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Trasferimento d’azienda e tutela dei lavoratori: tra diritto nazionale e diritto comunitario

Dalla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee al Collegato Lavoro
La Sentenza della Corte di Giustizia della Comunità Europea C-242/09 del 21 ottobre 2010 fornisce l’occasione per verificare la corretta interpretazione della disciplina riguardante i trasferimenti di azienda e la tutela dei diritti dei lavoratori coinvolti, permettendo quindi di fare un efficace paragone tra la norma Europea e la legislazione nazionale che ha recepito la direttiva comunitaria 2001/23 che disciplina appunto il trasferimento di impresa con lo scopo di preservare i diritti dei lavoratori interessati nell’ottica di diminuire le differenze di protezione riconosciute all’interno dei singoli Stati membri dell’Unione europea, anche dopo le recenti modifiche apportate dal “collegato lavoro”.

Il caso

La pronuncia della Corte riguarda, in particolare, il cambiamento dell’imprenditore per effetto di un trasferimento di azienda operato all’interno di un gruppo societario Olandese verso una società esterna al gruppo.

La particolarità riguarda un complesso sistema di gestione del personale posto in essere dal gruppo che prevede che tutti i lavoratori risultino dipendenti da una società del gruppo in qualità di datore di lavoro centrale e che poi tale società provveda al loro distacco presso le altre società del gruppo che svolgono attività nei Paesi Bassi.

Nello specifico la controversia sottoposta all’attenzione della Corte concerne un dipendente distaccato dal datore di lavoro centrale presso una società del gruppo che svolge l’attività di ristorazione del personale nei vari siti che si trova poi trasferito, unitamente al ramo di attività nel quale è addetto, ad una società esterna al gruppo stesso che si occupa sempre di gestione di servizi di ristorazione nell’ambito di mense aziendali e che ha assunto a sua volta l’appalto del servizio.

A seguito della “cessione” dell’azienda il lavoratore si è visto diminuire notevolmente il proprio salario e quindi l’interessato decide di proporre ricorso al tribunale nazionale pretendendo l’applicazione, al contratto di lavoro concluso con il nuovo datore, delle precedenti condizioni di lavoro.

Secondo il ricorrente, infatti, la suddetta “cessione” d’azienda costituisce un trasferimento di impresa ai sensi delle previsioni del diritto comunitario e pertanto, in caso di cambiamento di imprenditore, ai dipendenti deve essere garantito il mantenimento delle loro prerogative.

La Corte olandese investita del caso ha sospeso il giudizio richiedendo un parere alla Corte di giustizia circa le seguenti questioni pregiudiziali:

“Se la direttiva 2001/23 (…) debba essere interpretata nel senso che il trasferimento di diritti ed obblighi al cessionario di cui all’art. 3, n. 1, prima frase, si configura soltanto se il cedente dell’impresa da trasferire è anche il datore di lavoro formale dei lavoratori interessati o se la tutela dei lavoratori perseguita dalla direttiva [2001/23] comporta che, in caso di trasferimento di una società operativa facente parte di un gruppo, i diritti e gli obblighi esistenti nei confronti dei lavoratori occupati in tale impresa si trasferiscono al cessionario se tutto il personale che lavora all’interno del gruppo è alle dipendenze di una società di gestione del personale (del pari facente parte del gruppo) che funge da datore di lavoro centrale.

• “Come sarebbe la soluzione della seconda parte della prima questione qualora i lavoratori cui essa si riferisce, che lavorano per un’impresa facente parte di un gruppo, fossero alle dipendenze di un’altra società, del pari appartenente a quel gruppo, che non sia una società di gestione del personale come descritta nella prima questione.”

Ai fini della risoluzione del caso concreto la Terza Sezione della Corte di Giustizia CE stabilisce che nel rispetto di quanto previsto dalla direttiva 2001/23/CE del 12 marzo 2001, in materia di mantenimento dei diritti dei lavoratori nelle ipotesi di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti, qualora venga trasferita un’impresa facente parte di un gruppo di società ad un’impresa esterna a tale gruppo, possiede la qualifica di “cedente” (art. 2, n. 1, lett. a) della direttiva) anche l’impresa del gruppo, alla quale i lavoratori erano permanentemente assegnati pur essendo poi distaccati presso un’altra società e pur non esistendo un vincolo contrattuale tra l’acquirente e la società di gestione (definita dalla corte datore di lavoro non contrattuale).

Si sottolinea che, in base al dettato normativo, ai fini del trasferimento d’impresa, risulta essere “cedente” colui che perde la qualità di datore di lavoro; tuttavia, a seguito della precisazione della Corte, può essere considerato tale anche il “datore di lavoro non contrattuale”, ossia la società di “gestione” del gruppo che svolge le mansioni di datore di lavoro centrale e provvede al distacco dei lavoratori ad altra società (“datore contrattuale”) del gruppo.

