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Madri detenute: normativa e orientamenti della Cassazione

1. Stato della normativa.

2. Orientamenti della Suprema Corte di Cassazione.

3. Funzione di prevenzione generale e speciale.

1. L’art. 11 della legge n. 354 del 26 luglio 1975 "ordinamento penitenziario" al comma 9 consente alle detenute madri di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni. Per la cura e l’assistenza dei bambini l’Amministrazione penitenziaria deve organizzare appositi asili nido secondo le modalità indicate dall’art. 19 del Regolamento di esecuzione - D.P.R. 30 giugno 2000.

L’art. 47 ter della citata legge prevedeva, tra le misure alternative alla detenzione, che le detenute madri di bambini di età inferiore ai tre anni conviventi potessero espiare la pena presso la propria abitazione od in altro luogo pubblico di cura o di assistenza, entro i limiti consentiti dalla legge.

L’art. 4 della legge 165/98 ha esteso la possibilità di usufruire della detenzione domiciliare alle detenute madri di bambini di età inferiore ai dieci anni, sempre che non debbano scontare pene per gravi reati di cui agli artt. 90 e 94 del testo unico 309/90.

La legge 8 marzo 2001 n. 40 ha ampliato l’operatività degli istituti del rinvio obbligatorio e facoltativo della pena per madri di prole inferiore rispettivamente ad uno e tre anni, introdotto un’ipotesi "speciale" di detenzione domiciliare (art. 47 quinquies, ord. penit.) e un’ ipotesi di assistenza di figli minori all’esterno del carcere (art. 21 bis, ord. penit.).

La scorsa settimana, la Camera dei Deputati ha approvato il testo unificato delle proposte di legge Brugger e Zeller; Bernardini ed altri; Ferranti ed altri recante Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori (C.52 - C.1814 -C.2011-1). Il provvedimento passa ora all’esame dell’altro ramo del Parlamento.

I punti salienti del provvedimento sono:

• Custodia cautelare. Viene aumentata da tre a sei anni l’età del bambino al di sotto della quale non può essere disposta o mantenuta la custodia cautelare della madre in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza (art. 275 co.4 cpp). In presenza di tali esigenze, attraverso l’introduzione dell’art. 285-bis c.p.p. si prevede la possibilità di disporre la custodia cautelare della donna incinta, della madre di prole di età non superiore ai sei anni in un istituto a custodia attenuata per detenute madri (ICAM), sempre che le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza lo consentano;

• Diritto di visita al minore infermo, anche non convivente, da parte della madre detenuta o imputata. Attraverso l’introduzione dell’art. 21-ter nell’ordinamento penitenziario, viene stabilito l’obbligo per il magistrato di sorveglianza o, in ipotesi di assoluta urgenza, per il direttore dell’istituto, di concedere il permesso alla detenuta o all’imputata di visitare il minore malato in imminente pericolo di vita o in gravi condizioni di salute, e di assisterlo durante le visite specialistiche con modalità che, nel caso di ricovero ospedaliero, devono tener conto della durata del ricovero e del decorso della patologia;

• Detenzione domiciliare (articolo 47-ter) e detenzione domiciliare speciale (art. 47-quinquies O.P.). La novella prevede che la donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente possa espiare la pena della reclusione non superiore a quattro anni, nonché la pena dell’arresto anche presso una casa famiglia protetta (oltre che nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza).L’attuale art. 47 quinquies, in materia di detenzione domiciliare speciale delle condannate madri di prole di età non superiore a dieci anni, prevede che, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, le detenute madri possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l’espiazione di almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo. Il nuovo comma 1-bis dispone che il terzo della pena o almeno quindici anni possano essere espiati presso un ICAM, o, se non sussiste in concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o concreto pericolo di fuga, nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza; in caso di impossibilità di espiare la pena nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora presso le case famiglia protette allo scopo realizzate. Tale disciplina non si applica, tuttavia, nel caso di condanna per i reati di grave allarme sociale di cui all’articolo 4-bis O.P.;

• Individuazione di case-famiglia protette. Spetterà ad un decreto del Ministro della giustizia la definizione delle caratteristiche tipologiche delle medesime (anche con riferimento ai sistemi di sorveglianza e di sicurezza) e, sulla base di tali caratteristiche, l’individuazione delle strutture gestite da enti pubblici o privati idonee ad essere utilizzate come case-famiglia protette.

