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La discriminazione inversa alla luce della cittadinanza europea

Abstract

La discriminazione inversa ha fatto il suo tempo. Sottoprodotto dell’integrazione europea, figlia delle libertà fondamentali, è stata a lungo tollerata dagli stati come un male necessario per salvaguardare autonomia e sovranità. Ora che, a seguito del trattato di Maastricht, la costituzione di un mercato comune deve cedere il passo ad un unione politica, il fenomeno appare sempre più controverso. La questione di come accelerarne il declino è dibattuta.

Sommario

1. Nozione

2. Origini

a. Questioni di competenza: il nesso comunitario

b. Questioni teleologiche: il mercato interno

3. Discriminazione inversa e cittadinanza europea: è tempo di rimediare?

4. Quali soluzioni?

a. La soluzione nazionale

b. La soluzione comunitaria

5. L’opinione della Corte: il caso Flemish

6. Discriminazione inversa e sovranità. Ancora un male necessario?

7. Conclusioni

1. Nozione

La ‘discriminazione inversa’ si verifica ogni qual volta uno Stato Membro riserva a uno dei suoi cittadini, beni, servizi o capitali un trattamento meno favorevole rispetto a quello garantito al cittadino, beni, servizi o capitali di un altro Stato Membro, data l’impossibilità di invocare le norme del trattato europeo nelle situazioni di rilievo puramente interno.[1]

A titolo illustrativo riportiamo un caso tratto dalla giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia.

In Moser[2] un cittadino tedesco, escluso dalla possibilità di completare la sua formazione professionale a causa dell’appartenenza al partito comunista, ricorse invocando l’applicazione delle disposizioni in tema di libera circolazione delle persone (Art. 39 EC). La Corte ritenne la fattispecie al di fuori dell’ambito di competenza del trattato; infatti si trattava di un cittadino tedesco da sempre residente in Germania, la decisione impugnata proveniva dalle autorità tedesche, e la semplice prospettiva di essere penalizzato nella ricerca di un eventuale impiego all’estero non fu ritenuta sufficiente a configurare il collegamento con il diritto comunitario.

Paradossalmente nella medesima situazione di fatto sia il ricorrente italiano residente in Germania, sia quello tedesco in Italia avrebbero ottenuto tutela per aver esercitato il proprio diritto fondamentale, ossia avrebbero beneficiato di un trattamento di favore rispetto ai cittadini tedeschi residenti in Germania.

2. Origini

A questo punto un cenno deve essere fatto sulle ragioni di fondo per cui la discriminazione inversa si è affermata ed è stata tollerata.

E’ bene sottolineare che il fenomeno non si verifica perché gli Stati intendono penalizzare i propri cittadini, ma perché è il diritto europeo ad imporre il trattamento più favorevole dei cittadini o imprese di un altro Stato.[3]

a. Questioni di competenza: il nesso comunitario

Capire come il diritto comunitario riesce a creare tale disparità sarà evidente se si considera che gli art. 39, 43 e 49 (così come il 28) del Trattato possono essere invocati soltanto da coloro che si trasferiscono da uno stato all’altro. Questo limite è stato reso esplicito all’art. 43, che si riferisce a ‘la libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato Membro nel territorio di un altro Stato Membro’.[4]

Il principio ha trovato conferma nella giurisprudenza della Corte di Giustizia che a partire da Auer[5] e Saunders[6] ha costantemente affermato che ‘le disposizioni del trattato e la normativa adottata per la loro attuazione in materia di libera circolazione dei lavoratori non si applicano a situazioni che non hanno alcun nesso con una qualsiasi delle disposizioni considerate dal diritto comunitario’.[7]

In seguito la Corte ha inteso in maniera ampia questo nesso, riconoscendo la facoltà per i lavoratori di invocare il trattato nei confronti del proprio Stato qualora abbiano esercitato i loro diritti fondamentali, ad esempio quando abbiano risieduto in uno Stato Membro per un certo periodo di tempo e poi abbiano fatto ritorno in madrepatria. A questo punto risulta chiaro che gli unici ad essere penalizzati sono i cittadini stanziali.[8]

Con ciò, non abbiamo ancora chiarito tutti i termini della questione. Abbiamo detto che il nesso comunitario è necessario per tutelare esclusivamente le posizioni di rilievo comunitario, ma qual è la ratio della norma? A costo che il riferimento suoni scontato, occorre ricordare che alla base di tutto c’è un obiettivo macroeconomico fondamentale. Quando nel 1958 è sorta la Comunità Economica Europea, il suo scopo precipuo era la formazione di un unico comune mercato ove salvaguardare la libertà di movimento di persone, beni, servizi e capitali. ‘Movimenti’ ritenuti così importanti, da indurre a denominare le corrispondenti libertà ‘fondamentali’.

