenzialmente solo conclamato – dei diritti di PI.

Il superamento della logica proprietaria, in senso classico, è imposta anche dall’esigenza, vivamente sentita dai più, di evitare la sottoposizione dei procedimenti industrialistici alla mediazione obbligatoria prevista, dall’art. 5 D.lgs 282010, per le controversie (anche) in materia di diritti reali.[24]

Altro autorevolissimo autore, che della novella è stato anche “protagonista” diretto, ha così osservato che si è voluto procedere- anche in un’ottica di adeguamento al diritto comunitario e internazionale- verso un approccio realistico e concreto alla protezione dei diritti di proprietà industriale

“fondato sulla considerazione di ciò che le realtà che ne formano oggetto realmente rappresentano sul mercato e, prima ancora, nelle dinamiche dell’attività economica e quindi della comunicazione d’impresa e della ricerca. Questo approccio realistico, o, se si preferisce, fenomenologico, trova tra l’altro una precisa base normativa proprio nelle convenzioni internazionali vigenti nella nostra materia e nello stesso diritto comunitario, che delinea un equilibrio tra esclusive, concorrenza e contratti nel quale la protezione può essere riconosciuta solo a ciò che davvero questa protezione richiede, nella consapevolezza del fatto che le norme sono chiamate a disciplinare realtà concrete e che la giustificazione di esse è strettamente connessa con l’esperienza umana di queste realtà, secondo una prospettiva, che potremmo definire giusnaturalistica, di adeguamento del diritto alle relazioni interpersonali della vita reale”.[25]

Tale impostazione, pragmatica e dinamica, trova specifico riscontro nella novellazione delle norme in tema di segni distintivi .[26]

Può allora convenirsi con l’autore in ultimo richiamato, secondo cui

“le modifiche inserite nel Codice in questo campo appaiono dirette a rendere più compiuta e coerente la protezione dei marchi, degli altri segni distintivi e delle denominazioni di origine contro i comportamenti diretti a sfruttare indebitamente i valori di avviamento commerciale incorporati in questi segni, nella prospettiva generale – che con questa riforma è divenuta uno degli assi portanti del Codice – di attribuire alle imprese la possibilità di valorizzare tutte le esternalità positive derivanti dall’uso dei loro diritti di proprietà industriale, vietando ogni forma di free-riding e di sfruttamento parassitario dei loro investimenti.” [27]

La tutela riguarda tutti i casi in cui un segno sia utilizzato da altri – illecitamente e parassitariamente - per finalità economiche (ormai sicuramente anche al di fuori di un’attività d’impresa).

Ma da qui anche una precisa limitazione alla portata della tutela stessa, che non potrà andare oltre, non potrà risolversi in una astratta (iper) protezione “reale” dei diritti in oggetto, del tutto svincolata dalla loro funzione pur sempre proconcorrenziale, come del resto già accennato.[28]

§ 8 a) Concorrenza sleale e libertà di concorrenza: linee evolutive della giurisprudenza di merito….

In definitiva i principi di libertà di concorrenza, propri della concorrenza sleale, hanno permeato di sé il mondo, in apparenza chiuso, dei diritti di proprietà industriale; ciò in pochi anni (pur cogliendo e sviluppando spunti ben più risalenti).

Resta da vedere se il cerchio si sia chiuso, se cioè quegli stessi principi e valori, sempre più compiutamente espressi dalle norme in tema di diritti di PI, siano “tornati indietro”, consentendo cioè una lettura a sua volta ancora più marcatamente proconcorrenziale di una disciplina, quella della concorrenza sleale, pur sempre contenuta in un testo non privo di ambiguità, frutto di spinte francamente corporative, se non anticoncorrenziali.

Vi è di più.

La c.s. non esprime solo i valori della libertà di concorrenza.

Al contrario, essa, storicamente, presenta una impronta originaria protezionista e corporativa: lo stesso richiamo al’etica professionale è funzionale all’esigenza di limitare la concorrenza nell’interesse degli imprenditori, non del mercato e dei consumatori, così come d’altronde l’avviamento è visto come un quid che appartiene all’impresa che lo produce

Neanche può trascurarsi, come pure si è osservato, che le riforme dei diritti di PI degli anni novanta hanno finito per incoraggiare più un modello di concorrenza fondato su richiami pubblicitari che su perforance legate alla qualità e all’innovazione

La c.s. ha così fino ad ora sovente svolto una funzione ancillare rispetto ai diritti di proprietà industriale, colmando le lacune delle relative discipline rispetto a comportamenti lesivi.[29]

Si è anzi osservato che la .c.s ha finito quasi per assumere una fisionomia criptobrevettuale, addirittura di “protesi del diritto esclusivo”.[30]

Ancora la Relazione al Codice espressamente esclude – non senza una certa miopia – che

“nella tutela contro la concorrenza sleale abbiano rilevanza interessi antagonistici rispetto a quelli del titolare del diritto (come l’interesse del consumatore)…l’interesse della collettività ad un mercato concorrenziale libero ed efficiente viene garantito dalla legge antitrust”: si tratta di interessi, anzi, la cui tutela sarebbe “estranea alla tutela della proprietà industriale”.

L’apertura agli interessi e ai diritti dei consumatori, di contro, è stata poi concretizzata dai D.lgs 145 e 1462007 cit., fin con il riconoscimento della loro legittimazione ad agire.[31]

Vi è stato poi un vero e proprio recupero della “dimensione privatistica” dello stesso diritto antitrust, che d’altronde da tempo prevede il risarcimento in caso di lesione del diritto di concorrenza del privato, cfr art. 33 l. 2871990.

La c.s. è così’ vista sempre più come complementare alla disciplina Antitrust, nell’ottica di una visione comune di tutela del mercato.

D’altronde il Reg. 12003 impone alle autorità nazionali di tutelare i diritti soggettivi garantiti dal diritto comunitario nelle controversie tra privati.[32]

L’obiettivo è appunto la “trasformazione” della c.s., facendo venire meno la denunciata funzione di integrazione delle norme su brevetti e marchi (a iperdifesa dell’avviamento commerciale).

Di contro, la c.s. è destinata a divenire un “paradigma” ispirato ad un mercato concorrenziale e socalmente compatiibile, volto a selezionare le condotte lecite pur nella vigenza delle privative, vietando nel contempo i comportamenti contradittori con il benessere del marcato[33]

Certo, in mancanza di una espressa novellazione della disciplina della c.s., il superamento dell’impostazione tradizionale è rimesso essenzialmente all’opera della giurisprudenza.

Tanto è però sicuramente auspicabile, almeno da parte di cui reputa che la repressione della concorrenza sleale debbe ispirarsi a principi di libertà di concorrenza, cui non sono estranei profili di tutela di interessi più vasti, quali quelli dei consumatori, e non ad una logica di tutela assoluta e onnicompensiva, come visto abbandonata per gli stessi diritti di proprietà industriale.

Si consideri, comunque , che la giurisprudenza di merito – già anteriormente al codice – tendeva ad interpretare restrittivamente le disposizoni dell’art. 2598 c.c., al punto che talune fattispecie di c.s. erano e sono di difficilissimo accertamento giudiziale: è il caso del boicottaggio, ricondotto all’abuso di posizione dominante[34] (e qui opera proprio una interpretazione proconcorrenziale, cfr infra) e lo storno dei dipendenti (dove invece prevale l’esigenza di tutelare la libertà dei lavoratori).[35]

§ 8 b ) …e di legittimità: il caso delle vendite sottocosto

La stessa giurisprudenza della Cassazione ha mostrato di voler leggere in modo innovativo, talora profondamente innovativo, fattispecie di concorrenza sleale fino a quel momento interpetati in un’ottica quasi “neocorporativa”.

Così si pronunciava la Suprema Corte già nel 1997:

“Il preambolo dell’art. 2598 c.c. chiarisce la necessità di coerenza del regime delle privative con quello della libertà di concorrenza, e dunque la possibile coesistenza degli illeciti c.d. brevettuali con quelli tipicamente concorrenziali; cosicché, se la tutela dei diritti di privativa deve avere una funzione premiale dello sforzo d’innovazione, non può essere adoperata strumentalmente per limitare l’altrui diritto di concorrenza oltre tale funzione; in particolare, il brevetto attribuisce al suo titolare il monopolio dello sfruttamento del suo oggetto e, fermo tale diritto, esso non può attribuire altri vantaggi che quelli, temporanei, che la legge fa conseguire alla sua legittimità”.[36]

Più di recente, può richiamarsi la notissima pronuncia in tema di vendita sottocosto, che ha sostanzialmente abrogato l’istituto, almeno come era tradizionalmente configurato, riconducendolo al divieto legislativo, interno o comunitario, di abuso di posizione dominante; più precisamente:

“La fissazione di prezzi anche particolarmente più bassi rispetto a quelli praticati da altri imprenditori del settore costituisce, di per sé, pratica lecita, in quanto espressione del principio di libertà di iniziativa economica e può integrare gli estremi della concorrenza sleale per vendita sottocosto solo se in contrasto con il divieto legislativo, interno o comunitario, di abuso di posizione dominante, quale pratica posta in essere da una impresa che, muovendo da una posizione di dominio, ne abusi con il frapporre barriere all’ingresso di altri concorrenti sul mercato, ovvero favorendone l’eliminazione” (nella specie, la Suprema Corte ha escluso che la vendita di una guida televisiva settimanale abbinata ad un quotidiano integri gli estremi della vendita sottocosto, non essendo stato né allegato né tantomeno provato che l’editore si trovava in una posizione domimante sul mercato, e che la politica dei prezzi da esso praticata aveva l’effetto anche solo potenziale di rafforzare tale posizione, atteso oltretutto che si trattava di iniziativa editoriale praticata anche da altri concorrenti). [37]

PARTE II

LA TUTELA DELLA FORMA TRA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA SLEALE E DELLE PRIVATIVE INDUSTRIALISTICHE

§ 10) Le plurime fonti di tutela della forma del prodotto

Va però riconosciuto che la giurisprudenza è ancora ben lontana dall’aver individuato precise linee guida in materia: non mancano contraddizioni e orientamenti talora francamente neoprotezionistici o “iperprotettivi.”