La Corte pertanto sottolinea come sia importante e come debba rilevare secondo il profilo del Diritto Comunitario la situazione concreta e non tanto la situazione di fatto posta in essere dalle società del gruppo. Secondo la Corte, infatti, non è sempre indispensabile la presenza di un vincolo contrattuale con la società cedente per poter riconoscere la piena tutela dei lavoratori in caso di trasferimento di impresa. Nel caso quindi di una pluralità di datori di lavoro, come nel caso di gruppi di società, non va necessariamente privilegiato il datore di lavoro contrattuale. Di conseguenza quest’ultimo, che non ha la responsabilità della conduzione dell’attività economica trasferita (in capo alla società di “gestione” del gruppo), non riveste in via sistematica la qualità di cedente.

In sostanza, nel caso di un trasferimento di un’impresa appartenente ad un gruppo di società ad un’impresa esterna ad esso, se ricorrono i presupposti previsti dalla disciplina comunitaria, i lavoratori devono essere tutelati. Quindi, nel caso di specie, va applicato il contratto collettivo nei termini previsti per il cedente, senza pregiudizio riguardo il trattamento economico del lavoratore rilevando i diritti e gli obblighi che risultano alla data del trasferimento sulla scorta di un contratto di lavoro o di un rapporto di lavoro (art. 3, n. 1, direttiva 2001/23) instaurato con il cedente e la loro esistenza deve essere accertata secondo le previsioni del diritto nazionale (art. 2, n. 2, direttiva 2001/23).

La norma comunitaria

Attraverso l’esame del caso specifico, riguardante il cambiamento di imprenditore nel caso di “cessione” di un’impresa (o azienda), che appartiene ad un gruppo societario, ad un’impresa esterna a tale gruppo, la Corte di giustizia CE fornisce indicazioni sulla disciplina europea (direttiva 2001/23/CE) relativa ai trasferimenti di imprese e al mantenimento dei diritti dei lavoratori.

La direttiva 2001/23 (art. 1, n. 1, lett. a) che ha formato l’oggetto dell’analisi della Corte, riguarda i trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti ad un nuovo imprenditore in seguito ad una cessione contrattuale.

La disposizione afferma che si è in presenza di trasferimento in tutti quei casi in cui un’entità economica mantiene la propria identità, “intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria” (art. 1, n. 1, lett. b), nell’ambito del trasferimento, indipendentemente dalla tipologia contrattuale posta in essere.

Nell’ipotesi di trasferimento d’impresa (o d’azienda), con conseguente cambiamento di imprenditore, i soggetti coinvolti sono: il cedente, il cessionario ed i lavoratori.

A tale proposito la normativa comunitaria (art. 2, comma 1, lett. a), b), d) della direttiva 2001/23) precisa che deve intendersi per:

• “cedente”, ogni persona fisica o giuridica che, in conseguenza di un trasferimento (…),

perde la veste di imprenditore rispetto all’impresa, allo stabilimento o a parte dell’impresa

o dello stabilimento;

“cessionario”, ogni persona fisica o giuridica che, in conseguenza di un trasferimento (…), acquisisce la veste di imprenditore rispetto all’impresa, allo stabilimento o a parte dell’impresa o dello stabilimento;

“lavoratore”, ogni persona che nello Stato membro interessato è tutelata come tale nell’ambito del diritto nazionale del lavoro.”

La direttiva precisa che rimane fermo quanto stabilito a livello di diritto nazionale relativamente alla definizione di contratto o di rapporto di lavoro.

Per quanto riguarda il mantenimento dei diritti dei lavoratori, in caso di trasferimento dell’impresa, la direttiva 2001/23 (art. 3, nn. 1- 3) delinea i tratti distintivi del rapporto lavorativo in conseguenza della cessione d’azienda, affermando che al cessionario sono trasferiti i diritti e gli obblighi propri del cedente risultanti da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento.

Agli Stati membri, inoltre, è concesso di prevedere, anche dopo la data del trasferimento, una responsabilità in solido tra cedente e cessionario in merito ai suddetti obblighi antecedenti il trasferimento.

A garanzia delle parti la norma comunitaria dispone la possibilità, per i singoli Stati dell’Unione, dell’adozione di provvedimenti finalizzati alla notifica da parte del cedente, nei confronti del cessionario, dei diritti e degli obblighi trasferiti (noti al cedente al momento del trasferimento). In caso di omessa notifica, il trasferimento di detti diritti ed obblighi non viene comunque pregiudicato.

