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La comunione ordinaria e le altre tipologie di comunioni

Nel diritto romano, il fenomeno della contitolarità nasce nella successione ereditaria (cd. consortium ercto non cito), presentandosi ogni qual volta al pater familias succedevano i filii. In seguito si sviluppa come contitolarità del diritto di proprietà, nell’ambito dei diritti reali, ammissibile anche in presenza di un mero accordo tra più soggetti, come nel caso di una società (cd. societas omnium bonorum).

Rispetto al consortium, la “communio” classica è però governata dalla “quota” che, quale frazione ideale dell’intero, è il parametro per stabilire tutti i doveri di ogni partecipante (o comunista).

Nell’attuale codice civile, la comunione definita dall’articolo 1100 del codice civile, sussiste “quando la proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più persone, se il titolo o la legge non dispone diversamente”.

Questa tipologia di comunione (detta “ordinaria”) può avere ad oggetto i diritti reali di godimento ed il pegno, ma occorre precisare che la sua disciplina è innanzitutto quella dettata dalla volontà delle parti, in mancanza della quale si applicano le regole contenute negli articoli 1101 e seguenti del codice civile, aventi in generale carattere dispositivo, sebbene alcune di esse appaiono inderogabili, come per esempio il patto contenuto nell’articolo 1111 che fissa in dieci anni il limite massimo di durata del patto di non scioglimento della comunione ordinaria.

Sotto il profilo dell’amministrazione, la gestione della cosa comune include tutti quegli atti volti al miglioramento e/o alla conservazione della cosa comune e all’articolo 1105, 1° comma, il codice civile stabilisce che “tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere alla gestione della cosa comune”. Da ciò deriva che il singolo comunista, anche se può godere autonomamente delle cosa, nei limiti imposti dall’articolo 1102 del codice civile, egli non può singolarmente amministrare la cosa stessa, in quanto indispensabile il concorso degli altri comunisti. Assume quindi un ruolo centrale in tale ambito, l’assemblea dei compartecipi, quale organo competente sia l’ordinaria che la straordinaria amministrazione, salva la nomina di un amministratore al quale delegare gli atti di ordinaria amministrazione. E’ importante sottolineare come:

* la prima, per la quale il nostro ordinamento introduce l’applicazione del principio maggioritario, include in genere tutti quegli atti rivolti alla conservazione o al miglioramento della cosa comune. Da ciò si desume che tali decisioni sono vincolanti anche per la minoranza dissenziente, sebbene assunte con la maggioranza semplice (metà più uno), calcolata in base al valore delle quote e non in base al numero dei partecipanti. L’esempio tipico che l’autore F. Gazzoni propone è il seguente: “se la comunione è formata da sei comproprietari, l’unico comproprietario con quota del 51% fa prevalere la propria volontà su quella degli altri cinque che si dividono il residuo 49%”. Inoltre, l’articolo 1106, 2° comma del codice civile stabilisce che la gestione ordinaria della cosa comune può essere delegata ad un amministratore, nominato dall’assemblea (che ha anche il potere di revoca) e che può essere nominato sia un contitolare che un terzo, il cui incarico si presume oneroso. I poteri e gli obblighi di tale soggetto sono delineati dall’assemblea dalle norme sull’amministratore di condominio, ma anche dalle norme sul mandato.

* la seconda richiede per la sua deliberazione la maggioranza qualificata, costituita dai due terzi del valore complessivo della cosa comune. Tra gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, sono ricompresi:

a) le innovazioni dirette al miglioramento della cosa, per la cui deliberazione la legge prevede un quid pluris, ossia che non comportino un spesa gravosa e non pregiudichino il godimento di alcuno dei partecipanti (articolo 1108, 1° comma codice civile);

b) tutti gli altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, purché essi non siano pregiudizievoli all’interesse di alcuno dei partecipanti (articolo 1108, 2° comma codice civile).

La costituzione di un’ipoteca rientra nella definizione di atto di straordinaria amministrazione, purché sia salvaguardato l’articolo 1108, ultimo comma del codice civile, ossia che “lo scopo di garantire la restituzione delle somme mutuate per la ricostruzione o per il miglioramento della cosa comune”.