Tanto si manifesta con particolare riguardo ad un tema di grande rilievo, anche e soprattutto operativo: quello della tutela delle forme dei prodotti e del loro confezionamento.

Trattandosi di argomento vastisimo, e che ampiamente esula dal tema a me assegnato, mi limito a ricordare che qui possono variamente sovrapporsi e concorrere la disciplina:

- dei marchi, e ciò fin dal D.lgs 480/1992 che– riscrivendo l’art. 16 R.D. 929/1942 - ammise espressamente i marchi di colore e quelli di forma, che ben possono essere tridimensionali, purchè dotati di funzione distintiva. La materia è ora regolata dall’art. 9 Cod.

- dei disegni e dei modelli, ciò almeno dal D.lgs 952001, di attuazione della Direttiva 98/71/CE del 13 ottobre 1998 che ha abrogato, per i modelli, il criterio dello “speciale ornamento”, così superando la tradizionale contrapposizione tra marchi di forma e modelli: per alcuni sarebbe possibile il cumulo di tutele. La materia è ora disciplinata dagli artt. 31 ss Cod.[38]

- del diritto d’autore, attesa la ricomprensione nell’art. 1 l. aut., quale rinovellato dal D.lgs 95|2001, delle “opere del disegno industriale che presentino di per sé carattere creativo e valore artistico”.[39].

- ovviamente della concorrenza sleale, per imitazione servile, ma anche confusoria, e quella residuale di cui al n. 3 art. 2598 cit. (ma la disciplina della concorrenza sleale è di per sé residuale, atteso l’incipit del medesimo art. 2598 cit.); si è poi già detto delle nuove fattispecie introdotte dal Codice del Consumo[40].

§ 11 a) Imitazione servile: i caratteri nella giurisprudenza più recente

E’ opportuno muovere proprio dalla c.s. per imitazione servile (i.s.), cui è tradizionalmente (?) demandata la tutela della forma dei prodotti e delle loro confezioni.

Va qui sommariamente ricordato che la c.s. per i.s. è una species della c.s. confusoria, di cui all’art. 2598 n. 1 c.c.[41]

In particolare si afferma che integra gli estremi della c.s. per i.s. la condotta dell’imprenditore che imiti la forma del prodotto di un concorrente, sempre però :

- che si tratti della riproduzione della forme esteriori del prodotto del concorrente, atteso d’altronde che eventuali differenze interne o strutturali non sarebbero visibili all’esterno e quindi non sarebbero idonee a scongiurare il rischio confusorio.

- che tali forme abbiano un valore individualizzante e distintivo, vale a dire idoneo a diversificare il prodotto rispetto ad altri simili; quindi deve trattarsi di forme idonee- nella percezione del pubblico a ricollegare il prodotto ad una data impresa (il carattere distintivo ha quindi una duplice accezione: differenzia il prodotto rispetto ad altri simili e appunto lo identifica come riconducibile ad una determinata impresa. Di converso il prodotto che si assume imitazione del primo deve essere privo di elementi distintivi idonei ad esplicitare, agli occhi dei consumatori, la diversa provenienza dei prodotti [42]

- che si tratti di forme “arbitrarie”, vale a dire non rese necessarie dalle caratteristiche funzionali del prodotto[43]; in altri termini la tutela è esclusa a fronte dell’imitazione di forme rese necessarie dalle caratteristiche funzionali del prodotto stesso, sempre che non siano coperte da tutela brevettuale; [44] l’imitazione, in altri termini, deve riguardare profili del tutto inessenziali alla funzione quali, ad esempio, le dimensioni, le proporzioni delle parti, l’adozione di un particolare colore o di altri particolari formali, sempre del tutto indifferenti rispetto alla funzione del prodotto

- che si tratti quindi di forme originali, non potendosi accordare tutela a forme ormai generalizzate e standardizzate, vale a dire divenute caratterizzanti di quel tipo di prodotto in generale[45]; si noti che distintività e originalità costituiscono entrambi fatti costitutivi della dedotta contraffazione per imitazione servile, essendo i medesimi requisiti necessari non in via alternativa, ma in via cumulativa

- che da tale imitazione ne derivi confusione con il prodotto commercializzato dal concorrente stesso.

In definitiva la tutela contro l’i.s. può essere accordata solo a forme non banali né standardizzate, ma idonee a rendere il prodotto riconoscibile, e quindi- se riprese - suscettibili di creare confusione circa la provenienza

La giurisprudenza su tali profili, di legittimità e di merito, è davvero vastissima, pur se non sembra aver tenuto conto dell’entrata in vigore del Codice, ribadendo tralaticiamente affermazioni che richiederebbero invece una revisione critica, appunto alla stregua del mutato quadro normativo di riferimento, come già accennato[46].

11 b) continua: la confondibilità

Particolare attenzione è stata prestata al tema della confondibilità, che si atteggia in termini non sempre coincidenti rispetto ai diritti di proprietà industriale (specie con riferimento alla necessità di un giudizio “in concreto” e non “in astratto”).[47]

Si tratta comunque di impostazione che dovrebbe essere rivista alla luce del superamento, almeno dottrinale, della contrapposizione tra tutela reale (delle privative) e obbligatoria (della c.s.), su cui cfr infra.

Comunque anche nell’ambito in parola è frequente l’affermazione che - al fine di accertare l’esistenza della fattispecie della confondibilità tra prodotti per imitazione servile- è necessario che la comparazione tra i medesimi avvenga non attraverso un esame analitico e separato dei singoli elementi caratterizzanti,

“ma mediante una valutazione sintetica dei medesimi nel loro complesso, ponendosi dal punto di vista del consumatore e tenendo, quindi, conto che, quanto minore è l’importanza merceologica di un prodotto, tanto più la scelta può essere determinata da percezioni di tipo immediato e sollecitazioni sensoriali, anziché da dati che richiedano un’attenzione riflessiva, e considerando altresì che il divieto di imitazione servile tutela l’interesse a che l’imitatore non crei confusione con i prodotti del concorrente”[48]

La confusione può manifestarsi anche come rischio di associazione, non diversamente da quanto previsto con riferimento ai marchi. [49]

Va ancora sommariamente ricordato da un lato che il consumatore di riferimento è quello “medio” di quel genere di prodotto (la cui attenzione si ferma sul complessivo aspetto formale del prodotto soprattutto con riferimento ai settori merceologici in cui i prodotti non rivestano rilevante importanza), dall’altro che il carattere confusorio deve essere accertato con riguardo al mercato di riferimento (ovvero «rilevante»), ossia a quello nel quale operano o (secondo la naturale espansività delle attività economiche) possono operare gli imprenditori in concorrenza, occorrendo di volta in volta stabilire, nelle singole vicende, anche ai fini del preuso, se gli imprenditori in conflitto offrano prodotti destinati a soddisfare la stessa esigenza di mercato alla medesima clientela.[50]

Non mancano però provvedimenti che, talora non esplicitamente, si discostano dagli orientamenti tradizionali, negando la tutela anticoncorrenziale a condotte, pur in apparenza confusorie, che però non si traducono in una vera e propria confusione, in quanto, in realtà, attingono a più vasti patrimoni comuni, sicchè non si realizza alcuna parassitaria appropriazione dell’altrui attività.[51]

Va in particolare richiamato un provvedimento cautelare del Tribunale di Milano relativo ad un ambito dove, tradizionalmente, la giurisprudenza accorda una tutela particolarmente forte: quello della moda.

Di contro l’illecito è stato escluso a fronte della ripresa, con riferimento ad una intera collezione, di motivi ed elementi (relativi a materiali, dettagli, “architettura”) della collezione di un concorrente, trattandosi in realtà di motivi ricorrenti e noti nel settore, ed anzi appartenenti alla tradizione, e perciò non suscettibili di monopolio.

A ben vedere, comunque, non si tratta di una pronuncia innovativa, in quanto si è solo realizzato una rigorosa applicazione, per quanto peculiare, del divieto di tutela delle forme standardizzate.[52]

Va anche ricordato che la giurisprudenza – ai fini dell’accertamento della concorrenza sleale confusoria (e per violazione dei principi di correttezza professionale)- reputa che non occorra accertare il concreto verificarsi di fatti confusori, ma solo la potenziale confondibilità fra i prodotti o servizi offerti da un concorrente e quelli offerti da un altro, da valutarsi in relazione alle circostanze del caso alla stregua di nozioni di comune esperienza [53]

§ 12) Concorrenza sleale e marchi: interferenza e concorso di tutele

La possibilità di cumulo dell’azione di contraffazione del marchio e di quella per la repressione della concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598 n. 1 c.c costituisce un tema classico del diritto industriale, non solo processuale.

Al riguardo deve segnalarsi una certa ambiguità della giurisprudenza.

Da un lato, infatti, prevale l’orientamento tradizionale alla stregua del quale, a fronte dell’usurpazione o contraffazione del marchio registrato da parte di un concorrente, il titolare può esercitare sia l’azione reale di contraffazione del marchio, che presuppone l’accertamento della confondibilità tra i segni, che anche - congiuntamente - quella obbligatoria di repressione della concorrenza sleale, nella prassi essenzialmente per imitazione servile o confusoria.

Si reputa infatti che tale cumulo sia ammissibile,

“sempre che quella condotta illecita, per le modalità di uso del segno, abbia creato confondibilità circa la provenienza dei rispettivi prodotti, così ricorrendo i presupposti dell’azione obbligatoria in parola”[54]

In altri termini, a fronte di un medesimo fatto storico (essenzialmente di imitazione di una privativa altrui) corrisponde, quindi, la possibilità di un concorso di norme, più precisamente quel medesimo fatto può costituire al tempo stesso contraffazione di marchio e atto di concorrenza sleale.

Più precisamente tale cumulo è ammesso ogni volta che nella situazione di fatto si presentino i presupposti di entrambe le azioni, pur se l’una – quella di contraffazione – ha natura reale, l’altra meramente obbligatoria

La questione si pone, evidentemente, anche con riferimento alle altre privative industrialistiche, in relazione al possibile cumulo (anche) con l’azione di concorrenza sleale per imitazione servile.