Infine, è previsto che il cessionario mantenga le condizioni di lavoro fissate mediante contratto collettivo, nei termini previsti da quest’ultimo per il cedente fino alla data della risoluzione o della scadenza del contratto collettivo o dell’entrata in vigore o dell’applicazione di un altro contratto collettivo.

Il mantenimento delle condizioni di lavoro può essere limitato temporalmente da parte degli Stati dell’Unione, purché non risulti inferiore ad un anno.

La norma nazionale

Il nostro ordinamento, all’art. art. 2112 c.c. che ha recepito le indicazioni comunitarie, dispone che, in presenza di trasferimento d’azienda, il contratto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti.

Ai lavoratori trasferiti al cessionario, quindi, spettano i trattamenti economici e normativi previsti dalla contrattazione collettiva nazionale, territoriale ed aziendale, vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo sostituzione mediante altri contratti collettivi (dello stesso livello) applicabili all’impresa del cessionario.

La norma nazionale, quindi, appare sposare appieno le previsioni comunitarie ora confermate e specificate dalla sentenza in commento; infatti, la regolamentazione prevista dal Decreto Legislativo 18/2001 con la modifica dell’art. 2112 e all’art. 47 delle legge 428/90, a sua volta modificati dall’art. 32 del Decreto Legislativo. 276/03, delineano la normativa nazionale di riferimento.

Dalla norma codicistica nazionale discende facilmente che per trasferimento di azienda deve intendersi qualsiasi operazione che comporti il mutamento della titolarità di una attività economica organizzata preesistente al trasferimento e che conservi la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale posta in essere dalle parti o dal provvedimento sulla cui base viene realizzato il trasferimento incluse le ipotesi di usufrutto di azienda o affitto. Inoltre la norma nazionale prevede l’applicazione della stessa regolamentazione nelle ipotesi di trasferimenti parziali purchè si tratti di articolazioni funzionalmente autonome così come valutata e individuata dalle parti al momento del trasferimento ( e non antecedente).

A titolo esemplificativo possiamo ritenere applicabile la normativa sui trasferimenti d’azienda alle fusioni per incorporazione, al ritrasferimento delle aziende dall’affittuario al concedente che a sua volta la riconcede in affitto, alle scorporazioni, all’assorbimento di consociata nell’ambito dei gruppi societari, alle cessioni di rami, alla successione ereditaria di azienda, al conferimento di azienda in società; mentre possono essere considerati esclusi i casi di cessazione totale dell’attività con risoluzione dei rapporti di lavoro, la trasformazione da un tipo di società all’altro (da società personali a società di capitale e viceversa), dove non si ha nessuna variazione del datore di lavoro e pertanto nessuna variazione nella figura dell’imprenditore, il trasferimento degli assist proprietari attraverso trasferimenti di pacchetti azionari (quando questo non comporti una simulazione), i trasferimento avvenuti in forza di provvedimenti amministrativi di enti pubblici.

Con il recente intervento legislativo attuato attraverso il comma 1 dell’art. 30 della legge 183 del 4 novembre 2010 (cd Collegato lavoro) il legislatore ha voluto limitare il controllo giudiziale nell’ambito delle materie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile e all’articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ivi comprese le norme in tema di trasferimento d’azienda, esclusivamente all’accertamento del presupposto di legittimità delle clausole escludendo la possibilità per il giudice di valutare la questione nel merito delle tecniche organizzative e produttive che hanno originato gli accordi e che pertanto rimangono, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, di esclusiva competenza del datore di lavoro e del committente.

Tale previsione nel limitare il potere giudiziario tende in particolare a tutelare la libertà di valutazione delle parti in merito alle motivazioni tecnico produttive lasciando al giudice solo il compito di valutare la legittimità delle clausole in esso contenute.

La nuova disposizione farebbe pensare ad una distorsione degli effetti voluti dalla norma comunitaria sugli ordinamenti nazionali ledendo gli interessi dei lavoratori destinatari delle garanzie di cui all’art. 2112 del codice civile. Tuttavia, tale norma, che non a caso appare emanata in un periodo cruciale di congiuntura economica, per non essere considerata lesiva degli interessi dei lavoratori, deve essere letta ed inserita in un più ampio contesto nel quale, secondo una più avanzata lettura degli interessi collettivi, il mantenimento del posto di lavoro e delle garanzie retributive, è contemperato con l’interesse preminente del mantenimento della economicità della gestione imprenditoriale; interpretazione questa già introdotta e suffragata dalla sentenza della Cassazione, Sezione Lavoro, n. 13171 dell’8 giugno 2009 che aveva ammesso la legittimità della cessione di un ramo d’azienda allo scopo di tentare il superamento di una crisi aziendale (nella fattispecie i lavoratori che si erano opposti alla cessione avevano sostenuto l’inesistenza del ramo e la simulazione della cessione allo scopo di attuare una riduzione di personale in violazione delle norme di tutela dei lavoratori).