La volontà legislativa in siffatta maniera espressa, risponde alla precisa finalità di dare attuazione al dettato dell’art. 31 della Costituzione, salvaguardando lo sviluppo psicofisico del minore grazie alla presenza dei genitori, anche se condannati, evitando un lungo periodo di interruzione della funzione genitoriale.

A tali esigenze viene data rilevanza dal legislatore attraverso la creazione di un sistema sanzionatorio differenziato, sistema che consentirà al giudice, nell’ambito della discrezionalità accordatagli dagli artt. 132 e ss. c.p., di effettuare le opportune valutazioni al fine di rendere la pena adeguata, nella natura e nella misura, anche al recupero sociale del reo e, a tutela della funzione genitoriale, al rapporto genitori-figli.

2. La recente giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione specifica in siffatta maniera i presupposti per la concessione dei benefici penitenziari a favore dei detenuti con prole:

- Sentenza n. 1740 del 15/04/1994. In tema di detenzione domiciliare applicabile al condannato onde consentirgli di occuparsi della prole, la Corte Costituzionale ha dichiarato - con sentenza del 13 aprile 1990 n. 215 - l’illegittimità costituzionale dell’art. 47 "ter" n. 1 dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede che la detenzione domiciliare, concedibile alla madre di prole di età inferiore a tre anni, con lei convivente, possa essere concessa, nelle stesse condizioni, anche al padre detenuto, qualora la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole. L’interpretazione del citato art. 47 T.U. n. 1, sulla scorta della suddetta pronuncia, porta ad affermare che l’assoluta impossibilità della madre ad accudire la prole non può essere intesa in modo talmente rigido, da escludere la stessa applicazione del beneficio, nel senso di richiedere una difficoltà estrema, tale da superare le normali capacità reattive della persona, autonomamente considerata e nel contesto familiare. Ne consegue che, pur essendo attribuito al giudice del merito il potere-dovere di valutare discrezionalmente i requisiti richiesti dalla legge per la concessione della detenzione domiciliare, egli deve, tuttavia, dare adeguata motivazione del proprio convincimento.

Sentenza n. 2115 del 12/09/1996. La misura cautelare personale della custodia in carcere può essere adottata nei confronti di una donna incinta o con un figlio minore di tre anni solo quando sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Il giudice deve infatti bilanciare le esigenze di difesa processuale o sociale con la particolare situazione personale dell’indagata. Le esigenze cautelari devono far riferimento ad un pericolo non comune rilevabile da fatti concreti e non possono essere desunte semplicemente dalla gravità del titolo di reato ne’ dall’appartenenza dell’indagata ad una comunità, quella nomade, le cui abitudini di vita sono ritenute incompatibili con l’effettiva efficacia di cautele gradate rispetto alla custodia cautelare in carcere.

Sentenza n. 795 del 14/02/1996. In tema di provvedimenti coercitivi, la "ratio" della limitazione al potere del giudice di scegliere la misura cautelare personale, introdotta dall’art. 5 legge 8 agosto 1995, n. 332, che ha modificato l’art. 275, quarto comma, cod. proc. pen., secondo cui non può essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo casi eccezionali, quando imputati siano donna incinta o madre di prole di età inferiore ai tre anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, va individuata nell’avvertita esigenza di garantire ai figli l’assistenza familiare in un momento particolarmente significativo e qualificante della loro formazione fisica e, soprattutto, psichica, qual’è quello fino ai tre anni; con il superamento di tale limite di età può, infatti, considerarsi concluso il primo e più importante ciclo formativo ed aperto uno nuovo, nel quale le esigenze della prole possono essere soddisfatte da un qualsiasi altro congiunto ed, all’occorrenza, dai pubblici istituti a ciò deputati. Non è pertanto consentito interpretare estensivamente la norma fino a ricomprendere nel divieto ivi previsto ulteriori ipotesi, non espressamente contemplate, in cui si deduca la necessità, da parte dell’indagato, di prestare assistenza a familiari diversi da quelli indicati nella disposizione predetta. (In applicazione di detto principio la Corte ha ritenuto la legittimità del provvedimento con il quale era stata respinta la richiesta di sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, avanzata sul presupposto della necessità, da parte dell’indagato, di assistere un figlio portatore di handicap e perciò bisognevole di cure continue).

