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Rapporto fra logica e diritto e circolo ermeneutico

L’ermeneutica in Heidegger e Gadamer
Abstract:

In questo scritto si esaminano brevemente i rapporti fra logica e diritto, per arrivare a una sintetica descrizione dell’insufficienza del modello sillogistico, ai fini dell’attività ermeneutica, rispetto alle proposizioni legislative, e una ricognizione del concetto di “circolo ermeneutico”.

DIRITTO LOGICA E CIRCOLO ERMENEUTICO

Una certa corrente di pensiero (neopositivismo) scinde il diritto dalla logica, perché si reputa quest’ultima collegabile solo a contenuti per i quali possono formularsi un giudizio di verità o falsità. L’opinione adesso riferita connette la logica alla certezza, postulandosi l’esistenza di un concetto “assoluto” di quest’ultima, quando l’uomo non ha strumenti che consentono di pervenire all’assenza di dubbi. La connessione fra verità-falsità e logica si avverte nell’elaborazione riguardante le cc.dd. “tavole di verità”, in cui, dati i valori di verità-falsità delle singole proposizioni coinvolte, si ottengono i valori di verità della proposizione di partenza.

Ecco un esempio:

Proposizione A/ Proposizione B Date sue proposizioni, la tabella riprodotta specifica le possibilità, che possono aversi, in termini di verità e falsità delle medesime.

      V V
       V F
      F V
     F F

 

Nonostante questa innegabile connessione con il concetto di verità, propria della logica “ortodossa”, occorre rilevare come si pervenga a differenti gradazioni di “certezza”, potendo il concetto variare anche in rapporto alla rappresentazione che ciascuno dà di un certo accadimento. Si aggiunga che la nozione di certezza, di per sé, non è estranea al diritto, perché è nota l’espressione “certezza del diritto”, attraverso il cui perseguimento si mira a ottenere un’univoca lettura della disciplina, da applicare alle situazioni concrete. Nonostante che l’oscillazione degli orientamenti giurisprudenziali possa scalfire la certezza del diritto (ma talvolta una pluralità di opinioni diverse può produrre un più attento ragionamento sul caso specifico e favorirne una soluzione più accurata), non potendosi avere la piena sicurezza che, in futuro, situazioni analoghe saranno trattate in modo eguale, il tentativo precipuo è pur sempre quello di pervenire a un certo grado di ordine. All’apodittica affermazione della separazione del diritto dalla logica, può ribattersi come sia necessario che il diritto abbia una sua intrinseca razionalità, in quanto, in caso contrario, non sarebbe giustificata la sua cogenza (per quali ragioni dovrebbe ritenersi vincolante il precetto giuridico, costruito dal Legislatore, e non i precetti improvvisati dall’uomo della strada ?). L’esigenza di una coerenza e intelligibilità del “senso” delle disposizioni normative si giustifica all’origine, come caratteristica di base, che consente al diritto di dirimere conflitti.

La medesima esigenza emerge nell’attività interpretativa, che va svolta in maniera non caotica e mirando a individuare la “ragion d’essere” delle disposizioni; solo un percorso “logicamente orientato” può consentire di giustificare una certa interpretazione, rispetto a un’altra e, poiché l’interpretazione è essenzialmente un processo “conoscitivo”, essa non può essere dissociata dallo svolgimento di un percorso logico nell’attività ermeneutica. Proprio l’ermeneutica è parte essenziale del diritto, ma essa è intesa in diversi modi: si può pensare che la medesima consenta di pervenire all’esatta percezione del significato di un testo di legge, attraverso un attento esame del percorso storico, che ha portato all’elaborazione del medesimo. La piena comprensione della disciplina esaminata si sviluppa, attraverso un ritorno al passato, che consente di impadronirsi del “senso storico” delle disposizioni (si pensi al concetto di “intenzione del Legislatore” e all’importanza, che si dà ai lavori preparatori, ai fini dell’interpretazione). Tale impostazione presuppone innegabilmente un percorso logico, ma esiste un’altra spiegazione del fenomeno forse più penetrante. Si nega la possibilità di rivivere appieno la situazione storica, che ha portato all’elaborazione di una certa legge, perché il contesto attuale influenza necessariamente il significato, che si attribuisce alla legge; esiste una “pre-comprensione” del testo di legge, collegato alle conoscenze che l’individuo ha già prima di attuare l’attività interpretativa, le quali condizionano l’interpretazione e non consentono un’esatta ricostruzione del contesto storico, che ha portato all’elaborazione di determinate disposizioni. Questo è, essenzialmente, ciò che s’intende con l’espressione “circolo ermeneutico”, in consonanza con la filosofia di Heidegger e Gadamer. Si tratta di un percorso, circolare appunto, che non ha termine, poiché il processo interpretativo può scoprire nuovi contenuti, prima non evidenziati, anche in rapporto all’assetto culturale dell’interprete, che varia nel tempo. La comprensione del presente è condizionata da quella del passato e viceversa. Pertanto, l’idea di riproporre lo spirito originario dell’autore di un testo normativo, appare utopistica, in quanto è impossibile individuare in maniera certa tale spirito, senza la presenza d’interferenze, derivanti dalle concezioni personali dell’interprete. Il compito dell’interprete di cogliere la verità può considerarsi incessante, in quanto le sfumature di significato sono pressoché inesauribili, anche in rapporto alle variazioni del significato di questo nel tempo.

Il circolo ermeneutico è già presente nella filosofia di Schleiermarcher (1768-1834), anche se manca un’esplicitazione del concetto e ci si colloca all’interno di un afflato religioso, in cui vi è separazione fra religione e morale.

