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La colpa omissiva nell’ambito della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori

Nota a Corte di Cassazione - Sezione Quarta Penale, Sentenza 13 dicembre 2010, n. 43786
La IV sezione della Corte di Cassazione, chiamata ad esaminare una complessa serie di questioni in tema di causalità e colpa, con riguardo alla morte, dovuta a mesotelioma pleurico, di un lavoratore reiteratamente esposto, nel corso della sua esperienza lavorativa (esplicata in ambito ferroviario), ad una sostanza oggettivamente nociva come l’amianto, ha affermato che, ai fini della sussistenza del rapporto di causalità tra le violazioni delle norme antinfortunistiche ascrivibili ai datori di lavoro imputati e l’evento predetto, il giudice di merito deve accertare:

(a) se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide e obiettive basi, una legge scientifica in ordine all’effetto acceleratore della protrazione dell’esposizione dopo l’iniziazione del processo carcinogenetico;

(b) in caso affermativo, se si sia in presenza di una legge universale o solo probabilistica in senso statistico;

(c) nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica, occorrerà chiarire se l’effetto acceleratore si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali;

(d) infine, per ciò che attiene alle condotte anteriori all’iniziazione e che hanno avuto durata inferiore all’arco di tempo compreso tra inizio dell’attività dannosa e l’iniziazione della stessa, si dovrà appurare se, alla luce del sapere scientifico, possa essere dimostrata una sicura relazione condizionalistica rapportata all’innesco del processo carcinogenetico.

Con riguardo all’elemento psicologico, si è evidenziato che la pericolosità dell’esposizione all’amianto per il rischio di mesotelioma risale – con riferimento al settore ferroviario - almeno agli anni sessanta, e che gli imputati avrebbero potuto acquisire tali conoscenze sia direttamente, sia tramite i soggetti eventualmente delegati in materia di igiene e sicurezza, e si è conseguentemente ritenuto che si è in presenza di un comportamento soggettivamente rimproverabile a titolo di colpa quando l’attuazione delle cautele possibili all’epoca dei fatti avrebbe significativamente abbattuto le probabilità di contrarre la malattia.

Prendendo le mosse da tale pronuncia della Corte di Cassazione, tenteremo di fare una attenta analisi sulla colpa omissiva nell’ambito della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori e delle malattie professionali.

La disciplina sui rischi professionali trae origine dall’art. 41 Cost. e dall’art. 2087 c.c. e si sviluppa attraverso una vastissima legislazione speciale emanata a partire dagli anni ’50, in ultimo approdata nel D.Lgs 9 aprile 2008 n. 81, T.U. in materia di igiene e sicurezza del lavoro. A ben vedere, i diritti del lavoratore costituiscono situazioni giuridiche attive che si sostanziano in un complesso di facoltà, libertà e prerogative connesse al rapporto di lavoro; tra questi, vi sono i diritti personali, costituzionalmente garantiti in quanto inerenti la personalità dell’individuo, quali il diritto all’integrità fisica ed alla salute.

La tutela di tali diritti si realizza attraverso l’individuazione di posizioni di garanzia e l’identificazione di soggetti su cui gravano obblighi giuridici; a tal proposito, ai sensi dell’art. 2 co. 1 lett. b) T.U., il datore di lavoro assume la veste di colui che ha la responsabilità dell’impresa ovvero dell’unità produttiva, in quanto titolare dei poteri decisionali e d’impresa; sono altresì attribuite precise responsabilità in materia di tutela della salute dei lavoratori ai dirigenti, al responsabile del sevizio di prevenzione e protezione, al medico competente e ai preposti, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze. Invero, come avviene normalmente nel caso di situazioni di rischio normativamente tutelate, implicanti le attività concorrenti di più soggetti con obblighi divisi, il principio della responsabilità va conciliato sia con il principio dell’affidamento, che con la specializzazione e le divisione dei compiti; ciò, pertanto, comporterà in via primaria la responsabilità per gli eventi causati dall’inadempimento del proprio “dovere diviso” e, altresì, l’obbligo ulteriore del datore di lavoro (con la relativa responsabilità) di adottare le misure cautelari per ovviare ai rischi dell’altrui negligenza.

