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Non è punibile lo straniero espulso che si trattiene in Italia per giustificato motivo

Nota a Corte Costituzionale, Sentenza 13 dicembre 2010, n.359
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 359 del 13 dicembre 2010, depositata il 17.12.2010, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-quater, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dall’art. 1, comma 22, lettera m), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui non dispone che l’inottemperanza all’ordine di allontanamento, secondo quanto già previsto per la condotta di cui al precedente comma 5-ter, sia punita nel solo caso che abbia luogo «senza giustificato motivo».

1. La decisione della Corte Costituzionale.

2. Natura giuridica del giustificato motivo.

3. La condizione giuridica del clandestino.

4. Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

1. Il Tribunale di Voghera in composizione monocratica, con ordinanza dell’8 gennaio 2010, ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 25, secondo comma, e 27 della Costituzione – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-quater, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dall’art. 1, comma 22, lettera m), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui non esclude, quando ricorra un «giustificato motivo», la punibilità dello straniero che, già destinatario di un provvedimento di espulsione e di un ordine di allontanamento a norma dei precedenti commi 5-ter e 5-bis, continui a permanere nel territorio dello Stato.

La norma – secondo il Tribunale – si troverebbe in contrasto anche con il secondo comma dell’art. 25 e con l’art. 27 della Costituzione, in quanto lesiva dei principi di offensività e di personalità della responsabilità penale, e in rapporto all’art. 2 Cost., avuto riguardo al principio di solidarietà.

Il Palazzo della Consulta ha ritenuto la questione fondata.

Si riportano brevemente le argomentazioni adottate.

La clausola del «giustificato motivo» va inserita tra quelle «destinate in linea di massima a fungere da “valvola di sicurezza” del meccanismo repressivo, evitando che la sanzione penale scatti allorché – anche al di fuori della presenza di vere e proprie cause di giustificazione – l’osservanza del precetto appaia concretamente “inesigibile” in ragione, a seconda dei casi, di situazioni ostative a carattere soggettivo od oggettivo. Tale clausola, pertanto, nella ricorrenza di diverse eventualità di fatto (estrema indigenza, indisponibilità di un vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo, difficoltà nell’ottenimento dei titoli di viaggio, etc.), «esclude la configurabilità del reato» (sentenza n. 5 del 2004).

È da considerarsi manifestamente irragionevole che una situazione ritenuta dalla legge idonea ad escludere la punibilità dell’omissione, in occasione dell’inadempimento di cui al comma 5 ter, perda validità se permane nel tempo, senza responsabilità del soggetto destinatario dell’ordine di allontanamento, o che il verificarsi di una nuova situazione ostativa, in sé e per sé idonea ad integrare l’ipotesi di un «giustificato motivo», sol perché intervenuta in un secondo momento, non abbia rilevanza ai fini del suo riconoscimento come elemento negativo del fatto di reato. Il punto centrale della disciplina, nella prospettiva in cui si colloca lo stesso legislatore, è la possibilità, in concreto, di giudicare esigibile l’osservanza dell’ordine di allontanamento.

Peraltro, il rimedio ordinario previsto dalla legge per la presenza illegale nel territorio dello Stato del destinatario di un provvedimento di espulsione, ricorda la Corte, è l’esecuzione coattiva del provvedimento stesso. In assenza di tale misura amministrativa, l’affidamento dell’esecuzione allo stesso soggetto destinatario del provvedimento incontra i limiti e le difficoltà dovuti alle possibilità pratiche dei singoli soggetti, che il comma 5-ter dell’art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998 ha preso in considerazione, in un ragionevole bilanciamento tra l’interesse pubblico all’osservanza dei provvedimenti dell’autorità, in tema di controllo dell’immigrazione illegale, e l’insopprimibile tutela della persona umana. Tale tutela non può essere esclusa o attenuata in situazioni identiche, ancorché successive, senza incorrere nella violazione dell’art. 3, primo comma, della Costituzione.

Sin qui la sentenza che richiama le seguenti considerazioni.

2. Il giustificato motivo assume pienamente la natura e l’efficacia di una scriminante. In particolare, essa fa venir meno l’antigiuridicità obiettiva della condotta per la inesigibilità di un comportamento diverso; pertanto, assumerà rilevanza giuridica scusante quel tipo di situazione che rende pericoloso, molto difficoltoso o inesigibile l’adempimento imposto dal precetto normativo.