Il filosofo Dilthey (1833-1911) elabora un pensiero, anch’esso consonante con l’idea del circolo ermeneutico, volto a distinguere il sapere storico dalla metafisica e dalle scienze naturali. Tale pensatore sostiene che la riproducibilità dei fatti storici possa avvenire solo entro certi limiti, in quanto a essi si affianca l’osservazione dei nostri stessi stati. In Dilthey assume rilievo il concetto di “Erlebnis”, consistente nell’originalità dell’esperienza vissuta. Quest’ultima è assunta come materia dal “comprendere storico”, il quale la comprende, attraverso il linguaggio.

Per Heidegger (1889-1976), la sistemazione giusta dell’”essere” è all’interno dell’ermeneutica; l’autore perviene a un concetto di verità, che oltrepassa i fatti e si presenta come “esser sempre”. In quest’ottica, la metafisica va spiegata come “storia della verità”. Compito del pensiero è corrispondere a ciò che si dà da pensare. Non si tratta di autoreferenzialità, nel senso che il pensiero è tenuto a pensare se medesimo, ma si presuppone un’apertura dello stesso all’”esserci nel mondo”. L’ermeneutica va intesa come comprensione e decifrazione del linguaggio, ambito, in cui l’essere si manifesta nella sua storicità. Per Heidegger la descrizione fenomenologica è essenzialmente “ermeneutica”: infatti, l’”essere” può essere compreso solo attraverso una presa in considerazione delle caratteristiche dell’”esserci” (analitica dell’esserci). L’interpretazione è caratteristica essenziale dell’”esserci” e si colloca tra “comprensione” e “asserzione”. “L’interpretazione si fonda sempre in una pre-visione che "assegna" il pre-disponibile ad una determinata interpretabilità. Il compreso, mantenuto nella pre-disponibilità e preso di mira "nella previsione", è elaborato concettualmente ad opera dell’interpretazione. L’interpretazione può far scaturire la concettualità appropriata all’ente da interpretare da questo ente stesso, o può elaborarla in concetti a cui questo contraddice [...] In ogni caso l’interpretazione ha già deciso. [...] Essa si fonda in una pre-cognizione." Interpretazione e comprensione si muovono in una pre-struttura (disponibilità, visione, cognizione); esse si collocano in un contesto precostituito di “significato” e questa posizione dei due concetti rende “circolare” il processo ermeneutico. "Ogni interpretazione si muove nella struttura del "pre" che abbiamo descritta. L’interpretazione, che è promotrice di nuova comprensione, deve aver già compreso l’interpretando. [...] Ma se l’interpretazione deve sempre muoversi nel compreso e nutrirsi di esso, come potrà condurre a risultati scientifici senza avvolgersi in un circolo, tanto più che la comprensione presupposta è costituita dalle convinzioni ordinarie degli uomini e del mondo in cui vivono? Le regole più elementari della logica ci insegnano che il circolo è circulus vitiosus."

Secondo Gadamer (1900-2002), Heidegger ha elaborato un’ermeneutica dell’affettività”. "Il comprendere [...] è [...] l’originario modo di attuarsi dell’esserci, che è essere-nel-mondo. Prima di qualunque differenziazione nelle diverse direzioni dell’interesse teorico o pratico, il comprendere è l’originario modo di attuarsi dell’esserci in quanto poter-essere e ’possibilità’." "Ogni comprensione è sempre in definitiva un’autocomprensione. [...] In questo senso si può dire di tutti i casi che chi comprende, comprende sé stesso, si progetta su possibilità che gli appartengono. [...] In verità, l’adeguarsi di ogni conoscente al conosciuto non è fondato sul fatto che essi hanno il medesimo modo d’essere, ma acquista il suo senso in base alla peculiarità del modo d’essere che essi hanno in comune. Questa consiste nel fatto che né il conoscente né il conosciuto sono ’onticamente’ ’semplicemente presenti’, ma sono ’storici’, cioè hanno il modo d’essere della storicità." Il processo interpretativo presuppone un assetto culturale preesistente nell’interpretante, che entra in osmosi con l’oggetto dell’interpretazione, in un processo circolare, nel senso che il conoscente acquisisce qualcosa, attraverso il tentativo di scoprire il significato di un testo scritto; ciò determina, nel medesimo conoscente, un mutamento, che influisce sulla successiva attività ermeneutica.

L’interpretazione non può essere neutrale, in quanto esiste una precomprensione. Ogni interprete rappresenta nella propria “mappa mentale” il senso dell’oggetto interpretato, secondo la propria forma mentis; da qui, la diversità delle interpretazioni dei medesimi testi normativi. "Chi si mette ad interpretare un testo attua sempre un progetto. Sulla base del più immediato senso che il testo gli esibisce, egli abbozza preliminarmente un significato del tutto. E anche il senso più immediato il testo lo esibisce solo in quanto lo si legge con certe attese determinate. La comprensione di ciò che si dà da comprendere consiste tutta nella elaborazione di questo progetto preliminare, che ovviamente viene continuamente riveduto in base a ciò che risulta dall’ulteriore penetrazione del testo. "

INSUFFICIENZA DEL SILLOGISMO COME STRUMENTO DI LOGICA GIURIDICA

L’interprete enuclea i contenuti del modello normativo astratto e verifica se il caso concreto può esser sussunto nella disposizione astratta.

Secondo una concezione rigida, risalente alla logica aristotelica, le valutazioni di “verità-falsità” appaiono non modificabili; in un momento successivo, si valorizza la non “monotonicità” delle affermazioni di contenuto logico, nel senso che esse possono assumere diversi valori di verità, all’interno di una medesima inferenza. Lo sviluppo in questi termini consente di avvicinare in misura maggiore linguaggio logico e giuridico, in quanto il diritto suole esprimere contenuti “revisionabili”; in quest’ottica si consolidano le c.d. “logiche intuizioniste”, le quali rifiutano la connessione vincolante fra i princìpi aristotelici d’identità e terzo escluso e danno spazio a una concezione più flessibile della categoria “verità – falsità”.

