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Ancora un passo in avanti verso il difficile transito dal "diritto delle banche" al "diritto bancario"

Nota a Corte di Cassazione - Sezioni Unite, Sentenza 2 dicembre 2010, n. 24418
1. Sul dies a quo del decorso della prescrizione decennale nell’apercredito. La tesi esposta dalle difese delle banche, nel frazionare arbitrariamente gli atti esecutivi del contratto di conto corrente bancario, attribuisce, del tutto illegittimamente, alle operazioni contabili di accreditamento (il versamento nel conto da parte del cliente) quella funzione solutoria (di pagamento) che, invece, esse non hanno. Così ragionando, da un lato, si erra nell’applicazione della norma sui conti correnti bancari e dall’altro si sconvolgono i principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, con orientamento costante, anche in tema di revocabilità dei versamenti nel conto corrente bancario.

Invero, la prescrizione decorre dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.); ne deriva che il dies a quo del termine prescrizionale decorre solo dal momento in cui si palesa come concretamente esperibile la relativa tutela del diritto violato (cfr. Cass., 19-2-1985, n. 1445, in Giust. civ., 1985, I, 1327), ovvero dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere legalmente, con riferimento alla deducibilità processuale della pretesa: il che concretamente significa che deve poter essere determinato un oggetto della domanda e devono poter venire articolate le ragioni della domanda stessa, con le relative conclusioni che possano sostanziarsi in un concreto provvedimento giurisdizionale ammesso dall’ordinamento. La determinazione del dies a quo deve, quindi essere affrontata con riferimento al poter pretendere attuale da parte del titolare del diritto di un concreto comportamento dovuto di fare, di cessare di fare, di consegnare da parte di un soggetto che è individuato in virtù della ragione che sorregge la pretesa stessa. Tale principio, se si vuole, è quello della teoria c.d. della realizzazione onde la prescrizione decorre solo dal momento in cui il diritto può venire concretamente sperimentato. Non si deve andare alla ricerca del fatto violazione del diritto, ma del sorgere del poter pretendere attuale, il quale può anche coincidere con il fatto di violazione del diritto. Alla stregua del principio dell’attualità della pretesa vanno, dunque, risolte tutte le singole questioni concernenti le diverse categorie di rapporti ed alle varie ipotesi di diritti soggettivi che la norma è destinata a ricomprendere e, dunque, anche quello del dies a quo della decorrenza della prescrizione nel contratto di conto corrente bancario.

Ciò posto, per i diritti di credito in genere, la prescrizione inizia a decorre solo dal momento in cui la prestazione diviene esigibile, e quindi la pretesa volta ad ottenerla diviene effettivamente azionabile. Viceversa nei crediti soggetti a termine o a condizione la prescrizione decorrerà dal momento in cui la condizione si è avverata o il termine è scaduto. Dai principi esposti deriva naturale che la trattazione del decorso del dies a quo per la prescrizione nel contratto di apertura di credito utilizzata con conto corrente di corrispondenza non può prescindere dalle peculiarità tipiche di detto contratto: il limite fondamentale delle tesi avverse trova origine nel voler applicare delle logiche tipiche di altre fattispecie al conto corrente bancario e, in particolar modo, all’apercredito con scoperto di conto corrente. La nozione di apertura di credito, quale contratto col quale la banca si obbliga a tenere a disposizione dell’altra parte una somma di denaro per un dato periodo o a tempo indeterminato (art. 1842 c.c.), implica che la prescrizione decorrerà dal momento in cui il termine contrattuale è scaduto o con la revoca dal rapporto e, comunque, con la chiusura del rapporto: solo in quella data il credito bancario diviene esigibile e la banca può chiedere il pagamento. Durante il rapporto di apercredito con scoperto di conto corrente non può sorgere l’attualità della pretesa della banca e di conseguenza, in mancanza di pagamenti, neppure la pretesa di restituzione da parte dell’utente di somme indebitamente corrisposte: detta attualità si manifesta solo con la chiusura del conto, con la determinazione del saldo finale, con la esigibilità del saldo e l’eventuale pagamento dello stesso. Il contratto di apercredito in conto corrente, al pari del mutuo, è un contratto di durata ed unitario che dà luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi (cfr. recentemente in tema di contratti di durata Cass. civ., Sez. III, 10 settembre 2010, n. 19291[1] che conferma Cassazione civile, sez. III 06 febbraio 2004, n. 2301), sicché è solo con la chiusura del conto che si stabiliscono e si regolano definitivamente i crediti ed i debiti delle parti tra loro (Cass. 14 maggio 2005, n. 10127).

In verità il correntista potrà invocare la restituzione, in senso tecnico, delle competenze bancarie e degli interessi illegittimamente addebitati periodicamente dalla banca nel corso del rapporto, solo successivamente all’avvenuto pagamento degli stessi, ovvero al tempo della chiusura del conto; mentre al tempo dell’indebita appostazione a debito nel conto, potrà solo invocare, con ogni ovvietà, l’accertamento di un saldo differente da quello erroneamente ottenuto per conseguenza della eventuale illegittima appostazione. Il titolare del conto, infatti, può proporre, anche prima della chiusura del contratto, una domanda di accertamento costitutivo, volta alla sola rideterminazione del saldo[2]. L’accertamento costitutivo del saldo, infatti, incide nel rapporto di durata in corso, modificandolo e rendendolo conforme al diritto, senza bisogno della chiusura preventiva del conto corrente e di una condanna di restituzione. La domanda di accertamento del saldo è volta a ottenere l’esatta determinazione delle somme a credito e a debito delle parti, sulla base dell’intera documentazione (disponibile), dall’inizio dei rapporti di conto corrente al tempo della domanda: detta azione di accertamento è imprescrittibile (cfr. art. 1422 c.c.) e si può chiedere la modifica delle poste all’interno del rapporto, così e come accade in altri contratti di durata (come la somministrazione). Nella diversa ipotesi in cui, al tempo della domanda, il conto risulti estinto, la domanda, con l’accertamento di ragione, potrà essere volta anche ad ottenere la condanna al pagamento materiale nelle mani del correntista, della somma di denaro invocata, per il titolo di ripetizione dell’indebito pagamento e la prescrizione decorrerà dalla chiusura del rapporto.

Detta costruzione è propria della struttura dell’apertura di credito e del conto corrente di corrispondenza, nonché dalla complessiva applicazione giurisprudenziale (anche in tema di fallimento) nella materia, con particolare riferimento alla disciplina dei crediti contrapposti nel conto. Ora, se i versamenti sul conto, eseguiti dal correntista, non hanno funzione solutoria e di pagamento (relativamente al rapporto intercorrente tra banca-cliente), così e come statuisce costantemente la Corte Suprema, anche in tema di fallimento, risulta assolutamente insostenibile la tesi contraria sull’esistenza d’un qualche ’’pagamento’’ o, peggio, del pagamento delle competenze bancarie, ovvero anche quei complicati ed inestricabili meccanismi di moltiplicazione (cfr. cms trimestrali, valute fittizie e capitalizzazioni) degli interessi e delle spese che la sola banca unilateralmente addebita ogni trimestre sul conto del cliente. La S.C., con la paradigmatica sentenza del 18 ottobre 1982, n. 5413, ha affermato l’immutato principio di diritto che qui si invoca, anche per i fini di prescrizione, statuendo che:

"I versamenti in conto corrente bancario hanno natura di pagamenti e sono, quindi, revocabili a norma dell’art. 67, 2° comma, l. fall. soltanto nell’ipotesi di conto "scoperto" (cioè quando la banca abbia anticipato somme oltre i limiti del fido), mentre nell’ipotesi di conto corrente munito di provvista (c.d. conto "passivo’’) costituita da un’apertura di credito, non è configurabile, durante lo svolgimento del conto, un credito esigibile della banca verso il correntista e i versamenti, consistendo in semplici operazioni contabili di accreditamento dirette a ripristinare la provvista, non hanno funzione solutoria e non sono, perciò, suscettibili di revocatoria, eccettuati i casi di specifica imputazione a titolo di pagamento e quelli in cui la banca abbia anticipatamente chiuso il conto in pareggio recuperando in proprio favore, con prelievo dalla provvista del correntista, una somma pari al fido utilizzato da quest’ultimo."[3].

Da ultimo, anche in tal senso, si è autorevolmente pronunciata la I^ Sez. della S.C., nella motivazione della Sentenza n. 10219 del 28 aprile 2010, ove, nell’ambito dell’unitario complesso rapporto di conto corrente, ha analizzato la fattispecie in cui un correntista, svincolate alcune somme sottoposte alla garanzia pignoratizia ha poi provveduto ad ordinarne alla banca il versamento di dette somme sul conto: “Situazione, questa, nella quale trova applicazione il costante indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’accredito in un conto corrente di somme - vuoi se rimesse da terzi, vuoi se provenienti da distinta posizione debitoria dell’istituto di credito - costituisce un’operazione che, salvo patto contrario, s’inserisce nell’ambito dell’unitario complesso rapporto di conto corrente e non realizza un’obbligazione autonoma della banca, suscettibile di compensazione legale con il saldo passivo, determinando una semplice variazione quantitativa del debito del correntista, la quale può configurare, secondo le circostanze, o un atto ripristinatorio della disponibilità del correntista medesimo [conto “passivo”], ovvero un atto direttamente solutorio del debito di questi, risultante dal saldo contabile [conto “scoperto”] (cfr., tra le altre, Cass. 19 novembre 2002, n. 16261).” Infatti, nell’ipotesi di un conto corrente munito di provvista (c.d. conto passivo) non è configurabile, durante lo svolgimento del rapporto, un credito esigibile della banca verso il correntista e per usare le parole della S.C. "gli atti di accreditamento e di versamento in conto corrente non sono qualificabili quali autonomi negozi giuridici o quali pagamenti, vale a dire come atti estintivi di obbligazioni, ma quali atti di utilizzazione di un unico contratto ad esecuzione ripetuta” (Cass. Civ. 15 luglio 2009, n. 16538). Così come in altra sentenza (Cass. Civ. sez. III, 21. 11. 2000, n. 15024) si è statuito che i versamenti, consistendo in semplici operazioni contabili di accreditamento dirette a ripristinare la provvista, del c.d. conto passivo, non hanno funzione solutoria e non sono, perciò, suscettibili di revocatoria[4], con la eccezione dei casi di specifica imputazione da parte del cliente al titolo di pagamento (l’addebito nelle competenze attuato unilateralmente dalla banca evidentemente non rientra in detta fattispecie), nonché con la eccezione dei casi di conto corrente scoperto (quando cioè la banca abbia anticipato somme oltre i limiti del fido o nella ipotesi di assenza di fido).

Non sussistendo il pagamento e così non sussistendo alcuna percezione effettiva di denaro da parte dell’istituto di credito, ma solo un eventuale incremento del credito utilizzabile, non può decorrere alcun termine di prescrizione dal dì dell’addebito in conto. D’altro canto, agli addebiti eseguiti sul conto corrente dall’istituto di credito "per soddisfare le proprie ragioni creditorie" non corrisponde un credito esigibile della banca verso il correntista: solo con la chiusura del rapporto e la formazione del saldo finale il credito bancario diventerà esigibile.

La disponibilità[5], che è coessenziale all’assetto degli interessi del conto corrente bancario (che tende ad assicurare al correntista una facoltà di disposizione), è cosa diversa dall’esigibilità e non vi è dubbio che il presupposto per l’esigibilità del credito della banca è la chiusura del rapporto. In buona sostanza, il conto corrente, durante il suo svolgimento, è un mero prospetto contabile in cui sono annotate reciproche poste di dare ed avere con la periodica trimestrale formazione di un saldo differenziale meramente fattuale da cui deriva la facoltà del correntista di disporre in qualsiasi momento delle somme risultanti a suo credito: solo con il saldo finale si giungerà ad un saldo esigibile con un unico risultato solutorio. Infatti, nel corso del rapporto non si ha un pagamento in senso tecnico degli interessi e del capitale, non vi è un debitore che imputi un pagamento, ma vi è un correntista che effettua un versamento ottenendo una mera registrazione a credito sul c/c priva di qualsiasi imputazione di pagamento per interessi e competenze eventualmente maturati.