Nel caso in esame, il ragionamento seguito dalla Corte ha perseguito la finalità di vagliare l’adeguatezza del modello di prevenzione adottato dagli imputati – soggetti responsabili alla luce della normativa vigente - a perseguire la regola cautelare e, dunque, l’attitudine della condotta prescritta ad evitare o ridurre il rischio dell’evento.

Come è noto, l’inalazione da amianto (il cui uso è stato vietato in assoluto dalla L. 27 marzo 1992, n. 257) è ritenuta, da ben oltre i tempi citati, di grande lesività della salute (se ne fa cenno nel R.D. 14 giugno 1909, n. 442 in tema di lavori ritenuti insalubri per donne e fanciulli ed esistono precedenti giurisprudenziali risalenti al 1906) e la malattia da inalazione da amianto, ovvero l’asbestosi (conosciuta fin dai primi del ’900 ed inserita nelle malattie professionali dalla L. 12 aprile 1943, n. 455), e’ ritenuta conseguenza diretta, potenzialmente mortale, e comunque sicuramente produttrice di una significativa abbreviazione della vita se non altro per le patologie respiratorie e cardiocircolatorie ad essa correlate.

Ciò premesso, dal punto di vista del rapporto di causalità tra condotta ed evento, giova un accenno alla teoria della causalità scientifica secondo cui, appunto, la condotta è causa dell’evento quando esso ne è conseguenza secondo la scienza umana. Tale teoria fa riferimento alla migliore scienza ed esperienza del momento storico; dal punto di vista del grado di successione tra condotta ed evento, andrà considerata la probabilità relativa, intesa quale rilevante grado di possibilità; pertanto, il rapporto di causalità di cui all’art. 40 c.p., andrà risolto secondo il metodo scientifico, nel senso che l’azione è causa dell’evento quando, secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico, l’evento è conseguenza, certa o altamente probabile, dell’azione.

L’evento, in effetti, doveva ritenersi nel caso concreto prevedibile, essendo ben conosciuta la pericolosità dell’amianto per la salute dei lavoratori, anche perchè l’asbestosi (malattia causata dall’amianto) era assicurata obbligatoriamente con l’INAIL sin dal 1943.

L’ordinamento, però, richiede l’ulteriore requisito dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, selezionato tra i molteplici obblighi giuridici di attivarsi e delimitato nella sua portata in rapporto alla funzione della responsabilità omissiva.

In particolare, nei reati colposi omissivi, l’addebito della responsabilità presuppone l’individuazione di una posizione di garanzia da cui discenda l’obbligo giuridico di impedire l’evento, il quale si caratterizza rispetto agli altri obblighi di agire in ragione della previa attribuzione al garante degli adeguati poteri di impedire accadimenti offensivi di beni altrui; ma, la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione - da parte del garante - di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l’evento dannoso.

L’essenza unitaria della responsabilità per colpa, ai sensi dell’art. 43 c.p., può ravvisarsi nel rimprovero al soggetto per avere realizzato, attraverso la violazione di regole doverose di condotta tendenti a prevenire danni a beni giuridicamente protetti, un fatto di reato, che lo stesso soggetto avrebbe potuto evitare mediante l’osservanza, esigibile, di tali regole.

A tal proposito si riportano alcune importanti decisioni della Corte di Cassazione:

Sentenza n. 43966 del 06/11/2009: In caso di infortunio sul lavoro originato dall’assenza o inidoneità delle relative misure di prevenzione, la responsabilità del datore di lavoro non è esclusa dal comportamento di altri destinatari degli obblighi di prevenzione che abbiano a loro volta dato occasione all’evento, quando quest’ultimo risulti comunque riconducibile alla mancanza od insufficienza delle predette misure e si accerti che le stesse, se adottate, avrebbero neutralizzato il rischio del verificarsi di quell’evento.

Sentenza n. 32195 del 15/07/2010: Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur in assenza di una previsione normativa di sanzioni penali a suo specifico carico, può essere ritenuto responsabile, in concorso con il datore di lavoro od anche a titolo esclusivo, del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle iniziative idonee a neutralizzare tale situazione.