E’ da rilevare infine che l’articolo 47 della Legge 428/90 così come modificato dal Decreto Legislativo 18/2001 prevede una particolare procedura per le aziende che hanno un dimensionamento particolare. Infatti, le aziende che occupano più di 15 lavoratori devono attuare una particolare procedura prima di poter dar corso ad un trasferimento di azienda o ad una operazione assimilabile.

La procedura, prevede che almeno 25 giorni prima della data prevista per il trasferimento (della stipula cioè dell’atto definitivo) il cedente e il cessionario devono comunicare per scritto alle rappresentanze sindacali unitarie o, in caso di loro assenza, alle organizzazioni sindacali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative su base territoriale, l’intenzione di trasferire l’azienda indicando specificatamente: la data del trasferimento, i motivi, le conseguenze sui lavoratori e le eventuali misure che si intendono prendere nei confronti dei lavoratori oggetto di trasferimento. Le organizzazioni sindacali possono quindi richieder entro 7 giorni, sempre per scritto, l’esame congiunto che deve in ogni caso concludersi entro 10 giorni.

Tale esame congiunto dell’evento, tra sindacato e datore di lavoro, ad ogni modo, non ha valore vincolante. Infatti, se dall’esame dovesse scaturire un mancato accordo, questo non potrebbe in alcun modo pregiudicare il diritto di cedente e cessionario di concludere ugualmente il contratto. Tale procedura appare avere, a parere di chi scrive, unicamente lo scopo di rendere edotta la terza parte individuata dall’ art. 2, comma 1, lettera c) della direttiva 2001/23 delle conseguenze del trasferimento, andando quindi oltre la previsione comunitaria circa la possibilità da parte degli stati membri di porre in essere procedure di notifica dal cedente al cessionario dei diritti e degli obblighi trasferiti (noti al cedente al momento del trasferimento).

Rendendo il trasferimento noto alle associazioni sindacali si è voluto dare loro, indipendentemente dalla possibilità di opporsi alle decisioni imprenditoriali, un potere di vigilanza sulla corretta applicazione del principio comunitario secondo il quale il cessionario ha l’obbligo di mantenere le condizioni del rapporto lavorativo convenute con contratto collettivo nei termini previsti per il cedente.

Ad ulteriore conferma della sostenuta natura informativa della procedura dell’esame congiunto è il caso di aggiungere che, in caso di omessa notifica o di omissione della procedura, il trasferimento di detti diritti ed obblighi non viene comunque pregiudicato così come non viene pregiudicato il diritto datoriale di porre in essere ugualmente la cessione; il comportamento datoriale omissivo costituisce infatti, condotta antisindacale ai sensi dell’articolo 28 della legge 300/1970 e solo la successiva eventuale inottemperanza al decreto che ordina la cessazione del comportamento costituisce reato punibile ai sensi dell’art. 650 del codice penale.

Ed ancora, il corollario legislativo nazionale recepisce inoltre, sempre all’articolo 2112 del codice civile, la disposizione comunitaria che fa sorgere, in capo agli stati membri, la possibilità di prevedere la responsabilità solidale tra cedente e cessionario in relazione ai crediti che il lavoratore poteva vantare al momento del trasferimento.

Tale tutela è particolarmente forte in quanto opera in deroga alle disposizioni generali in materia di solidarietà nei debiti in caso di cessione di azienda (articolo 2560 codice civile) e quindi indipendentemente dalla conoscenza da parte del cessionario e dalla risultanza nelle scritture contabili.

In conclusione, con riferimento a situazioni concrete simili a quelle oggetto di analisi da parte della Corte di Giustizia CE, sorvolando sulle problematiche che potrebbero sorgere dall’analisi della legittimità, in base al diritto nazionale, del comportamento del gruppo societario italiano che intendesse utilizzare il distacco quale forma per operare attraverso un datore di lavoro centrale (parrebbe infatti carente il presupposto dell’interesse del distaccante nel caso in cui la società del gruppo avesse unicamente lo scopo di datore di lavoro centrale) è appena il caso di ricordare che ai sensi del c. 6 dell’art. 2112 codice civile così come aggiunto dall’art. 32 del Decreto Legislativo n. 276/2003, nel caso di cessione di azienda e successiva stipula tra alienante ed acquirente di un contratto di appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo d’azienda che è stato oggetto di cessione opera il regime di solidarietà di cui all’articolo 29, comma 2, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, vale a dire che coloro che “alle dipendenze dell’appaltatore hanno dato la loro attività per eseguire l’opera o prestare il servizio, possono proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda”.