Sentenza n. 1784 del 20/05/1992. Il divieto di disporre la custodia cautelare in carcere nei confronti di donna incinta, salvo che in presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, richiede - di norma - un previo apprezzamento di fatto della condizione della donna. Ove tale condizione non sia già palese e procedimentalmente accertata, essa deve tempestivamente formare oggetto di un onere di allegazione, al fine di poter essere considerata in rapporto alle esigenze cautelari. Non assolvendosi a tale onere, non potrà per tale causa denunciarsi l’illegittimità del provvedimento applicativo ex art. 275, comma quarto, cod. proc. pen..

Sentenza n. 35286 del 02/09/2008. È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma primo, lett. s), della L. 22 aprile 2005, n. 69, dedotta con riferimento agli artt. 2, 3, 10, 29 e 30 Cost., nella parte in cui il motivo di rifiuto riguardante la consegna esecutiva di un mandato d’arresto europeo emesso nei confronti di una donna "incinta o madre di prole d’età inferiore a tre anni con lei convivente" non si applica anche al coniuge e padre di prole minore di tre anni, stante la palese non equiparabilità delle due situazioni, che il legislatore ha inteso differenziare in considerazione dell’assoluta peculiarità della tutela del rapporto madre-figlio in tenera età.

Sentenza n. 42516 del 16/07/2009. In tema di provvedimenti coercitivi, il divieto di disporre la custodia cautelare in carcere, previsto dall’art. 275, comma quarto cod. proc. pen., costituendo norma eccezionale, non è applicabile estensivamente ad altre ipotesi non espressamente contemplate. (In applicazione di detto principio, la Corte ha ritenuto la legittimità del provvedimento con il quale era stata respinta la richiesta di sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, avanzata da parte dell’indagato sul presupposto della imminente gravidanza della moglie, impossibilitata pertanto ad assistere gli altri figli minori).

- Sentenza n. 16441 del 10/02/2010. La detenzione domiciliare non è soggetta a revoca automatica per il solo fatto che il soggetto ammesso al beneficio venga successivamente sottoposto ad una misura cautelare, dovendo invece verificarsi in concreto se gli elementi indicati nell’ordinanza di custodia cautelare siano o meno sintomatici del fallimento dell’esperimento rieducativo ovvero di un concreto pericolo di commissione di altri reati.

3. Dalla disamina della giurisprudenza, risulta evidente la esigenza di salvaguare il finalismo rieducativo sancito nell’art. 27 Cost. co. 3, nonchè la necessità di evitare possibili strumentalizzazioni, sempre dovendo privilegiarsi il reale interesse del minore. La funzione della prevenzione speciale, in questo caso più che mai, fa riferimento ad un concetto di relazione, favorendo la necessità del reinserimento del reo nella comunità dalla quale si era estraniato.

Peraltro, la rieducazione deve passare da un lato necessariamente dalla preventiva creazione di motivazioni che inducano ai comportamento socialmente corretti, e, dall’altro, essa non può che realizzarsi attraverso strumenti pedagogici tendenti alla responsabilizzazione e alla consapevolezza della conseguenza delle proprie azioni; pertanto, accanto all’ideologia dei diritti del condannato, occorre affermare anche quella dei doveri.

Nel Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, c’è un brano molto significativo, quello in cui la volpe chiede di essere addomesticata: il piccolo principe vuole giocare con la volpe che ha appena incontrato ma la volpe spiega che non può giocare perché non è addomesticata; il piccolo principe è sconcertato, allora la volpe aggiunge che “addomesticare”significa “creare dei legami”, e prosegue: “…se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica…”.