Al linguaggio giuridico si adatta la logica “deontica”, che ingloba enunciati, esprimenti un “dover essere”, all’interno di una visione, che reputa la dimensione logica, insufficiente a conseguire gli scopi, collegati alla produzione di norme giuridiche.

Le prime forme d’inferenze studiate dalla logica formale sono state le inferenze sillogistiche. Ci si può domandare se l’analisi del linguaggio giuridico possa rettamente condursi, solo basandosi sullo strumento del sillogismo.

„hIl metodo sillogistico si propone di risolvere ogni problema, attraverso la riflessione su proposizioni elementari (induzione/abduzione). Esse sono costituite da soggetto + predicato (p. es.: tutti gli uomini sono mortali). Pertanto, il sillogismo è: inferenza che ha per oggetto la connessione corretta (o valida) di termini

Un approccio alla logica sillogistica può riferirsi a premesse generali e allora avremo “ sillogismi deduttivi, che consentono di pervenire a conclusioni particolari; si configureranno, invece, sillogismi induttivi, in ipotesi d’inferenze non-necessarie da premesse particolari a conclusioni generali.

Il ricorso ai sillogismi, peraltro, non è sufficiente a comprendere in modo pieno e approfondito il linguaggio giuridico, in quanto si è, in un primo tempo, sopravvalutata la portata di questi strumenti, così come l’evoluzione successiva ha rilevato.

Spesso l’ordinamento non disciplina compiutamente ogni aspetto della realtà, potendosi riscontrare in esso anche lacune macroscopiche, specialmente con riferimento a settori e a esigenze “nuove”, l’affidarsi solo ai sillogismi, in questa ipotesi, conduce all’impossibilità di dipanare le varie questioni giuridiche, così come non consente di cogliere il processo di ragionamento, posto a base della decisione giudiziale, specialmente laddove vengano in considerazione pluralità di argomenti, i quali pervengano sulla medesima questione a risultati divergenti. Il sillogismo consente di realizzare il principio di eguaglianza formale, ma non consente di modulare la decisione del Giudicante alle sfaccettature del caso concreto, attuando l’eguaglianza sostanziale. Il sillogismo non riesce ad affrontare argomenti multipli e non tollera la procedura, che è alla base delle decisioni giudiziarie, le quali, appunto, scaturiscono da un processo.

Questi limiti del modello sillogistico inducono a costruire una logica giuridica, idonea a colmare tali mancanze. E’, al riguardo, auspicabile accogliere una nozione più ampia di “argomento”, in modo da inglobare in essa le varie ipotesi, in cui su una medesima questione possono sostenersi tesi diverse, adoperando un diverso ragionamento. I vari argomenti vanno posti in relazione fra essi, in modo da percepire il “dialogo”, che si svolge fra gli operatori del diritto; lo strumento sillogistico, con la sua tendenza semplificatrice, non consente lo sviluppo di una dialettica fra opinioni contrapposte. L’argomento deduttivo, che in ambito sillogistico ha grande spazio, non è l’unico a esser presente in logica giuridica, in quanto, spesso, talune conclusioni sono provvisorie, potendo essere contraddette da successive eccezioni. Va, inoltre, tenuto presente che le decisioni su singoli casi concreti vengono prese, tenendo conto dei “precedenti” e aspetti di questo genere sono “esterni”, rispetto alla logica sillogistica.

E’ necessario, altresì, cogliere la logica delle relazioni fra gli argomenti, in modo da individuare, quando essi costituiscano una molteplicità, quali siano “difendibili”, quali vincitori e quali irrilevanti. Bisogna costruire una mappa di argomenti e contro-argomenti, per comprendere quale tesi giuridica debba prevalere. Quando si è in presenza di elementi contraddittori, si tenta di enucleare degli argomenti specifici, per pervenire a una conclusione plausibile. Da quanto detto, emerge come il sillogismo non rappresenti uno strumento logico idoneo, al fine di ricostruire il ragionamento, effettuato dal Giudice. In caso contrario, l’attività del giudice risulterebbe meramente meccanica, in quanto Questi sarebbe tenuto a costruire un sillogismo, la cui premessa maggiore sia una disposizione di legge e quella minore un fatto, processualmente accertato, da cui dovrebbe derivare una conclusione sicura, racchiudente il dispositivo della sentenza. Questa concezione (che risale al Beccaria) non tiene conto dell’esigenza di distinguere, nel ragionamento giudiziale, una giustificazione interna e un’esterna. La prima, che consta di due premesse e una conclusione, coerente con queste, s’identifica nel caratteristico sillogismo giudiziale. La giustificazione esterna è quella della premessa maggiore del sillogismo giudiziale, nonché di quella minore. Essa ha carattere logico-deduttivo. In certe ipotesi, quando l’applicazione della legge sia agevole, la giustificazione esterna della premessa maggiore del sillogismo giudiziale è stringata; nei casi più complessi, sarà maggiormente articolata; quest’ultima eventualità si presenta, quando la legge non disciplini interamente un determinato settore, potendosi riscontrare delle lacune, che tocca al giudice colmare, attraverso ulteriori strumenti (analogia, ricorso ai princìpi generali dell’ordinamento). La giustificazione esterna può leggersi come un “polisillogismo” o un “sorite” (vale a dire una catena di sillogismi, caratterizzata dall’assenza di qualche elemento), in cui non è presente un nesso deduttivo tra i vari sillogismi.

Come può rilevarsi, la ricostruzione del ragionamento del Giudice, in termini di giustificazione interna - esterna si sovrappone alla visione semplicistica del sillogismo giudiziale, ma non sembra accantonare tale strumento, che viene ricollocato, invece, in un contesto più articolato.