La banca, dal canto suo, addebita, con una mera ed unilaterale registrazione a dedito sul c/c del cliente, interessi ultralegali, commissioni e meccanismi moltiplicativi delle passività sulla liquidità utilizzata, in modo che tali somme vengono a costituire - insieme al capitale già utilizzato – la base incrementale per il calcolo di nuovi interessi e competenze. Ecco perché il correntista, se da un lato può ogni giorno chiedere l’apparente saldo contabile, dall’altro può anche chiedere la simulazione della chiusura del suo conto corrente (sempre che tutte le operazioni siano terminate: spesso vi sono operazioni in corso che non permettono la chiusura del conto nella giornata). Solo la chiusura definitiva del conto corrente è il momento naturale e funzionale nel quale finisce il rapporto, con un saldo finale esigibile e, dunque, solo ed esclusivamente da questo momento può partire la prescrizione.

La banca, quale mandataria di un servizio assai specifico e peculiare, gestisce unilateralmente la rappresentazione contabile delle prestazioni svolte, provvedendo essa stessa all’annotazione sul conto corrente, collegando le varie operazioni, sostituendo ai pagamenti ed alle riscossioni gli accreditamenti e gli addebitamenti sul conto, attraverso una registrazione contabile continuativa delle diverse operazioni che assumono la forma della moneta scritturale e non di pagamenti in senso tecnico: il cliente non effettua nessun pagamento indebito ma semplicemente è uno spettatore che “subisce una annotazione” a proprio debito. D’altra parte, non si comprende per quale misteriosa ed oscura ragione il correntista dovrebbe estinguere (al tempo di ogni addebito in conto) un credito inesigibile dell’istituto di credito mediante pagamento durante lo svolgersi del rapporto. Sostenere il contrario, come fa la difesa della banca, significa sostenere che nel conto corrente bancario le annotazioni debbano sempre avere natura di pagamento e che, infine, il conto corrente bancario sia un contratto diverso, nella struttura e nella funzione, da quello voluto dal legislatore.

Significativamente, per le operazioni bancarie in conto corrente, il legislatore ha richiamato soltanto alcune delle norme sul contratto di conto corrente ordinario, non citando volutamente gli articoli 1825 e 1831 del Codice civile che non possono essere applicati al conto corrente bancario. D’altra parte il contratto di conto corrente ordinario rappresenta un vero e proprio relitto storico nel senso che non si è mai rinvenuto un rapporto tra imprenditori che si sviluppi nelle forme di un contratto di conto corrente ordinario: detto rapporto presuppone una collettività sociale ove il sistema dei pagamenti è talmente primitivo che si preferisce fare delle annotazioni su di un conto corrente ordinario, pratica negoziale tramontata già una sessantina di anni fa, se non addirittura in epoca anteriore, ed in ogni caso improponibile nella società degli intenti e di sistemi di pagamento particolarmente sofisticati ed in ogni caso ampiamente consolidati. Fare quindi riferimento in questa sede alla disciplina del conto corrente ordinario significa quindi non solo affermare un elemento privo di riscontro nell’esperienza storica, ma anche evocare una figura iuris che nulla ha in comune con il conto corrente bancario.

Il conto corrente bancario è un contratto di mandato in cui il correntista (in relazione alla fruizione di un servizio rispetto al quale sorge l’obbligo di rendiconto per il tramite dell’estratto conto, contabile o altra informativa), conferisce alla banca il potere di gestione di una determinata provvista di denaro che si ha in deposito ovvero di cui si dispone per il tramite di un negozio di finanziamento a rientro. All’interno delle operazioni gestorie di tale provvista possono ravvisarsi operazioni di varia complessità e articolazione, che possono coinvolgere ulteriori contratti accessori, quali contratti di pagamento, contratti di informazione, contratti di trasferimento, ed altre operazioni[6].

Nelle operazioni di conto corrente bancario manca anche il carattere di reciprocità delle rimesse e, quindi, anche la reciprocità della concessione del credito. Le chiusure, che sono a cadenza trimestrale, in virtù di vecchie convenzioni di cartello, sono definite come provvisorie[7], operate al solo fine della contabilizzazione degli interessi e competenze bancarie, utili per l’innesco dei meccanismi di moltiplicazione delle passività operati dalle (oramai vecchie) CMS trimestrali e dall’anatocismo. Tutto ciò genera a ogni trimestre una tale commistione di appostazioni debitorie da mettere l’utente in una assoluta difficoltà di poter discernere il capitale effettivamente utilizzato dalle competenze addebitate unilateralmente dall’istituto di credito. In questa lievitazione di poste passive e di promiscuità con il capitale puro effettivamente utilizzato, il contratto di conto corrente bancario è caratterizzato dal particolare effetto giuridico per il quale (a differenza del conto corrente ordinario di cui agli artt. 1823 c.c. e ss.) le rispettive posizioni di debito e credito tra le parti si elidono contabilmente gradualmente, progressivamente ed automaticamente man mano che si contrappongono, di modo che in ogni momento si ha la risultanza apparente del conto, attiva o passiva che sia; inoltre, il correntista può disporre, a vista, delle somme risultanti a suo credito sulla base del saldo bancario disponibile, cioè di quello corrispondente al mero conguaglio contabile delle contrapposte operazioni attive e passive (Cass. civ. 20.02.1998 n. 1846). Tanto comporta che l’effetto dell’elisione delle rispettive posizioni debitorie è connesso alla coesistenza delle operazioni di segno opposto che confluiscono nell’unico conto corrente bancario, purché divenute perfette secondo la disciplina legale o convenzionale loro propria. Ciò discende sia dalla previsione di cui all’art. 1852 c.c. per cui "il correntista può disporre in qualsiasi momento delle somme risultanti a suo credito", che connota il conto corrente bancario rispetto a quello ordinario, sia dalla previsione di cui all’art. 1853 c.c., che riconduce l’effetto di una sorta di compensazione alla semplice coesistenza dei contrapposti rapporti o conti.

Il conto corrente ordinario comporta l’inesigibilità temporanea delle reciproche posizioni di credito, mentre il conto corrente di corrispondenza, al contrario, allo scopo precipuo di realizzare il servizio di cassa offerto al cliente dall’istituto di credito, nella condizione di mobilità del credito disponibile propugna la continuativa esigibilità e così la costante utilizzabilità del saldo che (per causa di deposito o per cagione di apertura di credito) sia disponibile per il correntista. Così come, diversamente, ma in ossequio alla medesima funzione del contratto, non rimane configurabile, durante lo svolgimento del rapporto di conto corrente, un credito esigibile della banca verso il correntista[8]. Per altro verso, è la particolare natura e il carattere unitario di alcuni contratti come il deposito bancario, il mandato, e il conto corrente (che riprende nella sua struttura gli elementi costitutivi dei primi due) che rende irrilevante, in costanza del rapporto, l’apparente inerzia (che in verità costituisce l’esercizio di un diritto) di una parte e che fa sì che il dies a quo per il computo della prescrizione vada collocato alla data di cessazione del rapporto stesso[9]. Infatti, nel conto corrente bancario “la cosiddetta chiusura periodica segna solo ed esclusivamente la contabilizzazione di interessi a debito o a credito del cliente” (B. Inzitari, Diversa funzione della chiusura del conto ordinario e in quello bancario. Anatocismo e commissione di massimo scoperto, in Banca, Borsa e Titoli di Credito, 2003). L’impostazione codicistica e l’interpretazione giurisprudenziale, a differenza di quanto sostenuto dalla difesa avversa, hanno perseguito i principi affermatisi storicamente nel nostro ordinamento[10]. Infine, come a tutti noto, la Corte Suprema, con orientamento costante ed inossidabile[11] seguito dalla quasi totalità della giurisprudenza di merito[12] (per un’ampia rassegna cfr. il sito www.studiotanza.it), ha statuito, conseguentemente, che il dies a quo della decorrenza del termine di prescrizione decennale, per il reclamo delle somme indebitamente trattenute dalla banca in un’apertura di credito in conto corrente, decorre dalla chiusura del rapporto.

Si veda Cass. 14 maggio 2005, n. 10127, ove è statuito che:

"il momento iniziale del termine prescrizionale decennale per il reclamo delle somme indebitamente trattenute dalla banca a titolo di interessi su un’apertura di credito in conto corrente (nella specie: perché calcolati in misura superiore a quella legale senza pattuizione scritta), decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che dà luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi, sicché è solo con la chiusura del conto che si stabiliscono definitivamente i crediti ed i debiti delle parti tra loro’’.

Si veda, altresì, Cass. Civ. 10 maggio 2007, n. 10692, per cui:

"Una volta esclusa la validità della clausola sulla cui base sono stati calcolati gli interessi, soltanto la produzione degli estratti a partire dall’apertura del conto corrente - considerato che, in virtù dell’unitarietà del rapporto, da tale momento decorre la prescrizione del credito di restituzione per somme indebitamente trattenute dalla banca a titolo di interessi (Cass. 9 aprile 1984, n. 2262) - consente, attraverso una integrale ricostruzione del dare e dell’avere con l’applicazione del tasso legale, di determinare il credito della banca, sempreché la stessa non risulti addirittura debitrice, una volta depurato il conto dalla capitalizzazione degli interessi non dovuti".

L’apertura di credito in conto corrente integra, dunque, una fattispecie contrattuale complessa nella quale l’apertura di credito in senso stretto si combina con il deposito bancario ed il mandato per dar luogo ad un unico contratto tipico: l’apertura di credito in conto corrente, i cui caratteri sono la continuità e l’unitarietà (cfr. Cass. Civ. Sez. I n. 10219 del 26 aprile 2010). E’ dunque da ritenere che, ove si aderisse alla tesi sostenuta dalla Banca, verrebbe travolta tutta la giurisprudenza e la dottrina che più profondamente hanno studiato le peculiarità del rapporto di cui si tratta e si addiverrebbe ad una ricostruzione dogmatica delle fattispecie che apparirebbe sotto moltep0lici profili in contrasto con l’impostazione che a tale rapporto è stata data nel codice civile. Ancora, ove si ammettesse che il dies a quo per il computo della prescrizione decorra da ogni singola movimentazione o chiusura contabile si determinerebbe l’effetto di consentire una ricostruzione del rapporto di conto corrente solo in relazione alle annotazioni operate negli ultimi dieci anni e si determinerebbe un effetto di portata negoziale estraneo alla volontà delle parti.

Di fatto si imporrebbe una sorta di chiusura sostanziale del rapporto alla data in cui viene collocato il dies a quo cristallizzando il saldo contabile a quella data come se fosse un saldo reale. Ciò, non solo sarebbe in contrasto con la volontà delle parti, che a quella data non hanno voluto alcuna chiusura definitiva, ma finirebbe per attribuire una valenza sostanziale alle annotazioni operate sul conto prima del dies a quo e ciò in contrasto con la natura, puramente contabile, che a tali annotazioni viene attribuita.