Si tratta di una lettura giurisprudenziale ribadita anche dopo l’entrata in vigore del Codice, senza però fare i conti con il nuovo assetto normativo, sopra ricostruito.[55]

Pure la stessa contrapposizione tra azione reale di contraffazione e obbligaria anticoncorrenziale ha perduto buona parte dell’originario significato, come del resto già evidenziato.

La giurisprudenza però è ancora lontana dal riconoscere, ricavandone le necessarie conseguenze, che

“Ogni elemento di differenza, di contrapposizione strutturale fra azione di contraffazione di marchio registrato e azione di concorrenza sleale è venuta meno. Entrambe sono a tutela di un diritto assoluto, godono di una tutela inibitoria che prescinde da colpa o dolo, sono affiancate da un diritto al risarcimento del danno in presenza dell’elemento soggettivo. Conseguentemente esigere la confondibilità fra prodotti come condizione di illiceità della concorrenza sleale confusoria è oggi privo di senso”, venendo in rilievo la confondibilità tra prodotti, per ambo le fattispecie, ai fini della determinazione dell’entità del risarcimento”.[56]

Dall’altro lato va però richiamata quella parte della giurisprudenza che si è sempre mostrata restia ad ammettere che un bene, che può essere tipologicamente oggetto di una privativa tipica, possa essere protetto anche mediante il divieto di concorrenza sleale per i.s.

“qualora, infatti, allo stesso si concedesse la tutela dell’i.s., si riconoscerebbe, in concreto, una tutela sostanzialmente perenne” .[57]

Non mancano poi provvedimenti secondo cui la disciplina della concorrenza sleale per i.s. non può essere richiamata per proteggere forme escluse dalla registrazione in base ai principi espressamente dettati per il settore dei marchi.[58]

Va al riguardo richiamato un provvedimento del Tribunale di Torino[59] che ha denegato la tutela cautelare inibitoria della caffettiera Moka Bialetti rispetto a modelli di caffettiera commercializzati da un concorrente, pur se di forme simili.

Il Tribunale, certo, osserva che non vi è rischio di confusione, pe il consumatore medio, in ragione di talune rilevanti varianti formali tra i modelli (manici , pomoli), ed anche in quanto la caffettiera di cui si chiede la tutela presenta un marchio proprio, oltretutto celebre “l’omino con i baffi”.

Il dato forse di maggior interesse è che la tutela repressiva della concorrenza sleale è stata negata anche sul rilievo che la forma ottagonale della caffettiera “moka” Bialetti è priva di capacità distintiva, perché molto diffusa sul mercato, al punto di essere puntualmente descritta, come “tipo molto diffuso” dall’enciclopedia Treccani. Il tribunale, anzi, non ha esitato a ricordare che quella forma non era riuscita a conseguire la registrazione come marchio comunitario.

§ 13 a ) L’ambiguità della giurisprudenza in tema di c.s. : due vicende emblematiche.

Il caso Lego

Va a questo punto estesamente richiamata una ancora recente sentenza della Cassazione che ha risolto, in termini marcatamente proconcorrenziali, una vicenda “celebre”, e che aveva dato luogo a numerosi e contrastanti provvedimenti: il “caso Lego”.

La Suprema Corte, giova anticipare, ha escluso la concorrenza sleale per violazione dei principî di correttezza professionale a fronte della commercializzazione di mattoncini modulari per giochi di costruzioni compatibili con quelli prodotti dalla società Lego, ormai non più protetti da brevetto di modello industriale[60].

In primo grado il Tribunale di Milano[61] aveva affermato che l’oggetto del brevetto, una volta caduto il pubblico dominio, deve ritenersi liberamente riproducibile in tutte le sue utilità, richiamando al riguardo la disciplina dei pezzi di ricambio (liberamente appropriabili).

Beninteso, resta ferma la possibilità di tutela, per il divieto di imitazione servile., degli aspetti formali dotati di capacità distintiva e, al contempo, superflui, tecnicamente insignificanti, arbitrari o capricciosi.

Nella specie il Tribunale aveva escluso che siano appunto “individualizzanti e distintivi arbitrari capricciosi e tecnicamente insignificanti” gli elementi capaci di consentire l’accoppiamento non solo tra di loro ma anche tra elementi appartenenti a moduli diversi dei c.d. mattoncini Lego.

La sentenza era stata però riformata in appello[62] secondo cui

“Sul piano della correttezza professionale (art. 2598, n. 3, c.c.), la ricerca di compatibilità per prodotti intercambiabili, in assenza di diritti di privativa, è lecita, ma non può spingersi fino al punto di connettersi con il sistema realizzato dal concorrente, mancando una necessità qualificante che giustifichi la pedissequa ripresa di quella specifica combinazione allorché questa risulti surrogabile con forme alternative equivalenti sul piano della funzionalità (e dei costi)”.

La Corte d’appello ha ancora affermato che “Nel mercato dei prodotti modulari, diversamente da quanto avviene nel mercato della fornitura dei pezzi di ricambio, non è configurabile una posizione di dominio di un produttore verso l’altro, giacché tutti i prodotti appartengono non a mercati distinti ma ad un unico mercato (dove non esiste né prodotto principale né prodotto accessorio, dal momento che i pezzi di un sistema modulare sono essi stessi prodotti che si combinano tra loro, e non componenti di un unico prodotto complesso), e dunque ciascun imprenditore in concorrenza è in grado di realizzare autonomamente la propria «serie», con proprie caratteristiche, senza necessità di agganciarsi a quella dell’altro”.

In sostanza quindi, nonostante la scadenza della privativa, il concorrente restava tenuto ad un “onere di differenziazione”, vale a dire ad apportare al prodotto delle “varianti innocue”, atte a differenziare la forma del proprio prodotto da quella “originale”.

La teoria delle varianti innocue era del resto ampiamente recepita dalla giurisprudenza[63].

La Cassazione è andata di contrario avviso – sostanzialmente aderendo alla motivazione del Tribunale – ed anzi, cassata la sentenza d’Appello, ha deciso nel merito- escludendo che “non costituisce atto di concorrenza sleale la vendita in Italia dei mattoncini per giochi di costruzione …compatibili con quelli prodotti e venduti dalla Lego”.

La sentenza muove dal rilievo che la tutela delle privative industrialistiche- invenzioni e modelli, è funzionale all’esigenza di incentivare la ricerca di nuove soluzioni tecniche.

Tale funzione sarebbe invece negata dal riconoscimento di un diritto perpetuo di utilizzazione esclusiva di invenzioni e modelli, che anzi ingesserebbe il mercato.

Da qui, allora, la previsione del carattere solo temporaneo di quella tutela, scaduta la quale i modelli e le invenzioni sono liberamente riproducibili, certo nel rispetto delle norme sulla concorrenza: è davvero il declino della teoria delle varianti innocue.

Sono pertanto sanzionabili – continua la Cassazione - solo le utilizzazioni confusorie, ovvero le condotte altrimenti scorrette o dannose

Nella specie però la Corte d’Appello già aveva escluso che la produzione di elementi modulari compatibili con i prodotti Lego e con essi componibili costitisse imitazione servile, e la Cassazione ha ritenuto (pur se implicitamente) che – sul punto – si sia formato il giudicato.

I giudici di merito avevano tuttavia affermato l’illiceità degli elementi modulari componibili con quelli Lego ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c., ritenendo che l’onere di differenziazione comunque discende dal dovere di lealtà commerciale

Tuttavia tale obbligo– continua la Suprema Corte – non trova alcun riscontro normativo, atteso oltretutto che non può qualificarsi sleale la contesa della clientela con l’offerta di vantaggi aggiuntivi per il consumatore. Di contro la stessa concorrenza è “contesa della clientela”, ed è tutelata anche al fine di offrire vantaggi al consumatore.

La Cassazione ha allora smontato punto per punto, la motivazione della sentenza di appello, osservando che questa, pur avendo escluso l’imitazione servile confusoria, in ragione della perfetta identificabiità dell’origine degli elementi modulari controversi, contraddittoriamente fonda il divieto di compatibilità tra diversi sistemi modulari proprio con riferimento all’i.s.

Neanche rileva la pretesa differenza tra il mercato pezzi di ricambio, e quello dei sistemi modulari (che – a differenza del primo – sarebbe unico), pure richiamata dalla sentenza cassata.


Sommario

PARTE I

CONCORRENZA SLEALE E CODICE DELLA PROPRIETA’ INDUSTRIALE

§ 1 premessa

§ 2 a) CPI e concorrenza sleale: incidenza diretta

§ 2 b) Incidenza indiretta del CPI sulla concorrenza sleale: l’enucleazione di “nuovi” diritti di PI non titolati

§ 3 a) La libertà di concorrenza e i diritti di PI: dalla contrapposizione alla omogeneità

§ 3 b) Riferimenti normativi internazionali e comunitari

§ 4) L’impostazione “programmatica” del CPI

§ 5) La omogeneizzazione codicistica di concorrenza sleale e diritti di PI

§ 6) La centralità del processo industrialistico

§ 7) Sviluppi successivi: la novella del 2010

§ 8 a) Concorrenza sleale e libertà di concorrenza: linee evolutive della giurisprudenza di merito….

§ 8 b ) …e di legittimità: il caso delle vendite sottocosto

PARTE II

LA TUTELA DELLA FORMA TRA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA SLEALE E DELLE PRIVATIVE INDUSTRIALISTICHE

§ 10) Le plurime fonti di tutela della forma del prodotto

§ 11 a) Imitazione servile: i caratteri nella giurisprudenza più recente

§ 11 b) continua: la confondibilità

§ 12) Concorrenza sleale e marchi: interferenza e concorso di tutele

§ 13 a ) L’ambiguità della giurisprudenza in tema di c.s. : due vicende emblematiche.

Il caso Lego

§ 13 b) continua: il caso Ferrari

§ 13 a) Modelli , diritto d’autore, concorrenza sleale e sovraccarico di tutela: un caso veneziano

§ 13 b) segue: una ulteriore ricognizione giurisprudenziale

PARTE III

LOOK ALIKE: UNA NUOVA RICOGNIZIONE

§ 14 a) il l.a. come fenomeno economico

§ 14 b) I l.a. nel sistema giuridico angloamericano

§ 15 ) Il ruolo delle confezioni e degli involucri

§ 16) Il l.a. in Italia come fenomeno anticoncorrenziale

§ 17 ) L’applicazione della disciplina della concorrenza sleale

§ 18 a ) Il giudizio di confusione con riferimento ai l.a.