Secondo un’opinione, nel ragionamento giudiziale si manifesta la presenza di un’attività interpretativa, che non è solo indicazione della conformità di una certa norma, estrapolata da una disposizione di legge, alla volontà del Legislatore, ma anche accoglimento del principio, secondo cui tutte le disposizioni di legge vanno interpretate, in conformità alla Volontà del legislatore. Ci si può domandare se tale assunto sia vero in tutti i casi, o se non sia più realistico ritenere che, in certi casi, i Giudici prescindano, in tutto o in parte, dall’intenzione del Legislatore, quando intendano avallare talune interpretazioni evolutive. Può aggiungersi che la medesima comprensione della “intenzione del legislatore” non è sempre agevole a essa possono sovrapporsi giudizi di valore, la cui adozione può condurre anche a rappresentazioni assai diverse dell’intenzione in parola. Si è rilevato come l’attività interpretativa del Giudice dovrebbe a monte effettuare, attraverso una o più direttive interpretative, una cernita fra gli strumenti ermeneutici, posti a disposizione, in modo da stabilire, sia pure a livello orientativo, un ordine di priorità. Si potrebbe attribuire una prima rilevanza all’argomento letterale, per poi passare a un esame dell’intenzione del Legislatore e arrivare a considerare gli scopi, per i quali la disposizione è inserita all’interno del sistema di disciplina. Occorrerà, ancora, elaborare un principio metodologico d’interpretazione, in modo da desumere quando le disposizioni siano valide e, correlativamente, quando le norme ricavate dalle medesime siano frutto di un’interpretazione non infondata in diritto. L’argomentazione giudiziale avrà carattere normativo, in quanto si tratta di risolvere un caso concreto, tramite un dispositivo, che scaturisca dall’intera attività ermeneutica del Giudice.

L’iter del ragionamento del Giudice potrebbe essere “idealizzato”, per pervenirsi all’affermazione che, in un determinato sviluppo della soluzione di un caso concreto, il Giudicante si sia avvalso di tutti i possibili argomenti, in astratto sviluppabili, li abbia effettivamente sviluppati, senza limiti di tempo, tenendo conto delle obiezioni, relative ai medesimi (c.d. “modello riflessivo ampliato”). Una tale concezione, se può valere come modello astratto di comparazione, non ha rilievo, in quanto presuppone condizioni non empiricamente verificabili. Da queste premesse, si potrebbe sviluppare un modello più realistico, al fine di rappresentare i termini generali l’attività interpretativa del Giudice. Il modello riflessivo ampliato è stato, a volte, tenuto presente come paradigma, per arrivare a conclusioni più realistiche.

Al riguardo, si può argomentare, sostenendo che le regole di una procedura “ideale” possano, in concreto, essere applicate solo in parte, in quanto sono assenti le condizioni, per ottenere un’applicazione piena e fedele del modello ideale teorizzato. L’adozione di un siffatto sistema di pensiero blocca la possibilità che si pervenga senza dubbio alla costruzione di un modello razionale, in quanto non si stabilisce la misura delle obiezioni, che occorre confutare, né le ragioni e argomenti, che occorre addurre. Affermandosi che non è, in concreto, possibile adempiere tutte le caratteristiche del modello razionale ideale, appare coerente concludere nel senso che un’adozione parziale del medesimo comporti un argomentare irrazionale o, quantomeno, non sufficientemente razionale. Si può sostenere una concezione non ideale della razionalità, orientandosi nel senso che è opportuno rispettare quante più condizioni possibili del modello ideale di razionalità, ma ciò può comportare la presenza di requisiti, non ideali, tali da limitare, nella quantità e nella qualità, le obiezioni, cui è possibile dare risposta e può apparire, in taluni casi, razionale non adempiere determinate condizioni del modello ideale. Dovrà, in concreto, presupporsi la presenza di questi requisiti “non ideali”, perché si pervenga a un argomentare razionale.

Secondo Habermas, posto che non è possibile realizzare appieno un modello ideale, è necessario stabilire talune pre-condizioni “istituzionali”, al fine di costruire un discorso razionale. Queste pre-condizioni, peraltro, non farebbero parte del modello razionale, ma si collocherebbero al di fuori del medesimo. Proprio questa conclusione rende parzialmente incoerente la teoria in esame, in quanto non si riesce a comprendere perché questi requisiti non dovrebbero far parte del modello razionale; ove essi debbano esser rispettati, ciò implica che è razionale farlo, ma è in contraddizione con l’idea che i medesimi siano estranei al modello razionale.

Talvolta, alla nozione di razionalità si sovrappone quella di “oggettività”, la quale spesso non si caratterizza in modo sufficiente dal primo concetto, in quanto la medesima viene anch’essa inglobata in un modello astratto, non ottenibile in concreto. Sul piano conoscitivo, appare più coerente separare adeguatamente oggettività e razionalità, potendosi anche presupporre che i due concetti siano non contestualmente presenti. Ciò si potrebbe, per esempio, attuare inglobando nell’”oggettività” alcuni requisiti, collegati al concetto di “correttezza”, in modo da separare la nozione da quella di razionalità.

Quando si discorre di razionalità, occorre sempre avvertire che talvolta un Giudicante può crearsi una propria visione del mondo, corrispondente, secondo la sua ottica personale, a piena razionalità, senza che ciò trovi un preciso riscontro oggettivo.

Pertanto, ciascun Giudicante non deve lasciarsi fuorviare da inferenze fallaci, dovrà, ove vi sia una gamma più o meno ampia di scelte, individuare il criterio d’inferenza più idoneo in concreto e pervenire a un corretto coefficiente di probabilità logica, in rapporto all’inferenza utilizzata, eventualmente avvalendosi simultaneamente di più inferenze “deboli”, ove manchi un’inferenza “forte”.