Di fatto, poi, si finirebbe per accreditare un saldo, alla data del dies a quo, in ipotesi realizzatosi attraverso meccanismi anatocistici illeciti, addebito di interessi o commissioni non validamente pattuiti ecc. Insomma si spezzerebbe quella strutturale unitarietà del rapporto che costituisce l’intima peculiarità del rapporto di conto corrente. Sarebbe, per semplificare, come sostenere che in un rapporto di deposito ultradecennale il depositante ha diritto di pretendere la restituzione solo delle cose depositate negli ultimi dieci anni ovvero, in un rapporto di mandato ultradecennale, che il mandatario è tenuto a rendere il conto, non della sua intera gestione, ma solo degli ultimi dieci anni. Ci pare che, ove si vada a fondo nell’analisi delle implicazioni che deriverebbero dall’accoglimento della tesi della Banca, si debba necessariamente concludere per la sua infondatezza. Salvo che non si intenda procedere da una totale rivisitazione dottrinale non solo del conto corrente, ma anche dell’istituto della prescrizione, e di contratti tipici di grande importanza quali il deposito e il mandato.

2. Sull’inammissibilità della sostituzione dell’illegittimo anatocismo trimestrale con quello annuale. Non ricorrono ragioni per ritenere applicabile, in alternativa alla capitalizzazione trimestrale, quella annuale o semestrale. Siffatte previsioni contrastano da un lato con la natura imperativa e non derogabile –se non secondo le strette eccezioni ivi previste- dell’art. 1283 c.c., e dall’altro della “specialità” dell’obbligazione di interessi rispetto al “genus” delle obbligazioni pecuniarie.

Quanto al primo punto, la derogabilità del divieto dell’anatocismo solo in presenza di usi normativi, rimarchiamo, sul punto, che con sentenza 16 marzo 1999 n. 2374 la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che il divieto di cui alla’art. 1283 c.c. è derogabile soltanto dagli usi contrari, ha definito l’accezione di uso normativo, indicato ed esercitato un metodo di indagine per accertarne l’esistenza (l’indagine condotta dal Supremo Collegio, come tutti sanno, ha certificato l’inesistenza di tali usi). Successivamente, le S.U. del 17 luglio 2001 n. 9653 hanno, più perentoriamente, stabilito che per applicare l’anatocismo, con qualsivoglia cadenza temporale, è indispensabile la sussistenza di un uso normativo.

A tale conclusione le Sezioni Unite – cui era posta la questione se l’obbligazione d’interessi si qualificasse come una qualsiasi obbligazione pecuniaria dalla quale derivi quindi anche il diritto agli ulteriori interessi di mora nonché al risarcimento del maggior danno (ex art. 1224 comma II c.c.) ovvero come una obbligazione sui generis soggetta soltanto alla regola dell’anatocismo- è giunta statuendo i seguenti principi di diritto:

a) il debito di interessi pur concretandosi nel pagamento di una somma di denaro, non si configura come una obbligazione pecuniaria qualsiasi, ma presenta connotati specifici, sia per il carattere di accessorietà rispetto all’obbligazione relativa al capitale, sia per la funzione (genericamente remuneratoria) che gli interessi rivestono, sia per la disciplina prevista dalla legge proprio in relazione agli interessi scaduti;

b) in contrario non varrebbe opporre che il connotato di accessorietà concerne il momento genetico dell’obbligazione di pagamento degli interessi, destinata invece ad assumere nella c.d. fase dinamica una propria autonomia, palesata dalla possibilità di disporre separatamente del credito per interessi rispetto a quello di capitale, dalla possibilità di agire in giudizio indipendentemente dalla proposizione della domanda per il credito principale: questi rilievi sono esatti ma, non incidono sull’obbligazione de qua in guisa tale da trasformarne la natura, perché non alterano la già segnalata funzione degli interessi e, soprattutto, non valgono a rimuovere le implicazioni desumibili dalla specifica disciplina degli interessi scaduti;

c) e lo stesso deve dirsi in relazione all’argomento secondo cui, quando l’obbligazione principale sia già estinta per adempimento da parte del debitore, l’obbligazione per interessi dovrebbe comunque assumere carattere autonomo. Pur postulando tale autonomia (che però non può portare a considerare irrilevante il momento genetico di quell’obbligazione), essa non è idonea a trasformare la causa (funzione) dell’obbligazione medesima fino a rendere il debito per gli interessi scaduti una obbligazione pecuniaria come tutte le altre;

d) invero gli interessi scaduti, se equiparati in toto ad una qualsiasi obbligazione pecuniaria (credito liquido ed esigibile di una somma di denaro), sarebbero stati automaticamente produttivi d’interessi di pieno diritto, ai sensi dell’art. 1282 c. c.;

e) tale effetto, invece, è escluso dal successivo art. 1283 c. c. (dettato a tutela del debitore ed applicabile per ogni specie d’interessi, quindi anche per gli interessi moratori), alla stregua del quale, in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi (c.d. anatocismo o interessi composti);

f) la citata disposizione non comporta soltanto un limite al principio generale di cui all’art. 1282 c. c., ma vale anche a rimarcare la particolare natura che, nel quadro delle obbligazioni pecuniarie, la legge attribuisce al debito per interessi, con la previsione di una disciplina specifica, che si pone come derogatoria rispetto a quella generale in tema di danni nelle obbligazioni pecuniarie, stabilita dall’art. 1224 c. c., e che proprio per il suo carattere di specialità deve prevalere su quest’ultima norma. (sulla natura “eccezionale” della norma di cui all’art. 1283 c.c., cfr. ex multis anche Cass. N. 14912/2001).

g) Se così non fosse, del resto, l’art. 1224 c.c. verrebbe ad assorbire tutto il campo applicativo dell’art. 1283 c.c., che resterebbe circoscritto ai casi in cui il debito per interessi è quantificato all’atto della proposizione della domanda. Ma una simile limitazione dell’ambito applicativo del citato art. 1283 c. c. non emerge da tale norma e viene, anzi, a porsi con essa in contrasto, perché trascura la peculiare natura del debito per interessi sopra segnalata ed elude, almeno in parte, la finalità di tutela per la posizione del debitore che la norma ha previsto stabilendo in quali casi e con quali presupposti gli interessi scaduti possono essere produttivi di altri interessi;

h) d’altro canto, non sarebbe neppure conforme al principio di ragionevolezza un approdo ermeneutico che, in presenza di obbligazioni di pagamento aventi natura e contenuto identici (interessi), rendesse applicabile al debitore che ha già pagato il debito principale l’art. 1224 c. c. ed al debitore totalmente inadempiente, e quindi convenuto per il pagamento del capitale e degli interessi, l’art. 1283 in relazione a questi ultimi;

I) conclusivamente, il debito per interessi (anche quando sia stata adempiuta l’obbligazione principale) non si configura come una qualsiasi obbligazione pecuniaria, dalla quale derivi il diritto agli ulteriori interessi dalla mora nonché al risarcimento del maggior danno ex art. 1224 comma II c. c., ma resta soggetto alla regola dell’anatocismo di cui all’art. 1283 c. c., derogabile soltanto dagli usi contrari ed applicabile a tutte le obbligazioni aventi ad oggetto originario il pagamento di una somma di denaro sulla quale spettino interessi di qualsiasi natura (per il conseguente corollario per cui gli interessi non perdono la loro natura, ai fini della loro eventuale capitalizzazione, per effetto della loro inclusione nei ratei di ammortamento dei mutui, cfr. ex multis Cass. N. 2593/2003).

In relazione alla pretesa legittimità di una capitalizzazione annuale, sostenuta dalla difesa della banca convenuta, si replica che la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi deriva non già dal tipo di cadenza temporale della capitalizzazione, ma dalla mancanza delle condizioni imperative di cui all’art. 1283 c.c.



[1] Cass. Civ., Sez. III, 10 settembre 2010, n. 19291, pres. Cons. Trifone, rel. Cons. Federico, ha statuito che: “E’ pacifico, infatti, che nella specie, trattandosi di contratto di mutuo, e quindi di contratto di durata, in cui l’obbligo di restituzione del capitale sia differito nel tempo, i singoli ratei non costituiscono autonome e distinte obbligazioni, bensì l’adempimento frazionato di un’unica obbligazione. Ne consegue che la prescrizione decennale, applicabile al caso in esame, non può che decorrere dalla scadenza dell’ultimo rateo previsto nel piano di ammortamento e, perciò, come è stato ritenuto dai giudici di merito, dal giorno successivo alla data di scadenza per il pagamento dell’ultima rata del mutuo stesso e cioè dal 26.11.90.”

[2] F. MASTROMARINO, Il dies a quo della prescrizione dei diritti dell’indebito nel conto corrente bancario, Guida al Diritto, sez. Focus, 2010

[3] La Cassazione ha costantemente ribadito in seguito il principio di diritto testé enunciato: cfr. Cass. Civ., sez. I, 11/09/2007, n. 19088; Cass. Civ., sez. I, 6/11/2007, n. 23107; Cass. Civ., sez. I, 9/11/2007, n. 23393; Cass. Civ., sez. I, 3/01/1996, n. 12; Cass. Civ., sez. I, 23/06/1994, n. 6031; Cass. Civ., sez. I, 15/11/1994, n. 9591; Cass. Civ. sez. I, 14/05/2005, n. 10127 e Cass. civ., sez. III, 21/11/2000, n. 15024, ecc.

[4] Cfr. G. DELL’ANNA MISURALE in “Il Caso.it” Doc. n. 18/2007 “Al riguardo, l’orientamento prevalente attribuisce valenza solutoria alle rimesse che azzerano o riducono lo scoperto poiché considerate alla stregua di adempimenti di un debito liquido ed esigibile nei confronti della banca, intendendosi per «scoperto» sia il conto non assistito da apertura di credito che presenti un saldo a debito del cliente, sia il conto scoperto a séguito di sconfinamento del fido convenzionalmente accordato al correntista. Viceversa, dunque, nelle ipotesi in cui vi sia un conto assistito da apertura di credito, non è configurabile, durante lo svolgimento del rapporto e fino a quando i prelievi sono contenuti nei limiti del fido, un credito esigibile della banca verso il correntista, in quanto i versamenti - eseguiti direttamente dal cliente e mediante bonifico di somme provenienti da terzi - consistendo in semplici operazioni di accreditamento dirette a ripristinare la provvista, non hanno funzione solutoria.” Cfr. G. DELL’ANNA MISURALE in “Il Caso.it” Doc. n. 18/2007

[5] Cassazione con la sentenza del 22 marzo 1994, n. 2744 (in Corr. giur., 1994, 1254, con nota di Tarzia ; in Dir. fall. 1995, II, 39, con nota di Giuliani; e cfr., più di recente, Cass., 11 settembre 1998, n. 9018), precisava che «il concetto di saldo disponibile, cui fare riferimento per la revocabilità delle rimesse in conto, non coincide né con il saldo contabile né con quello per valuta ma deve essere determinato con riferimento agli effettivi incassi ed alle effettive erogazioni eseguite dalla banca su indicazione del correntista. » Il Tarzia, in merito ha affermato che "tenuto conto del fatto che sia per i versamenti in contanti del correntista, sia per le anticipazioni della banca, sia per i bonifici dei terzi, sia infine per gli assegni "acquistati" dalla banca, la data dell’accreditamento coincide con quella della disponibilità, si deve constatare che vi è quanto meno una tendenziale coincidenza fra il saldo contabile e quello disponibile. E questa coincidenza sembra potersi sostenere anche per l’ipotesi residuale del controvalore dei titoli affidati per l’incasso, dei quali la banca accordi la disponibilità immediata. Se ciò non fosse condiviso, in ogni caso la sfasatura fra saldo disponibile e saldo contabile andrebbe circoscritta a questa specifica posta, il che in concreto ne riduce grandemente la portata".

