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L’analisi di rischio: una nuova metodologia per rilevare l’inquinamento

L’analisi di rischio è uno strumento introdotto dal Decreto Legislativo n. 152/2006 (cd. Testo Unico Ambientale) ed in seguito modificato Decreto correttivo n. 4/2008 che, all’articolo 2, comma 43, interviene sull’allegato 1 del titolo V, parte IV; mentre all’articolo 43 bis modifica l’articolo 242, comma 4.

Le disposizioni in esame introducono per la prima volta nel nostro ordinamento un approccio basato sull’analisi di rischio, effettuata al fine di verificare se le concentrazioni di determinate sostanze rappresentino o meno un rischio accettabile per la salute e per l’ambiente.

Questa metodologia ha trovato prime applicazioni da parte delle principali agenzie ambientali anglosassoni anche in contesti differenti dalla contaminazione dei suoli.

Nel nostro Paese, il concetto di “rischio” ha sempre trovato un’accoglienza piuttosto scettica: per molti anni, è stato infatti ritenuto preferibile considerare una soglia fissa, predefinita, ancorché non ancorata ad alcun riferimento scientifico e metodologico, piuttosto che accettarne una calcolata con procedure ed approssimazioni ponderate e, dunque, per sua natura, mutevole, perché riferita al singolo caso concreto.

Dalla “semplice” ed “oggettiva” verifica del rispetto di limiti tabellari introdotti dal Decreto ministeriale n. 471/1998 si passa, dunque, all’analisi dei potenziali effetti che il superamento di tali valori possono produrre, attraverso un processo che dovrebbe consentire di stimare e di caratterizzare il rischio in base allo stato di contaminazione del sito in termini quantitativi e, conseguentemente, di progettare gli interventi di risanamento e recupero necessari.

Tale novità non è di poco conto ed alquanto delicata appare la decisione, caso per caso, di quale sia la metodologia di analisi più appropriata da utilizzare, per assicurare adeguate condizioni di garanzia e di efficacia degli interventi.

Non stupisce allora che il Decreto correttivo del 2008 abbia sentito l’esigenza di porre nuovamente mano alla normazione introdotta nel 2006, per affinarne la disciplina e prevedendo, in particolare, la modifica dei criteri di analisi di rischio in due tempi:

* la prima, di più lungo respiro, comporta addirittura l’integrale sostituzione dei criteri (previsti dall’allegato 1 al T.U.A. del 2006) con quelli che saranno definiti da un futuro Decreto del Ministero dell’Ambiente adottato di concerto con il Ministero dello Sviluppo economico;

* la seconda, di immediata applicazione a partire dal 13 febbraio 2008, interviene subito sui criteri di accettabilità del rischio cancerogeno e sulla definizione di “punto di conformità” per le acque sotterranee.

Per quanto concerne i criteri di accettabilità del rischio cancerogeno il Decreto correttivo individua un valore di “1x10 alla meno 6” come valore del rischio incrementale accettabile per la singola sostanza cancerogena e di “1x10 alla meno 5” come valore di rischio incrementale accettabile cumulato per tutte le sostanze cancerogene.

Per le sostanze non cancerogene, invece, si applica il criterio del non superamento della dose tollerabile o accettabile (ADI o TDI) definita per sostanza.

Per quanto riguarda invece il punto di conformità per le acque sotterranee, il Legislatore delegato del 2008 interviene sulla sua ubicazione, ossia non più posto obbligatoriamente all’esterno del sito (tra 50 e 500 metri dalla sorgente), ma “di norma fissato non oltre i confini del sito contaminato oggetto di bonifica”. In altre parole, il punto di conformità per le acque sotterranee rappresenta il punto fra la sorgente ed il punto di esposizione, dove le concentrazioni delle sostanze contaminanti nelle acque sotterranee devono essere minori delle concentrazioni soglia di rischio (CSR) calcolate con l’analisi di rischio. Tale punto idrogeologico non può essere preso in modo generalizzato, dipendendo dalle caratteristiche del sito e dalla destinazione d’uso delle acque interessate secondo i vigenti strumenti urbanistici. Esso dovrà essere indicativamente individuato ad una distanza variabile tra 50 e 500 metri a valle della sorgente, ove deve essere garantito il ripristino dello stato originale del corpo idrico sotterraneo.