 
Abstract:

In questo scritto si esaminano brevemente i rapporti fra logica e diritto, per arrivare a una sintetica descrizione dell’insufficienza del modello sillogistico, ai fini dell’attività ermeneutica, rispetto alle proposizioni legislative, e una ricognizione del concetto di “circolo ermeneutico”.

DIRITTO LOGICA E CIRCOLO ERMENEUTICO

Una certa corrente di pensiero (neopositivismo) scinde il diritto dalla logica, perché si reputa quest’ultima collegabile solo a contenuti per i quali possono formularsi un giudizio di verità o falsità. L’opinione adesso riferita connette la logica alla certezza, postulandosi l’esistenza di un concetto “assoluto” di quest’ultima, quando l’uomo non ha strumenti che consentono di pervenire all’assenza di dubbi. La connessione fra verità-falsità e logica si avverte nell’elaborazione riguardante le cc.dd. “tavole di verità”, in cui, dati i valori di verità-falsità delle singole proposizioni coinvolte, si ottengono i valori di verità della proposizione di partenza.

Ecco un esempio:

Proposizione A/ Proposizione B Date sue proposizioni, la tabella riprodotta specifica le possibilità, che possono aversi, in termini di verità e falsità delle medesime.

      V V
       V F
      F V
     F F

 

Nonostante questa innegabile connessione con il concetto di verità, propria della logica “ortodossa”, occorre rilevare come si pervenga a differenti gradazioni di “certezza”, potendo il concetto variare anche in rapporto alla rappresentazione che ciascuno dà di un certo accadimento. Si aggiunga che la nozione di certezza, di per sé, non è estranea al diritto, perché è nota l’espressione “certezza del diritto”, attraverso il cui perseguimento si mira a ottenere un’univoca lettura della disciplina, da applicare alle situazioni concrete. Nonostante che l’oscillazione degli orientamenti giurisprudenziali possa scalfire la certezza del diritto (ma talvolta una pluralità di opinioni diverse può produrre un più attento ragionamento sul caso specifico e favorirne una soluzione più accurata), non potendosi avere la piena sicurezza che, in futuro, situazioni analoghe saranno trattate in modo eguale, il tentativo precipuo è pur sempre quello di pervenire a un certo grado di ordine. All’apodittica affermazione della separazione del diritto dalla logica, può ribattersi come sia necessario che il diritto abbia una sua intrinseca razionalità, in quanto, in caso contrario, non sarebbe giustificata la sua cogenza (per quali ragioni dovrebbe ritenersi vincolante il precetto giuridico, costruito dal Legislatore, e non i precetti improvvisati dall’uomo della strada ?). L’esigenza di una coerenza e intelligibilità del “senso” delle disposizioni normative si giustifica all’origine, come caratteristica di base, che consente al diritto di dirimere conflitti.

La medesima esigenza emerge nell’attività interpretativa, che va svolta in maniera non caotica e mirando a individuare la “ragion d’essere” delle disposizioni; solo un percorso “logicamente orientato” può consentire di giustificare una certa interpretazione, rispetto a un’altra e, poiché l’interpretazione è essenzialmente un processo “conoscitivo”, essa non può essere dissociata dallo svolgimento di un percorso logico nell’attività ermeneutica. Proprio l’ermeneutica è parte essenziale del diritto, ma essa è intesa in diversi modi: si può pensare che la medesima consenta di pervenire all’esatta percezione del significato di un testo di legge, attraverso un attento esame del percorso storico, che ha portato all’elaborazione del medesimo. La piena comprensione della disciplina esaminata si sviluppa, attraverso un ritorno al passato, che consente di impadronirsi del “senso storico” delle disposizioni (si pensi al concetto di “intenzione del Legislatore” e all’importanza, che si dà ai lavori preparatori, ai fini dell’interpretazione). Tale impostazione presuppone innegabilmente un percorso logico, ma esiste un’altra spiegazione del fenomeno forse più penetrante. Si nega la possibilità di rivivere appieno la situazione storica, che ha portato all’elaborazione di una certa legge, perché il contesto attuale influenza necessariamente il significato, che si attribuisce alla legge; esiste una “pre-comprensione” del testo di legge, collegato alle conoscenze che l’individuo ha già prima di attuare l’attività interpretativa, le quali condizionano l’interpretazione e non consentono un’esatta ricostruzione del contesto storico, che ha portato all’elaborazione di determinate disposizioni. Questo è, essenzialmente, ciò che s’intende con l’espressione “circolo ermeneutico”, in consonanza con la filosofia di Heidegger e Gadamer. Si tratta di un percorso, circolare appunto, che non ha termine, poiché il processo interpretativo può scoprire nuovi contenuti, prima non evidenziati, anche in rapporto all’assetto culturale dell’interprete, che varia nel tempo. La comprensione del presente è condizionata da quella del passato e viceversa. Pertanto, l’idea di riproporre lo spirito originario dell’autore di un testo normativo, appare utopistica, in quanto è impossibile individuare in maniera certa tale spirito, senza la presenza d’interferenze, derivanti dalle concezioni personali dell’interprete. Il compito dell’interprete di cogliere la verità può considerarsi incessante, in quanto le sfumature di significato sono pressoché inesauribili, anche in rapporto alle variazioni del significato di questo nel tempo.

Il circolo ermeneutico è già presente nella filosofia di Schleiermarcher (1768-1834), anche se manca un’esplicitazione del concetto e ci si colloca all’interno di un afflato religioso, in cui vi è separazione fra religione e morale.