Sentenza n. 32357 del 12/08/2010: In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la responsabilità penale del datore di lavoro non è esclusa per il solo fatto che sia stato designato il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, trattandosi di soggetto che non è titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all’osservanza della normativa antinfortunistica e che agisce, piuttosto, come semplice ausiliario del datore di lavoro, il quale rimane direttamente obbligato ad assumere le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazioni di rischio.

L’analisi dell’omissione da parte di ciascuno dei soggetti responsabili, pertanto, richiede un accertamento ex post - col procedimento dell’eliminazione mentale - nel senso che, eliminando mentalmente la singola omissione e, quindi, sostituendola con l’azione impeditiva, l’evento non si sarebbe verificato con certezza o con alta probabilità scientifica. Tanto meno può ritenersi esonerato da responsabilità il datore di lavoro che versi in colpa per aver violato determinate norme precauzionali o per aver omesso determinate condotte, confidando che altri rimuovesse o neutralizzasse la situazione di pericolo o adottasse dei comportamenti idonei a prevenirlo, atteso che in tali casi il mancato intervento del terzo non si configurerebbe come fatto eccezionale ed imprevedibile sopravvenuto da solo sufficiente a produrre l’evento. Tale conclusione è fondata sul rilievo che le regole che disciplinano l’elemento soggettivo hanno funzione precauzionale e la precauzione richiede che si adottino certe cautele per evitare il verificarsi di eventi dannosi, anche se scientificamente non certi ed anche se non preventivamente e specificamente individuati.

In generale, le regole di condotta antinfortunistica prescrivono: di astenersi dall’attività pericolosa onde prevenire l’insorgere del rischio; di non astenersi dall’attività pericolosa, ma di adottare misure cautelari per evitare o contenere il rischio nell’ambito del cd. rischio consentito; di informarsi sulle norme antinfortunistiche; di formare e informare sulle attività infortunistiche; di idonea scelta dei propri collaboratori e di adeguato controllo, cui si ricollega la culpa in eligendo o in vigilando.

Il debito di sicurezza cui è tenuto il datore di lavoro nei confronti del lavoratore, inoltre, comprende anche l’obbligo di informare i dipendenti dei rischi specifici per la sicurezza e la salute in relazione all’attività svolta nell’impresa, non solo attraverso la esplicitazione di divieti, ma anche attraverso la indicazione delle conseguenze che determinate modalità di lavoro possono comportare.

A tal proposito, si ricorda che, a norma dell’art. 20 del T.U.81/2008, compiuta tale attività formativa e informativa da parte del datore di lavoro, scaturiscono alcuni obblighi specifici a carico degli stessi lavoratori: “Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro. I lavoratori devono in particolare: a) contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro;b) osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale; c) utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro, le sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi di trasporto, nonché i dispositivi di sicurezza; d) utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione; e) segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei mezzi e dei dispositivi di cui alle lettere c) e d), nonché qualsiasi eventuale condizione di pericolo di cui vengano a conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso di urgenza, nell’ambito delle proprie competenze e possibilità e fatto salvo l’obbligo di cui alla lettera f) per eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave e incombente, dandone notizia al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza; f) non rimuovere o modificare senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di controllo; g) non compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono di loro competenza ovvero che possono compromettere la sicurezza propria o di altri lavoratori; h) partecipare ai programmi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro; i) sottoporsi ai controlli sanitari previsti dal presente decreto legislativo o comunque disposti dal medico competente.”.