[6] La Suprema Corte (ex pluris Cass. 21 ottobre 2002, n. 14091; Cassazione civile , sez. I, 01 marzo 2007, n. 4853) ha statuito che: “Un patto anatocistico preventivo, non può ritenersi legittimato dalla <<applicabilità degli artt. 1823, 1825 e 1831 C.c. anche al conto corrente bancario>>. Poiché, anzi, al conto corrente bancario resta applicabile la disciplina dell’art. 1283 c.c. mentre ad esso non è applicabile, in quanto non richiamata dall’art. 1857, la disciplina del conto corrente ordinario secondo la quale (artt. 1831 e 1825) gli interessi vengono liquidati ad ogni chiusura del conto e la relativa capitalizzazione inserita nella liquidazione del saldo”. E ancor prima: “nel contratto di conto corrente bancario, a differenza che nel contratto di conto corrente ordinario, le annotazioni o le registrazioni delle singole operazioni hanno un valore esclusivamente contabile ed una efficacia meramente dichiarativa …” (Cass. Civ. 20 febbraio 1998, n. 1846 e nello stesso senso Cass. 26 aprile 1966, n. 1044 e Cass. 25 luglio 1972 n. 2545); nonché: "l’accredito, da parte di una banca, in un conto corrente assistito da apertura di credito, di somme rimesse da terzi o provenienti da distinta posizione debitoria dell’istituto di credito, costituisce un’operazione che, salvo patto contrario, s’inserisce nell’ambito dell’unitario complesso rapporto di conto corrente e non realizza un ’obbligazione autonoma della banca di rimettere al cliente le somme riscosse, suscettibile di compensazione legale con il saldo passivo, in quanto determina una semplice variazione quantitativa del debito del correntista… " (Cass., sez. 1°, 23 aprile 1987, n. 3919, nello stesso senso anche Cass. civ., Sez. I, 8 aprile 2004, n. 6943).

[7] cfr. D’ANGELO – MAZZANTINI che distingue tra chiusura periodica, da altri definita provvisoria, e scioglimento del conto corrente in Trattato di Tecnica Bancaria, Milano, 1954, p. 518; ed anche il BONELLI (Della Cambiale, dell’assegno bancario e del contratto di conto corrente, in Commentario al Codice di Commercio, Milano, 1909, p.827)

[8] Il Salandra (Conto Corrente, in Enciclopedia Bancaria, Milano, 1942, p. 466) nell’affermare che: “Quando ha luogo la chiusura definitiva del conto si procede alla liquidazione complessiva (...) Il saldo diventa di regola immediatamente esigibile e per esso decorre da questo momento la prescrizione”, riconosce la più datata dottrina di fonte bancaria. Già l’insegnamento più antico del Bonelli (Della Cambiale, dell’assegno bancario e del contratto di conto corrente, in Commentario al Codice di Commercio, Milano, 1909, p.891, nota 3) ci illustrava: “Durante il conto nessuna prescrizione decorre; dopo il conto comincia la prescrizione del saldo”. Così come M. Tondo (Contratti Bancari, a cura dell’Associazione Bancaria Italiana, Roma, 1957, p. 142): “… nel fatto di lasciare la somma presso la banca depositaria, non può ravvisarsi quell’inerzia nell’esercizio del diritto sulla quale si fonda l’istituto della prescrizione, perché così facendo il depositante non fa che esercitare il proprio diritto, che è quello di tenere la somma presso la banca, e quest’ultima, dal canto suo, non fa che adempiere alla propria obbligazione. Da ciò consegue che la prescrizione non può che decorrere dal giorno del rifiuto a restituire opposto alla richiesta del depositante ... deve inoltre osservarsi che solo con la richiesta del depositante il dies certus an, incertus quando può considerarsi scaduto e può parlarsi di quella attuale esigibilità del credito che è indispensabile ai fini della prescrizione”. (analogamente FOLCO, Il sistema del diritto della banca, Milano, 1959, p. 370; cfr. anche SOTGIA, Dei depositi bancari, in Commentario del Codice Civile, di D’Amelio e Finzi, Obbligazioni, II, Firenze, 1949, p. III ). Giova da ultimo osservare che questi Autori hanno trattato in termini analoghi, ai fini che qui interessano, sia il deposito bancario che il conto corrente, atteso che, come dichiara il Tondo citando il Fiorentino (Del Conto Corrente. Dei Contratti bancari, in Comm. C.c. Scialoja-Branca, pag. 47), “il cliente che sia con la banca legato da un rapporto di deposito di denaro, o di apertura di credito, può compiere una serie di successivi prelevamenti o versamenti, i quali non danno luogo alla costituzione o risoluzione di tanti autonomi e distinti nuovi rapporti di prestito, ma solo a variazioni quantitative dell’originario e unico rapporto precostituito. Il depositante che effettua successivi versamenti alle casse della banca (e poco importa che ciò avvenga su un libretto o un conto corrente, n.d.r.) non pone in essere tanti e distinti rapporti di mutuo (o di deposito che siano), ma attua solo l’originario e unico contratto da lui concluso con la banca: così quando egli effettua successivi prelevamenti, non pone in essere tanti atti risolutivi o satisfattivi dei diversi rapporti preesistenti ….ma attua sempre l’originario e unico contratto da lui concluso, lo stesso vale per l’apertura di credito. Le conseguenze più rilevanti della perdurante identità del credito e debito per tutta la durata del rapporto sono, oltre che quelle dell’inapplicabilità delle regole sulla imputazione dei pagamenti, la inapplicabilità delle norme sulla compensazione , in quanto non si hanno distinti crediti e debiti tra loro compensabili e la unicità del termine di prescrizione”.

[9] Significativa è la sentenza che di seguito si riporta: “quando in una convenzione si riconoscano facoltà a favore di una delle parti, occorre accertare se tali facoltà costituiscano diritti nascenti ex novo ed autonomamente dal contratto, ai quali sono applicabili le normali regole della prescrizione, ovvero si identifichino con vere e proprie facoltà, niente affatto autonome, connesse ad un rapporto contemplato dal contratto e più precisamente rientranti nel contenuto di un diritto inerente al rapporto stesso; in tal caso, trattandosi di facoltà, in senso tecnico giuridico, esse sono necessariamente imprescrittibili, dovendo perdurare finché sussiste il diritto cui sono connesse” (Cort. Cass. n. 697 del 10 marzo 1971).

[10] Infatti, già prima della promulgazione dell’attuale codice civile, P. Greco nel suo Corso di diritto bancario (Padova, 1936, p. 23) rilevava come l’operazione contabile di accreditamento o di addebitamento non corrisponda “alla costituzione di crediti o di debiti, ma è semplicemente un modo di rappresentare le modificazioni oggettive e quantitative che subisce un unico rapporto obbligatorio nel corso del suo svolgimento…. In gran parte è fondata su questa considerazione la differenza che passa fra il contratto di conto corrente, previsto dagli arti. 345 e ss. Cod. comm. e la forma generale dei conti correnti bancari”. Il legislatore nel Codice civile nel 1942 ha ripreso questa impostazione: infatti, nella Sezione V del Capo XVII, Libro IV del Codice civile “Delle operazioni bancarie in conto corrente”, l’art. 1557, titolato “Norme applicabili”, prevede: “Alle operazioni regolate in conto corrente si applicano le norme degli articoli 1826, 1829 e 1832”.

[11] Cfr. Cassazione Civile, Sez. I, n° 10692 del 10 maggio 2007; Cassazione Civile, Sez. I, 14 maggio 2005 n. 10127; Cassazione civile, sez. I, 23 marzo 2004, n. 5720; Cassazione, Sez. I, 03 maggio 1999, n. 4389; Cassazione civile, sez. I, 14 aprile 1998, n. 3783; Cassazione civile, sez. I, 9 aprile 1984, n. 2262.

[12] Cfr. Solo nel 2010, questa difesa, ha registrato le seguenti pronunzie, tutte edite nel sito www.studiotanza.it : Tribunale di Torino, Dott. Paola FERRERO - Sent. n. 73/10 dell’8 gennaio 2010; Tribunale di Brescia, Dott. Lucia Cannella, Sent. n. 124 del 18 gennaio 2010; Tribunale di Torino, Dott. Maurizia Giusta - Sent. n. 450 del 21gennaio 2010; Tribunale di Lanciano, Dott. De Nisco Paola, Sent. n. 64 del 3 febbraio 2010; Tribunale di Catania, Azzia, Ordinanza ex art. 186 quater cpc; Tribunale di Lecce, Dott. Virginia Zuppetta, Sent. 334 del 03 febbraio 2010; Tribunale di Livorno, Dott. Roberto URGESE, Sent. 254 del 2 marzo 2010; Tribunale di Roma, Dott. Laura AVVISATI, Sent. 3931 del 20 febbraio 2010; Tribunale di Palmi, Dott. A. Pastore, Sent. 134 del 12 marzo 2010; Tribunale di Lecce, Dott. Maria Carmela Tinelli, Sent. 761 del 31 marzo 2010; Tribunale di Lecce - Sez. Campi Salentina, Dott. Lucia DE MATTEIS, Sentenza n. 80 del 23 aprile 2010; Tribunale di Napoli, Dott. Giovanni TEDESCO, Sent. 5221 del 6 maggio 2010; Corte d’Appello di Torino, Cons. Dott. Angelo CONVERSO, Sent. 5221 del 4 maggio 2010; Tribunale di Tivoli, Dott. Scarafoni, Sent. Parz. 724 del 4 maggio 2010; Tribunale di Novara, Dott. Angela Maria NUTINI, Sent. Parz. del 27 aprile 2010; Tribunale di Novara, Dott. Simona GAMBACORTA, Sent. Parz. del 18 maggio 2010; Tribunale di Verbania, Dott. Massimo TERZI, Sent. n. 378/2010 del 23 maggio 2010; Tribunale di Napoli, Dott. Livia TRAPANI, Sent. 5282 del 10 maggio 2010; Tribunale di Lecce, Dott. Giovanni Tommasi, Sentenza n. 1290 del 03 giugno 2010; Tribunale di Roma, Sentenza n. 9871 del 04 maggio 2010; Tribunale di Lecce - Sez. Campi Salentina, Dott. Gabriella NOCERA, Sentenza n. 120 del 10 giugno 2010; Tribunale di Lecce, Dott. Grazia ERREDE, Sentenza n. 1116 del 17 maggio 2010; Tribunale di Cassino, Dott. Gabriele SORDI, Sentenza n. 437 del 14 giugno 2010; Tribunale di Teramo, Dott. Carmine DI FULVIO, Sentenza n. 557 del 12 maggio 2010; Tribunale di Lecce - Sez. Maglie, Dott. Angelo RIZZO, Sent. 246 del 12 luglio 2010; Tribunale di Firenze, dott. Luca MINNITI, Sent. n. 2336 del 13 luglio 2010; Tribunale di Lecce - Sez. Casarano, dott. carlo ERRICO, Sent. n. 168 del 23 luglio 2010; Tribunale di Firenze, dott. Fiorenzo ZAZZERI, Sent. n. 2573 del 30 luglio 2010; Tribunale di Este, dott. Giuliana GIROTTO, Sent. n. 240 del 2 agosto 2010; Tribunale di Tricase, dott. Alida ACCOGLI, Sent. n. 111 del 7 agosto 2010; Corte d’Appello di Lecce, Cons. Dott. Marcello DELL’ANNA, Sent. n. 414 del 10 luglio 2010; Tribunale di Lecce, Dott. Michela DE LECCE, Sentenza n. 1166 del 16 agosto 2010; Trib. di Lucca, Dott. Antonio MONDINI, Sent. n. 1104 del 21 settembre 2010; Trib. di Casarano, dott. Cosimo CALVI, Sent. n. 123 del 9 giugno 2010;Tribunale di Palermo, Sezione distaccata di Bagheria, Dott. Elisabetta LA FRANCA, Sent. n. 124 del 20 settembre 2010; Tribunale di Paola, Sez. distaccata di Scalea, Dott. Nicoletta CAMPANARO, Sent. n. 245 del 2 agosto 2010; Tribunale di Torino, Dott. Tamagnone, Sent. n. 6113 del 18 ottobre 2010; Tribunale di Foggia, Dott. Maria TUCCILLO, Sent. n. 1565 del 20 ottobre 2010; Tribunale di Napoli, Sez. dist. di Capri, Dott. Antonio QUARANTA, Sent. n. 106 del 5 novembre 2010;

1. Sul dies a quo del decorso della prescrizione decennale nell’apercredito. La tesi esposta dalle difese delle banche, nel frazionare arbitrariamente gli atti esecutivi del contratto di conto corrente bancario, attribuisce, del tutto illegittimamente, alle operazioni contabili di accreditamento (il versamento nel conto da parte del cliente) quella funzione solutoria (di pagamento) che, invece, esse non hanno. Così ragionando, da un lato, si erra nell’applicazione della norma sui conti correnti bancari e dall’altro si sconvolgono i principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, con orientamento costante, anche in tema di revocabilità dei versamenti nel conto corrente bancario.