Oltre alla disciplina del “punto di conformità”, il Decreto correttivo è inoltre intervenuto sulla definizione degli obiettivi di bonifica delle acque, prevedendo un’analisi di rischio nuovamente con approccio tabellare: infatti, stabilendo che la relativa CSR (concentrazione soglia di rischio) di ciascun contaminante deve essere fissata equivalente alla CSC (concentrazione soglia di contaminazione) di cui all’Allegato 5 al T.U.A., ritorna di fatto all’impostazione prevista dal decreto ministeriale n. 471 del 1999, seppur con qualche differenza, in quanto:

* sono ammesse deroghe specifiche (ossia valori più elevati delle CSC) in caso di fondo naturale, inquinamento diffuso, specifici minori obiettivi di qualità per il corpo idrico sotterraneo, che devono comunque essere validati dall’autorità competente;

* per le sole aree interne al sito in considerazione, è possibile che la concentrazione degli inquinanti sia maggiore della CSC al punto di conformità a monte, purché tale superamento risulti compatibile con l’analisi del rischio sanitario per ogni altro possibile recettore dell’area stessa.

Lo strumento dell’analisi di rischio ha, dunque, lo scopo di definire gli obiettivi di bonifica e la sua applicazione, in attesa dell’emanazione del decreto interministeriale con cui saranno definiti i nuovi criteri, seguendo le indicazioni di cui all’Allegato 1 del Codice dell’Ambiente, secondo il quale occorre tener conto che la grandezza del rischio (in tutte le sue diverse accezioni) ha, al suo interno, componenti probabilistiche riferite, appunto, alla natura stessa degli effetti nocivi che la contaminazione - o meglio l’esposizione ad un certo contaminante - può avere sui ricettori finali.

Inoltre, nell’allegato 1, parte IV, si legge che ai fini della “piena accettazione dei risultati dovrà essere posta una particolare cura nella scelta dei parametri da utilizzare nei calcoli, scelta che dovrà rispondere sia a criteri di conservatività (il principio della cautela è intrinseco alla procedura di analisi di rischio), che a quelli di sito – specifica ricavabili dalle indagini di caratterizzazione svolte”.

Si deve, del resto, osservare che la forma dell’allegato 1 in esame non ha il carattere imperativo della norma, né assume le movenze tipiche del linguaggio tecnico – scientifico: pare suggerire, raccomandare, invitare. L’indeterminatezza di termini, quali “particolare cura”, “particolare attenzione”, “la scelta deve tener conto…” non definiscono la metodologia su cui deve fondarsi il processo decisionale: è sufficiente che quella prescelta risponda a requisiti di “comprovata validità sia dal punto di vista delle basi scientifiche che supportano gli algoritmi di calcolo, che della riproducibilità dei risultati”.

Questi indirizzi, coniugati tra di loro, dovranno dunque consentire di caratterizzare nel modo migliore anche siti in situazioni di contaminazioni che si verifichino in prossimità di centri urbani e in vicinanza di zone ad elevata vulnerabilità, anche se – è ovvio – comportano approfondimenti analitici cui seguono previsioni di intervento con differenti pesi economici, il ché sposta inevitabilmente l’attenzione sulle ricadute finanziarie delle situazioni di contaminazione prese in considerazione dal legislatore.

La sostenibilità ambientale dell’intervento, infatti, deve coniugarsi con quella economica, con un approccio globale del tutto nuovo. Chiarisce infatti il comma 8 dell’articolo 242 del T.U.A. che “i criteri per la selezione e l’esecuzione degli interventi di bonifica e ripristino ambientale, di messa in sicurezza operativa o permanente, nonché per l’individuazione delle migliori tecniche di intervento a costi sostenibili (B.A.T.N.E.E.C. - Best Available Technology Not Entailing Excessive Costs) ai sensi delle normative comunitarie sono riportati nell’Allegato 3 alla parte quarta del presente decreto”.

In proposito, non mancano commentatori che, dopo aver sottolineato la portata innovativa della previsione che pone in capo alla Regione (per il Piemonte in capo al Comune) il compito di assicurare che i progetti di bonifica siano articolati in modo da risultare compatibili con la prosecuzione delle attività, mettono in guardia sulle conseguenze. Infatti, se questa impostazione pare improntata ad assoluta ragionevolezza – dovendosi conciliare gli interessi ambientali con quelli di sostanziale tutela della salvaguardia dei posti di lavoro -, meno chiaro risulta il richiamo alla “sostenibilità” rapportata alle migliori tecnologie di intervento, laddove si consideri che la presenza di situazioni di contaminazione non “fronteggiabile” con costi sostenibili, lascia comunque aperto un problema di bonifica che non può, quantomeno in prima battuta, gravare sui bilanci degli enti pubblici territoriali.