Il datore di lavoro, quindi, ha l’obbligo giuridico attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l’adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all’attività lavorativa.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha infatti più volte precisato che “ in tema di tutela dei lavoratori, il datore di lavoro risponde del delitto di omicidio colposo nel caso di morte del lavoratore conseguita a malattia connessa a tale esposizione quando, pur avendo rispettato le norme preventive vigenti all’epoca dell’esecuzione dell’attività lavorativa, non abbia adottato le ulteriori misure preventive necessarie per ridurre il rischio concreto prevedibile di contrazione della malattia, assolvendo così all’obbligo di garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro. In tema di colpa, la prevedibilità dell’evento può riconnettersi anche solo alla possibilità che lo stesso si verifichi, purchè tale possibilità riveli in maniera comunque concreta le potenzialità dannose della condotta dell’agente. In tal senso, quando si verte in materia di tutela della vita e della salute dei consociati, il rischio che l’agente deve rappresentarsi può ritenersi concreto anche solo laddove la mancata adozione di cautele preventive possa indurre un dubbio non meramente congetturale sulla possibile produzione di conseguenze dannose” (Sentenza n. 5117 del 22/11/2007).

Pertanto, l’obbligo di prevenzione a carico dell’agente non può limitarsi solo ai rischi riconosciuti come sussistenti dal consenso generalizzato della comunità scientifica - costituente, a seguito della interpretazione giurisprudenziale, solo uno dei criteri utilizzabili dal giudice per avere la conferma della validità della prova scientifica - e alla adozione delle sole misure preventive generalmente praticate. L’obbligo di prevenzione trae fonte, infatti, oltre che dalle disposizioni specifiche, in primis e più direttamente, dal disposto dell’art. 2087 c.c., in forza del quale il datore di lavoro è costituito garante dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l’ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all’obbligo di tutela, l’evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall’art. 40 c.p., comma 2. Inoltre, lo stesso art. 15 del T.U. richiama una serie di misure generali di tutela e impone espressamente l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico.

L’obbligo di prevenzione, in conclusione, assume tale spessore che non potrebbe neppure escludersi una responsabilità omissiva colposa del datore di lavoro allorquando questi tali condizioni non abbia assicurato, pur formalmente rispettando le norme tecniche, eventualmente dettate in materia dal competente organo amministrativo, in quanto, al di là dell’obbligo di rispettare le suddette prescrizioni specificamente volte a prevenire situazioni di pericolo o di danno, sussiste pur sempre quello di agire in ogni caso con la diligenza, la prudenza e l’accortezza necessarie ad evitare che dalla propria attività derivi un nocumento a terzi ed in primis ai lavoratori.

La IV sezione della Corte di Cassazione, chiamata ad esaminare una complessa serie di questioni in tema di causalità e colpa, con riguardo alla morte, dovuta a mesotelioma pleurico, di un lavoratore reiteratamente esposto, nel corso della sua esperienza lavorativa (esplicata in ambito ferroviario), ad una sostanza oggettivamente nociva come l’amianto, ha affermato che, ai fini della sussistenza del rapporto di causalità tra le violazioni delle norme antinfortunistiche ascrivibili ai datori di lavoro imputati e l’evento predetto, il giudice di merito deve accertare:

(a) se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide e obiettive basi, una legge scientifica in ordine all’effetto acceleratore della protrazione dell’esposizione dopo l’iniziazione del processo carcinogenetico;

(b) in caso affermativo, se si sia in presenza di una legge universale o solo probabilistica in senso statistico;

(c) nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica, occorrerà chiarire se l’effetto acceleratore si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali;

(d) infine, per ciò che attiene alle condotte anteriori all’iniziazione e che hanno avuto durata inferiore all’arco di tempo compreso tra inizio dell’attività dannosa e l’iniziazione della stessa, si dovrà appurare se, alla luce del sapere scientifico, possa essere dimostrata una sicura relazione condizionalistica rapportata all’innesco del processo carcinogenetico.

Con riguardo all’elemento psicologico, si è evidenziato che la pericolosità dell’esposizione all’amianto per il rischio di mesotelioma risale – con riferimento al settore ferroviario - almeno agli anni sessanta, e che gli imputati avrebbero potuto acquisire tali conoscenze sia direttamente, sia tramite i soggetti eventualmente delegati in materia di igiene e sicurezza, e si è conseguentemente ritenuto che si è in presenza di un comportamento soggettivamente rimproverabile a titolo di colpa quando l’attuazione delle cautele possibili all’epoca dei fatti avrebbe significativamente abbattuto le probabilità di contrarre la malattia.