1. Stato della normativa.

2. Orientamenti della Suprema Corte di Cassazione.

3. Funzione di prevenzione generale e speciale.

1. L’art. 11 della legge n. 354 del 26 luglio 1975 "ordinamento penitenziario" al comma 9 consente alle detenute madri di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni. Per la cura e l’assistenza dei bambini l’Amministrazione penitenziaria deve organizzare appositi asili nido secondo le modalità indicate dall’art. 19 del Regolamento di esecuzione - D.P.R. 30 giugno 2000.

L’art. 47 ter della citata legge prevedeva, tra le misure alternative alla detenzione, che le detenute madri di bambini di età inferiore ai tre anni conviventi potessero espiare la pena presso la propria abitazione od in altro luogo pubblico di cura o di assistenza, entro i limiti consentiti dalla legge.

L’art. 4 della legge 165/98 ha esteso la possibilità di usufruire della detenzione domiciliare alle detenute madri di bambini di età inferiore ai dieci anni, sempre che non debbano scontare pene per gravi reati di cui agli artt. 90 e 94 del testo unico 309/90.

La legge 8 marzo 2001 n. 40 ha ampliato l’operatività degli istituti del rinvio obbligatorio e facoltativo della pena per madri di prole inferiore rispettivamente ad uno e tre anni, introdotto un’ipotesi "speciale" di detenzione domiciliare (art. 47 quinquies, ord. penit.) e un’ ipotesi di assistenza di figli minori all’esterno del carcere (art. 21 bis, ord. penit.).

La scorsa settimana, la Camera dei Deputati ha approvato il testo unificato delle proposte di legge Brugger e Zeller; Bernardini ed altri; Ferranti ed altri recante Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori (C.52 - C.1814 -C.2011-1). Il provvedimento passa ora all’esame dell’altro ramo del Parlamento.

I punti salienti del provvedimento sono:

• Custodia cautelare. Viene aumentata da tre a sei anni l’età del bambino al di sotto della quale non può essere disposta o mantenuta la custodia cautelare della madre in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza (art. 275 co.4 cpp). In presenza di tali esigenze, attraverso l’introduzione dell’art. 285-bis c.p.p. si prevede la possibilità di disporre la custodia cautelare della donna incinta, della madre di prole di età non superiore ai sei anni in un istituto a custodia attenuata per detenute madri (ICAM), sempre che le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza lo consentano;

• Diritto di visita al minore infermo, anche non convivente, da parte della madre detenuta o imputata. Attraverso l’introduzione dell’art. 21-ter nell’ordinamento penitenziario, viene stabilito l’obbligo per il magistrato di sorveglianza o, in ipotesi di assoluta urgenza, per il direttore dell’istituto, di concedere il permesso alla detenuta o all’imputata di visitare il minore malato in imminente pericolo di vita o in gravi condizioni di salute, e di assisterlo durante le visite specialistiche con modalità che, nel caso di ricovero ospedaliero, devono tener conto della durata del ricovero e del decorso della patologia;

• Detenzione domiciliare (articolo 47-ter) e detenzione domiciliare speciale (art. 47-quinquies O.P.). La novella prevede che la donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente possa espiare la pena della reclusione non superiore a quattro anni, nonché la pena dell’arresto anche presso una casa famiglia protetta (oltre che nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza).L’attuale art. 47 quinquies, in materia di detenzione domiciliare speciale delle condannate madri di prole di età non superiore a dieci anni, prevede che, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, le detenute madri possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l’espiazione di almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo. Il nuovo comma 1-bis dispone che il terzo della pena o almeno quindici anni possano essere espiati presso un ICAM, o, se non sussiste in concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o concreto pericolo di fuga, nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza; in caso di impossibilità di espiare la pena nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora presso le case famiglia protette allo scopo realizzate. Tale disciplina non si applica, tuttavia, nel caso di condanna per i reati di grave allarme sociale di cui all’articolo 4-bis O.P.;

• Individuazione di case-famiglia protette. Spetterà ad un decreto del Ministro della giustizia la definizione delle caratteristiche tipologiche delle medesime (anche con riferimento ai sistemi di sorveglianza e di sicurezza) e, sulla base di tali caratteristiche, l’individuazione delle strutture gestite da enti pubblici o privati idonee ad essere utilizzate come case-famiglia protette.