Il filosofo Dilthey (1833-1911) elabora un pensiero, anch’esso consonante con l’idea del circolo ermeneutico, volto a distinguere il sapere storico dalla metafisica e dalle scienze naturali. Tale pensatore sostiene che la riproducibilità dei fatti storici possa avvenire solo entro certi limiti, in quanto a essi si affianca l’osservazione dei nostri stessi stati. In Dilthey assume rilievo il concetto di “Erlebnis”, consistente nell’originalità dell’esperienza vissuta. Quest’ultima è assunta come materia dal “comprendere storico”, il quale la comprende, attraverso il linguaggio.

Per Heidegger (1889-1976), la sistemazione giusta dell’”essere” è all’interno dell’ermeneutica; l’autore perviene a un concetto di verità, che oltrepassa i fatti e si presenta come “esser sempre”. In quest’ottica, la metafisica va spiegata come “storia della verità”. Compito del pensiero è corrispondere a ciò che si dà da pensare. Non si tratta di autoreferenzialità, nel senso che il pensiero è tenuto a pensare se medesimo, ma si presuppone un’apertura dello stesso all’”esserci nel mondo”. L’ermeneutica va intesa come comprensione e decifrazione del linguaggio, ambito, in cui l’essere si manifesta nella sua storicità. Per Heidegger la descrizione fenomenologica è essenzialmente “ermeneutica”: infatti, l’”essere” può essere compreso solo attraverso una presa in considerazione delle caratteristiche dell’”esserci” (analitica dell’esserci). L’interpretazione è caratteristica essenziale dell’”esserci” e si colloca tra “comprensione” e “asserzione”. “L’interpretazione si fonda sempre in una pre-visione che "assegna" il pre-disponibile ad una determinata interpretabilità. Il compreso, mantenuto nella pre-disponibilità e preso di mira "nella previsione", è elaborato concettualmente ad opera dell’interpretazione. L’interpretazione può far scaturire la concettualità appropriata all’ente da interpretare da questo ente stesso, o può elaborarla in concetti a cui questo contraddice [...] In ogni caso l’interpretazione ha già deciso. [...] Essa si fonda in una pre-cognizione." Interpretazione e comprensione si muovono in una pre-struttura (disponibilità, visione, cognizione); esse si collocano in un contesto precostituito di “significato” e questa posizione dei due concetti rende “circolare” il processo ermeneutico. "Ogni interpretazione si muove nella struttura del "pre" che abbiamo descritta. L’interpretazione, che è promotrice di nuova comprensione, deve aver già compreso l’interpretando. [...] Ma se l’interpretazione deve sempre muoversi nel compreso e nutrirsi di esso, come potrà condurre a risultati scientifici senza avvolgersi in un circolo, tanto più che la comprensione presupposta è costituita dalle convinzioni ordinarie degli uomini e del mondo in cui vivono? Le regole più elementari della logica ci insegnano che il circolo è circulus vitiosus."

Secondo Gadamer (1900-2002), Heidegger ha elaborato un’ermeneutica dell’affettività”. "Il comprendere [...] è [...] l’originario modo di attuarsi dell’esserci, che è essere-nel-mondo. Prima di qualunque differenziazione nelle diverse direzioni dell’interesse teorico o pratico, il comprendere è l’originario modo di attuarsi dell’esserci in quanto poter-essere e ’possibilità’." "Ogni comprensione è sempre in definitiva un’autocomprensione. [...] In questo senso si può dire di tutti i casi che chi comprende, comprende sé stesso, si progetta su possibilità che gli appartengono. [...] In verità, l’adeguarsi di ogni conoscente al conosciuto non è fondato sul fatto che essi hanno il medesimo modo d’essere, ma acquista il suo senso in base alla peculiarità del modo d’essere che essi hanno in comune. Questa consiste nel fatto che né il conoscente né il conosciuto sono ’onticamente’ ’semplicemente presenti’, ma sono ’storici’, cioè hanno il modo d’essere della storicità." Il processo interpretativo presuppone un assetto culturale preesistente nell’interpretante, che entra in osmosi con l’oggetto dell’interpretazione, in un processo circolare, nel senso che il conoscente acquisisce qualcosa, attraverso il tentativo di scoprire il significato di un testo scritto; ciò determina, nel medesimo conoscente, un mutamento, che influisce sulla successiva attività ermeneutica.

L’interpretazione non può essere neutrale, in quanto esiste una precomprensione. Ogni interprete rappresenta nella propria “mappa mentale” il senso dell’oggetto interpretato, secondo la propria forma mentis; da qui, la diversità delle interpretazioni dei medesimi testi normativi. "Chi si mette ad interpretare un testo attua sempre un progetto. Sulla base del più immediato senso che il testo gli esibisce, egli abbozza preliminarmente un significato del tutto. E anche il senso più immediato il testo lo esibisce solo in quanto lo si legge con certe attese determinate. La comprensione di ciò che si dà da comprendere consiste tutta nella elaborazione di questo progetto preliminare, che ovviamente viene continuamente riveduto in base a ciò che risulta dall’ulteriore penetrazione del testo. "

INSUFFICIENZA DEL SILLOGISMO COME STRUMENTO DI LOGICA GIURIDICA

L’interprete enuclea i contenuti del modello normativo astratto e verifica se il caso concreto può esser sussunto nella disposizione astratta.

Secondo una concezione rigida, risalente alla logica aristotelica, le valutazioni di “verità-falsità” appaiono non modificabili; in un momento successivo, si valorizza la non “monotonicità” delle affermazioni di contenuto logico, nel senso che esse possono assumere diversi valori di verità, all’interno di una medesima inferenza. Lo sviluppo in questi termini consente di avvicinare in misura maggiore linguaggio logico e giuridico, in quanto il diritto suole esprimere contenuti “revisionabili”; in quest’ottica si consolidano le c.d. “logiche intuizioniste”, le quali rifiutano la connessione vincolante fra i princìpi aristotelici d’identità e terzo escluso e danno spazio a una concezione più flessibile della categoria “verità – falsità”.