Invero, la prescrizione decorre dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.); ne deriva che il dies a quo del termine prescrizionale decorre solo dal momento in cui si palesa come concretamente esperibile la relativa tutela del diritto violato (cfr. Cass., 19-2-1985, n. 1445, in Giust. civ., 1985, I, 1327), ovvero dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere legalmente, con riferimento alla deducibilità processuale della pretesa: il che concretamente significa che deve poter essere determinato un oggetto della domanda e devono poter venire articolate le ragioni della domanda stessa, con le relative conclusioni che possano sostanziarsi in un concreto provvedimento giurisdizionale ammesso dall’ordinamento. La determinazione del dies a quo deve, quindi essere affrontata con riferimento al poter pretendere attuale da parte del titolare del diritto di un concreto comportamento dovuto di fare, di cessare di fare, di consegnare da parte di un soggetto che è individuato in virtù della ragione che sorregge la pretesa stessa. Tale principio, se si vuole, è quello della teoria c.d. della realizzazione onde la prescrizione decorre solo dal momento in cui il diritto può venire concretamente sperimentato. Non si deve andare alla ricerca del fatto violazione del diritto, ma del sorgere del poter pretendere attuale, il quale può anche coincidere con il fatto di violazione del diritto. Alla stregua del principio dell’attualità della pretesa vanno, dunque, risolte tutte le singole questioni concernenti le diverse categorie di rapporti ed alle varie ipotesi di diritti soggettivi che la norma è destinata a ricomprendere e, dunque, anche quello del dies a quo della decorrenza della prescrizione nel contratto di conto corrente bancario.

Ciò posto, per i diritti di credito in genere, la prescrizione inizia a decorre solo dal momento in cui la prestazione diviene esigibile, e quindi la pretesa volta ad ottenerla diviene effettivamente azionabile. Viceversa nei crediti soggetti a termine o a condizione la prescrizione decorrerà dal momento in cui la condizione si è avverata o il termine è scaduto. Dai principi esposti deriva naturale che la trattazione del decorso del dies a quo per la prescrizione nel contratto di apertura di credito utilizzata con conto corrente di corrispondenza non può prescindere dalle peculiarità tipiche di detto contratto: il limite fondamentale delle tesi avverse trova origine nel voler applicare delle logiche tipiche di altre fattispecie al conto corrente bancario e, in particolar modo, all’apercredito con scoperto di conto corrente. La nozione di apertura di credito, quale contratto col quale la banca si obbliga a tenere a disposizione dell’altra parte una somma di denaro per un dato periodo o a tempo indeterminato (art. 1842 c.c.), implica che la prescrizione decorrerà dal momento in cui il termine contrattuale è scaduto o con la revoca dal rapporto e, comunque, con la chiusura del rapporto: solo in quella data il credito bancario diviene esigibile e la banca può chiedere il pagamento. Durante il rapporto di apercredito con scoperto di conto corrente non può sorgere l’attualità della pretesa della banca e di conseguenza, in mancanza di pagamenti, neppure la pretesa di restituzione da parte dell’utente di somme indebitamente corrisposte: detta attualità si manifesta solo con la chiusura del conto, con la determinazione del saldo finale, con la esigibilità del saldo e l’eventuale pagamento dello stesso. Il contratto di apercredito in conto corrente, al pari del mutuo, è un contratto di durata ed unitario che dà luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi (cfr. recentemente in tema di contratti di durata Cass. civ., Sez. III, 10 settembre 2010, n. 19291[1] che conferma Cassazione civile, sez. III 06 febbraio 2004, n. 2301), sicché è solo con la chiusura del conto che si stabiliscono e si regolano definitivamente i crediti ed i debiti delle parti tra loro (Cass. 14 maggio 2005, n. 10127).

In verità il correntista potrà invocare la restituzione, in senso tecnico, delle competenze bancarie e degli interessi illegittimamente addebitati periodicamente dalla banca nel corso del rapporto, solo successivamente all’avvenuto pagamento degli stessi, ovvero al tempo della chiusura del conto; mentre al tempo dell’indebita appostazione a debito nel conto, potrà solo invocare, con ogni ovvietà, l’accertamento di un saldo differente da quello erroneamente ottenuto per conseguenza della eventuale illegittima appostazione. Il titolare del conto, infatti, può proporre, anche prima della chiusura del contratto, una domanda di accertamento costitutivo, volta alla sola rideterminazione del saldo[2]. L’accertamento costitutivo del saldo, infatti, incide nel rapporto di durata in corso, modificandolo e rendendolo conforme al diritto, senza bisogno della chiusura preventiva del conto corrente e di una condanna di restituzione. La domanda di accertamento del saldo è volta a ottenere l’esatta determinazione delle somme a credito e a debito delle parti, sulla base dell’intera documentazione (disponibile), dall’inizio dei rapporti di conto corrente al tempo della domanda: detta azione di accertamento è imprescrittibile (cfr. art. 1422 c.c.) e si può chiedere la modifica delle poste all’interno del rapporto, così e come accade in altri contratti di durata (come la somministrazione). Nella diversa ipotesi in cui, al tempo della domanda, il conto risulti estinto, la domanda, con l’accertamento di ragione, potrà essere volta anche ad ottenere la condanna al pagamento materiale nelle mani del correntista, della somma di denaro invocata, per il titolo di ripetizione dell’indebito pagamento e la prescrizione decorrerà dalla chiusura del rapporto.

Detta costruzione è propria della struttura dell’apertura di credito e del conto corrente di corrispondenza, nonché dalla complessiva applicazione giurisprudenziale (anche in tema di fallimento) nella materia, con particolare riferimento alla disciplina dei crediti contrapposti nel conto. Ora, se i versamenti sul conto, eseguiti dal correntista, non hanno funzione solutoria e di pagamento (relativamente al rapporto intercorrente tra banca-cliente), così e come statuisce costantemente la Corte Suprema, anche in tema di fallimento, risulta assolutamente insostenibile la tesi contraria sull’esistenza d’un qualche ’’pagamento’’ o, peggio, del pagamento delle competenze bancarie, ovvero anche quei complicati ed inestricabili meccanismi di moltiplicazione (cfr. cms trimestrali, valute fittizie e capitalizzazioni) degli interessi e delle spese che la sola banca unilateralmente addebita ogni trimestre sul conto del cliente. La S.C., con la paradigmatica sentenza del 18 ottobre 1982, n. 5413, ha affermato l’immutato principio di diritto che qui si invoca, anche per i fini di prescrizione, statuendo che:

"I versamenti in conto corrente bancario hanno natura di pagamenti e sono, quindi, revocabili a norma dell’art. 67, 2° comma, l. fall. soltanto nell’ipotesi di conto "scoperto" (cioè quando la banca abbia anticipato somme oltre i limiti del fido), mentre nell’ipotesi di conto corrente munito di provvista (c.d. conto "passivo’’) costituita da un’apertura di credito, non è configurabile, durante lo svolgimento del conto, un credito esigibile della banca verso il correntista e i versamenti, consistendo in semplici operazioni contabili di accreditamento dirette a ripristinare la provvista, non hanno funzione solutoria e non sono, perciò, suscettibili di revocatoria, eccettuati i casi di specifica imputazione a titolo di pagamento e quelli in cui la banca abbia anticipatamente chiuso il conto in pareggio recuperando in proprio favore, con prelievo dalla provvista del correntista, una somma pari al fido utilizzato da quest’ultimo."[3].

Da ultimo, anche in tal senso, si è autorevolmente pronunciata la I^ Sez. della S.C., nella motivazione della Sentenza n. 10219 del 28 aprile 2010, ove, nell’ambito dell’unitario complesso rapporto di conto corrente, ha analizzato la fattispecie in cui un correntista, svincolate alcune somme sottoposte alla garanzia pignoratizia ha poi provveduto ad ordinarne alla banca il versamento di dette somme sul conto: “Situazione, questa, nella quale trova applicazione il costante indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’accredito in un conto corrente di somme - vuoi se rimesse da terzi, vuoi se provenienti da distinta posizione debitoria dell’istituto di credito - costituisce un’operazione che, salvo patto contrario, s’inserisce nell’ambito dell’unitario complesso rapporto di conto corrente e non realizza un’obbligazione autonoma della banca, suscettibile di compensazione legale con il saldo passivo, determinando una semplice variazione quantitativa del debito del correntista, la quale può configurare, secondo le circostanze, o un atto ripristinatorio della disponibilità del correntista medesimo [conto “passivo”], ovvero un atto direttamente solutorio del debito di questi, risultante dal saldo contabile [conto “scoperto”] (cfr., tra le altre, Cass. 19 novembre 2002, n. 16261).” Infatti, nell’ipotesi di un conto corrente munito di provvista (c.d. conto passivo) non è configurabile, durante lo svolgimento del rapporto, un credito esigibile della banca verso il correntista e per usare le parole della S.C. "gli atti di accreditamento e di versamento in conto corrente non sono qualificabili quali autonomi negozi giuridici o quali pagamenti, vale a dire come atti estintivi di obbligazioni, ma quali atti di utilizzazione di un unico contratto ad esecuzione ripetuta” (Cass. Civ. 15 luglio 2009, n. 16538). Così come in altra sentenza (Cass. Civ. sez. III, 21. 11. 2000, n. 15024) si è statuito che i versamenti, consistendo in semplici operazioni contabili di accreditamento dirette a ripristinare la provvista, del c.d. conto passivo, non hanno funzione solutoria e non sono, perciò, suscettibili di revocatoria[4], con la eccezione dei casi di specifica imputazione da parte del cliente al titolo di pagamento (l’addebito nelle competenze attuato unilateralmente dalla banca evidentemente non rientra in detta fattispecie), nonché con la eccezione dei casi di conto corrente scoperto (quando cioè la banca abbia anticipato somme oltre i limiti del fido o nella ipotesi di assenza di fido).

Non sussistendo il pagamento e così non sussistendo alcuna percezione effettiva di denaro da parte dell’istituto di credito, ma solo un eventuale incremento del credito utilizzabile, non può decorrere alcun termine di prescrizione dal dì dell’addebito in conto. D’altro canto, agli addebiti eseguiti sul conto corrente dall’istituto di credito "per soddisfare le proprie ragioni creditorie" non corrisponde un credito esigibile della banca verso il correntista: solo con la chiusura del rapporto e la formazione del saldo finale il credito bancario diventerà esigibile.

La disponibilità[5], che è coessenziale all’assetto degli interessi del conto corrente bancario (che tende ad assicurare al correntista una facoltà di disposizione), è cosa diversa dall’esigibilità e non vi è dubbio che il presupposto per l’esigibilità del credito della banca è la chiusura del rapporto. In buona sostanza, il conto corrente, durante il suo svolgimento, è un mero prospetto contabile in cui sono annotate reciproche poste di dare ed avere con la periodica trimestrale formazione di un saldo differenziale meramente fattuale da cui deriva la facoltà del correntista di disporre in qualsiasi momento delle somme risultanti a suo credito: solo con il saldo finale si giungerà ad un saldo esigibile con un unico risultato solutorio. Infatti, nel corso del rapporto non si ha un pagamento in senso tecnico degli interessi e del capitale, non vi è un debitore che imputi un pagamento, ma vi è un correntista che effettua un versamento ottenendo una mera registrazione a credito sul c/c priva di qualsiasi imputazione di pagamento per interessi e competenze eventualmente maturati.

