x

x

Responsabilità dell’avvocato

L’avvocato che non rilevi la prescrizione del diritto è responsabile?
Si propone un possibile svolgimento di una delle tracce, assegnate alla sessione 2010 dell’esame di avvocato.

PARERE DI DIRITTO CIVILE, ASSEGNATO ALL’ESAME DI AVVOCATO, SESSIONE 2010

Traccia

Il comune di Gamma interessato all’adempimento di oneri testamentari relativi all’eredità di Tizio da parte dell’ente Alfa, sottoponeva la questione all’esame dell’avvocato Sempronio richiedendo allo stesso un parere sulla possibilità di intraprendere un giudizio diretto ad ottenere la condanna dell’ente all’esecuzione di detti oneri. Sulla scorta del parere favorevole espresso dall’avvocato Sempronio circa la sussistenza dei presupposti legali della domanda, il comune di Gamma aveva quindi promosso giudizio tramite il medesimo legale.

Il giudizio aveva avuto, però, esito sfavorevole in quanto l’adìto tribunale aveva rigettato la domanda avendo accolto l’eccezione di prescrizione dell’azionato diritto sollevata dall’ente convenuto.

Successivamente l’avvocato Sempronio formulava richiesta di pagamento dell’importo di 12.000 euro a titolo di compenso per le prestazioni commissionate rese in favore del comune.

Dinnanzi a tale pretesa il comune contestava a mezzo di lettera raccomandata la pretesa in particolare evidenziava che la prescrizione del diritto avrebbe dovuto essere rilevata dal professionista in quanto intervenuta anteriormente all’introduzione della domanda.

L’avvocato Sempronio allora, ribadiva con una nuova missiva la propria pretesa ed evidenziava:

a) che nel corso del giudizio lo stesso giudice aveva rilevato con propria ordinanza la probabile infondatezza dell’eccezione di prescrizione;

b) che il discutibile diverso avviso in sede di decisione finale lo aveva indotto a consigliare la proposizione dell’appello che, tuttavia, non era stato proposto per volontà del comune, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza;

c) che l’omesso rilievo in sede di parere del decorso del termine prescrizionale non stava a indicare che egli avesse colposamente ignorato il problema;

d) infine, che l’incarico professionale di promuovere un’azione a tutela del diritto del cliente non poteva implicare la lungimirante revisione di tutte le possibili avverse contestazioni specie di queste deducibili con eccezioni in senso proprio.

Il candidato, assunte le vesti di legale del comune di Gamma rediga parere motivato illustrando gli istituti e le problematiche sottese alla fattispecie.

Svolgimento

Occorre preliminarmente esporre alcuni princìpi relativi alla responsabilità dell’avvocato nei riguardi dei propri clienti.

Il professionista stipula con il proprio assistito un contratto d’opera intellettuale, il quale obbliga il medesimo legale a una serie di prestazioni, in relazione al caso concreto, fra cui si può inserire, come nell’ipotesi individuata dalla traccia, lo studio di una questione giuridica, con la contestuale costruzione di un parere pro veritate sulla medesima.

Va subito segnalato come la giurisprudenza tenda a valutare in modo rigoroso la responsabilità dell’avvocato, riguardo all’aspetto preliminare dello studio della controversia, in quanto essa, di regola, richiede che il professionista fornisca al cliente tutti gli elementi, perché il medesimo possa decidere con cognizione di causa se instaurare il giudizio, oppur no, arrivando a configurare responsabilità professionale anche in ipotesi di colpa lieve, ove vengano in considerazione istituti giuridici essenziali, la cui disciplina l’avvocato non può ignorare. Il conferimento dell’incarico comporta, per l’avvocato, il dovere di inquadrare correttamente la fattispecie, sottoposta alla sua attenzione, rilevando elementi favorevoli e sfavorevoli per il proprio assistito, oltre che a seguito dell’applicazione delle regole di deontologia, anche in virtù delle clausole generali di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1375 e 1175 cod. civ..

Il cliente deve essere messo in grado di conoscere, sia pure orientativamente, la probabilità di successo nella controversia e deve esser reso edotto anche riguardo all’eventuale infondatezza della sua pretesa. Ciò, peraltro, andrà opportunamente bilanciato con la considerazione che, spesso, l’esito delle cause è molto incerto e una valutazione attendibile è difficile da compiere, anche da parte di un esperto in diritto. Si ritiene che il mancato adempimento di tali doveri, da parte del professionista legale, configuri responsabilità contrattuale del medesimo, e non precontrattuale, perché già nel momento in cui si consulta il professionista per ottenere un suo parere su una vicenda giuridica può ritenersi operativo il contratto d’opera intellettuale (per il quale si adopera anche l’espressione "contratto di clientela"). Un parametro affidabile, per discriminare le varie ipotesi di responsabilità è rappresentato dalla distinzione fra attività, totalmente controllabili dal professionista, quali la qualità e il livello dello studio di una questione, al medesimo sottoposta, e attività, collegate a influenze esterne, non controllabili dal medesimo, come l’esito di un’azione giudiziaria, dipendente da decisioni di altri soggetti.