Al linguaggio giuridico si adatta la logica “deontica”, che ingloba enunciati, esprimenti un “dover essere”, all’interno di una visione, che reputa la dimensione logica, insufficiente a conseguire gli scopi, collegati alla produzione di norme giuridiche.

Le prime forme d’inferenze studiate dalla logica formale sono state le inferenze sillogistiche. Ci si può domandare se l’analisi del linguaggio giuridico possa rettamente condursi, solo basandosi sullo strumento del sillogismo.

„hIl metodo sillogistico si propone di risolvere ogni problema, attraverso la riflessione su proposizioni elementari (induzione/abduzione). Esse sono costituite da soggetto + predicato (p. es.: tutti gli uomini sono mortali). Pertanto, il sillogismo è: inferenza che ha per oggetto la connessione corretta (o valida) di termini

Un approccio alla logica sillogistica può riferirsi a premesse generali e allora avremo “ sillogismi deduttivi, che consentono di pervenire a conclusioni particolari; si configureranno, invece, sillogismi induttivi, in ipotesi d’inferenze non-necessarie da premesse particolari a conclusioni generali.

Il ricorso ai sillogismi, peraltro, non è sufficiente a comprendere in modo pieno e approfondito il linguaggio giuridico, in quanto si è, in un primo tempo, sopravvalutata la portata di questi strumenti, così come l’evoluzione successiva ha rilevato.

Spesso l’ordinamento non disciplina compiutamente ogni aspetto della realtà, potendosi riscontrare in esso anche lacune macroscopiche, specialmente con riferimento a settori e a esigenze “nuove”, l’affidarsi solo ai sillogismi, in questa ipotesi, conduce all’impossibilità di dipanare le varie questioni giuridiche, così come non consente di cogliere il processo di ragionamento, posto a base della decisione giudiziale, specialmente laddove vengano in considerazione pluralità di argomenti, i quali pervengano sulla medesima questione a risultati divergenti. Il sillogismo consente di realizzare il principio di eguaglianza formale, ma non consente di modulare la decisione del Giudicante alle sfaccettature del caso concreto, attuando l’eguaglianza sostanziale. Il sillogismo non riesce ad affrontare argomenti multipli e non tollera la procedura, che è alla base delle decisioni giudiziarie, le quali, appunto, scaturiscono da un processo.

Questi limiti del modello sillogistico inducono a costruire una logica giuridica, idonea a colmare tali mancanze. E’, al riguardo, auspicabile accogliere una nozione più ampia di “argomento”, in modo da inglobare in essa le varie ipotesi, in cui su una medesima questione possono sostenersi tesi diverse, adoperando un diverso ragionamento. I vari argomenti vanno posti in relazione fra essi, in modo da percepire il “dialogo”, che si svolge fra gli operatori del diritto; lo strumento sillogistico, con la sua tendenza semplificatrice, non consente lo sviluppo di una dialettica fra opinioni contrapposte. L’argomento deduttivo, che in ambito sillogistico ha grande spazio, non è l’unico a esser presente in logica giuridica, in quanto, spesso, talune conclusioni sono provvisorie, potendo essere contraddette da successive eccezioni. Va, inoltre, tenuto presente che le decisioni su singoli casi concreti vengono prese, tenendo conto dei “precedenti” e aspetti di questo genere sono “esterni”, rispetto alla logica sillogistica.

E’ necessario, altresì, cogliere la logica delle relazioni fra gli argomenti, in modo da individuare, quando essi costituiscano una molteplicità, quali siano “difendibili”, quali vincitori e quali irrilevanti. Bisogna costruire una mappa di argomenti e contro-argomenti, per comprendere quale tesi giuridica debba prevalere. Quando si è in presenza di elementi contraddittori, si tenta di enucleare degli argomenti specifici, per pervenire a una conclusione plausibile. Da quanto detto, emerge come il sillogismo non rappresenti uno strumento logico idoneo, al fine di ricostruire il ragionamento, effettuato dal Giudice. In caso contrario, l’attività del giudice risulterebbe meramente meccanica, in quanto Questi sarebbe tenuto a costruire un sillogismo, la cui premessa maggiore sia una disposizione di legge e quella minore un fatto, processualmente accertato, da cui dovrebbe derivare una conclusione sicura, racchiudente il dispositivo della sentenza. Questa concezione (che risale al Beccaria) non tiene conto dell’esigenza di distinguere, nel ragionamento giudiziale, una giustificazione interna e un’esterna. La prima, che consta di due premesse e una conclusione, coerente con queste, s’identifica nel caratteristico sillogismo giudiziale. La giustificazione esterna è quella della premessa maggiore del sillogismo giudiziale, nonché di quella minore. Essa ha carattere logico-deduttivo. In certe ipotesi, quando l’applicazione della legge sia agevole, la giustificazione esterna della premessa maggiore del sillogismo giudiziale è stringata; nei casi più complessi, sarà maggiormente articolata; quest’ultima eventualità si presenta, quando la legge non disciplini interamente un determinato settore, potendosi riscontrare delle lacune, che tocca al giudice colmare, attraverso ulteriori strumenti (analogia, ricorso ai princìpi generali dell’ordinamento). La giustificazione esterna può leggersi come un “polisillogismo” o un “sorite” (vale a dire una catena di sillogismi, caratterizzata dall’assenza di qualche elemento), in cui non è presente un nesso deduttivo tra i vari sillogismi.

Come può rilevarsi, la ricostruzione del ragionamento del Giudice, in termini di giustificazione interna - esterna si sovrappone alla visione semplicistica del sillogismo giudiziale, ma non sembra accantonare tale strumento, che viene ricollocato, invece, in un contesto più articolato.