La banca, dal canto suo, addebita, con una mera ed unilaterale registrazione a dedito sul c/c del cliente, interessi ultralegali, commissioni e meccanismi moltiplicativi delle passività sulla liquidità utilizzata, in modo che tali somme vengono a costituire - insieme al capitale già utilizzato – la base incrementale per il calcolo di nuovi interessi e competenze. Ecco perché il correntista, se da un lato può ogni giorno chiedere l’apparente saldo contabile, dall’altro può anche chiedere la simulazione della chiusura del suo conto corrente (sempre che tutte le operazioni siano terminate: spesso vi sono operazioni in corso che non permettono la chiusura del conto nella giornata). Solo la chiusura definitiva del conto corrente è il momento naturale e funzionale nel quale finisce il rapporto, con un saldo finale esigibile e, dunque, solo ed esclusivamente da questo momento può partire la prescrizione.

La banca, quale mandataria di un servizio assai specifico e peculiare, gestisce unilateralmente la rappresentazione contabile delle prestazioni svolte, provvedendo essa stessa all’annotazione sul conto corrente, collegando le varie operazioni, sostituendo ai pagamenti ed alle riscossioni gli accreditamenti e gli addebitamenti sul conto, attraverso una registrazione contabile continuativa delle diverse operazioni che assumono la forma della moneta scritturale e non di pagamenti in senso tecnico: il cliente non effettua nessun pagamento indebito ma semplicemente è uno spettatore che “subisce una annotazione” a proprio debito. D’altra parte, non si comprende per quale misteriosa ed oscura ragione il correntista dovrebbe estinguere (al tempo di ogni addebito in conto) un credito inesigibile dell’istituto di credito mediante pagamento durante lo svolgersi del rapporto. Sostenere il contrario, come fa la difesa della banca, significa sostenere che nel conto corrente bancario le annotazioni debbano sempre avere natura di pagamento e che, infine, il conto corrente bancario sia un contratto diverso, nella struttura e nella funzione, da quello voluto dal legislatore.

Significativamente, per le operazioni bancarie in conto corrente, il legislatore ha richiamato soltanto alcune delle norme sul contratto di conto corrente ordinario, non citando volutamente gli articoli 1825 e 1831 del Codice civile che non possono essere applicati al conto corrente bancario. D’altra parte il contratto di conto corrente ordinario rappresenta un vero e proprio relitto storico nel senso che non si è mai rinvenuto un rapporto tra imprenditori che si sviluppi nelle forme di un contratto di conto corrente ordinario: detto rapporto presuppone una collettività sociale ove il sistema dei pagamenti è talmente primitivo che si preferisce fare delle annotazioni su di un conto corrente ordinario, pratica negoziale tramontata già una sessantina di anni fa, se non addirittura in epoca anteriore, ed in ogni caso improponibile nella società degli intenti e di sistemi di pagamento particolarmente sofisticati ed in ogni caso ampiamente consolidati. Fare quindi riferimento in questa sede alla disciplina del conto corrente ordinario significa quindi non solo affermare un elemento privo di riscontro nell’esperienza storica, ma anche evocare una figura iuris che nulla ha in comune con il conto corrente bancario.

Il conto corrente bancario è un contratto di mandato in cui il correntista (in relazione alla fruizione di un servizio rispetto al quale sorge l’obbligo di rendiconto per il tramite dell’estratto conto, contabile o altra informativa), conferisce alla banca il potere di gestione di una determinata provvista di denaro che si ha in deposito ovvero di cui si dispone per il tramite di un negozio di finanziamento a rientro. All’interno delle operazioni gestorie di tale provvista possono ravvisarsi operazioni di varia complessità e articolazione, che possono coinvolgere ulteriori contratti accessori, quali contratti di pagamento, contratti di informazione, contratti di trasferimento, ed altre operazioni[6].

Nelle operazioni di conto corrente bancario manca anche il carattere di reciprocità delle rimesse e, quindi, anche la reciprocità della concessione del credito. Le chiusure, che sono a cadenza trimestrale, in virtù di vecchie convenzioni di cartello, sono definite come provvisorie[7], operate al solo fine della contabilizzazione degli interessi e competenze bancarie, utili per l’innesco dei meccanismi di moltiplicazione delle passività operati dalle (oramai vecchie) CMS trimestrali e dall’anatocismo. Tutto ciò genera a ogni trimestre una tale commistione di appostazioni debitorie da mettere l’utente in una assoluta difficoltà di poter discernere il capitale effettivamente utilizzato dalle competenze addebitate unilateralmente dall’istituto di credito. In questa lievitazione di poste passive e di promiscuità con il capitale puro effettivamente utilizzato, il contratto di conto corrente bancario è caratterizzato dal particolare effetto giuridico per il quale (a differenza del conto corrente ordinario di cui agli artt. 1823 c.c. e ss.) le rispettive posizioni di debito e credito tra le parti si elidono contabilmente gradualmente, progressivamente ed automaticamente man mano che si contrappongono, di modo che in ogni momento si ha la risultanza apparente del conto, attiva o passiva che sia; inoltre, il correntista può disporre, a vista, delle somme risultanti a suo credito sulla base del saldo bancario disponibile, cioè di quello corrispondente al mero conguaglio contabile delle contrapposte operazioni attive e passive (Cass. civ. 20.02.1998 n. 1846). Tanto comporta che l’effetto dell’elisione delle rispettive posizioni debitorie è connesso alla coesistenza delle operazioni di segno opposto che confluiscono nell’unico conto corrente bancario, purché divenute perfette secondo la disciplina legale o convenzionale loro propria. Ciò discende sia dalla previsione di cui all’art. 1852 c.c. per cui "il correntista può disporre in qualsiasi momento delle somme risultanti a suo credito", che connota il conto corrente bancario rispetto a quello ordinario, sia dalla previsione di cui all’art. 1853 c.c., che riconduce l’effetto di una sorta di compensazione alla semplice coesistenza dei contrapposti rapporti o conti.

Il conto corrente ordinario comporta l’inesigibilità temporanea delle reciproche posizioni di credito, mentre il conto corrente di corrispondenza, al contrario, allo scopo precipuo di realizzare il servizio di cassa offerto al cliente dall’istituto di credito, nella condizione di mobilità del credito disponibile propugna la continuativa esigibilità e così la costante utilizzabilità del saldo che (per causa di deposito o per cagione di apertura di credito) sia disponibile per il correntista. Così come, diversamente, ma in ossequio alla medesima funzione del contratto, non rimane configurabile, durante lo svolgimento del rapporto di conto corrente, un credito esigibile della banca verso il correntista[8]. Per altro verso, è la particolare natura e il carattere unitario di alcuni contratti come il deposito bancario, il mandato, e il conto corrente (che riprende nella sua struttura gli elementi costitutivi dei primi due) che rende irrilevante, in costanza del rapporto, l’apparente inerzia (che in verità costituisce l’esercizio di un diritto) di una parte e che fa sì che il dies a quo per il computo della prescrizione vada collocato alla data di cessazione del rapporto stesso[9]. Infatti, nel conto corrente bancario “la cosiddetta chiusura periodica segna solo ed esclusivamente la contabilizzazione di interessi a debito o a credito del cliente” (B. Inzitari, Diversa funzione della chiusura del conto ordinario e in quello bancario. Anatocismo e commissione di massimo scoperto, in Banca, Borsa e Titoli di Credito, 2003). L’impostazione codicistica e l’interpretazione giurisprudenziale, a differenza di quanto sostenuto dalla difesa avversa, hanno perseguito i principi affermatisi storicamente nel nostro ordinamento[10]. Infine, come a tutti noto, la Corte Suprema, con orientamento costante ed inossidabile[11] seguito dalla quasi totalità della giurisprudenza di merito[12] (per un’ampia rassegna cfr. il sito www.studiotanza.it), ha statuito, conseguentemente, che il dies a quo della decorrenza del termine di prescrizione decennale, per il reclamo delle somme indebitamente trattenute dalla banca in un’apertura di credito in conto corrente, decorre dalla chiusura del rapporto.

Si veda Cass. 14 maggio 2005, n. 10127, ove è statuito che:

"il momento iniziale del termine prescrizionale decennale per il reclamo delle somme indebitamente trattenute dalla banca a titolo di interessi su un’apertura di credito in conto corrente (nella specie: perché calcolati in misura superiore a quella legale senza pattuizione scritta), decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che dà luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi, sicché è solo con la chiusura del conto che si stabiliscono definitivamente i crediti ed i debiti delle parti tra loro’’.

Si veda, altresì, Cass. Civ. 10 maggio 2007, n. 10692, per cui:

"Una volta esclusa la validità della clausola sulla cui base sono stati calcolati gli interessi, soltanto la produzione degli estratti a partire dall’apertura del conto corrente - considerato che, in virtù dell’unitarietà del rapporto, da tale momento decorre la prescrizione del credito di restituzione per somme indebitamente trattenute dalla banca a titolo di interessi (Cass. 9 aprile 1984, n. 2262) - consente, attraverso una integrale ricostruzione del dare e dell’avere con l’applicazione del tasso legale, di determinare il credito della banca, sempreché la stessa non risulti addirittura debitrice, una volta depurato il conto dalla capitalizzazione degli interessi non dovuti".

L’apertura di credito in conto corrente integra, dunque, una fattispecie contrattuale complessa nella quale l’apertura di credito in senso stretto si combina con il deposito bancario ed il mandato per dar luogo ad un unico contratto tipico: l’apertura di credito in conto corrente, i cui caratteri sono la continuità e l’unitarietà (cfr. Cass. Civ. Sez. I n. 10219 del 26 aprile 2010). E’ dunque da ritenere che, ove si aderisse alla tesi sostenuta dalla Banca, verrebbe travolta tutta la giurisprudenza e la dottrina che più profondamente hanno studiato le peculiarità del rapporto di cui si tratta e si addiverrebbe ad una ricostruzione dogmatica delle fattispecie che apparirebbe sotto moltep0lici profili in contrasto con l’impostazione che a tale rapporto è stata data nel codice civile. Ancora, ove si ammettesse che il dies a quo per il computo della prescrizione decorra da ogni singola movimentazione o chiusura contabile si determinerebbe l’effetto di consentire una ricostruzione del rapporto di conto corrente solo in relazione alle annotazioni operate negli ultimi dieci anni e si determinerebbe un effetto di portata negoziale estraneo alla volontà delle parti.

Di fatto si imporrebbe una sorta di chiusura sostanziale del rapporto alla data in cui viene collocato il dies a quo cristallizzando il saldo contabile a quella data come se fosse un saldo reale. Ciò, non solo sarebbe in contrasto con la volontà delle parti, che a quella data non hanno voluto alcuna chiusura definitiva, ma finirebbe per attribuire una valenza sostanziale alle annotazioni operate sul conto prima del dies a quo e ciò in contrasto con la natura, puramente contabile, che a tali annotazioni viene attribuita.

Di fatto, poi, si finirebbe per accreditare un saldo, alla data del dies a quo, in ipotesi realizzatosi attraverso meccanismi anatocistici illeciti, addebito di interessi o commissioni non validamente pattuiti ecc. Insomma si spezzerebbe quella strutturale unitarietà del rapporto che costituisce l’intima peculiarità del rapporto di conto corrente. Sarebbe, per semplificare, come sostenere che in un rapporto di deposito ultradecennale il depositante ha diritto di pretendere la restituzione solo delle cose depositate negli ultimi dieci anni ovvero, in un rapporto di mandato ultradecennale, che il mandatario è tenuto a rendere il conto, non della sua intera gestione, ma solo degli ultimi dieci anni. Ci pare che, ove si vada a fondo nell’analisi delle implicazioni che deriverebbero dall’accoglimento della tesi della Banca, si debba necessariamente concludere per la sua infondatezza. Salvo che non si intenda procedere da una totale rivisitazione dottrinale non solo del conto corrente, ma anche dell’istituto della prescrizione, e di contratti tipici di grande importanza quali il deposito e il mandato.