Prendendo le mosse da tale pronuncia della Corte di Cassazione, tenteremo di fare una attenta analisi sulla colpa omissiva nell’ambito della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori e delle malattie professionali.

La disciplina sui rischi professionali trae origine dall’art. 41 Cost. e dall’art. 2087 c.c. e si sviluppa attraverso una vastissima legislazione speciale emanata a partire dagli anni ’50, in ultimo approdata nel D.Lgs 9 aprile 2008 n. 81, T.U. in materia di igiene e sicurezza del lavoro. A ben vedere, i diritti del lavoratore costituiscono situazioni giuridiche attive che si sostanziano in un complesso di facoltà, libertà e prerogative connesse al rapporto di lavoro; tra questi, vi sono i diritti personali, costituzionalmente garantiti in quanto inerenti la personalità dell’individuo, quali il diritto all’integrità fisica ed alla salute.

La tutela di tali diritti si realizza attraverso l’individuazione di posizioni di garanzia e l’identificazione di soggetti su cui gravano obblighi giuridici; a tal proposito, ai sensi dell’art. 2 co. 1 lett. b) T.U., il datore di lavoro assume la veste di colui che ha la responsabilità dell’impresa ovvero dell’unità produttiva, in quanto titolare dei poteri decisionali e d’impresa; sono altresì attribuite precise responsabilità in materia di tutela della salute dei lavoratori ai dirigenti, al responsabile del sevizio di prevenzione e protezione, al medico competente e ai preposti, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze. Invero, come avviene normalmente nel caso di situazioni di rischio normativamente tutelate, implicanti le attività concorrenti di più soggetti con obblighi divisi, il principio della responsabilità va conciliato sia con il principio dell’affidamento, che con la specializzazione e le divisione dei compiti; ciò, pertanto, comporterà in via primaria la responsabilità per gli eventi causati dall’inadempimento del proprio “dovere diviso” e, altresì, l’obbligo ulteriore del datore di lavoro (con la relativa responsabilità) di adottare le misure cautelari per ovviare ai rischi dell’altrui negligenza.

Nel caso in esame, il ragionamento seguito dalla Corte ha perseguito la finalità di vagliare l’adeguatezza del modello di prevenzione adottato dagli imputati – soggetti responsabili alla luce della normativa vigente - a perseguire la regola cautelare e, dunque, l’attitudine della condotta prescritta ad evitare o ridurre il rischio dell’evento.

Come è noto, l’inalazione da amianto (il cui uso è stato vietato in assoluto dalla L. 27 marzo 1992, n. 257) è ritenuta, da ben oltre i tempi citati, di grande lesività della salute (se ne fa cenno nel R.D. 14 giugno 1909, n. 442 in tema di lavori ritenuti insalubri per donne e fanciulli ed esistono precedenti giurisprudenziali risalenti al 1906) e la malattia da inalazione da amianto, ovvero l’asbestosi (conosciuta fin dai primi del ’900 ed inserita nelle malattie professionali dalla L. 12 aprile 1943, n. 455), e’ ritenuta conseguenza diretta, potenzialmente mortale, e comunque sicuramente produttrice di una significativa abbreviazione della vita se non altro per le patologie respiratorie e cardiocircolatorie ad essa correlate.

Ciò premesso, dal punto di vista del rapporto di causalità tra condotta ed evento, giova un accenno alla teoria della causalità scientifica secondo cui, appunto, la condotta è causa dell’evento quando esso ne è conseguenza secondo la scienza umana. Tale teoria fa riferimento alla migliore scienza ed esperienza del momento storico; dal punto di vista del grado di successione tra condotta ed evento, andrà considerata la probabilità relativa, intesa quale rilevante grado di possibilità; pertanto, il rapporto di causalità di cui all’art. 40 c.p., andrà risolto secondo il metodo scientifico, nel senso che l’azione è causa dell’evento quando, secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico, l’evento è conseguenza, certa o altamente probabile, dell’azione.

L’evento, in effetti, doveva ritenersi nel caso concreto prevedibile, essendo ben conosciuta la pericolosità dell’amianto per la salute dei lavoratori, anche perchè l’asbestosi (malattia causata dall’amianto) era assicurata obbligatoriamente con l’INAIL sin dal 1943.