L’analisi di rischio è uno strumento introdotto dal Decreto Legislativo n. 152/2006 (cd. Testo Unico Ambientale) ed in seguito modificato Decreto correttivo n. 4/2008 che, all’articolo 2, comma 43, interviene sull’allegato 1 del titolo V, parte IV; mentre all’articolo 43 bis modifica l’articolo 242, comma 4.

Le disposizioni in esame introducono per la prima volta nel nostro ordinamento un approccio basato sull’analisi di rischio, effettuata al fine di verificare se le concentrazioni di determinate sostanze rappresentino o meno un rischio accettabile per la salute e per l’ambiente.

Questa metodologia ha trovato prime applicazioni da parte delle principali agenzie ambientali anglosassoni anche in contesti differenti dalla contaminazione dei suoli.

Nel nostro Paese, il concetto di “rischio” ha sempre trovato un’accoglienza piuttosto scettica: per molti anni, è stato infatti ritenuto preferibile considerare una soglia fissa, predefinita, ancorché non ancorata ad alcun riferimento scientifico e metodologico, piuttosto che accettarne una calcolata con procedure ed approssimazioni ponderate e, dunque, per sua natura, mutevole, perché riferita al singolo caso concreto.

Dalla “semplice” ed “oggettiva” verifica del rispetto di limiti tabellari introdotti dal Decreto ministeriale n. 471/1998 si passa, dunque, all’analisi dei potenziali effetti che il superamento di tali valori possono produrre, attraverso un processo che dovrebbe consentire di stimare e di caratterizzare il rischio in base allo stato di contaminazione del sito in termini quantitativi e, conseguentemente, di progettare gli interventi di risanamento e recupero necessari.

Tale novità non è di poco conto ed alquanto delicata appare la decisione, caso per caso, di quale sia la metodologia di analisi più appropriata da utilizzare, per assicurare adeguate condizioni di garanzia e di efficacia degli interventi.

Non stupisce allora che il Decreto correttivo del 2008 abbia sentito l’esigenza di porre nuovamente mano alla normazione introdotta nel 2006, per affinarne la disciplina e prevedendo, in particolare, la modifica dei criteri di analisi di rischio in due tempi:

* la prima, di più lungo respiro, comporta addirittura l’integrale sostituzione dei criteri (previsti dall’allegato 1 al T.U.A. del 2006) con quelli che saranno definiti da un futuro Decreto del Ministero dell’Ambiente adottato di concerto con il Ministero dello Sviluppo economico;

* la seconda, di immediata applicazione a partire dal 13 febbraio 2008, interviene subito sui criteri di accettabilità del rischio cancerogeno e sulla definizione di “punto di conformità” per le acque sotterranee.

Per quanto concerne i criteri di accettabilità del rischio cancerogeno il Decreto correttivo individua un valore di “1x10 alla meno 6” come valore del rischio incrementale accettabile per la singola sostanza cancerogena e di “1x10 alla meno 5” come valore di rischio incrementale accettabile cumulato per tutte le sostanze cancerogene.

Per le sostanze non cancerogene, invece, si applica il criterio del non superamento della dose tollerabile o accettabile (ADI o TDI) definita per sostanza.

Per quanto riguarda invece il punto di conformità per le acque sotterranee, il Legislatore delegato del 2008 interviene sulla sua ubicazione, ossia non più posto obbligatoriamente all’esterno del sito (tra 50 e 500 metri dalla sorgente), ma “di norma fissato non oltre i confini del sito contaminato oggetto di bonifica”. In altre parole, il punto di conformità per le acque sotterranee rappresenta il punto fra la sorgente ed il punto di esposizione, dove le concentrazioni delle sostanze contaminanti nelle acque sotterranee devono essere minori delle concentrazioni soglia di rischio (CSR) calcolate con l’analisi di rischio. Tale punto idrogeologico non può essere preso in modo generalizzato, dipendendo dalle caratteristiche del sito e dalla destinazione d’uso delle acque interessate secondo i vigenti strumenti urbanistici. Esso dovrà essere indicativamente individuato ad una distanza variabile tra 50 e 500 metri a valle della sorgente, ove deve essere garantito il ripristino dello stato originale del corpo idrico sotterraneo.