2. Sull’inammissibilità della sostituzione dell’illegittimo anatocismo trimestrale con quello annuale. Non ricorrono ragioni per ritenere applicabile, in alternativa alla capitalizzazione trimestrale, quella annuale o semestrale. Siffatte previsioni contrastano da un lato con la natura imperativa e non derogabile –se non secondo le strette eccezioni ivi previste- dell’art. 1283 c.c., e dall’altro della “specialità” dell’obbligazione di interessi rispetto al “genus” delle obbligazioni pecuniarie.

Quanto al primo punto, la derogabilità del divieto dell’anatocismo solo in presenza di usi normativi, rimarchiamo, sul punto, che con sentenza 16 marzo 1999 n. 2374 la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che il divieto di cui alla’art. 1283 c.c. è derogabile soltanto dagli usi contrari, ha definito l’accezione di uso normativo, indicato ed esercitato un metodo di indagine per accertarne l’esistenza (l’indagine condotta dal Supremo Collegio, come tutti sanno, ha certificato l’inesistenza di tali usi). Successivamente, le S.U. del 17 luglio 2001 n. 9653 hanno, più perentoriamente, stabilito che per applicare l’anatocismo, con qualsivoglia cadenza temporale, è indispensabile la sussistenza di un uso normativo.

A tale conclusione le Sezioni Unite – cui era posta la questione se l’obbligazione d’interessi si qualificasse come una qualsiasi obbligazione pecuniaria dalla quale derivi quindi anche il diritto agli ulteriori interessi di mora nonché al risarcimento del maggior danno (ex art. 1224 comma II c.c.) ovvero come una obbligazione sui generis soggetta soltanto alla regola dell’anatocismo- è giunta statuendo i seguenti principi di diritto:

a) il debito di interessi pur concretandosi nel pagamento di una somma di denaro, non si configura come una obbligazione pecuniaria qualsiasi, ma presenta connotati specifici, sia per il carattere di accessorietà rispetto all’obbligazione relativa al capitale, sia per la funzione (genericamente remuneratoria) che gli interessi rivestono, sia per la disciplina prevista dalla legge proprio in relazione agli interessi scaduti;

b) in contrario non varrebbe opporre che il connotato di accessorietà concerne il momento genetico dell’obbligazione di pagamento degli interessi, destinata invece ad assumere nella c.d. fase dinamica una propria autonomia, palesata dalla possibilità di disporre separatamente del credito per interessi rispetto a quello di capitale, dalla possibilità di agire in giudizio indipendentemente dalla proposizione della domanda per il credito principale: questi rilievi sono esatti ma, non incidono sull’obbligazione de qua in guisa tale da trasformarne la natura, perché non alterano la già segnalata funzione degli interessi e, soprattutto, non valgono a rimuovere le implicazioni desumibili dalla specifica disciplina degli interessi scaduti;

c) e lo stesso deve dirsi in relazione all’argomento secondo cui, quando l’obbligazione principale sia già estinta per adempimento da parte del debitore, l’obbligazione per interessi dovrebbe comunque assumere carattere autonomo. Pur postulando tale autonomia (che però non può portare a considerare irrilevante il momento genetico di quell’obbligazione), essa non è idonea a trasformare la causa (funzione) dell’obbligazione medesima fino a rendere il debito per gli interessi scaduti una obbligazione pecuniaria come tutte le altre;

d) invero gli interessi scaduti, se equiparati in toto ad una qualsiasi obbligazione pecuniaria (credito liquido ed esigibile di una somma di denaro), sarebbero stati automaticamente produttivi d’interessi di pieno diritto, ai sensi dell’art. 1282 c. c.;

e) tale effetto, invece, è escluso dal successivo art. 1283 c. c. (dettato a tutela del debitore ed applicabile per ogni specie d’interessi, quindi anche per gli interessi moratori), alla stregua del quale, in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi (c.d. anatocismo o interessi composti);

f) la citata disposizione non comporta soltanto un limite al principio generale di cui all’art. 1282 c. c., ma vale anche a rimarcare la particolare natura che, nel quadro delle obbligazioni pecuniarie, la legge attribuisce al debito per interessi, con la previsione di una disciplina specifica, che si pone come derogatoria rispetto a quella generale in tema di danni nelle obbligazioni pecuniarie, stabilita dall’art. 1224 c. c., e che proprio per il suo carattere di specialità deve prevalere su quest’ultima norma. (sulla natura “eccezionale” della norma di cui all’art. 1283 c.c., cfr. ex multis anche Cass. N. 14912/2001).

g) Se così non fosse, del resto, l’art. 1224 c.c. verrebbe ad assorbire tutto il campo applicativo dell’art. 1283 c.c., che resterebbe circoscritto ai casi in cui il debito per interessi è quantificato all’atto della proposizione della domanda. Ma una simile limitazione dell’ambito applicativo del citato art. 1283 c. c. non emerge da tale norma e viene, anzi, a porsi con essa in contrasto, perché trascura la peculiare natura del debito per interessi sopra segnalata ed elude, almeno in parte, la finalità di tutela per la posizione del debitore che la norma ha previsto stabilendo in quali casi e con quali presupposti gli interessi scaduti possono essere produttivi di altri interessi;

h) d’altro canto, non sarebbe neppure conforme al principio di ragionevolezza un approdo ermeneutico che, in presenza di obbligazioni di pagamento aventi natura e contenuto identici (interessi), rendesse applicabile al debitore che ha già pagato il debito principale l’art. 1224 c. c. ed al debitore totalmente inadempiente, e quindi convenuto per il pagamento del capitale e degli interessi, l’art. 1283 in relazione a questi ultimi;

I) conclusivamente, il debito per interessi (anche quando sia stata adempiuta l’obbligazione principale) non si configura come una qualsiasi obbligazione pecuniaria, dalla quale derivi il diritto agli ulteriori interessi dalla mora nonché al risarcimento del maggior danno ex art. 1224 comma II c. c., ma resta soggetto alla regola dell’anatocismo di cui all’art. 1283 c. c., derogabile soltanto dagli usi contrari ed applicabile a tutte le obbligazioni aventi ad oggetto originario il pagamento di una somma di denaro sulla quale spettino interessi di qualsiasi natura (per il conseguente corollario per cui gli interessi non perdono la loro natura, ai fini della loro eventuale capitalizzazione, per effetto della loro inclusione nei ratei di ammortamento dei mutui, cfr. ex multis Cass. N. 2593/2003).

In relazione alla pretesa legittimità di una capitalizzazione annuale, sostenuta dalla difesa della banca convenuta, si replica che la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi deriva non già dal tipo di cadenza temporale della capitalizzazione, ma dalla mancanza delle condizioni imperative di cui all’art. 1283 c.c.



[1] Cass. Civ., Sez. III, 10 settembre 2010, n. 19291, pres. Cons. Trifone, rel. Cons. Federico, ha statuito che: “E’ pacifico, infatti, che nella specie, trattandosi di contratto di mutuo, e quindi di contratto di durata, in cui l’obbligo di restituzione del capitale sia differito nel tempo, i singoli ratei non costituiscono autonome e distinte obbligazioni, bensì l’adempimento frazionato di un’unica obbligazione. Ne consegue che la prescrizione decennale, applicabile al caso in esame, non può che decorrere dalla scadenza dell’ultimo rateo previsto nel piano di ammortamento e, perciò, come è stato ritenuto dai giudici di merito, dal giorno successivo alla data di scadenza per il pagamento dell’ultima rata del mutuo stesso e cioè dal 26.11.90.”

[2] F. MASTROMARINO, Il dies a quo della prescrizione dei diritti dell’indebito nel conto corrente bancario, Guida al Diritto, sez. Focus, 2010

[3] La Cassazione ha costantemente ribadito in seguito il principio di diritto testé enunciato: cfr. Cass. Civ., sez. I, 11/09/2007, n. 19088; Cass. Civ., sez. I, 6/11/2007, n. 23107; Cass. Civ., sez. I, 9/11/2007, n. 23393; Cass. Civ., sez. I, 3/01/1996, n. 12; Cass. Civ., sez. I, 23/06/1994, n. 6031; Cass. Civ., sez. I, 15/11/1994, n. 9591; Cass. Civ. sez. I, 14/05/2005, n. 10127 e Cass. civ., sez. III, 21/11/2000, n. 15024, ecc.

[4] Cfr. G. DELL’ANNA MISURALE in “Il Caso.it” Doc. n. 18/2007 “Al riguardo, l’orientamento prevalente attribuisce valenza solutoria alle rimesse che azzerano o riducono lo scoperto poiché considerate alla stregua di adempimenti di un debito liquido ed esigibile nei confronti della banca, intendendosi per «scoperto» sia il conto non assistito da apertura di credito che presenti un saldo a debito del cliente, sia il conto scoperto a séguito di sconfinamento del fido convenzionalmente accordato al correntista. Viceversa, dunque, nelle ipotesi in cui vi sia un conto assistito da apertura di credito, non è configurabile, durante lo svolgimento del rapporto e fino a quando i prelievi sono contenuti nei limiti del fido, un credito esigibile della banca verso il correntista, in quanto i versamenti - eseguiti direttamente dal cliente e mediante bonifico di somme provenienti da terzi - consistendo in semplici operazioni di accreditamento dirette a ripristinare la provvista, non hanno funzione solutoria.” Cfr. G. DELL’ANNA MISURALE in “Il Caso.it” Doc. n. 18/2007

[5] Cassazione con la sentenza del 22 marzo 1994, n. 2744 (in Corr. giur., 1994, 1254, con nota di Tarzia ; in Dir. fall. 1995, II, 39, con nota di Giuliani; e cfr., più di recente, Cass., 11 settembre 1998, n. 9018), precisava che «il concetto di saldo disponibile, cui fare riferimento per la revocabilità delle rimesse in conto, non coincide né con il saldo contabile né con quello per valuta ma deve essere determinato con riferimento agli effettivi incassi ed alle effettive erogazioni eseguite dalla banca su indicazione del correntista. » Il Tarzia, in merito ha affermato che "tenuto conto del fatto che sia per i versamenti in contanti del correntista, sia per le anticipazioni della banca, sia per i bonifici dei terzi, sia infine per gli assegni "acquistati" dalla banca, la data dell’accreditamento coincide con quella della disponibilità, si deve constatare che vi è quanto meno una tendenziale coincidenza fra il saldo contabile e quello disponibile. E questa coincidenza sembra potersi sostenere anche per l’ipotesi residuale del controvalore dei titoli affidati per l’incasso, dei quali la banca accordi la disponibilità immediata. Se ciò non fosse condiviso, in ogni caso la sfasatura fra saldo disponibile e saldo contabile andrebbe circoscritta a questa specifica posta, il che in concreto ne riduce grandemente la portata".