La Sentenza della Corte di Giustizia della Comunità Europea C-242/09 del 21 ottobre 2010 fornisce l’occasione per verificare la corretta interpretazione della disciplina riguardante i trasferimenti di azienda e la tutela dei diritti dei lavoratori coinvolti, permettendo quindi di fare un efficace paragone tra la norma Europea e la legislazione nazionale che ha recepito la direttiva comunitaria 2001/23 che disciplina appunto il trasferimento di impresa con lo scopo di preservare i diritti dei lavoratori interessati nell’ottica di diminuire le differenze di protezione riconosciute all’interno dei singoli Stati membri dell’Unione europea, anche dopo le recenti modifiche apportate dal “collegato lavoro”.

Il caso

La pronuncia della Corte riguarda, in particolare, il cambiamento dell’imprenditore per effetto di un trasferimento di azienda operato all’interno di un gruppo societario Olandese verso una società esterna al gruppo.

La particolarità riguarda un complesso sistema di gestione del personale posto in essere dal gruppo che prevede che tutti i lavoratori risultino dipendenti da una società del gruppo in qualità di datore di lavoro centrale e che poi tale società provveda al loro distacco presso le altre società del gruppo che svolgono attività nei Paesi Bassi.

Nello specifico la controversia sottoposta all’attenzione della Corte concerne un dipendente distaccato dal datore di lavoro centrale presso una società del gruppo che svolge l’attività di ristorazione del personale nei vari siti che si trova poi trasferito, unitamente al ramo di attività nel quale è addetto, ad una società esterna al gruppo stesso che si occupa sempre di gestione di servizi di ristorazione nell’ambito di mense aziendali e che ha assunto a sua volta l’appalto del servizio.

A seguito della “cessione” dell’azienda il lavoratore si è visto diminuire notevolmente il proprio salario e quindi l’interessato decide di proporre ricorso al tribunale nazionale pretendendo l’applicazione, al contratto di lavoro concluso con il nuovo datore, delle precedenti condizioni di lavoro.

Secondo il ricorrente, infatti, la suddetta “cessione” d’azienda costituisce un trasferimento di impresa ai sensi delle previsioni del diritto comunitario e pertanto, in caso di cambiamento di imprenditore, ai dipendenti deve essere garantito il mantenimento delle loro prerogative.

La Corte olandese investita del caso ha sospeso il giudizio richiedendo un parere alla Corte di giustizia circa le seguenti questioni pregiudiziali:

“Se la direttiva 2001/23 (…) debba essere interpretata nel senso che il trasferimento di diritti ed obblighi al cessionario di cui all’art. 3, n. 1, prima frase, si configura soltanto se il cedente dell’impresa da trasferire è anche il datore di lavoro formale dei lavoratori interessati o se la tutela dei lavoratori perseguita dalla direttiva [2001/23] comporta che, in caso di trasferimento di una società operativa facente parte di un gruppo, i diritti e gli obblighi esistenti nei confronti dei lavoratori occupati in tale impresa si trasferiscono al cessionario se tutto il personale che lavora all’interno del gruppo è alle dipendenze di una società di gestione del personale (del pari facente parte del gruppo) che funge da datore di lavoro centrale.

• “Come sarebbe la soluzione della seconda parte della prima questione qualora i lavoratori cui essa si riferisce, che lavorano per un’impresa facente parte di un gruppo, fossero alle dipendenze di un’altra società, del pari appartenente a quel gruppo, che non sia una società di gestione del personale come descritta nella prima questione.”

Ai fini della risoluzione del caso concreto la Terza Sezione della Corte di Giustizia CE stabilisce che nel rispetto di quanto previsto dalla direttiva 2001/23/CE del 12 marzo 2001, in materia di mantenimento dei diritti dei lavoratori nelle ipotesi di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti, qualora venga trasferita un’impresa facente parte di un gruppo di società ad un’impresa esterna a tale gruppo, possiede la qualifica di “cedente” (art. 2, n. 1, lett. a) della direttiva) anche l’impresa del gruppo, alla quale i lavoratori erano permanentemente assegnati pur essendo poi distaccati presso un’altra società e pur non esistendo un vincolo contrattuale tra l’acquirente e la società di gestione (definita dalla corte datore di lavoro non contrattuale).

Si sottolinea che, in base al dettato normativo, ai fini del trasferimento d’impresa, risulta essere “cedente” colui che perde la qualità di datore di lavoro; tuttavia, a seguito della precisazione della Corte, può essere considerato tale anche il “datore di lavoro non contrattuale”, ossia la società di “gestione” del gruppo che svolge le mansioni di datore di lavoro centrale e provvede al distacco dei lavoratori ad altra società (“datore contrattuale”) del gruppo.