§ 18 b) Continua: il giudizio di confusione tra contesto d’uso e standardizzazione

§ 19) I l.a. con indicazione del marchio

§ 20) l.a. ed imitazioni non confusorie

§ 21 a) Casistica giurisprudenziale: il caso Gran Turchese

§ 21 b) ulteriori provvedimenti sui l.a.

PARTE I

CONCORRENZA SLEALE E CODICE DELLA PROPRIETA’ INDUSTRIALE

§ 1 premessa

Questo lavoro si propone l’obiettivo di fare il punto (essenzialmente) sulla giurisprudenza degli ultimi anni, successiva al Codice della proprietà industriale (d’ora in avanti: CPI) in tema di concorrenza sleale (d’ora in avanti: c.s.), con particolare riguardo alla tutela della forma e del confezionamento dei prodotti: da qui anche il richiamo, fin dal titolo, al fenomeno del look alike (d’ora in avanti: l.a.).

§ 2 a) CPI e concorrenza sleale: incidenza diretta

Il Codice della proprietà industriale- il testo originario come le novellazioni successive, compresa l’ultima e fondamentale, di cui al D.lgs 1312010- non si occupa della c.s.

L’art. 2598 c.c. è rimasto formalmente immutato, nell’originario testo del 1942.

Nondimeno il Codice ha inciso profondamente sulle molteplici disposizioni di tale cruciale disposizione, direttamente ed indirettamente, venendone a sua volta condizionato, nei termini che si dirà: la c.s. , in definitiva, ha costituito, per il legislatore del 2005 (ma anche del 2010) una sorta di ineludibile convitato di pietra.

Direttamente riferito alla c.s. è l’art. 134 Cod., che riconduce alla competenza delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale pressoché tutte le fattispecie di concorrenza sleale, con la sola esclusione di quelle – marginalissime e di difficile configurazione “che non interferiscono neppure indirettamente con l’esercizio dei diritti di proprietà industriale”- [1] (così ampliando la previsione dell’art. 3 D.lgs 1682003, istitutivo delle sezioni specializzate medesime).

Quanto al diritto sostanziale, un riferimento sicuro, pur se ellittico, alla c.s. è contenuto nell’art. 21.1 Cod. che (riprendendo l’art. 1 bis. l. marchi) consente il c.d. “uso atipico” del marchio altrui, purchè conforme alla correttezza professionale; la previsione è stata anzi riscritta e generalizzata ad ogni ipotesi di uso atipico (e non più solo con riferimento alla destinazione del prodotto o servizio) dalla novella del 2010.[2]

§ 2 b) Incidenza indiretta del CPI sulla concorrenza sleale: l’enucleazione di “nuovi” diritti di PI non titolati

L’intervento del CPI sulla disciplina della c.s. è stato però soprattutto indiretto: si è realizzato, in primo luogo, con la stessa fondamentalissima enucleazione della categoria dei diritti di proprietà industriale non titolati, la cui disciplina fino ad allora era ampiamente ricondotta proprio alla concorrenza sleale (e tuttora, si noti, le relative fattispecie costitutive- escluso il marchio di fatto- non trovano la propria fonte nel CPI).

Il riferimento è essenzialmente al marchio di fatto, ma anche ai segni geografici (ndicazioni geografiche, denominazioni di origine), di cui agli artt. 29-30 Cod. e alle informazioni segrete, di cui agli artt. 98- 99 Cod,.

La dottrina ha segnalato che le nuove norme non si sono integralmente sostituite alla disciplina della concorrenza slele, che infatti è espressamente tenuta “ferma” per i segni geografici dall’art. 30 e per le informazioni riservate dall’art. 99 cit., norme peraltro entrambe parzialmente novellate nel 2010.[3]

La stessa dottrina ha ancora osservato che la “valorizzazione” codicistica dei segni distintivi diversi dal marchio registrato ha comportato, sul piano dell’oggetto della tutela, l’nvasione “codicistica” dell’ambito di competenza dell’art. 2598 c.c. n. 1

“infatti …le ipotesi confusorie previste da questa norma non possono verificarsi senza la presenza di segni distintivi, e perciò senza l’adozione da parte del concorrente di segni uguali o simili, cioè idonei a produrre confusione con i primi. E precisamente in ciò sta anche la tutela dei medesimi segni prevista dal CPI . Se a ciò si aggiunge che al riguardo non è prevista alcuna esplicita “salvezza” delle norme sulla concorrenza, ci si potrebbe chiedere s l’art. 2598 n,. 1 abbia ancora un senso, o se non debba essere considerato implicitamente abrogato dal codice stesso”.[4]

Una parziale tacita abrogazione dell’art. 2598 c.c. ad opera del Codice, quindi, non può affatto escludersi (ma certo, resta vigente l’art. 10 bis CUP), non rilevando, evidentemente che – al solo fine delle abrogazioni espresse – la norma sulla c.s. non è richiamata dall’art. 246 Cod. (che, infatti, neanche richiama l’art. 3 del D.lgs 1682003 in tema di competenza delle sezioni p.i.i., invece sicuramente abrogato tacitamente, almeno in parte, dall’art. 134 Cod.).

La “restrizione” della c.s. non va però riferita al solo CPI

Né può trascurarsi che comportamenti già soggetti alla disciplina della concorrenza sleale sono stati attratti, con poca coerenza sistematica, dalla ancora recente normativa in tema di pratiche commerciali scorrette, D.lgs 2 agosto 2007, n. 145 e 146.

In particolare il primo decreto ha novellato la materia della pubblicità ingannevole e comparativa, già disciplinata dal Cod. Consumo, (e in precedenza dal D.lgs 741992, che recepiva a sua volta la direttiva 84450), che evidentemente ricomprende fattispecie riconducibili alla c.s.

In materia di tutela giurisdizionale resta comunque salva, anche con la nuova normativa, la giurisdizione del giudice ordinario in materia di atti di concorrenza sleale (nonché della normativa in materia di diritto d’autore e privative, per quanto concerne la pubblicita’ comparativa).

Di grande interesse, in relazione all’oggetto di questo lavoro, sono poi gli artt. 21 e 23 Cod. consumo, novellati dal D.lgs 1462007, che hanno introdotto fattispecie di pratiche commerciali ingannatorie interferenti, in termini ambigui, con la c.s. confusoria.[5]

§ 3 a) La libertà di concorrenza e i diritti di PI: dalla contrapposizione alla omogeneità

Siffatta restrizione delle fattispecie riconducibili alla c.s. si è però accompagnata ad un fenomeno speculare, avvertito con intensità via via maggiore (e non solo dagli autori giuridici): l’estensione dei valori sottesi al principio di libertà di concorrenza (questi sì non estranei all’art. 2598 cit., almeno in linea di principio) ai diritti di proprietà industriale.[6]

La libertà di concorrenza è sempre più e meglio vista anzi come la vera “ stella polare” del sistema industrialistico nel suo complesso: ciò nel senso che l’ordinamento tutela in primo luogo – ed in ogni ambito giuridico- la fisionomia concorrenziale del mercato.

Se così è, allora, le privative di diritto industrale possono trovare accoglienza e tutela se e fino a quando risultino coerenti con il principio guida della libera concorenza; in altri termini le discipline che le riguardano vanno lette in chiave proconcorrenziale.[7]

Lo stesso richiamo alla proprietà, anzi alla disciplina dei diritti reali, che ancora il CPI ha conservato fin dall’intitolazione (ma cfr art. 6, in tema di comunione), è vista con notevole “imbarazzo”, e ci si è affrettati a precisare (dopo la codificazione) che si tratta di proprietà sui generis, con il significato di “esclusiva” ovvero di “diritto asoluto”, un microsistema a sé, che ha ben pochi contatti con la proprietà di diritto civile:

“la formula “proprietà industriale” può essere intesa nel senso di prendere sul serio”, da far valere all’interno del nostro sistema giuridico, con tutta l’attenzione che merita in settori sensibili”.[8]

Il rifiuto della contigurazone proprietaria è stato ripreso di recente, a fronte del “rischio” di estensione ai procedimenti indistrialistici della nuova disciplina sulla mediazione obbligatoria, cfr infra.

Si noti che anche altri in ordinamenti , quale quello francese (ove pure i riferimenti alla proprietà sono frequenti più che nel CPI: il Code de la propriété intellectuelle prevede la proprietà del brevetto) si fa riferimento ad una proprietà solo “simbolica” o anche ai diritti di PI come “diritti di clientela” (nel senso che i diritti di PI pongono il titolare in una posizione preferenziale nelle relazioni con i clienti, che ne ricavano così benefici nella concorrenza economica).[9]

Da qui, evidente, l’affermazione della profonda omogeneità, pur se talora sotterranea, tra diritti di PI e la c.s.: la loro giustapposizione, pur tradizionale e “facilissima”, dato l’elemento di monopolio che caratterizza i primi, è profondamente errata: gli uni e l’altra, infatti, assolvano alla medesima funzione ultima, quella di rendere il mercato più concorrenziale.[10]

Siffatta impostazione trova sempre più spesso riscontro giurisprudenziale; si è così affermato che la repressione della c.s. costitusce una azione che ha senso solo se rapportata alla protezione della PI, di cui costituisce strumento essenziale di tutela, ponendosi – rispetto ad essa – su un piano non diverso. [11]

L’argomento è stato sviluppato, successivamente all’entrata in vigore del D.lgs 1682003, al fine di ricomprendere la c.s. nell’ambito di competenza delle sezioni specializate p.i.i. , nonostante le limitazioni di cui all’art. 3 D D.lgs cit. e – ora – dello stesso art. 134 Cod. (cfr nota 1).

§ 3 b) Riferimenti normativi internazionali e comunitari

In termini più strettamente normativi, la richiamata profonda omogeneità tra disciplina dei diritti di PI e concorrenza trova conferma e fondamento già nelle convenzioni internazionali e nel diritto comunitario.