Le libertà fondamentali sono espressione di una organizzazione sovranazionale, costituita da stati che hanno interesse a mantenere il più possibile inalterata la propria sovranità e autonomia. In tali circostanze il rischio era uno Stato fosse incline a favorire i propri cittadini e prodotti a discapito degli altri. Tale condotta non solo sarebbe stata iniqua ma avrebbe anche costituito un impedimento all’integrazione economica.

Non c’è da stupirsi, quindi, che alcune disposizioni relative alle libertà fondamentali del Trattato EC (1957) specificamente vietarono di operare discriminazioni in base alla nazionalità; tuttavia la loro interpretazione ha determinato, non solo che ad uno Stato sia imposto di accordare a persone o beni che hanno un legame con il diritto comunitario un trattamento non sfavorevole rispetto ai propri ma anche imponendo, in alcune circostanze, un trattamento migliore.

b. Questioni teleologiche: il mercato interno

Le situazioni suscettibili di dare vita a discriminazione inversa sono aumentate notevolmente a causa dell’estensione operata dalla giurisprudenza della Corte, che ritiene applicabile le disposizioni del trattato non solo alle misure da cui scaturiscono discriminazioni, ma anche a quelle suscettibili di determinare restrizioni all’esercizio delle libertà sopra citate.[9]

Ci si è anche chiesto se l’art. 12 EC, introdotto per garantire un generale diritto all’uguaglianza di trattamento (di cui le libertà fondamentali sono un’applicazione), avesse proibito agli Stati Membri anche di trattare i propri cittadini in maniera più rigorosa rispetto a quelli degli altri Stati Membri. La Corte di giustizia ha avuto modo di escludere tali situazioni dal campo di applicazione del diritto comunitario, a condizione che la fattispecie sia puramente interna; in dette situazioni, quindi, gli Stati Membri sono liberi di agire senza tenere conto degli imperativi europei.[10]

La discriminazione inversa è dunque un prodotto collaterale dell’integrazione europea, e rientra nell’ambito di competenza del diritto europeo.[11]

3. Discriminazione inversa e cittadinanza europea: è tempo di rimediare?

Ora, nonostante il fenomeno sia stato ritenuto un male necessario in vista degli obiettivi della Comunità Europea, le attuali condizioni ci impongono di riconsiderarlo sotto una diversa prospettiva. Infatti, secondo alcune autorevoli opinioni, mentre poteva essere giustificato nell’ambito di una comunità che persegue obiettivi puramente economici, dove l’unico scopo è quello di assicurare la libertà di movimento di beni ed operatori economici, la sua conservazione è difficile da sostenere alla luce della nascita della cittadinanza europea.[12]

Niamh Nic Shuibhne aveva già notoriamente affermato che la discriminazione inversa è discriminazione in quanto impedisce lo sviluppo del mercato interno. Alina Tryfonidou elabora il concetto aggiungendo che nel momento in cui al centro del progetto europeo c’è non un fattore di produzione ma un cittadino[13], contribuire o meno al mercato non dovrebbe avere alcun rilievo per l’attribuzione di diritti e doveri; l’obiettivo non è più solo la compenetrazione economica, ma la costruzione di una comunità integrata di cittadini che condividono un senso di identità e di solidarietà. L’Unione Europa ha assistito ad un cambiamento paradigmatico nella base dell’integrazione: ha attribuito un nuovo significato alla parola uguaglianza, che è incompatibile con il mantenimento di barriere artificiali tra sistemi giuridici.

Quando il mercato interno non è un progetto in corso ma una realtà, quando i confini tra gli Stati Membri sono stati aboliti legalmente e materialmente nella maggioranza dei casi, non ha senso ridividere il nuovo spazio economico. In un simile spazio le situazioni ‘puramente interne’ sono finzioni giuridiche e una finzione giuridica si giustifica quando è utile. Questa, invece, sembra creare più problemi di quanti ne risolva.[14]

La discriminazione inversa genera la percezione che la Comunità protegga solo una minoranza dei suoi cittadini ed è una forma di disparità di trattamento altamente controproducente.[15]

4. Quali soluzioni?

La questione dei rimedi è dibattuta tra coloro che sostengono che le soluzioni siano da trovare a livello nazionale e coloro che propendono per la strada comunitaria. Gli appartenenti al primo gruppo, affermano la necessità di salvaguardare il principio di sussidiarietà e l’autonomia regolamentare dello Stato Membro; i secondi sottolineano come la soluzione vada trovata nello stesso ambito di origine del problema. [16]

a. La soluzione nazionale

Due proposte sono state avanzate per risolvere la questione a livello nazionale:

a. La prima prende la forma di un’estensione dell’ambito di applicazione del diritto comunitario a situazioni classificate come ‘puramente interne’ in virtù del richiamo da parte del diritto nazionale.

b. La seconda, fornita da alcune corti costituzionali, è la sanzione della discriminazione inversa per violazione delle disposizioni sulla parità di trattamento contenute nelle carte costituzionali.