La Corte pertanto sottolinea come sia importante e come debba rilevare secondo il profilo del Diritto Comunitario la situazione concreta e non tanto la situazione di fatto posta in essere dalle società del gruppo. Secondo la Corte, infatti, non è sempre indispensabile la presenza di un vincolo contrattuale con la società cedente per poter riconoscere la piena tutela dei lavoratori in caso di trasferimento di impresa. Nel caso quindi di una pluralità di datori di lavoro, come nel caso di gruppi di società, non va necessariamente privilegiato il datore di lavoro contrattuale. Di conseguenza quest’ultimo, che non ha la responsabilità della conduzione dell’attività economica trasferita (in capo alla società di “gestione” del gruppo), non riveste in via sistematica la qualità di cedente.

In sostanza, nel caso di un trasferimento di un’impresa appartenente ad un gruppo di società ad un’impresa esterna ad esso, se ricorrono i presupposti previsti dalla disciplina comunitaria, i lavoratori devono essere tutelati. Quindi, nel caso di specie, va applicato il contratto collettivo nei termini previsti per il cedente, senza pregiudizio riguardo il trattamento economico del lavoratore rilevando i diritti e gli obblighi che risultano alla data del trasferimento sulla scorta di un contratto di lavoro o di un rapporto di lavoro (art. 3, n. 1, direttiva 2001/23) instaurato con il cedente e la loro esistenza deve essere accertata secondo le previsioni del diritto nazionale (art. 2, n. 2, direttiva 2001/23).

La norma comunitaria

Attraverso l’esame del caso specifico, riguardante il cambiamento di imprenditore nel caso di “cessione” di un’impresa (o azienda), che appartiene ad un gruppo societario, ad un’impresa esterna a tale gruppo, la Corte di giustizia CE fornisce indicazioni sulla disciplina europea (direttiva 2001/23/CE) relativa ai trasferimenti di imprese e al mantenimento dei diritti dei lavoratori.

La direttiva 2001/23 (art. 1, n. 1, lett. a) che ha formato l’oggetto dell’analisi della Corte, riguarda i trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti ad un nuovo imprenditore in seguito ad una cessione contrattuale.

La disposizione afferma che si è in presenza di trasferimento in tutti quei casi in cui un’entità economica mantiene la propria identità, “intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria” (art. 1, n. 1, lett. b), nell’ambito del trasferimento, indipendentemente dalla tipologia contrattuale posta in essere.

Nell’ipotesi di trasferimento d’impresa (o d’azienda), con conseguente cambiamento di imprenditore, i soggetti coinvolti sono: il cedente, il cessionario ed i lavoratori.

A tale proposito la normativa comunitaria (art. 2, comma 1, lett. a), b), d) della direttiva 2001/23) precisa che deve intendersi per:

• “cedente”, ogni persona fisica o giuridica che, in conseguenza di un trasferimento (…),

perde la veste di imprenditore rispetto all’impresa, allo stabilimento o a parte dell’impresa

o dello stabilimento;

“cessionario”, ogni persona fisica o giuridica che, in conseguenza di un trasferimento (…), acquisisce la veste di imprenditore rispetto all’impresa, allo stabilimento o a parte dell’impresa o dello stabilimento;

“lavoratore”, ogni persona che nello Stato membro interessato è tutelata come tale nell’ambito del diritto nazionale del lavoro.”

La direttiva precisa che rimane fermo quanto stabilito a livello di diritto nazionale relativamente alla definizione di contratto o di rapporto di lavoro.

Per quanto riguarda il mantenimento dei diritti dei lavoratori, in caso di trasferimento dell’impresa, la direttiva 2001/23 (art. 3, nn. 1- 3) delinea i tratti distintivi del rapporto lavorativo in conseguenza della cessione d’azienda, affermando che al cessionario sono trasferiti i diritti e gli obblighi propri del cedente risultanti da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento.

Agli Stati membri, inoltre, è concesso di prevedere, anche dopo la data del trasferimento, una responsabilità in solido tra cedente e cessionario in merito ai suddetti obblighi antecedenti il trasferimento.

A garanzia delle parti la norma comunitaria dispone la possibilità, per i singoli Stati dell’Unione, dell’adozione di provvedimenti finalizzati alla notifica da parte del cedente, nei confronti del cessionario, dei diritti e degli obblighi trasferiti (noti al cedente al momento del trasferimento). In caso di omessa notifica, il trasferimento di detti diritti ed obblighi non viene comunque pregiudicato.