[6] La Suprema Corte (ex pluris Cass. 21 ottobre 2002, n. 14091; Cassazione civile , sez. I, 01 marzo 2007, n. 4853) ha statuito che: “Un patto anatocistico preventivo, non può ritenersi legittimato dalla <<applicabilità degli artt. 1823, 1825 e 1831 C.c. anche al conto corrente bancario>>. Poiché, anzi, al conto corrente bancario resta applicabile la disciplina dell’art. 1283 c.c. mentre ad esso non è applicabile, in quanto non richiamata dall’art. 1857, la disciplina del conto corrente ordinario secondo la quale (artt. 1831 e 1825) gli interessi vengono liquidati ad ogni chiusura del conto e la relativa capitalizzazione inserita nella liquidazione del saldo”. E ancor prima: “nel contratto di conto corrente bancario, a differenza che nel contratto di conto corrente ordinario, le annotazioni o le registrazioni delle singole operazioni hanno un valore esclusivamente contabile ed una efficacia meramente dichiarativa …” (Cass. Civ. 20 febbraio 1998, n. 1846 e nello stesso senso Cass. 26 aprile 1966, n. 1044 e Cass. 25 luglio 1972 n. 2545); nonché: "l’accredito, da parte di una banca, in un conto corrente assistito da apertura di credito, di somme rimesse da terzi o provenienti da distinta posizione debitoria dell’istituto di credito, costituisce un’operazione che, salvo patto contrario, s’inserisce nell’ambito dell’unitario complesso rapporto di conto corrente e non realizza un ’obbligazione autonoma della banca di rimettere al cliente le somme riscosse, suscettibile di compensazione legale con il saldo passivo, in quanto determina una semplice variazione quantitativa del debito del correntista… " (Cass., sez. 1°, 23 aprile 1987, n. 3919, nello stesso senso anche Cass. civ., Sez. I, 8 aprile 2004, n. 6943).

[7] cfr. D’ANGELO – MAZZANTINI che distingue tra chiusura periodica, da altri definita provvisoria, e scioglimento del conto corrente in Trattato di Tecnica Bancaria, Milano, 1954, p. 518; ed anche il BONELLI (Della Cambiale, dell’assegno bancario e del contratto di conto corrente, in Commentario al Codice di Commercio, Milano, 1909, p.827)

[8] Il Salandra (Conto Corrente, in Enciclopedia Bancaria, Milano, 1942, p. 466) nell’affermare che: “Quando ha luogo la chiusura definitiva del conto si procede alla liquidazione complessiva (...) Il saldo diventa di regola immediatamente esigibile e per esso decorre da questo momento la prescrizione”, riconosce la più datata dottrina di fonte bancaria. Già l’insegnamento più antico del Bonelli (Della Cambiale, dell’assegno bancario e del contratto di conto corrente, in Commentario al Codice di Commercio, Milano, 1909, p.891, nota 3) ci illustrava: “Durante il conto nessuna prescrizione decorre; dopo il conto comincia la prescrizione del saldo”. Così come M. Tondo (Contratti Bancari, a cura dell’Associazione Bancaria Italiana, Roma, 1957, p. 142): “… nel fatto di lasciare la somma presso la banca depositaria, non può ravvisarsi quell’inerzia nell’esercizio del diritto sulla quale si fonda l’istituto della prescrizione, perché così facendo il depositante non fa che esercitare il proprio diritto, che è quello di tenere la somma presso la banca, e quest’ultima, dal canto suo, non fa che adempiere alla propria obbligazione. Da ciò consegue che la prescrizione non può che decorrere dal giorno del rifiuto a restituire opposto alla richiesta del depositante ... deve inoltre osservarsi che solo con la richiesta del depositante il dies certus an, incertus quando può considerarsi scaduto e può parlarsi di quella attuale esigibilità del credito che è indispensabile ai fini della prescrizione”. (analogamente FOLCO, Il sistema del diritto della banca, Milano, 1959, p. 370; cfr. anche SOTGIA, Dei depositi bancari, in Commentario del Codice Civile, di D’Amelio e Finzi, Obbligazioni, II, Firenze, 1949, p. III ). Giova da ultimo osservare che questi Autori hanno trattato in termini analoghi, ai fini che qui interessano, sia il deposito bancario che il conto corrente, atteso che, come dichiara il Tondo citando il Fiorentino (Del Conto Corrente. Dei Contratti bancari, in Comm. C.c. Scialoja-Branca, pag. 47), “il cliente che sia con la banca legato da un rapporto di deposito di denaro, o di apertura di credito, può compiere una serie di successivi prelevamenti o versamenti, i quali non danno luogo alla costituzione o risoluzione di tanti autonomi e distinti nuovi rapporti di prestito, ma solo a variazioni quantitative dell’originario e unico rapporto precostituito. Il depositante che effettua successivi versamenti alle casse della banca (e poco importa che ciò avvenga su un libretto o un conto corrente, n.d.r.) non pone in essere tanti e distinti rapporti di mutuo (o di deposito che siano), ma attua solo l’originario e unico contratto da lui concluso con la banca: così quando egli effettua successivi prelevamenti, non pone in essere tanti atti risolutivi o satisfattivi dei diversi rapporti preesistenti ….ma attua sempre l’originario e unico contratto da lui concluso, lo stesso vale per l’apertura di credito. Le conseguenze più rilevanti della perdurante identità del credito e debito per tutta la durata del rapporto sono, oltre che quelle dell’inapplicabilità delle regole sulla imputazione dei pagamenti, la inapplicabilità delle norme sulla compensazione , in quanto non si hanno distinti crediti e debiti tra loro compensabili e la unicità del termine di prescrizione”.

[9] Significativa è la sentenza che di seguito si riporta: “quando in una convenzione si riconoscano facoltà a favore di una delle parti, occorre accertare se tali facoltà costituiscano diritti nascenti ex novo ed autonomamente dal contratto, ai quali sono applicabili le normali regole della prescrizione, ovvero si identifichino con vere e proprie facoltà, niente affatto autonome, connesse ad un rapporto contemplato dal contratto e più precisamente rientranti nel contenuto di un diritto inerente al rapporto stesso; in tal caso, trattandosi di facoltà, in senso tecnico giuridico, esse sono necessariamente imprescrittibili, dovendo perdurare finché sussiste il diritto cui sono connesse” (Cort. Cass. n. 697 del 10 marzo 1971).

[10] Infatti, già prima della promulgazione dell’attuale codice civile, P. Greco nel suo Corso di diritto bancario (Padova, 1936, p. 23) rilevava come l’operazione contabile di accreditamento o di addebitamento non corrisponda “alla costituzione di crediti o di debiti, ma è semplicemente un modo di rappresentare le modificazioni oggettive e quantitative che subisce un unico rapporto obbligatorio nel corso del suo svolgimento…. In gran parte è fondata su questa considerazione la differenza che passa fra il contratto di conto corrente, previsto dagli arti. 345 e ss. Cod. comm. e la forma generale dei conti correnti bancari”. Il legislatore nel Codice civile nel 1942 ha ripreso questa impostazione: infatti, nella Sezione V del Capo XVII, Libro IV del Codice civile “Delle operazioni bancarie in conto corrente”, l’art. 1557, titolato “Norme applicabili”, prevede: “Alle operazioni regolate in conto corrente si applicano le norme degli articoli 1826, 1829 e 1832”.

[11] Cfr. Cassazione Civile, Sez. I, n° 10692 del 10 maggio 2007; Cassazione Civile, Sez. I, 14 maggio 2005 n. 10127; Cassazione civile, sez. I, 23 marzo 2004, n. 5720; Cassazione, Sez. I, 03 maggio 1999, n. 4389; Cassazione civile, sez. I, 14 aprile 1998, n. 3783; Cassazione civile, sez. I, 9 aprile 1984, n. 2262.

[12] Cfr. Solo nel 2010, questa difesa, ha registrato le seguenti pronunzie, tutte edite nel sito www.studiotanza.it : Tribunale di Torino, Dott. Paola FERRERO - Sent. n. 73/10 dell’8 gennaio 2010; Tribunale di Brescia, Dott. Lucia Cannella, Sent. n. 124 del 18 gennaio 2010; Tribunale di Torino, Dott. Maurizia Giusta - Sent. n. 450 del 21gennaio 2010; Tribunale di Lanciano, Dott. De Nisco Paola, Sent. n. 64 del 3 febbraio 2010; Tribunale di Catania, Azzia, Ordinanza ex art. 186 quater cpc; Tribunale di Lecce, Dott. Virginia Zuppetta, Sent. 334 del 03 febbraio 2010; Tribunale di Livorno, Dott. Roberto URGESE, Sent. 254 del 2 marzo 2010; Tribunale di Roma, Dott. Laura AVVISATI, Sent. 3931 del 20 febbraio 2010; Tribunale di Palmi, Dott. A. Pastore, Sent. 134 del 12 marzo 2010; Tribunale di Lecce, Dott. Maria Carmela Tinelli, Sent. 761 del 31 marzo 2010; Tribunale di Lecce - Sez. Campi Salentina, Dott. Lucia DE MATTEIS, Sentenza n. 80 del 23 aprile 2010; Tribunale di Napoli, Dott. Giovanni TEDESCO, Sent. 5221 del 6 maggio 2010; Corte d’Appello di Torino, Cons. Dott. Angelo CONVERSO, Sent. 5221 del 4 maggio 2010; Tribunale di Tivoli, Dott. Scarafoni, Sent. Parz. 724 del 4 maggio 2010; Tribunale di Novara, Dott. Angela Maria NUTINI, Sent. Parz. del 27 aprile 2010; Tribunale di Novara, Dott. Simona GAMBACORTA, Sent. Parz. del 18 maggio 2010; Tribunale di Verbania, Dott. Massimo TERZI, Sent. n. 378/2010 del 23 maggio 2010; Tribunale di Napoli, Dott. Livia TRAPANI, Sent. 5282 del 10 maggio 2010; Tribunale di Lecce, Dott. Giovanni Tommasi, Sentenza n. 1290 del 03 giugno 2010; Tribunale di Roma, Sentenza n. 9871 del 04 maggio 2010; Tribunale di Lecce - Sez. Campi Salentina, Dott. Gabriella NOCERA, Sentenza n. 120 del 10 giugno 2010; Tribunale di Lecce, Dott. Grazia ERREDE, Sentenza n. 1116 del 17 maggio 2010; Tribunale di Cassino, Dott. Gabriele SORDI, Sentenza n. 437 del 14 giugno 2010; Tribunale di Teramo, Dott. Carmine DI FULVIO, Sentenza n. 557 del 12 maggio 2010; Tribunale di Lecce - Sez. Maglie, Dott. Angelo RIZZO, Sent. 246 del 12 luglio 2010; Tribunale di Firenze, dott. Luca MINNITI, Sent. n. 2336 del 13 luglio 2010; Tribunale di Lecce - Sez. Casarano, dott. carlo ERRICO, Sent. n. 168 del 23 luglio 2010; Tribunale di Firenze, dott. Fiorenzo ZAZZERI, Sent. n. 2573 del 30 luglio 2010; Tribunale di Este, dott. Giuliana GIROTTO, Sent. n. 240 del 2 agosto 2010; Tribunale di Tricase, dott. Alida ACCOGLI, Sent. n. 111 del 7 agosto 2010; Corte d’Appello di Lecce, Cons. Dott. Marcello DELL’ANNA, Sent. n. 414 del 10 luglio 2010; Tribunale di Lecce, Dott. Michela DE LECCE, Sentenza n. 1166 del 16 agosto 2010; Trib. di Lucca, Dott. Antonio MONDINI, Sent. n. 1104 del 21 settembre 2010; Trib. di Casarano, dott. Cosimo CALVI, Sent. n. 123 del 9 giugno 2010;Tribunale di Palermo, Sezione distaccata di Bagheria, Dott. Elisabetta LA FRANCA, Sent. n. 124 del 20 settembre 2010; Tribunale di Paola, Sez. distaccata di Scalea, Dott. Nicoletta CAMPANARO, Sent. n. 245 del 2 agosto 2010; Tribunale di Torino, Dott. Tamagnone, Sent. n. 6113 del 18 ottobre 2010; Tribunale di Foggia, Dott. Maria TUCCILLO, Sent. n. 1565 del 20 ottobre 2010; Tribunale di Napoli, Sez. dist. di Capri, Dott. Antonio QUARANTA, Sent. n. 106 del 5 novembre 2010;