Per gli atti di alienazione della cosa comune, gli atti di costituzione di diritti reali sul fondo comune e le locazioni ultranovennali, poiché incidenti sul diritto di ciascun comunista, richiedono il consenso unanime di tutti i partecipanti e non la sola maggioranza qualificata.

Procedendo ad un’attenta analisi dell’ordinamento giuridico, si possono individuare le principali tipologie di comunioni, cosiddette “speciali”, e precisamente:

1) la comunione ereditaria (artt. 456 e seguenti del codice civile): è relativa all’intero complesso patrimoniale del de cuius, compresi i rapporti obbligatori. Come nell’ambito della comunione ordinaria, anche nella comunione ereditaria ciascun coerede ha la facoltà di alienare la propria quota; pur tuttavia, il legislatore, anche per favorire la divisione, ha introdotto due strumenti, quali la prelazione e il retratto successorio, affinché la divisione della comunione ereditaria riguardi preferibilmente esclusivamente i membri della famiglia ed in particolare, i coeredi. Ai sensi dell’articolo 732 codice civile, dunque, il coerede che intenda procedere alla alienazione della propria quota dovrà notificare la proposta di vendita completa del prezzo a ciascuno dei coeredi che, nel termine di sessanta giorni, potranno esercitare il loro diritto di prelazione. In difetto della preventiva notifica, l’eventuale alienazione a terzi potrà essere resa inefficace attraverso l’esercizio del diritto potestativo di retratto, mediante il quale il coerede riscatta la quota dal terzo acquirente e da qualsiasi successivo avente causa.

2) la comunione legale fra coniugi (artt. 177 e seguenti del codice civile): con l’entrata in vigore della Legge 19 maggio 1975, n. 151, il regime legale della famiglia è divenuto quello della comunione dei beni fra i coniugi, in sostituzione del precedente e tradizionale regime della separazione. L’istituto della comunione legale scelto dal legislatore è di tipo misto, prevedendo due categorie giuridiche di beni contrapposte: da un lato, quella dei beni comuni, dall’altro quella dei beni personali. Secondo l’orientamento giurisprudenziale della Cassazione, evidenziato in particolare nella sentenza n. 4890 del 7 marzo 2006, riprendendo quanto affermato dalla Corte Costituzionale n. 311 del 1988, “la comunione legale dei beni tra i coniugi, a differenza di quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei”.

La regolamentazione dell’attività in ordine al patrimonio comune è dettata dall’articolo 180 del codice civile, ai sensi del quale: “l’amministrazione dei beni della comunione e la rappresentanza in giudizio per gli atti ad essa relativi spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi. Il compimento degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, nonché la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento, e la rappresentanza in giudizio per le relative azioni, spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi”.

3) il condominio (artt. 1117 e ss. del codice civile): è la comunione degli edifici costituita da una o più unità abitative in proprietà esclusiva, con la compresenza delle parti comuni, per le quali il legislatore italiano, in base all’articolo 1117 del codice civile, ha scelto la via della enumerazione di una serie di parti comuni. Infatti, vengono, tra l’altro, incluse in esse: il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni d’ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili, i locali per la portineria e per l’alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale, per gli stenditoi, gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli acquedotti, le fognature, i canali di scarico, gli impianti per acqua, gas, energia elettrica e riscaldamento fino al punto di diramazione degli stessi ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini.

Dottrina e giurisprudenza maggioritari (Cassazione n. 2622 del 26 aprile 1984) ritengono che il legislatore abbia adottato un criterio in base al quale la destinazione delle cose all’uso comune determina la presunzione juris tantum di comproprietà.

In tema di amministrazione occorre evidenziare che quando in un edificio il numero dei condomini è superiore a dieci, deve essere formato un regolamento, che contenga le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio a quelle relative all’amministrazione.

Vexata quaestio è se il regolamento sia di origine contrattuale o assembleare:

* nel primo caso, ha fonte negoziale, per cui per la sua modifica è necessaria una nuova manifestazione di volontà di tutti gli originari contraenti o di ogni loro successore inter vivos o mortis causa;

* nel secondo caso, nasce da una delibera approvata con un numero di voti che rappresenti almeno metà del valore dell’edificio, con lo stesso quorum per le eventuali modificazioni.