Nonostante tali proposte possano costituire un contributo significativo non si ritengono risolutive. L’equivoco nasce probabilmente dalla credenza diffusa che ogni governo che ammettesse forme di discriminazione inversa sarebbe immediatamente sanzionato con gli strumenti a disposizione del processo democratico. Ma ciò non si verifica nei casi in cui tale processo avviene a livello regionale (come nel caso del Belgio, di seguito riportato), non essendo il corpo elettorale costituito dalle stesse persone soggette alla discriminazione. Inoltre la soluzione nazionale non garantisce uniformità all’interno dell’Unione, spostando semplicemente i confini della discriminazione, a seconda che il proprio stato abbia risolto il problema o meno.[17]

b. La soluzione comunitaria

Due proposte sono state avanzate anche per sostenere la soluzione comunitaria:

a. l’allineamento alla giurisprudenza in tema di libera circolazione dei beni, che non fa distinzione tra barriere regionali e nazionali. [18]

In questo settore la giurisprudenza ha valutato la sussistenza di un nesso con il diritto comunitario in maniera molto generosa, per evitare che l’abolizione degli ostacoli al libero mercato venisse vanificata dalla reintroduzione di barriere a livello puramente interno; le entità nei confronti delle quali occorre abolirle non sono necessariamente gli Stati Membri, ma qualsiasi autorità dotata di potere regolamentare.[19]

b. la cittadinanza europea come nesso comunitario;

Si è osservato che il godimento della cittadinanza europea dovrebbe costituire un collegamento sufficiente per ricondurre la situazione nell’alveo delle norme europee. Alla Corte spetta l’onere di stabilire se la libertà di circolare e risiedere liberamente nel territorio di uno Stato Membro, garantito dall’Art.18 a tutti i cittadini dell’Unione, sia da intendersi come libertà di muoversi e poi risiedere o libertà sia di muoversi che di risiedere.[20]

5. L’opinione della Corte: il caso Flemish

Le ultime considerazioni furono presentate dall’Avvocato Generale Sharpston in occasione del caso Flemish. Il caso concerneva la compatibilità alla normativa comunitaria di un tipo di assicurazione sociale accordato dalla regione fiamminga ai residenti da almeno 5 anni nella stessa regione o nella regione di Bruxelles, o in uno qualsiasi degli stati comunitari. Dal modello assicurativo erano estromessi i lavoratori della regione fiamminga (di qualsiasi nazionalità) residenti nella regione vallese. La Corte ne stabilì l’incompatibilità con gli art. 39 e 43 relativamente ai cittadini che avevano esercitato il loro diritto di libera circolazione - ossia ai non cittadini belgi che trasferiti dal proprio paese di origine per lavorare nella regione fiamminga e ai cittadini belgi che avevano precedentemente esercitato le loro libertà fondamentali. Esclusi dalla tutela rimasero i cittadini belgi che avevano sempre risieduto in patria.

La Corte tuttavia respinse l’opinione di Sharpston, ribadendo che ‘la cittadinanza europea non può ampliare l’ambito di applicazione del trattato alle situazione interne che non hanno alcun nesso con il diritto comunitario’.[21]

6. Discriminazione inversa e sovranità. Ancora un male necessario?

Dunque, nonostante la recente giurisprudenza della Corte di Giustizia si sia dimostrata incline a considerare soddisfatto il requisito del collegamento transnazionale anche in assenza di uno spostamento fisico od in presenza di un collegamento estremamente tenue[22], l’estensione della normativa comunitaria a tutti i cittadini europei è ancora una chimera. E in dottrina non sono tutti concordi nel ritenere che questo sia un male.

Infatti, la questione in esame è indissolubilmente connessa ad un altro tema, quello dell’ambito rispettivo di competenza del diritto europeo e nazionale. Come accennato, infatti, gli Stati hanno tutto l’interesse a mantenere la propria autonomia regolamentare e se le distorsioni a cui il principio ‘situazione puramente interna’ ha dato vita sono state tollerate, lo si deve anche alla volontà di respingere incursioni del diritto comunitario nel diritto nazionale. L’atteggiamento opposto significherebbe deregolamentazione da parte dello stato che, adeguandosi agli standard sanciti dall’EU, rinuncerebbe alla libertà di decidere in piena autonomia gli obiettivi di politica nazionale al di fuori delle deroghe specificamente previste agli artt. 30/39/46 e dei requisiti obbligatori. E’ quello che vogliamo? Forse che la deregolamentazione conduce ad una migliore qualità della vita (Art. 2 EC)? Può essere che uno Stato voglia aumentare le tasse sul reddito, scoraggiare o incoraggiare certe industrie. Magari le autorità nazionali interpretano il principio di proporzionalità diversamente da come lo interpreta la Corte Europea; magari vogliono una regolamentazione sulla protezione ambientale più severa di quanto la Corte Europea di Giustizia non ritenga necessario.