Oltre alla disciplina del “punto di conformità”, il Decreto correttivo è inoltre intervenuto sulla definizione degli obiettivi di bonifica delle acque, prevedendo un’analisi di rischio nuovamente con approccio tabellare: infatti, stabilendo che la relativa CSR (concentrazione soglia di rischio) di ciascun contaminante deve essere fissata equivalente alla CSC (concentrazione soglia di contaminazione) di cui all’Allegato 5 al T.U.A., ritorna di fatto all’impostazione prevista dal decreto ministeriale n. 471 del 1999, seppur con qualche differenza, in quanto:

* sono ammesse deroghe specifiche (ossia valori più elevati delle CSC) in caso di fondo naturale, inquinamento diffuso, specifici minori obiettivi di qualità per il corpo idrico sotterraneo, che devono comunque essere validati dall’autorità competente;

* per le sole aree interne al sito in considerazione, è possibile che la concentrazione degli inquinanti sia maggiore della CSC al punto di conformità a monte, purché tale superamento risulti compatibile con l’analisi del rischio sanitario per ogni altro possibile recettore dell’area stessa.

Lo strumento dell’analisi di rischio ha, dunque, lo scopo di definire gli obiettivi di bonifica e la sua applicazione, in attesa dell’emanazione del decreto interministeriale con cui saranno definiti i nuovi criteri, seguendo le indicazioni di cui all’Allegato 1 del Codice dell’Ambiente, secondo il quale occorre tener conto che la grandezza del rischio (in tutte le sue diverse accezioni) ha, al suo interno, componenti probabilistiche riferite, appunto, alla natura stessa degli effetti nocivi che la contaminazione - o meglio l’esposizione ad un certo contaminante - può avere sui ricettori finali.

Inoltre, nell’allegato 1, parte IV, si legge che ai fini della “piena accettazione dei risultati dovrà essere posta una particolare cura nella scelta dei parametri da utilizzare nei calcoli, scelta che dovrà rispondere sia a criteri di conservatività (il principio della cautela è intrinseco alla procedura di analisi di rischio), che a quelli di sito – specifica ricavabili dalle indagini di caratterizzazione svolte”.

Si deve, del resto, osservare che la forma dell’allegato 1 in esame non ha il carattere imperativo della norma, né assume le movenze tipiche del linguaggio tecnico – scientifico: pare suggerire, raccomandare, invitare. L’indeterminatezza di termini, quali “particolare cura”, “particolare attenzione”, “la scelta deve tener conto…” non definiscono la metodologia su cui deve fondarsi il processo decisionale: è sufficiente che quella prescelta risponda a requisiti di “comprovata validità sia dal punto di vista delle basi scientifiche che supportano gli algoritmi di calcolo, che della riproducibilità dei risultati”.

Questi indirizzi, coniugati tra di loro, dovranno dunque consentire di caratterizzare nel modo migliore anche siti in situazioni di contaminazioni che si verifichino in prossimità di centri urbani e in vicinanza di zone ad elevata vulnerabilità, anche se – è ovvio – comportano approfondimenti analitici cui seguono previsioni di intervento con differenti pesi economici, il ché sposta inevitabilmente l’attenzione sulle ricadute finanziarie delle situazioni di contaminazione prese in considerazione dal legislatore.

La sostenibilità ambientale dell’intervento, infatti, deve coniugarsi con quella economica, con un approccio globale del tutto nuovo. Chiarisce infatti il comma 8 dell’articolo 242 del T.U.A. che “i criteri per la selezione e l’esecuzione degli interventi di bonifica e ripristino ambientale, di messa in sicurezza operativa o permanente, nonché per l’individuazione delle migliori tecniche di intervento a costi sostenibili (B.A.T.N.E.E.C. - Best Available Technology Not Entailing Excessive Costs) ai sensi delle normative comunitarie sono riportati nell’Allegato 3 alla parte quarta del presente decreto”.

In proposito, non mancano commentatori che, dopo aver sottolineato la portata innovativa della previsione che pone in capo alla Regione (per il Piemonte in capo al Comune) il compito di assicurare che i progetti di bonifica siano articolati in modo da risultare compatibili con la prosecuzione delle attività, mettono in guardia sulle conseguenze. Infatti, se questa impostazione pare improntata ad assoluta ragionevolezza – dovendosi conciliare gli interessi ambientali con quelli di sostanziale tutela della salvaguardia dei posti di lavoro -, meno chiaro risulta il richiamo alla “sostenibilità” rapportata alle migliori tecnologie di intervento, laddove si consideri che la presenza di situazioni di contaminazione non “fronteggiabile” con costi sostenibili, lascia comunque aperto un problema di bonifica che non può, quantomeno in prima battuta, gravare sui bilanci degli enti pubblici territoriali.