Ivi, nella nozione di proprietà intellettuale (comprensiva, nella nozione universalmente accettata, delle “italiane” proprietà industriale ed intellettuale, quest’ultima riferita al solo diritto d’autore) rientra, anzi, l’intera disciplina della concorrenza sleale.

Così l’art. l’art. 1.2 CUP afferma che “la protezione della proprietà industriale ha per oggetto” anche “la repressione della concorrenza sleale”; d’altro canto, si è correttamente osservato che la nozione di concorrenza sleale rilevante ex art. 1.2 CUP si estende quantomeno a tutte le fattispecie ivi previste dall’art. 10bis della convenzione stessa.

Ancor più rilevante, ai fini che qui interessano, è l’accordo TRIPs., che costituisce la massima espressione di quell’interazione fra la liberazione del commercio mondiale e la protezione mondiale della propriertà determinato, o almeno favorito, dal fenomeno della “globalizzazione” delle economie mondiali[12]

In particolare l’art. 2.2 dei TRIPs stabilisce che

“nessuna disposizione delle parti da I a IV del presente accordo pregiudica gli eventuali obblighi reciproci incombenti ai membri in forza della convenzione di Parigi” e, dunque, la qualificazione come concorrenza sleale di tutte le fattispecie dichiarate tali dalla CUP.

Anche la direttiva 2004/48/CE del parlamento europeo e del consiglio del 29 aprile 2004, sul rispetto dei diritti di proprietà industriale, c.d. direttiva sull’enforcement, adotta una nozione larghissima di proprietà intellettuale (v. considerando 13), comprensiva, conformemente alle fonti vincolanti prima richiamate (l’UE aderisce ai TRIPs) anche della concorrenza sleale.

§ 4) L’impostazione “programmatica” del CPI

L’esigenza da un lato di di far emergere la profonda omogeneità tra privative di PI e c.s., dall’altro, e coerentemente, di respingere, come superata, ogni contrapposizione tra diritti di monopolio, posti dalle privative industrialistiche, e principio di libertà/lealtà di concorrenza, costituisce un vero e proprio caposaldo del CPI.

E’ ripudiata, in particolare, l’idea che nella tutela contro la concorrenza sleale abbiano rilevanza interessi diversi ed antagonistici rispetto a quello del titolare del diritto (compreso però l’interesse dei consumatori, cfr infra) e che tale rilevanza possa segnare una distinzione rispetto alla impostazione dominicale della proprietà industriale.

Nell’impostazione originaria del 2005 tanto discendeva dalla struttura stessa del Codice, che “ricostruisce in un quadro nuovo e moderno i nessi sistematici che collegano i molteplici diritti di proprietà industriale”, alla stregua sia di “una più rigorosa impostazione dogmatica dei rapporti intercorrenti fra proprietà industriale e concorrenza sleale, sia (delle) indicazioni che provengono dai TRIP’s” (così la Relazione).

Un autore- non estraneo alla redazione del Codice e di quella relazione - ancor più icasticamente, era giunto a configurare, certo problematicamente, la relazione tra proprietà industriale ed intellettuale e tutela della concorrenza in termini di “interfaccia”.

La concorrenzialità del mercato, quindi, non è un valore antagonistico rispetto alle restrizioni derivanti dai diritti esclusivi ma – in una ottica di complementarietà – costituisce

“un vero e proprio fattore interno di definizione non soltanto dello scopo ma anche delle limitazioni da assegnare alle proprietà intellettuali”. [13]

Sotto tale profilo anche il brevetto ha una funzione concorrenziale, come stimolo all’innovazione

Già in precedenza chi scrive aveva rilevato che[14]:

“Gli stessi istituti della proprietà intellettuale, ivi compresi i diritti di privativa, che in quanto tali soddisfano un interesse monopolistico del singolo, sono però anche un mezzo per perseguire uno scopo di interesse generale e di rango costituzionale, di stimolo dell’attività di ricerca: il riferimento è evidentemente all’art. 9 Cost.

Tuttavia la successiva attività di produzione e commercializzazione dei frutti della produzione si colloca in una cornice costituzionale ispirata al principio di libertà di concorrenza: qui il richiamo è al fondamentale art. 41 Cost.

Soprattutto l’interprete deve evitare ogni surrettizia l’attribuzione di funzioni di tutela esclusiva ad altre discipline che in ragione di funzioni diverse possono riferirsi ad oggetti tutelati o tutelabili con il diritto esclusivo, e quindi deve preferire una lettura delle norme in chiave pro concorrenziale, rispetto ad altre letture pur testualmente possibili. In caso contrario vi è il rischio che il diritto industriale, da strumento di innovazione e di sviluppo competitivo, si trasformi in barriera protezionistica in favore delle imprese dominanti”

§ 5) La omogeneizzazione codicistica di concorrenza sleale e diritti di PI

Stando così le cose, la differenza tra diritti di proprietà industriale e c.s. non è qualitativa, ma “quantitativa”, ed infatti è ricondotta, dalla Relazione cit., alla

“maggiore o minore "oggettività" della protezione” accordata.

Si spiega allora, alla stregua di siffatti parametri di riferimento, come il Codice abbia potuto agevolmente ritagliare – senza alcuno “strappo” – alcune fattispecie dall’ambito di quella norma “quadro” che è l’art. 2598 c.c., dando loro consistenza autonoma di diritti di proprietà industriale e ampliando il novero di questi ultimi, come sopra accennato.

In altri termini, sono stati individuati e “isolati” diritti che, protetti in precedenza con le norme contro la concorrenza sleale, possedevano però un’oggettività sufficiente per essere ricompresi nello schema di quelli di proprietà industriale, al punto che

“non vi è più ragione di distinguere la fonte della tutela e la sua stessa articolazione funzionale”.

La “pietra di paragone” era (ed è) appunto l’oggettività degli istituti, figura per la verità ben poco oggettiva e che può riconoscersi nella completezza della configurazione data agli istituti in questione dall’elaborazione giurisprudenziale.

Il riferimento, come pure già detto, è al marchio di fatto, ai segni geografici, alle informazioni riservate. [15]

I diritti di proprietà industriale costituiscono, quindi, una categoria aperta, suscettibile di evoluzione e di ampliamento, ma anche sostanzialmente omogenea rispetto agli istituti di concorrenza sleale.

§ 6) La centralità del processo industrialistico

Nel testo originario del Codice l’avvicinamento tra diritti di proprietà industriale, titolati o meno, e disciplina della concorrenza sleale trovava però riscontro essenzialmente nel processo industrialistico, attesa la generalizzata applicazione dei medesimi istituti, in primo luogo in tema di competenza delle sezioni specializzate.

Tale omogeneizzazione della tutela processuale è uscita evidentemente rafforzata dalla profonda novellazione delle norme processuali attuata dal D. lg 1402006 cit., c.d. sull’enforcement, e quindi dalla stessa novellazione del 2010.

La disciplina processuale, unitaria – tendenzialmente – per tutti i diritti di proprietà industriale – costituisce la maggiore smentita della tesi, sostenuta da autorevoli autori all’indomani dell’entrata in vigore del Codice, che questo si sarebbe limitato ad assemblare discipline normative comunque eterogenee.

Non vi è più dubbio alcuno, quindi, sulla piena applicazione degli istituti processuali codicistici ai segni distintivi diversi dal marchio registrato, quali la ditta, o anche il marchio di fatto. [16]

Tanto con ricadute anche di diritto sostanziale, evidentemente non considerate dal legislatore.[17]

La giurisprudenza, tuttavia, mostra ancora esitazioni nell’affermare l’applicazione alle fattispecie di c.s., almeno a quelle rimesse alla competenza delle sezioni p.i.i., degli istituti processuali codicistici.[18]

La questione è di grande rilievo perché, a fronte della specialità e della completezza degli istituti cautelari (specie cautelari e in ambito probatorio) a tutela delle privative, la repressione della c.s. si fonda, essenzialmente, sugli ordinari istituti processualcivilistici

Così ad esempio, mancando misure tipiche, la tutela cautelare inibitoria (e non solo) della c.s. era riconosciuta solo ai sensi dell’art. 700 c.p.c.; la differenza è sostanziale, anche perché il periculum in mora, per quest’ultimo, va accertato con rigore ben maggiore che per quello previsto per le misure cautelari tipiche di diritto industriale.[19]

Né la tutela della c.s. – a fronte della completezza di quella garantita dal CPI ai diritti di PI- è realmente “arricchita” dalla previsione dell’art. 2599 , che prevede l’adozione di “opportuni provvedimenti” per la rimozione degli effetti della condotta illecita.[20]

Chi scrive ha di contro reiteratamente affermato che alle fattispecie di concorrenza sleale di competenza delle sezioni specializzate si applicano integralmente le norme processuali del capo III del Codice, nonostante il frequente riferimento, in tali norme, ai diritti di proprietà industriale.

Tanto è imposto, in primo luogo, da esignze di coerenza sistematica (non si spiegherebbe altrimenti perché , una volta affermata la competenza del giudice specializzato, dovrebbe negarsi, per la sola c.s., oltretutto spesso connessa inestricabilmente a diritti di PI, dovrebbe negarsi l’applicazione degli istituti processuali che a quel giudice fanno capo).

“Vi è però una ulteriore dato da considerare, e di ben maggior rilievo: la profonda omogeneità, in primo luogo sostanziale, della concorrenza sleale con gli istituti disciplinati dal Codice….Da qui – allora – la piena applicazione anche alle fattispecie di concorrenza sleale non “oggettivizzate” , ma di competenza delle sezioni, delle disposizioni processuali del Codice.

Così l’art. 125 Cod., in materia di risarcimento del danno, finisce per sostituire, o comunque integrare, il ben meno analitico art. 2600 c.c.