Il fondamento tecnico-dogmatico consiste nella assenza di tipicità del fatto scriminato. Le scriminanti, infatti, costituiscono elementi oggettivi negativi della fattispecie criminosa (devono, cioè, mancare perché esista il reato).

Sotto il profilo sostanziale, le scriminanti escludono l’offesa, non in senso materiale, ma in senso giuridico perché, appunto, giustificata.

Il fondamento logico-giuridico è dato dal principio di non contraddizione sulla base del quale uno stesso ordinamento non può, nella sua unitarietà, imporre o consentire e, ad una tempo, vietare il medesimo fatto senza rinnegare se stesso e la sua pratica possibilità di attuazione.

Ciò premesso, nel concreto, sarà necessario procedere ad un rigoroso accertamento della condizione di concreta ed assoluta inesigibilità dell’ottemperanza da parte del soggetto espulso (Sentenza Corte Cassazione n. 34245 del 08/07/2010; Sentenza n. 27049 del 19/03/2008; Sentenza n. 8352 del 08/02/2008) .

3. Riguardo alla condizione giuridica dello straniero, ai sensi dell’art. 10 c.2 della Costituzione, essa è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. La Costituzione, peraltro, delinea, nel suo complesso, un articolato quadro di diritti e di libertà con l’intento di garantire uno svolgimento della personalità nel solco dei principi fondamentali dettati dagli artt. 2 e 3 .

Conformemente, con sentenza in data 8 luglio 2010, la Corte Costituzionale ha dichiarato, con riferimento agli artt. 3, primo comma, art. 25, secondo comma e art. 27, primo e terzo comma, della Carta Costituzionale, l’illegittimità anche dell’aggravante della clandestinità prevista dall’ art. 61, numero 11-bis c.p: “ … La condizione giuridica dello straniero non deve essere considerata – per quanto riguarda la tutela dei diritti inviolabili – come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi, specie nell’ambito del diritto penale, che più direttamente è connesso alle libertà fondamentali della persona, salvaguardate dalla Costituzione con le garanzie contenute negli artt. 24 e seguenti, che regolano la posizione dei singoli nei confronti del potere punitivo dello Stato”.

4. Principi analoghi sono enunciati dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

In particolare, l’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, così recita: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.

Come è noto, le norme della Convenzione Europea, anche se non hanno una efficacia diretta nel nostro ordinamento, hanno un rango superiore a quello della legge ordinaria e devono essere rispettate dal nostro Legislatore e dalle nostre Autorità Giurisdizionali, giusto quanto disposto dall’articolo 117, primo comma, della Costituzione.

Così, infatti, si esprime la sentenza della Corte Costituzionale n. 348 del 2007: “la Convenzione europea non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa è configurabile come un trattato internazionale multilaterale …da cui derivano “obblighi” per gli Stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti … per tutte le autorità interne degli Stati membri”, con la conseguenza che “il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, di esclusiva competenza del giudice delle leggi”. Con riferimento alle decisioni della Corte europea la sentenza continua, precisando che “tra gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione”; conclude, poi, precisando che “quanto detto sinora non significa che le norme CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, acquistano la forza delle norme costituzionali e sono perciò immuni dal controllo di legittimità costituzionale di questa Corte. Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello subcostituzionale ,è necessario che esse siano conformi a Costituzione. … Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’articolo 117, primo comma, della Costituzione, e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.”.

A ben vedere, in effetti, gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo hanno avuto un ruolo decisivo nel delineare la condizione giuridica degli stranieri e finanche dei clandestini.

Si fa riferimento, in particolare, al divieto di espulsione.

Causa Trabelsi c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 13 aprile 2010 (ricorso n. 50163/08)- Divieto di trattamenti disumani o degradanti – sotto il profilo del rischio di tortura nel caso di espulsione in Tunisia – violazione dell’art. 3 CEDU.

L’esecuzione di un ordine di espulsione di uno straniero verso il Paese di appartenenza costituisce violazione dell’art. 3 Cedu, quando vi sono circostanze serie e comprovate che depongono per un rischio effettivo che l’individuo subisca trattamenti disumani o degradanti.