L’ordinamento, però, richiede l’ulteriore requisito dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, selezionato tra i molteplici obblighi giuridici di attivarsi e delimitato nella sua portata in rapporto alla funzione della responsabilità omissiva.

In particolare, nei reati colposi omissivi, l’addebito della responsabilità presuppone l’individuazione di una posizione di garanzia da cui discenda l’obbligo giuridico di impedire l’evento, il quale si caratterizza rispetto agli altri obblighi di agire in ragione della previa attribuzione al garante degli adeguati poteri di impedire accadimenti offensivi di beni altrui; ma, la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione - da parte del garante - di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l’evento dannoso.

L’essenza unitaria della responsabilità per colpa, ai sensi dell’art. 43 c.p., può ravvisarsi nel rimprovero al soggetto per avere realizzato, attraverso la violazione di regole doverose di condotta tendenti a prevenire danni a beni giuridicamente protetti, un fatto di reato, che lo stesso soggetto avrebbe potuto evitare mediante l’osservanza, esigibile, di tali regole.

A tal proposito si riportano alcune importanti decisioni della Corte di Cassazione:

Sentenza n. 43966 del 06/11/2009: In caso di infortunio sul lavoro originato dall’assenza o inidoneità delle relative misure di prevenzione, la responsabilità del datore di lavoro non è esclusa dal comportamento di altri destinatari degli obblighi di prevenzione che abbiano a loro volta dato occasione all’evento, quando quest’ultimo risulti comunque riconducibile alla mancanza od insufficienza delle predette misure e si accerti che le stesse, se adottate, avrebbero neutralizzato il rischio del verificarsi di quell’evento.

Sentenza n. 32195 del 15/07/2010: Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur in assenza di una previsione normativa di sanzioni penali a suo specifico carico, può essere ritenuto responsabile, in concorso con il datore di lavoro od anche a titolo esclusivo, del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle iniziative idonee a neutralizzare tale situazione.

Sentenza n. 32357 del 12/08/2010: In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la responsabilità penale del datore di lavoro non è esclusa per il solo fatto che sia stato designato il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, trattandosi di soggetto che non è titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all’osservanza della normativa antinfortunistica e che agisce, piuttosto, come semplice ausiliario del datore di lavoro, il quale rimane direttamente obbligato ad assumere le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazioni di rischio.

L’analisi dell’omissione da parte di ciascuno dei soggetti responsabili, pertanto, richiede un accertamento ex post - col procedimento dell’eliminazione mentale - nel senso che, eliminando mentalmente la singola omissione e, quindi, sostituendola con l’azione impeditiva, l’evento non si sarebbe verificato con certezza o con alta probabilità scientifica. Tanto meno può ritenersi esonerato da responsabilità il datore di lavoro che versi in colpa per aver violato determinate norme precauzionali o per aver omesso determinate condotte, confidando che altri rimuovesse o neutralizzasse la situazione di pericolo o adottasse dei comportamenti idonei a prevenirlo, atteso che in tali casi il mancato intervento del terzo non si configurerebbe come fatto eccezionale ed imprevedibile sopravvenuto da solo sufficiente a produrre l’evento. Tale conclusione è fondata sul rilievo che le regole che disciplinano l’elemento soggettivo hanno funzione precauzionale e la precauzione richiede che si adottino certe cautele per evitare il verificarsi di eventi dannosi, anche se scientificamente non certi ed anche se non preventivamente e specificamente individuati.

In generale, le regole di condotta antinfortunistica prescrivono: di astenersi dall’attività pericolosa onde prevenire l’insorgere del rischio; di non astenersi dall’attività pericolosa, ma di adottare misure cautelari per evitare o contenere il rischio nell’ambito del cd. rischio consentito; di informarsi sulle norme antinfortunistiche; di formare e informare sulle attività infortunistiche; di idonea scelta dei propri collaboratori e di adeguato controllo, cui si ricollega la culpa in eligendo o in vigilando.