La volontà legislativa in siffatta maniera espressa, risponde alla precisa finalità di dare attuazione al dettato dell’art. 31 della Costituzione, salvaguardando lo sviluppo psicofisico del minore grazie alla presenza dei genitori, anche se condannati, evitando un lungo periodo di interruzione della funzione genitoriale.

A tali esigenze viene data rilevanza dal legislatore attraverso la creazione di un sistema sanzionatorio differenziato, sistema che consentirà al giudice, nell’ambito della discrezionalità accordatagli dagli artt. 132 e ss. c.p., di effettuare le opportune valutazioni al fine di rendere la pena adeguata, nella natura e nella misura, anche al recupero sociale del reo e, a tutela della funzione genitoriale, al rapporto genitori-figli.

2. La recente giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione specifica in siffatta maniera i presupposti per la concessione dei benefici penitenziari a favore dei detenuti con prole:

- Sentenza n. 1740 del 15/04/1994. In tema di detenzione domiciliare applicabile al condannato onde consentirgli di occuparsi della prole, la Corte Costituzionale ha dichiarato - con sentenza del 13 aprile 1990 n. 215 - l’illegittimità costituzionale dell’art. 47 "ter" n. 1 dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede che la detenzione domiciliare, concedibile alla madre di prole di età inferiore a tre anni, con lei convivente, possa essere concessa, nelle stesse condizioni, anche al padre detenuto, qualora la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole. L’interpretazione del citato art. 47 T.U. n. 1, sulla scorta della suddetta pronuncia, porta ad affermare che l’assoluta impossibilità della madre ad accudire la prole non può essere intesa in modo talmente rigido, da escludere la stessa applicazione del beneficio, nel senso di richiedere una difficoltà estrema, tale da superare le normali capacità reattive della persona, autonomamente considerata e nel contesto familiare. Ne consegue che, pur essendo attribuito al giudice del merito il potere-dovere di valutare discrezionalmente i requisiti richiesti dalla legge per la concessione della detenzione domiciliare, egli deve, tuttavia, dare adeguata motivazione del proprio convincimento.

Sentenza n. 2115 del 12/09/1996. La misura cautelare personale della custodia in carcere può essere adottata nei confronti di una donna incinta o con un figlio minore di tre anni solo quando sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Il giudice deve infatti bilanciare le esigenze di difesa processuale o sociale con la particolare situazione personale dell’indagata. Le esigenze cautelari devono far riferimento ad un pericolo non comune rilevabile da fatti concreti e non possono essere desunte semplicemente dalla gravità del titolo di reato ne’ dall’appartenenza dell’indagata ad una comunità, quella nomade, le cui abitudini di vita sono ritenute incompatibili con l’effettiva efficacia di cautele gradate rispetto alla custodia cautelare in carcere.

Sentenza n. 795 del 14/02/1996. In tema di provvedimenti coercitivi, la "ratio" della limitazione al potere del giudice di scegliere la misura cautelare personale, introdotta dall’art. 5 legge 8 agosto 1995, n. 332, che ha modificato l’art. 275, quarto comma, cod. proc. pen., secondo cui non può essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo casi eccezionali, quando imputati siano donna incinta o madre di prole di età inferiore ai tre anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, va individuata nell’avvertita esigenza di garantire ai figli l’assistenza familiare in un momento particolarmente significativo e qualificante della loro formazione fisica e, soprattutto, psichica, qual’è quello fino ai tre anni; con il superamento di tale limite di età può, infatti, considerarsi concluso il primo e più importante ciclo formativo ed aperto uno nuovo, nel quale le esigenze della prole possono essere soddisfatte da un qualsiasi altro congiunto ed, all’occorrenza, dai pubblici istituti a ciò deputati. Non è pertanto consentito interpretare estensivamente la norma fino a ricomprendere nel divieto ivi previsto ulteriori ipotesi, non espressamente contemplate, in cui si deduca la necessità, da parte dell’indagato, di prestare assistenza a familiari diversi da quelli indicati nella disposizione predetta. (In applicazione di detto principio la Corte ha ritenuto la legittimità del provvedimento con il quale era stata respinta la richiesta di sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, avanzata sul presupposto della necessità, da parte dell’indagato, di assistere un figlio portatore di handicap e perciò bisognevole di cure continue).