La convocazione dell’assemblea è potere dell’amministratore, il quale deve procedervi almeno una volta ogni anno per l’assunzione delle deliberazioni in merito alla sua stessa eventuale conferma, all’approvazione del preventivo delle spese occorrenti per la gestione ordinaria, alla loro ripartizione fra i condomini, all’approvazione del rendiconto annuale e all’impiego dell’eventuale residuo gestionale attivo, alle eventuali opere di manutenzione straordinaria ed alla costituzione dei relativi fondi. Può inoltre essere convocata in via straordinaria dallo stesso amministratore, quando egli lo ritenga necessario, ovvero quando gliene sia fatta richiesta da almeno due condomini che rappresentino un sesto del valore dell’edificio. In difetto di attivazione da parte dell’amministratore, è garantito il diritto di autoconvocazione da parte dei condomini stessi, una volta che siano decorsi inutilmente dieci giorni dalla richiesta.

4) la società (artt. 2247 del codice civile): la differenza tra comunione e società risiede nel fatto che la prima ha ad oggetto il godimento di uno o più beni; mentre la seconda ha ad oggetto lo svolgimento di un’attività economica, i cui beni costituiscono il patrimonio sociale funzionali all’esercizio di tale attività.

In tal senso, l’articolo 2247 del codice civile precisa che il contratto di società comporta il conferimento di beni o di servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica al fine di dividerne gli utili.

Alla luce del combinato disposto degli artt. 2082 e 2247 del codice civile, si ritiene ammissibile la figura della società senza impresa.

Problemi nascono quando la comunione ha ad oggetto un bene produttivo:

* autorevole dottrina (Campobasso) ritiene che si resti certamente nel campo della comunione quando, ad esempio, due persone acquistano una sala cinematografica attrezzata e ne godono le utilità dandola in affitto ad un terzo;

* un primo orientamento giurisprudenziale, offerto dalla Cassazione con sentenza del 6 aprile 1982, ha definito in particolare la società di godimento “come una società senza impresa, allorché l’oggetto del contratto sociale si limiti ad una comunione di godimento o, comunque, non configuri un’attività economica di carattere imprenditoriale”.

Nel diritto romano, il fenomeno della contitolarità nasce nella successione ereditaria (cd. consortium ercto non cito), presentandosi ogni qual volta al pater familias succedevano i filii. In seguito si sviluppa come contitolarità del diritto di proprietà, nell’ambito dei diritti reali, ammissibile anche in presenza di un mero accordo tra più soggetti, come nel caso di una società (cd. societas omnium bonorum).

Rispetto al consortium, la “communio” classica è però governata dalla “quota” che, quale frazione ideale dell’intero, è il parametro per stabilire tutti i doveri di ogni partecipante (o comunista).

Nell’attuale codice civile, la comunione definita dall’articolo 1100 del codice civile, sussiste “quando la proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più persone, se il titolo o la legge non dispone diversamente”.

Questa tipologia di comunione (detta “ordinaria”) può avere ad oggetto i diritti reali di godimento ed il pegno, ma occorre precisare che la sua disciplina è innanzitutto quella dettata dalla volontà delle parti, in mancanza della quale si applicano le regole contenute negli articoli 1101 e seguenti del codice civile, aventi in generale carattere dispositivo, sebbene alcune di esse appaiono inderogabili, come per esempio il patto contenuto nell’articolo 1111 che fissa in dieci anni il limite massimo di durata del patto di non scioglimento della comunione ordinaria.

Sotto il profilo dell’amministrazione, la gestione della cosa comune include tutti quegli atti volti al miglioramento e/o alla conservazione della cosa comune e all’articolo 1105, 1° comma, il codice civile stabilisce che “tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere alla gestione della cosa comune”. Da ciò deriva che il singolo comunista, anche se può godere autonomamente delle cosa, nei limiti imposti dall’articolo 1102 del codice civile, egli non può singolarmente amministrare la cosa stessa, in quanto indispensabile il concorso degli altri comunisti. Assume quindi un ruolo centrale in tale ambito, l’assemblea dei compartecipi, quale organo competente sia l’ordinaria che la straordinaria amministrazione, salva la nomina di un amministratore al quale delegare gli atti di ordinaria amministrazione. E’ importante sottolineare come:

* la prima, per la quale il nostro ordinamento introduce l’applicazione del principio maggioritario, include in genere tutti quegli atti rivolti alla conservazione o al miglioramento della cosa comune. Da ciò si desume che tali decisioni sono vincolanti anche per la minoranza dissenziente, sebbene assunte con la maggioranza semplice (metà più uno), calcolata in base al valore delle quote e non in base al numero dei partecipanti. L’esempio tipico che l’autore F. Gazzoni propone è il seguente: “se la comunione è formata da sei comproprietari, l’unico comproprietario con quota del 51% fa prevalere la propria volontà su quella degli altri cinque che si dividono il residuo 49%”. Inoltre, l’articolo 1106, 2° comma del codice civile stabilisce che la gestione ordinaria della cosa comune può essere delegata ad un amministratore, nominato dall’assemblea (che ha anche il potere di revoca) e che può essere nominato sia un contitolare che un terzo, il cui incarico si presume oneroso. I poteri e gli obblighi di tale soggetto sono delineati dall’assemblea dalle norme sull’amministratore di condominio, ma anche dalle norme sul mandato.

* la seconda richiede per la sua deliberazione la maggioranza qualificata, costituita dai due terzi del valore complessivo della cosa comune. Tra gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, sono ricompresi:

a) le innovazioni dirette al miglioramento della cosa, per la cui deliberazione la legge prevede un quid pluris, ossia che non comportino un spesa gravosa e non pregiudichino il godimento di alcuno dei partecipanti (articolo 1108, 1° comma codice civile);

b) tutti gli altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, purché essi non siano pregiudizievoli all’interesse di alcuno dei partecipanti (articolo 1108, 2° comma codice civile).

La costituzione di un’ipoteca rientra nella definizione di atto di straordinaria amministrazione, purché sia salvaguardato l’articolo 1108, ultimo comma del codice civile, ossia che “lo scopo di garantire la restituzione delle somme mutuate per la ricostruzione o per il miglioramento della cosa comune”.

Per gli atti di alienazione della cosa comune, gli atti di costituzione di diritti reali sul fondo comune e le locazioni ultranovennali, poiché incidenti sul diritto di ciascun comunista, richiedono il consenso unanime di tutti i partecipanti e non la sola maggioranza qualificata.

Procedendo ad un’attenta analisi dell’ordinamento giuridico, si possono individuare le principali tipologie di comunioni, cosiddette “speciali”, e precisamente:

1) la comunione ereditaria (artt. 456 e seguenti del codice civile): è relativa all’intero complesso patrimoniale del de cuius, compresi i rapporti obbligatori. Come nell’ambito della comunione ordinaria, anche nella comunione ereditaria ciascun coerede ha la facoltà di alienare la propria quota; pur tuttavia, il legislatore, anche per favorire la divisione, ha introdotto due strumenti, quali la prelazione e il retratto successorio, affinché la divisione della comunione ereditaria riguardi preferibilmente esclusivamente i membri della famiglia ed in particolare, i coeredi. Ai sensi dell’articolo 732 codice civile, dunque, il coerede che intenda procedere alla alienazione della propria quota dovrà notificare la proposta di vendita completa del prezzo a ciascuno dei coeredi che, nel termine di sessanta giorni, potranno esercitare il loro diritto di prelazione. In difetto della preventiva notifica, l’eventuale alienazione a terzi potrà essere resa inefficace attraverso l’esercizio del diritto potestativo di retratto, mediante il quale il coerede riscatta la quota dal terzo acquirente e da qualsiasi successivo avente causa.

2) la comunione legale fra coniugi (artt. 177 e seguenti del codice civile): con l’entrata in vigore della Legge 19 maggio 1975, n. 151, il regime legale della famiglia è divenuto quello della comunione dei beni fra i coniugi, in sostituzione del precedente e tradizionale regime della separazione. L’istituto della comunione legale scelto dal legislatore è di tipo misto, prevedendo due categorie giuridiche di beni contrapposte: da un lato, quella dei beni comuni, dall’altro quella dei beni personali. Secondo l’orientamento giurisprudenziale della Cassazione, evidenziato in particolare nella sentenza n. 4890 del 7 marzo 2006, riprendendo quanto affermato dalla Corte Costituzionale n. 311 del 1988, “la comunione legale dei beni tra i coniugi, a differenza di quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei”.