Inoltre, ulteriori questioni rimarrebbero insolute: [23]

Ø l’incompatibilità con l’art. 3-1 della Direttiva 2004/38 che limita l’applicazione ai cittadini europei che si spostano o risiedono in uno Stato Membro diverso da quello di cui sono cittadini;

Ø l’incremento esponenziale di contenziosi di cui sarebbe invasa la Corte Europea;

Alla luce di tali considerazioni, sembra che all’attuale stadio di sviluppo del diritto comunitario, la discriminazioni inversa sia ancora un male necessario.[24]

7. Conclusioni

La ‘discriminazione inversa’ si verifica quando cittadini e imprese nazionali sono svantaggiati rispetto a cittadini o imprese di un altro Stato Membro, ed é un prodotto collaterale dell’integrazione europea. Infatti, lo scopo precipuo della Comunità Economica Europea era la formazione di un unico comune mercato e per raggiungerlo furono previste alcune disposizioni che vietarono di discriminare in base alla nazionalità. L’interpretazione estensiva ha finito per imporre agli Stati Membri di accordare a persone o beni provenienti da altro stato un trattamento più favorevole di quello riservato ai propri.

Se le distorsioni a cui il principio ‘situazione puramente interna’ ha dato vita sono state tollerate, lo si deve poi alla volontà di respingere incursione del diritto comunitario nel diritto nazionale.Mentre la discriminazione inversa può essere giustificata nell’ambito di una comunità che persegue obiettivi puramente economici, il suo mantenimento è difficile da sostenere alla luce della nascita della cittadinanza europea ove l’obiettivo è la costruzione di una comunità integrata di cittadini, ove si configura come una forma di disparità di trattamento altamente controproducente.Diverse proposte sono state avanzate per risolvere la questione, di cui, la più allettante è il collegamento alla cittadinanza europea.

La Corte tuttavia non l’ha accolta, ribadendo che ‘la cittadinanza europea non può ampliare l’ambito di applicazione del trattato alle situazione interne che non hanno alcun nesso con il diritto comunitario’.Si ritiene che allo stato attuale gli Stati Membri non siano ancora pronti a sacrificare la loro autonomia regolamentare.



[1] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, Reverse Discrimination and free movement of persons under Community law: all for Ulysses, nothing for Penelope? 2009 E. L. Rev. 443 e ss.

[2] Moser v Land Baden-Württemberg C-180/83 [1984] ECR 2539.

[3] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, op. cit.

[4] Catherine Barnard, The Substantive Law of the EU, Oxford 2007, pag. 257.

[5] Minister Public v Auer C-136/78 [1979] E.C.R. 437; [1979] 2 C.M.L.R. 373

[6] R. v Saunders (Vera Ann) C-175/78 [1979] E.C.R. 1129; 2 C.M.L.R. 216.

[7] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, op. cit.

[8] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, op. cit

[9] Alina Tryfonidou, op. cit.; v. anche Paul Craig e Grainne De Burca, EU Law Text, Cases and materials, Oxford 2008, pag. 760, ove si rammenta che la questione è stata affrontata per la prima volta nell’ambito della libera circolazione dei lavoratori in Union Royale Belge des Sociétés de Football Association ASBL & others v. Jean-Marc Bosman C-415/93 ECR I-4921.

[10] Ferdinando Lajolo, Un altro caso di discriminazione a rovescio? Nota a margine della decisione del Consiglio di Stato 23 luglio 2008 n. 3621, disponibile a www.europeanrights.eu/getFile.php?name=public/commenti/LAJOLO_CdS_3621-2008_discriminazioni_alla_rowwvescia.doc.

[11] Alina Tryfonidou, op. cit.

[12] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, op. cit.

[13]Alina Tryfonidou, reviewed by Dimitry Kochenov, Reverse Discrimination in EC Law, 2010 E.L.Rev. 116.

[14] Alina Tryfonidou, op.cit.

[15] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, op. cit.

[16] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, op. cit.

[17] Idem

[18] Vedi i casi Lancry v. Direction Général des Douanes [1994] ECR I-3957; Administration des Douanes et Droits Indirects v. Legros C-163/90 [1992] ECR I-4625, Simitzi v. Dimos Kos casi congiunti C-485/93 e C-486/93 [1995] ECR I-2655.

[19] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, op. cit.

[20] Opinione dell’A.G. Sharpston in Government of the French Community and Walloon Government v Flemish C-212/06 [142].

[21] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, op. cit.

[22] V. ad esempio Mary Carpenter v Secretary of State for the Home Department C-60/00 [2002] ECR I-6279.

[23] Cyril Ritter, Purely internal situations, reverse discrimination, Guimont, Dzodzi and Article 234, 2006 E.L.Rev.

[24] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, op. cit.