Infine, è previsto che il cessionario mantenga le condizioni di lavoro fissate mediante contratto collettivo, nei termini previsti da quest’ultimo per il cedente fino alla data della risoluzione o della scadenza del contratto collettivo o dell’entrata in vigore o dell’applicazione di un altro contratto collettivo.

Il mantenimento delle condizioni di lavoro può essere limitato temporalmente da parte degli Stati dell’Unione, purché non risulti inferiore ad un anno.

La norma nazionale

Il nostro ordinamento, all’art. art. 2112 c.c. che ha recepito le indicazioni comunitarie, dispone che, in presenza di trasferimento d’azienda, il contratto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti.

Ai lavoratori trasferiti al cessionario, quindi, spettano i trattamenti economici e normativi previsti dalla contrattazione collettiva nazionale, territoriale ed aziendale, vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo sostituzione mediante altri contratti collettivi (dello stesso livello) applicabili all’impresa del cessionario.

La norma nazionale, quindi, appare sposare appieno le previsioni comunitarie ora confermate e specificate dalla sentenza in commento; infatti, la regolamentazione prevista dal Decreto Legislativo 18/2001 con la modifica dell’art. 2112 e all’art. 47 delle legge 428/90, a sua volta modificati dall’art. 32 del Decreto Legislativo. 276/03, delineano la normativa nazionale di riferimento.

Dalla norma codicistica nazionale discende facilmente che per trasferimento di azienda deve intendersi qualsiasi operazione che comporti il mutamento della titolarità di una attività economica organizzata preesistente al trasferimento e che conservi la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale posta in essere dalle parti o dal provvedimento sulla cui base viene realizzato il trasferimento incluse le ipotesi di usufrutto di azienda o affitto. Inoltre la norma nazionale prevede l’applicazione della stessa regolamentazione nelle ipotesi di trasferimenti parziali purchè si tratti di articolazioni funzionalmente autonome così come valutata e individuata dalle parti al momento del trasferimento ( e non antecedente).

A titolo esemplificativo possiamo ritenere applicabile la normativa sui trasferimenti d’azienda alle fusioni per incorporazione, al ritrasferimento delle aziende dall’affittuario al concedente che a sua volta la riconcede in affitto, alle scorporazioni, all’assorbimento di consociata nell’ambito dei gruppi societari, alle cessioni di rami, alla successione ereditaria di azienda, al conferimento di azienda in società; mentre possono essere considerati esclusi i casi di cessazione totale dell’attività con risoluzione dei rapporti di lavoro, la trasformazione da un tipo di società all’altro (da società personali a società di capitale e viceversa), dove non si ha nessuna variazione del datore di lavoro e pertanto nessuna variazione nella figura dell’imprenditore, il trasferimento degli assist proprietari attraverso trasferimenti di pacchetti azionari (quando questo non comporti una simulazione), i trasferimento avvenuti in forza di provvedimenti amministrativi di enti pubblici.

Con il recente intervento legislativo attuato attraverso il comma 1 dell’art. 30 della legge 183 del 4 novembre 2010 (cd Collegato lavoro) il legislatore ha voluto limitare il controllo giudiziale nell’ambito delle materie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile e all’articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ivi comprese le norme in tema di trasferimento d’azienda, esclusivamente all’accertamento del presupposto di legittimità delle clausole escludendo la possibilità per il giudice di valutare la questione nel merito delle tecniche organizzative e produttive che hanno originato gli accordi e che pertanto rimangono, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, di esclusiva competenza del datore di lavoro e del committente.

Tale previsione nel limitare il potere giudiziario tende in particolare a tutelare la libertà di valutazione delle parti in merito alle motivazioni tecnico produttive lasciando al giudice solo il compito di valutare la legittimità delle clausole in esso contenute.

La nuova disposizione farebbe pensare ad una distorsione degli effetti voluti dalla norma comunitaria sugli ordinamenti nazionali ledendo gli interessi dei lavoratori destinatari delle garanzie di cui all’art. 2112 del codice civile. Tuttavia, tale norma, che non a caso appare emanata in un periodo cruciale di congiuntura economica, per non essere considerata lesiva degli interessi dei lavoratori, deve essere letta ed inserita in un più ampio contesto nel quale, secondo una più avanzata lettura degli interessi collettivi, il mantenimento del posto di lavoro e delle garanzie retributive, è contemperato con l’interesse preminente del mantenimento della economicità della gestione imprenditoriale; interpretazione questa già introdotta e suffragata dalla sentenza della Cassazione, Sezione Lavoro, n. 13171 dell’8 giugno 2009 che aveva ammesso la legittimità della cessione di un ramo d’azienda allo scopo di tentare il superamento di una crisi aziendale (nella fattispecie i lavoratori che si erano opposti alla cessione avevano sostenuto l’inesistenza del ramo e la simulazione della cessione allo scopo di attuare una riduzione di personale in violazione delle norme di tutela dei lavoratori).