Sentenza n. 1784 del 20/05/1992. Il divieto di disporre la custodia cautelare in carcere nei confronti di donna incinta, salvo che in presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, richiede - di norma - un previo apprezzamento di fatto della condizione della donna. Ove tale condizione non sia già palese e procedimentalmente accertata, essa deve tempestivamente formare oggetto di un onere di allegazione, al fine di poter essere considerata in rapporto alle esigenze cautelari. Non assolvendosi a tale onere, non potrà per tale causa denunciarsi l’illegittimità del provvedimento applicativo ex art. 275, comma quarto, cod. proc. pen..

Sentenza n. 35286 del 02/09/2008. È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma primo, lett. s), della L. 22 aprile 2005, n. 69, dedotta con riferimento agli artt. 2, 3, 10, 29 e 30 Cost., nella parte in cui il motivo di rifiuto riguardante la consegna esecutiva di un mandato d’arresto europeo emesso nei confronti di una donna "incinta o madre di prole d’età inferiore a tre anni con lei convivente" non si applica anche al coniuge e padre di prole minore di tre anni, stante la palese non equiparabilità delle due situazioni, che il legislatore ha inteso differenziare in considerazione dell’assoluta peculiarità della tutela del rapporto madre-figlio in tenera età.

Sentenza n. 42516 del 16/07/2009. In tema di provvedimenti coercitivi, il divieto di disporre la custodia cautelare in carcere, previsto dall’art. 275, comma quarto cod. proc. pen., costituendo norma eccezionale, non è applicabile estensivamente ad altre ipotesi non espressamente contemplate. (In applicazione di detto principio, la Corte ha ritenuto la legittimità del provvedimento con il quale era stata respinta la richiesta di sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, avanzata da parte dell’indagato sul presupposto della imminente gravidanza della moglie, impossibilitata pertanto ad assistere gli altri figli minori).

- Sentenza n. 16441 del 10/02/2010. La detenzione domiciliare non è soggetta a revoca automatica per il solo fatto che il soggetto ammesso al beneficio venga successivamente sottoposto ad una misura cautelare, dovendo invece verificarsi in concreto se gli elementi indicati nell’ordinanza di custodia cautelare siano o meno sintomatici del fallimento dell’esperimento rieducativo ovvero di un concreto pericolo di commissione di altri reati.

3. Dalla disamina della giurisprudenza, risulta evidente la esigenza di salvaguare il finalismo rieducativo sancito nell’art. 27 Cost. co. 3, nonchè la necessità di evitare possibili strumentalizzazioni, sempre dovendo privilegiarsi il reale interesse del minore. La funzione della prevenzione speciale, in questo caso più che mai, fa riferimento ad un concetto di relazione, favorendo la necessità del reinserimento del reo nella comunità dalla quale si era estraniato.

Peraltro, la rieducazione deve passare da un lato necessariamente dalla preventiva creazione di motivazioni che inducano ai comportamento socialmente corretti, e, dall’altro, essa non può che realizzarsi attraverso strumenti pedagogici tendenti alla responsabilizzazione e alla consapevolezza della conseguenza delle proprie azioni; pertanto, accanto all’ideologia dei diritti del condannato, occorre affermare anche quella dei doveri.

Nel Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, c’è un brano molto significativo, quello in cui la volpe chiede di essere addomesticata: il piccolo principe vuole giocare con la volpe che ha appena incontrato ma la volpe spiega che non può giocare perché non è addomesticata; il piccolo principe è sconcertato, allora la volpe aggiunge che “addomesticare”significa “creare dei legami”, e prosegue: “…se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica…”.