Abstract

La discriminazione inversa ha fatto il suo tempo. Sottoprodotto dell’integrazione europea, figlia delle libertà fondamentali, è stata a lungo tollerata dagli stati come un male necessario per salvaguardare autonomia e sovranità. Ora che, a seguito del trattato di Maastricht, la costituzione di un mercato comune deve cedere il passo ad un unione politica, il fenomeno appare sempre più controverso. La questione di come accelerarne il declino è dibattuta.

Sommario

1. Nozione

2. Origini

a. Questioni di competenza: il nesso comunitario

b. Questioni teleologiche: il mercato interno

3. Discriminazione inversa e cittadinanza europea: è tempo di rimediare?

4. Quali soluzioni?

a. La soluzione nazionale

b. La soluzione comunitaria

5. L’opinione della Corte: il caso Flemish

6. Discriminazione inversa e sovranità. Ancora un male necessario?

7. Conclusioni

1. Nozione

La ‘discriminazione inversa’ si verifica ogni qual volta uno Stato Membro riserva a uno dei suoi cittadini, beni, servizi o capitali un trattamento meno favorevole rispetto a quello garantito al cittadino, beni, servizi o capitali di un altro Stato Membro, data l’impossibilità di invocare le norme del trattato europeo nelle situazioni di rilievo puramente interno.[1]

A titolo illustrativo riportiamo un caso tratto dalla giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia.

In Moser[2] un cittadino tedesco, escluso dalla possibilità di completare la sua formazione professionale a causa dell’appartenenza al partito comunista, ricorse invocando l’applicazione delle disposizioni in tema di libera circolazione delle persone (Art. 39 EC). La Corte ritenne la fattispecie al di fuori dell’ambito di competenza del trattato; infatti si trattava di un cittadino tedesco da sempre residente in Germania, la decisione impugnata proveniva dalle autorità tedesche, e la semplice prospettiva di essere penalizzato nella ricerca di un eventuale impiego all’estero non fu ritenuta sufficiente a configurare il collegamento con il diritto comunitario.

Paradossalmente nella medesima situazione di fatto sia il ricorrente italiano residente in Germania, sia quello tedesco in Italia avrebbero ottenuto tutela per aver esercitato il proprio diritto fondamentale, ossia avrebbero beneficiato di un trattamento di favore rispetto ai cittadini tedeschi residenti in Germania.

2. Origini

A questo punto un cenno deve essere fatto sulle ragioni di fondo per cui la discriminazione inversa si è affermata ed è stata tollerata.

E’ bene sottolineare che il fenomeno non si verifica perché gli Stati intendono penalizzare i propri cittadini, ma perché è il diritto europeo ad imporre il trattamento più favorevole dei cittadini o imprese di un altro Stato.[3]

a. Questioni di competenza: il nesso comunitario

Capire come il diritto comunitario riesce a creare tale disparità sarà evidente se si considera che gli art. 39, 43 e 49 (così come il 28) del Trattato possono essere invocati soltanto da coloro che si trasferiscono da uno stato all’altro. Questo limite è stato reso esplicito all’art. 43, che si riferisce a ‘la libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato Membro nel territorio di un altro Stato Membro’.[4]

Il principio ha trovato conferma nella giurisprudenza della Corte di Giustizia che a partire da Auer[5] e Saunders[6] ha costantemente affermato che ‘le disposizioni del trattato e la normativa adottata per la loro attuazione in materia di libera circolazione dei lavoratori non si applicano a situazioni che non hanno alcun nesso con una qualsiasi delle disposizioni considerate dal diritto comunitario’.[7]

In seguito la Corte ha inteso in maniera ampia questo nesso, riconoscendo la facoltà per i lavoratori di invocare il trattato nei confronti del proprio Stato qualora abbiano esercitato i loro diritti fondamentali, ad esempio quando abbiano risieduto in uno Stato Membro per un certo periodo di tempo e poi abbiano fatto ritorno in madrepatria. A questo punto risulta chiaro che gli unici ad essere penalizzati sono i cittadini stanziali.[8]

Con ciò, non abbiamo ancora chiarito tutti i termini della questione. Abbiamo detto che il nesso comunitario è necessario per tutelare esclusivamente le posizioni di rilievo comunitario, ma qual è la ratio della norma? A costo che il riferimento suoni scontato, occorre ricordare che alla base di tutto c’è un obiettivo macroeconomico fondamentale. Quando nel 1958 è sorta la Comunità Economica Europea, il suo scopo precipuo era la formazione di un unico comune mercato ove salvaguardare la libertà di movimento di persone, beni, servizi e capitali. ‘Movimenti’ ritenuti così importanti, da indurre a denominare le corrispondenti libertà ‘fondamentali’.