Soprattutto, per quanto qui interessa, la repressione delle condotte di concorrenza sleale di competenza delle sezioni specializzate potrà essere chiesta e disposta non più ex art. 700 c.p.c. (ovvero – quanto ai sequestri – facendo applicazione delle norme su quello conservativo o giudiziario) ma – come per tutti gli altri diritti di P.I.– secondo le ben più complesse norme degli artt. 128 ss Cod. La innovazione è sostanziale: basta ricordare l’efficacia anche verso i terzi delle misure industrialistiche tipiche della descrizione e del sequestro”.[21]

Altri hanno invece sostenuto che proprio l’art. 134 citt. Distingue ancora tra azioni di c.s. e quelle a tutela delle privative, anche quando le prime sono di competenza delle sezioni specializzate, sicchè quando la scelta dell’attore ricada sulla tutela concorrenziale, gli istituti processuali invocabili saranno solo quelli propri di quest’ultima (pur se, di fatto, gli attori iricorrenti imposteranno le domande sotto il profilo della PI, così’ godendo della relativa tutela).[22]

§ 7) Sviluppi successivi: la novella del 2010

Il riconoscimento della profonda omogeneità tra diritto della concorrenza e diritti di proprietà industriale era destinato ad avere ulteriori ricadute, in prospettiva ben più rilevanti, la cui “evidenziazione” era rimessa, evidentemente, all’opera della giurisprudenza.

Si noti, oltretutto, che – nonostante la codificazione – non si è interrotta la tendenza del legislatore a favorire una tutela sempre più onnicomprensiva e bulimica dei diritti di PI (il riferimento è alle norme norme assurdamente neoprotezionistiche, in tema di made in Italy). [23]

L’”irruzione” dei valori di libertà concorrenziale nell’ambito dei diritti di proprietà industriale, contro ogni tentazione neoprotezionistica, se non francamente corporativistica, ha trovato però conferma e compimento nella novella del 2010, il D.lgs 1312010, che - come si è felicemente osservato – è passato da una impostazione talora ancora “proprietaria” a un approccio market-oriented

Ai diritti di proprietà industriale si è voluto riconoscere, in estrema sintesi, la massima tutela possibile, senza però che ciò si risolva nella protezione esasperata e corporativa di mere posizioni di privilegio, vere e proprie rendite di posizione: ciò proprio in un’ottica di tutela della libertà di concorrenza, alla base – come fino ad ora essenzialmente solo conclamato – dei diritti di PI.

Il superamento della logica proprietaria, in senso classico, è imposta anche dall’esigenza, vivamente sentita dai più, di evitare la sottoposizione dei procedimenti industrialistici alla mediazione obbligatoria prevista, dall’art. 5 D.lgs 282010, per le controversie (anche) in materia di diritti reali.[24]

Altro autorevolissimo autore, che della novella è stato anche “protagonista” diretto, ha così osservato che si è voluto procedere- anche in un’ottica di adeguamento al diritto comunitario e internazionale- verso un approccio realistico e concreto alla protezione dei diritti di proprietà industriale

“fondato sulla considerazione di ciò che le realtà che ne formano oggetto realmente rappresentano sul mercato e, prima ancora, nelle dinamiche dell’attività economica e quindi della comunicazione d’impresa e della ricerca. Questo approccio realistico, o, se si preferisce, fenomenologico, trova tra l’altro una precisa base normativa proprio nelle convenzioni internazionali vigenti nella nostra materia e nello stesso diritto comunitario, che delinea un equilibrio tra esclusive, concorrenza e contratti nel quale la protezione può essere riconosciuta solo a ciò che davvero questa protezione richiede, nella consapevolezza del fatto che le norme sono chiamate a disciplinare realtà concrete e che la giustificazione di esse è strettamente connessa con l’esperienza umana di queste realtà, secondo una prospettiva, che potremmo definire giusnaturalistica, di adeguamento del diritto alle relazioni interpersonali della vita reale”.[25]

Tale impostazione, pragmatica e dinamica, trova specifico riscontro nella novellazione delle norme in tema di segni distintivi .[26]

Può allora convenirsi con l’autore in ultimo richiamato, secondo cui

“le modifiche inserite nel Codice in questo campo appaiono dirette a rendere più compiuta e coerente la protezione dei marchi, degli altri segni distintivi e delle denominazioni di origine contro i comportamenti diretti a sfruttare indebitamente i valori di avviamento commerciale incorporati in questi segni, nella prospettiva generale – che con questa riforma è divenuta uno degli assi portanti del Codice – di attribuire alle imprese la possibilità di valorizzare tutte le esternalità positive derivanti dall’uso dei loro diritti di proprietà industriale, vietando ogni forma di free-riding e di sfruttamento parassitario dei loro investimenti.” [27]

La tutela riguarda tutti i casi in cui un segno sia utilizzato da altri – illecitamente e parassitariamente - per finalità economiche (ormai sicuramente anche al di fuori di un’attività d’impresa).

Ma da qui anche una precisa limitazione alla portata della tutela stessa, che non potrà andare oltre, non potrà risolversi in una astratta (iper) protezione “reale” dei diritti in oggetto, del tutto svincolata dalla loro funzione pur sempre proconcorrenziale, come del resto già accennato.[28]

§ 8 a) Concorrenza sleale e libertà di concorrenza: linee evolutive della giurisprudenza di merito….

In definitiva i principi di libertà di concorrenza, propri della concorrenza sleale, hanno permeato di sé il mondo, in apparenza chiuso, dei diritti di proprietà industriale; ciò in pochi anni (pur cogliendo e sviluppando spunti ben più risalenti).

Resta da vedere se il cerchio si sia chiuso, se cioè quegli stessi principi e valori, sempre più compiutamente espressi dalle norme in tema di diritti di PI, siano “tornati indietro”, consentendo cioè una lettura a sua volta ancora più marcatamente proconcorrenziale di una disciplina, quella della concorrenza sleale, pur sempre contenuta in un testo non privo di ambiguità, frutto di spinte francamente corporative, se non anticoncorrenziali.

Vi è di più.

La c.s. non esprime solo i valori della libertà di concorrenza.

Al contrario, essa, storicamente, presenta una impronta originaria protezionista e corporativa: lo stesso richiamo al’etica professionale è funzionale all’esigenza di limitare la concorrenza nell’interesse degli imprenditori, non del mercato e dei consumatori, così come d’altronde l’avviamento è visto come un quid che appartiene all’impresa che lo produce

Neanche può trascurarsi, come pure si è osservato, che le riforme dei diritti di PI degli anni novanta hanno finito per incoraggiare più un modello di concorrenza fondato su richiami pubblicitari che su perforance legate alla qualità e all’innovazione

La c.s. ha così fino ad ora sovente svolto una funzione ancillare rispetto ai diritti di proprietà industriale, colmando le lacune delle relative discipline rispetto a comportamenti lesivi.[29]

Si è anzi osservato che la .c.s ha finito quasi per assumere una fisionomia criptobrevettuale, addirittura di “protesi del diritto esclusivo”.[30]

Ancora la Relazione al Codice espressamente esclude – non senza una certa miopia – che

“nella tutela contro la concorrenza sleale abbiano rilevanza interessi antagonistici rispetto a quelli del titolare del diritto (come l’interesse del consumatore)…l’interesse della collettività ad un mercato concorrenziale libero ed efficiente viene garantito dalla legge antitrust”: si tratta di interessi, anzi, la cui tutela sarebbe “estranea alla tutela della proprietà industriale”.

L’apertura agli interessi e ai diritti dei consumatori, di contro, è stata poi concretizzata dai D.lgs 145 e 1462007 cit., fin con il riconoscimento della loro legittimazione ad agire.[31]

Vi è stato poi un vero e proprio recupero della “dimensione privatistica” dello stesso diritto antitrust, che d’altronde da tempo prevede il risarcimento in caso di lesione del diritto di concorrenza del privato, cfr art. 33 l. 2871990.

La c.s. è così’ vista sempre più come complementare alla disciplina Antitrust, nell’ottica di una visione comune di tutela del mercato.

D’altronde il Reg. 12003 impone alle autorità nazionali di tutelare i diritti soggettivi garantiti dal diritto comunitario nelle controversie tra privati.[32]

L’obiettivo è appunto la “trasformazione” della c.s., facendo venire meno la denunciata funzione di integrazione delle norme su brevetti e marchi (a iperdifesa dell’avviamento commerciale).

Di contro, la c.s. è destinata a divenire un “paradigma” ispirato ad un mercato concorrenziale e socalmente compatiibile, volto a selezionare le condotte lecite pur nella vigenza delle privative, vietando nel contempo i comportamenti contradittori con il benessere del marcato[33]

Certo, in mancanza di una espressa novellazione della disciplina della c.s., il superamento dell’impostazione tradizionale è rimesso essenzialmente all’opera della giurisprudenza.

Tanto è però sicuramente auspicabile, almeno da parte di cui reputa che la repressione della concorrenza sleale debbe ispirarsi a principi di libertà di concorrenza, cui non sono estranei profili di tutela di interessi più vasti, quali quelli dei consumatori, e non ad una logica di tutela assoluta e onnicompensiva, come visto abbandonata per gli stessi diritti di proprietà industriale.

Si consideri, comunque , che la giurisprudenza di merito – già anteriormente al codice – tendeva ad interpretare restrittivamente le disposizoni dell’art. 2598 c.c., al punto che talune fattispecie di c.s. erano e sono di difficilissimo accertamento giudiziale: è il caso del boicottaggio, ricondotto all’abuso di posizione dominante[34] (e qui opera proprio una interpretazione proconcorrenziale, cfr infra) e lo storno dei dipendenti (dove invece prevale l’esigenza di tutelare la libertà dei lavoratori).[35]

§ 8 b ) …e di legittimità: il caso delle vendite sottocosto

La stessa giurisprudenza della Cassazione ha mostrato di voler leggere in modo innovativo, talora profondamente innovativo, fattispecie di concorrenza sleale fino a quel momento interpetati in un’ottica quasi “neocorporativa”.