L’applicazione della normativa, propria del contratto d’opera intellettuale (artt. 2229 e segg. cod. civ.) va integrata con quella del contratto di mandato (artt. 1703 e segg. cod. civ.), quando l’incarico al professionista comprenda il compimento di atti giuridici, normalmente di natura giudiziale, come nel nostro caso, in cui l’avvocato è incaricato dal Comune Gamma di occuparsi del giudizio, per l’adempimento degli oneri testamentari dell’ente Alfa. In ogni modo, piuttosto che di coesistenza fra due contratti, uno d’opera intellettuale e uno di mandato (in questo senso SANTAGATA), appare opportuno configurare un contratto misto, in cui convergono elementi del mandato e del contratto d’opera intellettuale (LEGA).

L’obbligazione dell’avvocato è stata tradizionalmente considerata come obbligazione di mezzi, nel senso che, riguardo a essa, il professionista debitore è tenuto solo a prestare un’attività diligente, senza che il mancato conseguimento del risultato perseguito (nella nostra ipotesi: vittoria della causa civile) implichi responsabilità, perché l’aleatorietà delle liti giudiziarie non consente di prevedere l’esito delle medesime. In conformità a tale impostazione, se l’avvocato ha realizzato misure idonee alla tutela dell’interesse del Cliente, il professionista non può esser ritenuto responsabile, anche in assenza dell’ottenimento del risultato sperato. E’ chiaro che, se l’obbligazione è di mezzi, il creditore è tenuto a dimostrare l’inesatto adempimento, a prescindere dal conseguimento dell’esito sperato. Diversa l’ipotesi delle obbligazioni di risultato, in cui, ove il creditore provi di non aver ottenuto l’esito, originariamente garantito, ciò basta a configurare la responsabilità del debitore. Va, peraltro, rilevato come la distinzione fra obbligazione di mezzi e di risultato stia progressivamente sfumando e questa impostazione, propria dell’elaborazione giurisprudenziale nel settore della responsabilità medica, si stia espandendo in modo ampio anche nell’ipotesi della responsabilità, collegata alle professioni legali. Si è rilevato come possa considerarsi implicitamente richiesto all’avvocato anche un “risultato”, nel senso dello svolgimento di un’adeguata tutela della posizione del suo assistito, nonché il corretto svolgimento delle attività procuratorie (redazione di un atto di citazione, di un’istanza di scarcerazione, materiale presenza alle udienze, rispetto dei termini processuali perentori, etc).

E’ richiesto, inoltre, l’adempimento di un dovere d’informazione, che, in una prima fase comprende un parere sulla controversia, con la contestuale indicazione degli strumenti di tutela, di cui l’assistito potrebbe avvalersi (Cass, 29 novembre 1973, n. 3298). Questo primo aspetto dell’obbligo d’informazione assume fondamentale rilievo, ai fini della soluzione del nostro caso, perché il professionista, consultato dal Comune Gamma, non rileva l’avvenuto decorso del termine prescrizionale, relativo alla pretesa avanzata dal comune medesimo. Ciò deve condurre alla configurazione di una responsabilità dell’avvocato, perché la sopraccitata Cassazione del 1973 ha ritenuto rientri nel dovere di diligenza del professionista medio informare il cliente a proposito della prescrizione del diritto vantato, a meno che la questione di prescrizione del caso specifico trascenda la preparazione professionale media e implichi un impegno in attività tecnico-professionale di livello superiore.

E’ il cliente che deve decidere se adìre ugualmente il Giudice, nonostante il decorso del termine prescrizionale, sperando che la controparte non sollevi la relativa eccezione, o che, ove la questione sulla prescrizione sia opinabile, la medesima sia risolta in senso favorevole al cliente medesimo. Oltre a una violazione del dovere d’informazione, l’opinione favorevole a configurare, nella nostra vicenda, una responsabilità del professionista può ulteriormente integrarsi, sulla falsariga della sopraccitata sentenza della Cassazione del 1973, nel senso che è riscontrabile, oltre che una violazione del dovere d’informazione, anche dei doveri di dissuasione e sollecitazione, nel senso che il professionista è tenuto a consigliare al Cliente, se intraprendere l’azione giudiziaria o meno, fermo restando che il cliente non è, sotto nessun aspetto vincolato dal parere espresso dal Legale, ben potendo discostarsene, eventualmente consultando altri avvocati. L’errore professionale dell’avvocato determina responsabilità del medesimo, quando comprometta il buon esito del giudizio, mentre possono non considerarsi causa di responsabilità gli errori di valutazione, collegate a leggi, suscettibili di diverse interpretazioni, ove non si convertano nella probabilità di una compromissione del giudizio (Cass. civ., sez. II, 11.8.2005, n. 16846).