La regolamentazione dell’attività in ordine al patrimonio comune è dettata dall’articolo 180 del codice civile, ai sensi del quale: “l’amministrazione dei beni della comunione e la rappresentanza in giudizio per gli atti ad essa relativi spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi. Il compimento degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, nonché la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento, e la rappresentanza in giudizio per le relative azioni, spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi”.

3) il condominio (artt. 1117 e ss. del codice civile): è la comunione degli edifici costituita da una o più unità abitative in proprietà esclusiva, con la compresenza delle parti comuni, per le quali il legislatore italiano, in base all’articolo 1117 del codice civile, ha scelto la via della enumerazione di una serie di parti comuni. Infatti, vengono, tra l’altro, incluse in esse: il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni d’ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili, i locali per la portineria e per l’alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale, per gli stenditoi, gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli acquedotti, le fognature, i canali di scarico, gli impianti per acqua, gas, energia elettrica e riscaldamento fino al punto di diramazione degli stessi ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini.

Dottrina e giurisprudenza maggioritari (Cassazione n. 2622 del 26 aprile 1984) ritengono che il legislatore abbia adottato un criterio in base al quale la destinazione delle cose all’uso comune determina la presunzione juris tantum di comproprietà.

In tema di amministrazione occorre evidenziare che quando in un edificio il numero dei condomini è superiore a dieci, deve essere formato un regolamento, che contenga le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio a quelle relative all’amministrazione.

Vexata quaestio è se il regolamento sia di origine contrattuale o assembleare:

* nel primo caso, ha fonte negoziale, per cui per la sua modifica è necessaria una nuova manifestazione di volontà di tutti gli originari contraenti o di ogni loro successore inter vivos o mortis causa;

* nel secondo caso, nasce da una delibera approvata con un numero di voti che rappresenti almeno metà del valore dell’edificio, con lo stesso quorum per le eventuali modificazioni.

La convocazione dell’assemblea è potere dell’amministratore, il quale deve procedervi almeno una volta ogni anno per l’assunzione delle deliberazioni in merito alla sua stessa eventuale conferma, all’approvazione del preventivo delle spese occorrenti per la gestione ordinaria, alla loro ripartizione fra i condomini, all’approvazione del rendiconto annuale e all’impiego dell’eventuale residuo gestionale attivo, alle eventuali opere di manutenzione straordinaria ed alla costituzione dei relativi fondi. Può inoltre essere convocata in via straordinaria dallo stesso amministratore, quando egli lo ritenga necessario, ovvero quando gliene sia fatta richiesta da almeno due condomini che rappresentino un sesto del valore dell’edificio. In difetto di attivazione da parte dell’amministratore, è garantito il diritto di autoconvocazione da parte dei condomini stessi, una volta che siano decorsi inutilmente dieci giorni dalla richiesta.

4) la società (artt. 2247 del codice civile): la differenza tra comunione e società risiede nel fatto che la prima ha ad oggetto il godimento di uno o più beni; mentre la seconda ha ad oggetto lo svolgimento di un’attività economica, i cui beni costituiscono il patrimonio sociale funzionali all’esercizio di tale attività.

In tal senso, l’articolo 2247 del codice civile precisa che il contratto di società comporta il conferimento di beni o di servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica al fine di dividerne gli utili.

Alla luce del combinato disposto degli artt. 2082 e 2247 del codice civile, si ritiene ammissibile la figura della società senza impresa.

Problemi nascono quando la comunione ha ad oggetto un bene produttivo:

* autorevole dottrina (Campobasso) ritiene che si resti certamente nel campo della comunione quando, ad esempio, due persone acquistano una sala cinematografica attrezzata e ne godono le utilità dandola in affitto ad un terzo;

* un primo orientamento giurisprudenziale, offerto dalla Cassazione con sentenza del 6 aprile 1982, ha definito in particolare la società di godimento “come una società senza impresa, allorché l’oggetto del contratto sociale si limiti ad una comunione di godimento o, comunque, non configuri un’attività economica di carattere imprenditoriale”.