Così si pronunciava la Suprema Corte già nel 1997:

“Il preambolo dell’art. 2598 c.c. chiarisce la necessità di coerenza del regime delle privative con quello della libertà di concorrenza, e dunque la possibile coesistenza degli illeciti c.d. brevettuali con quelli tipicamente concorrenziali; cosicché, se la tutela dei diritti di privativa deve avere una funzione premiale dello sforzo d’innovazione, non può essere adoperata strumentalmente per limitare l’altrui diritto di concorrenza oltre tale funzione; in particolare, il brevetto attribuisce al suo titolare il monopolio dello sfruttamento del suo oggetto e, fermo tale diritto, esso non può attribuire altri vantaggi che quelli, temporanei, che la legge fa conseguire alla sua legittimità”.[36]

Più di recente, può richiamarsi la notissima pronuncia in tema di vendita sottocosto, che ha sostanzialmente abrogato l’istituto, almeno come era tradizionalmente configurato, riconducendolo al divieto legislativo, interno o comunitario, di abuso di posizione dominante; più precisamente:

“La fissazione di prezzi anche particolarmente più bassi rispetto a quelli praticati da altri imprenditori del settore costituisce, di per sé, pratica lecita, in quanto espressione del principio di libertà di iniziativa economica e può integrare gli estremi della concorrenza sleale per vendita sottocosto solo se in contrasto con il divieto legislativo, interno o comunitario, di abuso di posizione dominante, quale pratica posta in essere da una impresa che, muovendo da una posizione di dominio, ne abusi con il frapporre barriere all’ingresso di altri concorrenti sul mercato, ovvero favorendone l’eliminazione” (nella specie, la Suprema Corte ha escluso che la vendita di una guida televisiva settimanale abbinata ad un quotidiano integri gli estremi della vendita sottocosto, non essendo stato né allegato né tantomeno provato che l’editore si trovava in una posizione domimante sul mercato, e che la politica dei prezzi da esso praticata aveva l’effetto anche solo potenziale di rafforzare tale posizione, atteso oltretutto che si trattava di iniziativa editoriale praticata anche da altri concorrenti). [37]

PARTE II

LA TUTELA DELLA FORMA TRA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA SLEALE E DELLE PRIVATIVE INDUSTRIALISTICHE

§ 10) Le plurime fonti di tutela della forma del prodotto

Va però riconosciuto che la giurisprudenza è ancora ben lontana dall’aver individuato precise linee guida in materia: non mancano contraddizioni e orientamenti talora francamente neoprotezionistici o “iperprotettivi.”

Tanto si manifesta con particolare riguardo ad un tema di grande rilievo, anche e soprattutto operativo: quello della tutela delle forme dei prodotti e del loro confezionamento.

Trattandosi di argomento vastisimo, e che ampiamente esula dal tema a me assegnato, mi limito a ricordare che qui possono variamente sovrapporsi e concorrere la disciplina:

- dei marchi, e ciò fin dal D.lgs 480/1992 che– riscrivendo l’art. 16 R.D. 929/1942 - ammise espressamente i marchi di colore e quelli di forma, che ben possono essere tridimensionali, purchè dotati di funzione distintiva. La materia è ora regolata dall’art. 9 Cod.

- dei disegni e dei modelli, ciò almeno dal D.lgs 952001, di attuazione della Direttiva 98/71/CE del 13 ottobre 1998 che ha abrogato, per i modelli, il criterio dello “speciale ornamento”, così superando la tradizionale contrapposizione tra marchi di forma e modelli: per alcuni sarebbe possibile il cumulo di tutele. La materia è ora disciplinata dagli artt. 31 ss Cod.[38]

- del diritto d’autore, attesa la ricomprensione nell’art. 1 l. aut., quale rinovellato dal D.lgs 95|2001, delle “opere del disegno industriale che presentino di per sé carattere creativo e valore artistico”.[39].

- ovviamente della concorrenza sleale, per imitazione servile, ma anche confusoria, e quella residuale di cui al n. 3 art. 2598 cit. (ma la disciplina della concorrenza sleale è di per sé residuale, atteso l’incipit del medesimo art. 2598 cit.); si è poi già detto delle nuove fattispecie introdotte dal Codice del Consumo[40].

§ 11 a) Imitazione servile: i caratteri nella giurisprudenza più recente

E’ opportuno muovere proprio dalla c.s. per imitazione servile (i.s.), cui è tradizionalmente (?) demandata la tutela della forma dei prodotti e delle loro confezioni.

Va qui sommariamente ricordato che la c.s. per i.s. è una species della c.s. confusoria, di cui all’art. 2598 n. 1 c.c.[41]

In particolare si afferma che integra gli estremi della c.s. per i.s. la condotta dell’imprenditore che imiti la forma del prodotto di un concorrente, sempre però :

- che si tratti della riproduzione della forme esteriori del prodotto del concorrente, atteso d’altronde che eventuali differenze interne o strutturali non sarebbero visibili all’esterno e quindi non sarebbero idonee a scongiurare il rischio confusorio.

- che tali forme abbiano un valore individualizzante e distintivo, vale a dire idoneo a diversificare il prodotto rispetto ad altri simili; quindi deve trattarsi di forme idonee- nella percezione del pubblico a ricollegare il prodotto ad una data impresa (il carattere distintivo ha quindi una duplice accezione: differenzia il prodotto rispetto ad altri simili e appunto lo identifica come riconducibile ad una determinata impresa. Di converso il prodotto che si assume imitazione del primo deve essere privo di elementi distintivi idonei ad esplicitare, agli occhi dei consumatori, la diversa provenienza dei prodotti [42]

- che si tratti di forme “arbitrarie”, vale a dire non rese necessarie dalle caratteristiche funzionali del prodotto[43]; in altri termini la tutela è esclusa a fronte dell’imitazione di forme rese necessarie dalle caratteristiche funzionali del prodotto stesso, sempre che non siano coperte da tutela brevettuale; [44] l’imitazione, in altri termini, deve riguardare profili del tutto inessenziali alla funzione quali, ad esempio, le dimensioni, le proporzioni delle parti, l’adozione di un particolare colore o di altri particolari formali, sempre del tutto indifferenti rispetto alla funzione del prodotto

- che si tratti quindi di forme originali, non potendosi accordare tutela a forme ormai generalizzate e standardizzate, vale a dire divenute caratterizzanti di quel tipo di prodotto in generale[45]; si noti che distintività e originalità costituiscono entrambi fatti costitutivi della dedotta contraffazione per imitazione servile, essendo i medesimi requisiti necessari non in via alternativa, ma in via cumulativa

- che da tale imitazione ne derivi confusione con il prodotto commercializzato dal concorrente stesso.

In definitiva la tutela contro l’i.s. può essere accordata solo a forme non banali né standardizzate, ma idonee a rendere il prodotto riconoscibile, e quindi- se riprese - suscettibili di creare confusione circa la provenienza

La giurisprudenza su tali profili, di legittimità e di merito, è davvero vastissima, pur se non sembra aver tenuto conto dell’entrata in vigore del Codice, ribadendo tralaticiamente affermazioni che richiederebbero invece una revisione critica, appunto alla stregua del mutato quadro normativo di riferimento, come già accennato[46].

11 b) continua: la confondibilità

Particolare attenzione è stata prestata al tema della confondibilità, che si atteggia in termini non sempre coincidenti rispetto ai diritti di proprietà industriale (specie con riferimento alla necessità di un giudizio “in concreto” e non “in astratto”).[47]

Si tratta comunque di impostazione che dovrebbe essere rivista alla luce del superamento, almeno dottrinale, della contrapposizione tra tutela reale (delle privative) e obbligatoria (della c.s.), su cui cfr infra.

Comunque anche nell’ambito in parola è frequente l’affermazione che - al fine di accertare l’esistenza della fattispecie della confondibilità tra prodotti per imitazione servile- è necessario che la comparazione tra i medesimi avvenga non attraverso un esame analitico e separato dei singoli elementi caratterizzanti,

“ma mediante una valutazione sintetica dei medesimi nel loro complesso, ponendosi dal punto di vista del consumatore e tenendo, quindi, conto che, quanto minore è l’importanza merceologica di un prodotto, tanto più la scelta può essere determinata da percezioni di tipo immediato e sollecitazioni sensoriali, anziché da dati che richiedano un’attenzione riflessiva, e considerando altresì che il divieto di imitazione servile tutela l’interesse a che l’imitatore non crei confusione con i prodotti del concorrente”[48]

La confusione può manifestarsi anche come rischio di associazione, non diversamente da quanto previsto con riferimento ai marchi. [49]

Va ancora sommariamente ricordato da un lato che il consumatore di riferimento è quello “medio” di quel genere di prodotto (la cui attenzione si ferma sul complessivo aspetto formale del prodotto soprattutto con riferimento ai settori merceologici in cui i prodotti non rivestano rilevante importanza), dall’altro che il carattere confusorio deve essere accertato con riguardo al mercato di riferimento (ovvero «rilevante»), ossia a quello nel quale operano o (secondo la naturale espansività delle attività economiche) possono operare gli imprenditori in concorrenza, occorrendo di volta in volta stabilire, nelle singole vicende, anche ai fini del preuso, se gli imprenditori in conflitto offrano prodotti destinati a soddisfare la stessa esigenza di mercato alla medesima clientela.[50]

Non mancano però provvedimenti che, talora non esplicitamente, si discostano dagli orientamenti tradizionali, negando la tutela anticoncorrenziale a condotte, pur in apparenza confusorie, che però non si traducono in una vera e propria confusione, in quanto, in realtà, attingono a più vasti patrimoni comuni, sicchè non si realizza alcuna parassitaria appropriazione dell’altrui attività.[51]

Va in particolare richiamato un provvedimento cautelare del Tribunale di Milano relativo ad un ambito dove, tradizionalmente, la giurisprudenza accorda una tutela particolarmente forte: quello della moda.

Di contro l’illecito è stato escluso a fronte della ripresa, con riferimento ad una intera collezione, di motivi ed elementi (relativi a materiali, dettagli, “architettura”) della collezione di un concorrente, trattandosi in realtà di motivi ricorrenti e noti nel settore, ed anzi appartenenti alla tradizione, e perciò non suscettibili di monopolio.

A ben vedere, comunque, non si tratta di una pronuncia innovativa, in quanto si è solo realizzato una rigorosa applicazione, per quanto peculiare, del divieto di tutela delle forme standardizzate.[52]

Va anche ricordato che la giurisprudenza – ai fini dell’accertamento della concorrenza sleale confusoria (e per violazione dei principi di correttezza professionale)- reputa che non occorra accertare il concreto verificarsi di fatti confusori, ma solo la potenziale confondibilità fra i prodotti o servizi offerti da un concorrente e quelli offerti da un altro, da valutarsi in relazione alle circostanze del caso alla stregua di nozioni di comune esperienza [53]

§ 12) Concorrenza sleale e marchi: interferenza e concorso di tutele

La possibilità di cumulo dell’azione di contraffazione del marchio e di quella per la repressione della concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598 n. 1 c.c costituisce un tema classico del diritto industriale, non solo processuale.