Se, quindi, l’art. 3 della Convenzione Europea trova, in siffatta maniera, ingresso nel nostro Ordinamento formando un vero e proprio diritto vivente in materia di diritti umani, la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo non può che rappresentare la bussola orientativa anche per il giudice nazionale.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 359 del 13 dicembre 2010, depositata il 17.12.2010, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-quater, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dall’art. 1, comma 22, lettera m), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui non dispone che l’inottemperanza all’ordine di allontanamento, secondo quanto già previsto per la condotta di cui al precedente comma 5-ter, sia punita nel solo caso che abbia luogo «senza giustificato motivo».

1. La decisione della Corte Costituzionale.

2. Natura giuridica del giustificato motivo.

3. La condizione giuridica del clandestino.

4. Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

1. Il Tribunale di Voghera in composizione monocratica, con ordinanza dell’8 gennaio 2010, ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 25, secondo comma, e 27 della Costituzione – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-quater, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dall’art. 1, comma 22, lettera m), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui non esclude, quando ricorra un «giustificato motivo», la punibilità dello straniero che, già destinatario di un provvedimento di espulsione e di un ordine di allontanamento a norma dei precedenti commi 5-ter e 5-bis, continui a permanere nel territorio dello Stato.

La norma – secondo il Tribunale – si troverebbe in contrasto anche con il secondo comma dell’art. 25 e con l’art. 27 della Costituzione, in quanto lesiva dei principi di offensività e di personalità della responsabilità penale, e in rapporto all’art. 2 Cost., avuto riguardo al principio di solidarietà.

Il Palazzo della Consulta ha ritenuto la questione fondata.

Si riportano brevemente le argomentazioni adottate.

La clausola del «giustificato motivo» va inserita tra quelle «destinate in linea di massima a fungere da “valvola di sicurezza” del meccanismo repressivo, evitando che la sanzione penale scatti allorché – anche al di fuori della presenza di vere e proprie cause di giustificazione – l’osservanza del precetto appaia concretamente “inesigibile” in ragione, a seconda dei casi, di situazioni ostative a carattere soggettivo od oggettivo. Tale clausola, pertanto, nella ricorrenza di diverse eventualità di fatto (estrema indigenza, indisponibilità di un vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo, difficoltà nell’ottenimento dei titoli di viaggio, etc.), «esclude la configurabilità del reato» (sentenza n. 5 del 2004).

È da considerarsi manifestamente irragionevole che una situazione ritenuta dalla legge idonea ad escludere la punibilità dell’omissione, in occasione dell’inadempimento di cui al comma 5 ter, perda validità se permane nel tempo, senza responsabilità del soggetto destinatario dell’ordine di allontanamento, o che il verificarsi di una nuova situazione ostativa, in sé e per sé idonea ad integrare l’ipotesi di un «giustificato motivo», sol perché intervenuta in un secondo momento, non abbia rilevanza ai fini del suo riconoscimento come elemento negativo del fatto di reato. Il punto centrale della disciplina, nella prospettiva in cui si colloca lo stesso legislatore, è la possibilità, in concreto, di giudicare esigibile l’osservanza dell’ordine di allontanamento.

Peraltro, il rimedio ordinario previsto dalla legge per la presenza illegale nel territorio dello Stato del destinatario di un provvedimento di espulsione, ricorda la Corte, è l’esecuzione coattiva del provvedimento stesso. In assenza di tale misura amministrativa, l’affidamento dell’esecuzione allo stesso soggetto destinatario del provvedimento incontra i limiti e le difficoltà dovuti alle possibilità pratiche dei singoli soggetti, che il comma 5-ter dell’art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998 ha preso in considerazione, in un ragionevole bilanciamento tra l’interesse pubblico all’osservanza dei provvedimenti dell’autorità, in tema di controllo dell’immigrazione illegale, e l’insopprimibile tutela della persona umana. Tale tutela non può essere esclusa o attenuata in situazioni identiche, ancorché successive, senza incorrere nella violazione dell’art. 3, primo comma, della Costituzione.

Sin qui la sentenza che richiama le seguenti considerazioni.

2. Il giustificato motivo assume pienamente la natura e l’efficacia di una scriminante. In particolare, essa fa venir meno l’antigiuridicità obiettiva della condotta per la inesigibilità di un comportamento diverso; pertanto, assumerà rilevanza giuridica scusante quel tipo di situazione che rende pericoloso, molto difficoltoso o inesigibile l’adempimento imposto dal precetto normativo.