Secondo un’opinione, nel ragionamento giudiziale si manifesta la presenza di un’attività interpretativa, che non è solo indicazione della conformità di una certa norma, estrapolata da una disposizione di legge, alla volontà del Legislatore, ma anche accoglimento del principio, secondo cui tutte le disposizioni di legge vanno interpretate, in conformità alla Volontà del legislatore. Ci si può domandare se tale assunto sia vero in tutti i casi, o se non sia più realistico ritenere che, in certi casi, i Giudici prescindano, in tutto o in parte, dall’intenzione del Legislatore, quando intendano avallare talune interpretazioni evolutive. Può aggiungersi che la medesima comprensione della “intenzione del legislatore” non è sempre agevole a essa possono sovrapporsi giudizi di valore, la cui adozione può condurre anche a rappresentazioni assai diverse dell’intenzione in parola. Si è rilevato come l’attività interpretativa del Giudice dovrebbe a monte effettuare, attraverso una o più direttive interpretative, una cernita fra gli strumenti ermeneutici, posti a disposizione, in modo da stabilire, sia pure a livello orientativo, un ordine di priorità. Si potrebbe attribuire una prima rilevanza all’argomento letterale, per poi passare a un esame dell’intenzione del Legislatore e arrivare a considerare gli scopi, per i quali la disposizione è inserita all’interno del sistema di disciplina. Occorrerà, ancora, elaborare un principio metodologico d’interpretazione, in modo da desumere quando le disposizioni siano valide e, correlativamente, quando le norme ricavate dalle medesime siano frutto di un’interpretazione non infondata in diritto. L’argomentazione giudiziale avrà carattere normativo, in quanto si tratta di risolvere un caso concreto, tramite un dispositivo, che scaturisca dall’intera attività ermeneutica del Giudice.

L’iter del ragionamento del Giudice potrebbe essere “idealizzato”, per pervenirsi all’affermazione che, in un determinato sviluppo della soluzione di un caso concreto, il Giudicante si sia avvalso di tutti i possibili argomenti, in astratto sviluppabili, li abbia effettivamente sviluppati, senza limiti di tempo, tenendo conto delle obiezioni, relative ai medesimi (c.d. “modello riflessivo ampliato”). Una tale concezione, se può valere come modello astratto di comparazione, non ha rilievo, in quanto presuppone condizioni non empiricamente verificabili. Da queste premesse, si potrebbe sviluppare un modello più realistico, al fine di rappresentare i termini generali l’attività interpretativa del Giudice. Il modello riflessivo ampliato è stato, a volte, tenuto presente come paradigma, per arrivare a conclusioni più realistiche.

Al riguardo, si può argomentare, sostenendo che le regole di una procedura “ideale” possano, in concreto, essere applicate solo in parte, in quanto sono assenti le condizioni, per ottenere un’applicazione piena e fedele del modello ideale teorizzato. L’adozione di un siffatto sistema di pensiero blocca la possibilità che si pervenga senza dubbio alla costruzione di un modello razionale, in quanto non si stabilisce la misura delle obiezioni, che occorre confutare, né le ragioni e argomenti, che occorre addurre. Affermandosi che non è, in concreto, possibile adempiere tutte le caratteristiche del modello razionale ideale, appare coerente concludere nel senso che un’adozione parziale del medesimo comporti un argomentare irrazionale o, quantomeno, non sufficientemente razionale. Si può sostenere una concezione non ideale della razionalità, orientandosi nel senso che è opportuno rispettare quante più condizioni possibili del modello ideale di razionalità, ma ciò può comportare la presenza di requisiti, non ideali, tali da limitare, nella quantità e nella qualità, le obiezioni, cui è possibile dare risposta e può apparire, in taluni casi, razionale non adempiere determinate condizioni del modello ideale. Dovrà, in concreto, presupporsi la presenza di questi requisiti “non ideali”, perché si pervenga a un argomentare razionale.

Secondo Habermas, posto che non è possibile realizzare appieno un modello ideale, è necessario stabilire talune pre-condizioni “istituzionali”, al fine di costruire un discorso razionale. Queste pre-condizioni, peraltro, non farebbero parte del modello razionale, ma si collocherebbero al di fuori del medesimo. Proprio questa conclusione rende parzialmente incoerente la teoria in esame, in quanto non si riesce a comprendere perché questi requisiti non dovrebbero far parte del modello razionale; ove essi debbano esser rispettati, ciò implica che è razionale farlo, ma è in contraddizione con l’idea che i medesimi siano estranei al modello razionale.

Talvolta, alla nozione di razionalità si sovrappone quella di “oggettività”, la quale spesso non si caratterizza in modo sufficiente dal primo concetto, in quanto la medesima viene anch’essa inglobata in un modello astratto, non ottenibile in concreto. Sul piano conoscitivo, appare più coerente separare adeguatamente oggettività e razionalità, potendosi anche presupporre che i due concetti siano non contestualmente presenti. Ciò si potrebbe, per esempio, attuare inglobando nell’”oggettività” alcuni requisiti, collegati al concetto di “correttezza”, in modo da separare la nozione da quella di razionalità.

Quando si discorre di razionalità, occorre sempre avvertire che talvolta un Giudicante può crearsi una propria visione del mondo, corrispondente, secondo la sua ottica personale, a piena razionalità, senza che ciò trovi un preciso riscontro oggettivo.

Pertanto, ciascun Giudicante non deve lasciarsi fuorviare da inferenze fallaci, dovrà, ove vi sia una gamma più o meno ampia di scelte, individuare il criterio d’inferenza più idoneo in concreto e pervenire a un corretto coefficiente di probabilità logica, in rapporto all’inferenza utilizzata, eventualmente avvalendosi simultaneamente di più inferenze “deboli”, ove manchi un’inferenza “forte”.