Il debito di sicurezza cui è tenuto il datore di lavoro nei confronti del lavoratore, inoltre, comprende anche l’obbligo di informare i dipendenti dei rischi specifici per la sicurezza e la salute in relazione all’attività svolta nell’impresa, non solo attraverso la esplicitazione di divieti, ma anche attraverso la indicazione delle conseguenze che determinate modalità di lavoro possono comportare.

A tal proposito, si ricorda che, a norma dell’art. 20 del T.U.81/2008, compiuta tale attività formativa e informativa da parte del datore di lavoro, scaturiscono alcuni obblighi specifici a carico degli stessi lavoratori: “Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro. I lavoratori devono in particolare: a) contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro;b) osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale; c) utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro, le sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi di trasporto, nonché i dispositivi di sicurezza; d) utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione; e) segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei mezzi e dei dispositivi di cui alle lettere c) e d), nonché qualsiasi eventuale condizione di pericolo di cui vengano a conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso di urgenza, nell’ambito delle proprie competenze e possibilità e fatto salvo l’obbligo di cui alla lettera f) per eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave e incombente, dandone notizia al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza; f) non rimuovere o modificare senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di controllo; g) non compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono di loro competenza ovvero che possono compromettere la sicurezza propria o di altri lavoratori; h) partecipare ai programmi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro; i) sottoporsi ai controlli sanitari previsti dal presente decreto legislativo o comunque disposti dal medico competente.”.

Il datore di lavoro, quindi, ha l’obbligo giuridico attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l’adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all’attività lavorativa.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha infatti più volte precisato che “ in tema di tutela dei lavoratori, il datore di lavoro risponde del delitto di omicidio colposo nel caso di morte del lavoratore conseguita a malattia connessa a tale esposizione quando, pur avendo rispettato le norme preventive vigenti all’epoca dell’esecuzione dell’attività lavorativa, non abbia adottato le ulteriori misure preventive necessarie per ridurre il rischio concreto prevedibile di contrazione della malattia, assolvendo così all’obbligo di garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro. In tema di colpa, la prevedibilità dell’evento può riconnettersi anche solo alla possibilità che lo stesso si verifichi, purchè tale possibilità riveli in maniera comunque concreta le potenzialità dannose della condotta dell’agente. In tal senso, quando si verte in materia di tutela della vita e della salute dei consociati, il rischio che l’agente deve rappresentarsi può ritenersi concreto anche solo laddove la mancata adozione di cautele preventive possa indurre un dubbio non meramente congetturale sulla possibile produzione di conseguenze dannose” (Sentenza n. 5117 del 22/11/2007).

Pertanto, l’obbligo di prevenzione a carico dell’agente non può limitarsi solo ai rischi riconosciuti come sussistenti dal consenso generalizzato della comunità scientifica - costituente, a seguito della interpretazione giurisprudenziale, solo uno dei criteri utilizzabili dal giudice per avere la conferma della validità della prova scientifica - e alla adozione delle sole misure preventive generalmente praticate. L’obbligo di prevenzione trae fonte, infatti, oltre che dalle disposizioni specifiche, in primis e più direttamente, dal disposto dell’art. 2087 c.c., in forza del quale il datore di lavoro è costituito garante dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l’ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all’obbligo di tutela, l’evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall’art. 40 c.p., comma 2. Inoltre, lo stesso art. 15 del T.U. richiama una serie di misure generali di tutela e impone espressamente l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico.

L’obbligo di prevenzione, in conclusione, assume tale spessore che non potrebbe neppure escludersi una responsabilità omissiva colposa del datore di lavoro allorquando questi tali condizioni non abbia assicurato, pur formalmente rispettando le norme tecniche, eventualmente dettate in materia dal competente organo amministrativo, in quanto, al di là dell’obbligo di rispettare le suddette prescrizioni specificamente volte a prevenire situazioni di pericolo o di danno, sussiste pur sempre quello di agire in ogni caso con la diligenza, la prudenza e l’accortezza necessarie ad evitare che dalla propria attività derivi un nocumento a terzi ed in primis ai lavoratori.