Al riguardo deve segnalarsi una certa ambiguità della giurisprudenza.

Da un lato, infatti, prevale l’orientamento tradizionale alla stregua del quale, a fronte dell’usurpazione o contraffazione del marchio registrato da parte di un concorrente, il titolare può esercitare sia l’azione reale di contraffazione del marchio, che presuppone l’accertamento della confondibilità tra i segni, che anche - congiuntamente - quella obbligatoria di repressione della concorrenza sleale, nella prassi essenzialmente per imitazione servile o confusoria.

Si reputa infatti che tale cumulo sia ammissibile,

“sempre che quella condotta illecita, per le modalità di uso del segno, abbia creato confondibilità circa la provenienza dei rispettivi prodotti, così ricorrendo i presupposti dell’azione obbligatoria in parola”[54]

In altri termini, a fronte di un medesimo fatto storico (essenzialmente di imitazione di una privativa altrui) corrisponde, quindi, la possibilità di un concorso di norme, più precisamente quel medesimo fatto può costituire al tempo stesso contraffazione di marchio e atto di concorrenza sleale.

Più precisamente tale cumulo è ammesso ogni volta che nella situazione di fatto si presentino i presupposti di entrambe le azioni, pur se l’una – quella di contraffazione – ha natura reale, l’altra meramente obbligatoria

La questione si pone, evidentemente, anche con riferimento alle altre privative industrialistiche, in relazione al possibile cumulo (anche) con l’azione di concorrenza sleale per imitazione servile.

Si tratta di una lettura giurisprudenziale ribadita anche dopo l’entrata in vigore del Codice, senza però fare i conti con il nuovo assetto normativo, sopra ricostruito.[55]

Pure la stessa contrapposizione tra azione reale di contraffazione e obbligaria anticoncorrenziale ha perduto buona parte dell’originario significato, come del resto già evidenziato.

La giurisprudenza però è ancora lontana dal riconoscere, ricavandone le necessarie conseguenze, che

“Ogni elemento di differenza, di contrapposizione strutturale fra azione di contraffazione di marchio registrato e azione di concorrenza sleale è venuta meno. Entrambe sono a tutela di un diritto assoluto, godono di una tutela inibitoria che prescinde da colpa o dolo, sono affiancate da un diritto al risarcimento del danno in presenza dell’elemento soggettivo. Conseguentemente esigere la confondibilità fra prodotti come condizione di illiceità della concorrenza sleale confusoria è oggi privo di senso”, venendo in rilievo la confondibilità tra prodotti, per ambo le fattispecie, ai fini della determinazione dell’entità del risarcimento”.[56]

Dall’altro lato va però richiamata quella parte della giurisprudenza che si è sempre mostrata restia ad ammettere che un bene, che può essere tipologicamente oggetto di una privativa tipica, possa essere protetto anche mediante il divieto di concorrenza sleale per i.s.

“qualora, infatti, allo stesso si concedesse la tutela dell’i.s., si riconoscerebbe, in concreto, una tutela sostanzialmente perenne” .[57]

Non mancano poi provvedimenti secondo cui la disciplina della concorrenza sleale per i.s. non può essere richiamata per proteggere forme escluse dalla registrazione in base ai principi espressamente dettati per il settore dei marchi.[58]

Va al riguardo richiamato un provvedimento del Tribunale di Torino[59] che ha denegato la tutela cautelare inibitoria della caffettiera Moka Bialetti rispetto a modelli di caffettiera commercializzati da un concorrente, pur se di forme simili.

Il Tribunale, certo, osserva che non vi è rischio di confusione, pe il consumatore medio, in ragione di talune rilevanti varianti formali tra i modelli (manici , pomoli), ed anche in quanto la caffettiera di cui si chiede la tutela presenta un marchio proprio, oltretutto celebre “l’omino con i baffi”.

Il dato forse di maggior interesse è che la tutela repressiva della concorrenza sleale è stata negata anche sul rilievo che la forma ottagonale della caffettiera “moka” Bialetti è priva di capacità distintiva, perché molto diffusa sul mercato, al punto di essere puntualmente descritta, come “tipo molto diffuso” dall’enciclopedia Treccani. Il tribunale, anzi, non ha esitato a ricordare che quella forma non era riuscita a conseguire la registrazione come marchio comunitario.

§ 13 a ) L’ambiguità della giurisprudenza in tema di c.s. : due vicende emblematiche.

Il caso Lego

Va a questo punto estesamente richiamata una ancora recente sentenza della Cassazione che ha risolto, in termini marcatamente proconcorrenziali, una vicenda “celebre”, e che aveva dato luogo a numerosi e contrastanti provvedimenti: il “caso Lego”.

La Suprema Corte, giova anticipare, ha escluso la concorrenza sleale per violazione dei principî di correttezza professionale a fronte della commercializzazione di mattoncini modulari per giochi di costruzioni compatibili con quelli prodotti dalla società Lego, ormai non più protetti da brevetto di modello industriale[60].

In primo grado il Tribunale di Milano[61] aveva affermato che l’oggetto del brevetto, una volta caduto il pubblico dominio, deve ritenersi liberamente riproducibile in tutte le sue utilità, richiamando al riguardo la disciplina dei pezzi di ricambio (liberamente appropriabili).

Beninteso, resta ferma la possibilità di tutela, per il divieto di imitazione servile., degli aspetti formali dotati di capacità distintiva e, al contempo, superflui, tecnicamente insignificanti, arbitrari o capricciosi.

Nella specie il Tribunale aveva escluso che siano appunto “individualizzanti e distintivi arbitrari capricciosi e tecnicamente insignificanti” gli elementi capaci di consentire l’accoppiamento non solo tra di loro ma anche tra elementi appartenenti a moduli diversi dei c.d. mattoncini Lego.

La sentenza era stata però riformata in appello[62] secondo cui

“Sul piano della correttezza professionale (art. 2598, n. 3, c.c.), la ricerca di compatibilità per prodotti intercambiabili, in assenza di diritti di privativa, è lecita, ma non può spingersi fino al punto di connettersi con il sistema realizzato dal concorrente, mancando una necessità qualificante che giustifichi la pedissequa ripresa di quella specifica combinazione allorché questa risulti surrogabile con forme alternative equivalenti sul piano della funzionalità (e dei costi)”.

La Corte d’appello ha ancora affermato che “Nel mercato dei prodotti modulari, diversamente da quanto avviene nel mercato della fornitura dei pezzi di ricambio, non è configurabile una posizione di dominio di un produttore verso l’altro, giacché tutti i prodotti appartengono non a mercati distinti ma ad un unico mercato (dove non esiste né prodotto principale né prodotto accessorio, dal momento che i pezzi di un sistema modulare sono essi stessi prodotti che si combinano tra loro, e non componenti di un unico prodotto complesso), e dunque ciascun imprenditore in concorrenza è in grado di realizzare autonomamente la propria «serie», con proprie caratteristiche, senza necessità di agganciarsi a quella dell’altro”.

In sostanza quindi, nonostante la scadenza della privativa, il concorrente restava tenuto ad un “onere di differenziazione”, vale a dire ad apportare al prodotto delle “varianti innocue”, atte a differenziare la forma del proprio prodotto da quella “originale”.

La teoria delle varianti innocue era del resto ampiamente recepita dalla giurisprudenza[63].

La Cassazione è andata di contrario avviso – sostanzialmente aderendo alla motivazione del Tribunale – ed anzi, cassata la sentenza d’Appello, ha deciso nel merito- escludendo che “non costituisce atto di concorrenza sleale la vendita in Italia dei mattoncini per giochi di costruzione …compatibili con quelli prodotti e venduti dalla Lego”.

La sentenza muove dal rilievo che la tutela delle privative industrialistiche- invenzioni e modelli, è funzionale all’esigenza di incentivare la ricerca di nuove soluzioni tecniche.

Tale funzione sarebbe invece negata dal riconoscimento di un diritto perpetuo di utilizzazione esclusiva di invenzioni e modelli, che anzi ingesserebbe il mercato.

Da qui, allora, la previsione del carattere solo temporaneo di quella tutela, scaduta la quale i modelli e le invenzioni sono liberamente riproducibili, certo nel rispetto delle norme sulla concorrenza: è davvero il declino della teoria delle varianti innocue.

Sono pertanto sanzionabili – continua la Cassazione - solo le utilizzazioni confusorie, ovvero le condotte altrimenti scorrette o dannose

Nella specie però la Corte d’Appello già aveva escluso che la produzione di elementi modulari compatibili con i prodotti Lego e con essi componibili costitisse imitazione servile, e la Cassazione ha ritenuto (pur se implicitamente) che – sul punto – si sia formato il giudicato.

I giudici di merito avevano tuttavia affermato l’illiceità degli elementi modulari componibili con quelli Lego ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c., ritenendo che l’onere di differenziazione comunque discende dal dovere di lealtà commerciale

Tuttavia tale obbligo– continua la Suprema Corte – non trova alcun riscontro normativo, atteso oltretutto che non può qualificarsi sleale la contesa della clientela con l’offerta di vantaggi aggiuntivi per il consumatore. Di contro la stessa concorrenza è “contesa della clientela”, ed è tutelata anche al fine di offrire vantaggi al consumatore.

La Cassazione ha allora smontato punto per punto, la motivazione della sentenza di appello, osservando che questa, pur avendo escluso l’imitazione servile confusoria, in ragione della perfetta identificabiità dell’origine degli elementi modulari controversi, contraddittoriamente fonda il divieto di compatibilità tra diversi sistemi modulari proprio con riferimento all’i.s.

Neanche rileva la pretesa differenza tra il mercato pezzi di ricambio, e quello dei sistemi modulari (che – a differenza del primo – sarebbe unico), pure richiamata dalla sentenza cassata.