Le libertà fondamentali sono espressione di una organizzazione sovranazionale, costituita da stati che hanno interesse a mantenere il più possibile inalterata la propria sovranità e autonomia. In tali circostanze il rischio era uno Stato fosse incline a favorire i propri cittadini e prodotti a discapito degli altri. Tale condotta non solo sarebbe stata iniqua ma avrebbe anche costituito un impedimento all’integrazione economica.

Non c’è da stupirsi, quindi, che alcune disposizioni relative alle libertà fondamentali del Trattato EC (1957) specificamente vietarono di operare discriminazioni in base alla nazionalità; tuttavia la loro interpretazione ha determinato, non solo che ad uno Stato sia imposto di accordare a persone o beni che hanno un legame con il diritto comunitario un trattamento non sfavorevole rispetto ai propri ma anche imponendo, in alcune circostanze, un trattamento migliore.

b. Questioni teleologiche: il mercato interno

Le situazioni suscettibili di dare vita a discriminazione inversa sono aumentate notevolmente a causa dell’estensione operata dalla giurisprudenza della Corte, che ritiene applicabile le disposizioni del trattato non solo alle misure da cui scaturiscono discriminazioni, ma anche a quelle suscettibili di determinare restrizioni all’esercizio delle libertà sopra citate.[9]

Ci si è anche chiesto se l’art. 12 EC, introdotto per garantire un generale diritto all’uguaglianza di trattamento (di cui le libertà fondamentali sono un’applicazione), avesse proibito agli Stati Membri anche di trattare i propri cittadini in maniera più rigorosa rispetto a quelli degli altri Stati Membri. La Corte di giustizia ha avuto modo di escludere tali situazioni dal campo di applicazione del diritto comunitario, a condizione che la fattispecie sia puramente interna; in dette situazioni, quindi, gli Stati Membri sono liberi di agire senza tenere conto degli imperativi europei.[10]

La discriminazione inversa è dunque un prodotto collaterale dell’integrazione europea, e rientra nell’ambito di competenza del diritto europeo.[11]

3. Discriminazione inversa e cittadinanza europea: è tempo di rimediare?

Ora, nonostante il fenomeno sia stato ritenuto un male necessario in vista degli obiettivi della Comunità Europea, le attuali condizioni ci impongono di riconsiderarlo sotto una diversa prospettiva. Infatti, secondo alcune autorevoli opinioni, mentre poteva essere giustificato nell’ambito di una comunità che persegue obiettivi puramente economici, dove l’unico scopo è quello di assicurare la libertà di movimento di beni ed operatori economici, la sua conservazione è difficile da sostenere alla luce della nascita della cittadinanza europea.[12]

Niamh Nic Shuibhne aveva già notoriamente affermato che la discriminazione inversa è discriminazione in quanto impedisce lo sviluppo del mercato interno. Alina Tryfonidou elabora il concetto aggiungendo che nel momento in cui al centro del progetto europeo c’è non un fattore di produzione ma un cittadino[13], contribuire o meno al mercato non dovrebbe avere alcun rilievo per l’attribuzione di diritti e doveri; l’obiettivo non è più solo la compenetrazione economica, ma la costruzione di una comunità integrata di cittadini che condividono un senso di identità e di solidarietà. L’Unione Europa ha assistito ad un cambiamento paradigmatico nella base dell’integrazione: ha attribuito un nuovo significato alla parola uguaglianza, che è incompatibile con il mantenimento di barriere artificiali tra sistemi giuridici.

Quando il mercato interno non è un progetto in corso ma una realtà, quando i confini tra gli Stati Membri sono stati aboliti legalmente e materialmente nella maggioranza dei casi, non ha senso ridividere il nuovo spazio economico. In un simile spazio le situazioni ‘puramente interne’ sono finzioni giuridiche e una finzione giuridica si giustifica quando è utile. Questa, invece, sembra creare più problemi di quanti ne risolva.[14]

La discriminazione inversa genera la percezione che la Comunità protegga solo una minoranza dei suoi cittadini ed è una forma di disparità di trattamento altamente controproducente.[15]

4. Quali soluzioni?

La questione dei rimedi è dibattuta tra coloro che sostengono che le soluzioni siano da trovare a livello nazionale e coloro che propendono per la strada comunitaria. Gli appartenenti al primo gruppo, affermano la necessità di salvaguardare il principio di sussidiarietà e l’autonomia regolamentare dello Stato Membro; i secondi sottolineano come la soluzione vada trovata nello stesso ambito di origine del problema. [16]

a. La soluzione nazionale

Due proposte sono state avanzate per risolvere la questione a livello nazionale:

a. La prima prende la forma di un’estensione dell’ambito di applicazione del diritto comunitario a situazioni classificate come ‘puramente interne’ in virtù del richiamo da parte del diritto nazionale.

b. La seconda, fornita da alcune corti costituzionali, è la sanzione della discriminazione inversa per violazione delle disposizioni sulla parità di trattamento contenute nelle carte costituzionali.