Il fondamento tecnico-dogmatico consiste nella assenza di tipicità del fatto scriminato. Le scriminanti, infatti, costituiscono elementi oggettivi negativi della fattispecie criminosa (devono, cioè, mancare perché esista il reato).

Sotto il profilo sostanziale, le scriminanti escludono l’offesa, non in senso materiale, ma in senso giuridico perché, appunto, giustificata.

Il fondamento logico-giuridico è dato dal principio di non contraddizione sulla base del quale uno stesso ordinamento non può, nella sua unitarietà, imporre o consentire e, ad una tempo, vietare il medesimo fatto senza rinnegare se stesso e la sua pratica possibilità di attuazione.

Ciò premesso, nel concreto, sarà necessario procedere ad un rigoroso accertamento della condizione di concreta ed assoluta inesigibilità dell’ottemperanza da parte del soggetto espulso (Sentenza Corte Cassazione n. 34245 del 08/07/2010; Sentenza n. 27049 del 19/03/2008; Sentenza n. 8352 del 08/02/2008) .

3. Riguardo alla condizione giuridica dello straniero, ai sensi dell’art. 10 c.2 della Costituzione, essa è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. La Costituzione, peraltro, delinea, nel suo complesso, un articolato quadro di diritti e di libertà con l’intento di garantire uno svolgimento della personalità nel solco dei principi fondamentali dettati dagli artt. 2 e 3 .

Conformemente, con sentenza in data 8 luglio 2010, la Corte Costituzionale ha dichiarato, con riferimento agli artt. 3, primo comma, art. 25, secondo comma e art. 27, primo e terzo comma, della Carta Costituzionale, l’illegittimità anche dell’aggravante della clandestinità prevista dall’ art. 61, numero 11-bis c.p: “ … La condizione giuridica dello straniero non deve essere considerata – per quanto riguarda la tutela dei diritti inviolabili – come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi, specie nell’ambito del diritto penale, che più direttamente è connesso alle libertà fondamentali della persona, salvaguardate dalla Costituzione con le garanzie contenute negli artt. 24 e seguenti, che regolano la posizione dei singoli nei confronti del potere punitivo dello Stato”.

4. Principi analoghi sono enunciati dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

In particolare, l’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, così recita: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.

Come è noto, le norme della Convenzione Europea, anche se non hanno una efficacia diretta nel nostro ordinamento, hanno un rango superiore a quello della legge ordinaria e devono essere rispettate dal nostro Legislatore e dalle nostre Autorità Giurisdizionali, giusto quanto disposto dall’articolo 117, primo comma, della Costituzione.

Così, infatti, si esprime la sentenza della Corte Costituzionale n. 348 del 2007: “la Convenzione europea non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa è configurabile come un trattato internazionale multilaterale …da cui derivano “obblighi” per gli Stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti … per tutte le autorità interne degli Stati membri”, con la conseguenza che “il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, di esclusiva competenza del giudice delle leggi”. Con riferimento alle decisioni della Corte europea la sentenza continua, precisando che “tra gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione”; conclude, poi, precisando che “quanto detto sinora non significa che le norme CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, acquistano la forza delle norme costituzionali e sono perciò immuni dal controllo di legittimità costituzionale di questa Corte. Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello subcostituzionale ,è necessario che esse siano conformi a Costituzione. … Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’articolo 117, primo comma, della Costituzione, e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.”.

A ben vedere, in effetti, gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo hanno avuto un ruolo decisivo nel delineare la condizione giuridica degli stranieri e finanche dei clandestini.

Si fa riferimento, in particolare, al divieto di espulsione.

Causa Trabelsi c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 13 aprile 2010 (ricorso n. 50163/08)- Divieto di trattamenti disumani o degradanti – sotto il profilo del rischio di tortura nel caso di espulsione in Tunisia – violazione dell’art. 3 CEDU.

L’esecuzione di un ordine di espulsione di uno straniero verso il Paese di appartenenza costituisce violazione dell’art. 3 Cedu, quando vi sono circostanze serie e comprovate che depongono per un rischio effettivo che l’individuo subisca trattamenti disumani o degradanti.

Se, quindi, l’art. 3 della Convenzione Europea trova, in siffatta maniera, ingresso nel nostro Ordinamento formando un vero e proprio diritto vivente in materia di diritti umani, la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo non può che rappresentare la bussola orientativa anche per il giudice nazionale.