E’ da rilevare infine che l’articolo 47 della Legge 428/90 così come modificato dal Decreto Legislativo 18/2001 prevede una particolare procedura per le aziende che hanno un dimensionamento particolare. Infatti, le aziende che occupano più di 15 lavoratori devono attuare una particolare procedura prima di poter dar corso ad un trasferimento di azienda o ad una operazione assimilabile.

La procedura, prevede che almeno 25 giorni prima della data prevista per il trasferimento (della stipula cioè dell’atto definitivo) il cedente e il cessionario devono comunicare per scritto alle rappresentanze sindacali unitarie o, in caso di loro assenza, alle organizzazioni sindacali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative su base territoriale, l’intenzione di trasferire l’azienda indicando specificatamente: la data del trasferimento, i motivi, le conseguenze sui lavoratori e le eventuali misure che si intendono prendere nei confronti dei lavoratori oggetto di trasferimento. Le organizzazioni sindacali possono quindi richieder entro 7 giorni, sempre per scritto, l’esame congiunto che deve in ogni caso concludersi entro 10 giorni.

Tale esame congiunto dell’evento, tra sindacato e datore di lavoro, ad ogni modo, non ha valore vincolante. Infatti, se dall’esame dovesse scaturire un mancato accordo, questo non potrebbe in alcun modo pregiudicare il diritto di cedente e cessionario di concludere ugualmente il contratto. Tale procedura appare avere, a parere di chi scrive, unicamente lo scopo di rendere edotta la terza parte individuata dall’ art. 2, comma 1, lettera c) della direttiva 2001/23 delle conseguenze del trasferimento, andando quindi oltre la previsione comunitaria circa la possibilità da parte degli stati membri di porre in essere procedure di notifica dal cedente al cessionario dei diritti e degli obblighi trasferiti (noti al cedente al momento del trasferimento).

Rendendo il trasferimento noto alle associazioni sindacali si è voluto dare loro, indipendentemente dalla possibilità di opporsi alle decisioni imprenditoriali, un potere di vigilanza sulla corretta applicazione del principio comunitario secondo il quale il cessionario ha l’obbligo di mantenere le condizioni del rapporto lavorativo convenute con contratto collettivo nei termini previsti per il cedente.

Ad ulteriore conferma della sostenuta natura informativa della procedura dell’esame congiunto è il caso di aggiungere che, in caso di omessa notifica o di omissione della procedura, il trasferimento di detti diritti ed obblighi non viene comunque pregiudicato così come non viene pregiudicato il diritto datoriale di porre in essere ugualmente la cessione; il comportamento datoriale omissivo costituisce infatti, condotta antisindacale ai sensi dell’articolo 28 della legge 300/1970 e solo la successiva eventuale inottemperanza al decreto che ordina la cessazione del comportamento costituisce reato punibile ai sensi dell’art. 650 del codice penale.

Ed ancora, il corollario legislativo nazionale recepisce inoltre, sempre all’articolo 2112 del codice civile, la disposizione comunitaria che fa sorgere, in capo agli stati membri, la possibilità di prevedere la responsabilità solidale tra cedente e cessionario in relazione ai crediti che il lavoratore poteva vantare al momento del trasferimento.

Tale tutela è particolarmente forte in quanto opera in deroga alle disposizioni generali in materia di solidarietà nei debiti in caso di cessione di azienda (articolo 2560 codice civile) e quindi indipendentemente dalla conoscenza da parte del cessionario e dalla risultanza nelle scritture contabili.

In conclusione, con riferimento a situazioni concrete simili a quelle oggetto di analisi da parte della Corte di Giustizia CE, sorvolando sulle problematiche che potrebbero sorgere dall’analisi della legittimità, in base al diritto nazionale, del comportamento del gruppo societario italiano che intendesse utilizzare il distacco quale forma per operare attraverso un datore di lavoro centrale (parrebbe infatti carente il presupposto dell’interesse del distaccante nel caso in cui la società del gruppo avesse unicamente lo scopo di datore di lavoro centrale) è appena il caso di ricordare che ai sensi del c. 6 dell’art. 2112 codice civile così come aggiunto dall’art. 32 del Decreto Legislativo n. 276/2003, nel caso di cessione di azienda e successiva stipula tra alienante ed acquirente di un contratto di appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo d’azienda che è stato oggetto di cessione opera il regime di solidarietà di cui all’articolo 29, comma 2, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, vale a dire che coloro che “alle dipendenze dell’appaltatore hanno dato la loro attività per eseguire l’opera o prestare il servizio, possono proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda”.