Nonostante tali proposte possano costituire un contributo significativo non si ritengono risolutive. L’equivoco nasce probabilmente dalla credenza diffusa che ogni governo che ammettesse forme di discriminazione inversa sarebbe immediatamente sanzionato con gli strumenti a disposizione del processo democratico. Ma ciò non si verifica nei casi in cui tale processo avviene a livello regionale (come nel caso del Belgio, di seguito riportato), non essendo il corpo elettorale costituito dalle stesse persone soggette alla discriminazione. Inoltre la soluzione nazionale non garantisce uniformità all’interno dell’Unione, spostando semplicemente i confini della discriminazione, a seconda che il proprio stato abbia risolto il problema o meno.[17]

b. La soluzione comunitaria

Due proposte sono state avanzate anche per sostenere la soluzione comunitaria:

a. l’allineamento alla giurisprudenza in tema di libera circolazione dei beni, che non fa distinzione tra barriere regionali e nazionali. [18]

In questo settore la giurisprudenza ha valutato la sussistenza di un nesso con il diritto comunitario in maniera molto generosa, per evitare che l’abolizione degli ostacoli al libero mercato venisse vanificata dalla reintroduzione di barriere a livello puramente interno; le entità nei confronti delle quali occorre abolirle non sono necessariamente gli Stati Membri, ma qualsiasi autorità dotata di potere regolamentare.[19]

b. la cittadinanza europea come nesso comunitario;

Si è osservato che il godimento della cittadinanza europea dovrebbe costituire un collegamento sufficiente per ricondurre la situazione nell’alveo delle norme europee. Alla Corte spetta l’onere di stabilire se la libertà di circolare e risiedere liberamente nel territorio di uno Stato Membro, garantito dall’Art.18 a tutti i cittadini dell’Unione, sia da intendersi come libertà di muoversi e poi risiedere o libertà sia di muoversi che di risiedere.[20]

5. L’opinione della Corte: il caso Flemish

Le ultime considerazioni furono presentate dall’Avvocato Generale Sharpston in occasione del caso Flemish. Il caso concerneva la compatibilità alla normativa comunitaria di un tipo di assicurazione sociale accordato dalla regione fiamminga ai residenti da almeno 5 anni nella stessa regione o nella regione di Bruxelles, o in uno qualsiasi degli stati comunitari. Dal modello assicurativo erano estromessi i lavoratori della regione fiamminga (di qualsiasi nazionalità) residenti nella regione vallese. La Corte ne stabilì l’incompatibilità con gli art. 39 e 43 relativamente ai cittadini che avevano esercitato il loro diritto di libera circolazione - ossia ai non cittadini belgi che trasferiti dal proprio paese di origine per lavorare nella regione fiamminga e ai cittadini belgi che avevano precedentemente esercitato le loro libertà fondamentali. Esclusi dalla tutela rimasero i cittadini belgi che avevano sempre risieduto in patria.

La Corte tuttavia respinse l’opinione di Sharpston, ribadendo che ‘la cittadinanza europea non può ampliare l’ambito di applicazione del trattato alle situazione interne che non hanno alcun nesso con il diritto comunitario’.[21]

6. Discriminazione inversa e sovranità. Ancora un male necessario?

Dunque, nonostante la recente giurisprudenza della Corte di Giustizia si sia dimostrata incline a considerare soddisfatto il requisito del collegamento transnazionale anche in assenza di uno spostamento fisico od in presenza di un collegamento estremamente tenue[22], l’estensione della normativa comunitaria a tutti i cittadini europei è ancora una chimera. E in dottrina non sono tutti concordi nel ritenere che questo sia un male.

Infatti, la questione in esame è indissolubilmente connessa ad un altro tema, quello dell’ambito rispettivo di competenza del diritto europeo e nazionale. Come accennato, infatti, gli Stati hanno tutto l’interesse a mantenere la propria autonomia regolamentare e se le distorsioni a cui il principio ‘situazione puramente interna’ ha dato vita sono state tollerate, lo si deve anche alla volontà di respingere incursioni del diritto comunitario nel diritto nazionale. L’atteggiamento opposto significherebbe deregolamentazione da parte dello stato che, adeguandosi agli standard sanciti dall’EU, rinuncerebbe alla libertà di decidere in piena autonomia gli obiettivi di politica nazionale al di fuori delle deroghe specificamente previste agli artt. 30/39/46 e dei requisiti obbligatori. E’ quello che vogliamo? Forse che la deregolamentazione conduce ad una migliore qualità della vita (Art. 2 EC)? Può essere che uno Stato voglia aumentare le tasse sul reddito, scoraggiare o incoraggiare certe industrie. Magari le autorità nazionali interpretano il principio di proporzionalità diversamente da come lo interpreta la Corte Europea; magari vogliono una regolamentazione sulla protezione ambientale più severa di quanto la Corte Europea di Giustizia non ritenga necessario.

Inoltre, ulteriori questioni rimarrebbero insolute: [23]

Ø l’incompatibilità con l’art. 3-1 della Direttiva 2004/38 che limita l’applicazione ai cittadini europei che si spostano o risiedono in uno Stato Membro diverso da quello di cui sono cittadini;

Ø l’incremento esponenziale di contenziosi di cui sarebbe invasa la Corte Europea;

Alla luce di tali considerazioni, sembra che all’attuale stadio di sviluppo del diritto comunitario, la discriminazioni inversa sia ancora un male necessario.[24]

7. Conclusioni

La ‘discriminazione inversa’ si verifica quando cittadini e imprese nazionali sono svantaggiati rispetto a cittadini o imprese di un altro Stato Membro, ed é un prodotto collaterale dell’integrazione europea. Infatti, lo scopo precipuo della Comunità Economica Europea era la formazione di un unico comune mercato e per raggiungerlo furono previste alcune disposizioni che vietarono di discriminare in base alla nazionalità. L’interpretazione estensiva ha finito per imporre agli Stati Membri di accordare a persone o beni provenienti da altro stato un trattamento più favorevole di quello riservato ai propri.

Se le distorsioni a cui il principio ‘situazione puramente interna’ ha dato vita sono state tollerate, lo si deve poi alla volontà di respingere incursione del diritto comunitario nel diritto nazionale.Mentre la discriminazione inversa può essere giustificata nell’ambito di una comunità che persegue obiettivi puramente economici, il suo mantenimento è difficile da sostenere alla luce della nascita della cittadinanza europea ove l’obiettivo è la costruzione di una comunità integrata di cittadini, ove si configura come una forma di disparità di trattamento altamente controproducente.Diverse proposte sono state avanzate per risolvere la questione, di cui, la più allettante è il collegamento alla cittadinanza europea.

La Corte tuttavia non l’ha accolta, ribadendo che ‘la cittadinanza europea non può ampliare l’ambito di applicazione del trattato alle situazione interne che non hanno alcun nesso con il diritto comunitario’.Si ritiene che allo stato attuale gli Stati Membri non siano ancora pronti a sacrificare la loro autonomia regolamentare.



[1] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, Reverse Discrimination and free movement of persons under Community law: all for Ulysses, nothing for Penelope? 2009 E. L. Rev. 443 e ss.

[2] Moser v Land Baden-Württemberg C-180/83 [1984] ECR 2539.

[3] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, op. cit.

[4] Catherine Barnard, The Substantive Law of the EU, Oxford 2007, pag. 257.

[5] Minister Public v Auer C-136/78 [1979] E.C.R. 437; [1979] 2 C.M.L.R. 373

[6] R. v Saunders (Vera Ann) C-175/78 [1979] E.C.R. 1129; 2 C.M.L.R. 216.

[7] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, op. cit.

[8] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, op. cit

[9] Alina Tryfonidou, op. cit.; v. anche Paul Craig e Grainne De Burca, EU Law Text, Cases and materials, Oxford 2008, pag. 760, ove si rammenta che la questione è stata affrontata per la prima volta nell’ambito della libera circolazione dei lavoratori in Union Royale Belge des Sociétés de Football Association ASBL & others v. Jean-Marc Bosman C-415/93 ECR I-4921.

[10] Ferdinando Lajolo, Un altro caso di discriminazione a rovescio? Nota a margine della decisione del Consiglio di Stato 23 luglio 2008 n. 3621, disponibile a www.europeanrights.eu/getFile.php?name=public/commenti/LAJOLO_CdS_3621-2008_discriminazioni_alla_rowwvescia.doc.

[11] Alina Tryfonidou, op. cit.

[12] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, op. cit.

[13]Alina Tryfonidou, reviewed by Dimitry Kochenov, Reverse Discrimination in EC Law, 2010 E.L.Rev. 116.

[14] Alina Tryfonidou, op.cit.

[15] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, op. cit.

[16] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, op. cit.

[17] Idem

[18] Vedi i casi Lancry v. Direction Général des Douanes [1994] ECR I-3957; Administration des Douanes et Droits Indirects v. Legros C-163/90 [1992] ECR I-4625, Simitzi v. Dimos Kos casi congiunti C-485/93 e C-486/93 [1995] ECR I-2655.

[19] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, op. cit.

[20] Opinione dell’A.G. Sharpston in Government of the French Community and Walloon Government v Flemish C-212/06 [142].

[21] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, op. cit.

[22] V. ad esempio Mary Carpenter v Secretary of State for the Home Department C-60/00 [2002] ECR I-6279.

[23] Cyril Ritter, Purely internal situations, reverse discrimination, Guimont, Dzodzi and Article 234, 2006 E.L.Rev.

[24] Camille Dautricourt e Sebastien Thomas, op. cit.