La violazione del dovere d’informazione costituisce, secondo un’interpretazione da non condividere, violazione del dovere di buona fede precontrattuale, di cui all’art. 1337 cod. civ., con conseguente obbligo del professionista inadempiente di risarcire il solo interesse negativo, ma configurare l’effettuazione di “trattative” tra professionista e cliente appare fuorviante, perché il dovere informativo si sostanzia in una parte essenziale della prestazione, dovuta dall’avvocato, così che si rientra nella responsabilità contrattuale. Va osservato come la disciplina, relativa al diritto all’informazione contrattuale abbia assunto, nel tempo, il rango di principio di “ordine pubblico”, a tutela della parte debole dl contratto; questa ricostruzione è applicabile anche agli assistiti da parte dei professionisti legali, assistiti che, nella maggior parte dei casi, non hanno cognizioni tecniche in materia di diritto e, pertanto, si affidano a chi dovrebbe avere tali nozioni.

Ai fini della configurazione di responsabilità professionale, per violazione del dovere d’informazione, si ritiene indifferente se la condotta successiva del professionista sia stata eseguita in modo adeguato o meno, perché ciò si colloca in un diverso settore di responsabilità, rispetto a quella, collegata all’avvenuta violazione del dovere informativo. Il quadro della giurisprudenza, relativa alla “colpa professionale”, svela la reciproca compenetrazione fra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, quale intreccio, fra l’interesse del Cliente a ricevere la prestazione informativa, di natura contrattuale, e interesse del medesimo alla conservazione della possibilità di decidere se agire in giudizio o no.

Il legale dovrà, altresì, informare il proprio assistito, ove in giudizio venga effettivamente sollevata l’eccezione di prescrizione. Appare difficile negare una responsabilità del professionista, nell’ipotesi in esame, in relazione all’art. 1176 cod. civ., il quale prescrive che l’opera del professionista venga svolta in base ai doveri attinenti l’attività professionale, con riguardo alla natura della medesima che egli svolge, enucleando così, nel settore delle attività professionali, un parametro diverso, rispetto a quello della diligenza del buon padre di famiglia, previsto come regola di base per le obbligazioni e configurando come parametro quello della diligenza del professionista “medio”. Come parametro normativo, andrà considerato anche l’art. 2236 cod. civ., il quale prevede che, ove il professionista intellettuale si trovi a dover risolvere problemi particolarmente difficoltosi, non risponde per colpa lieve, ma solo per dolo o colpa grave, con la precisazione che, nel nostro caso, ove si consideri la mancata rilevanza del decorso del termine prescrizionale come questione di scarsa difficoltà, la responsabilità andrà valutata con maggior rigore, includendosi anche i casi di colpa lieve. Emerge, da questa disciplina la distinzione fra attività “routinarie” e attività di esecuzione difficoltosa, anche se spesso in giurisprudenza questo binomio sfuma, per il consolidarsi di una tendenza restrittiva, nell’applicazione dell’art. 2236 c.civ.

A proposito dell’art. 2236 cod. civ., non sono mancate critiche alla disposizione in esame, sostenendosi l’assenza di una plausibile ragione, per la quale va applicato un regime di responsabilità meno intenso, quando venga in considerazione una questione particolarmente difficoltosa; ciò ha portato a ritenere applicabile la disposizione in parola solo ai casi di difetto di perizia professionale, a partire dall’orientamento espresso dalla sentenza della Corte costituzionale 28 novembre 1973, n. 166. Riguardo a un’ipotesi di applicazione dell’art. 2236, collegabile alla nostra vicenda, si è considerata ipotesi, tale da superare i limiti di diligenza dell’avvocato medio, la prospettabilità di una questione di prescrizione di livello tecnico superiore (cass 4 novembre 1990, n. 11612). E’ diffuso il convincimento della non applicabilità dell’art. 2236 all’attività d’informazione e consulenza dei professionisti intellettuali (tale tesi è stata originariamente espressa dalla Cassazione 11 dicembre 1969, n. 3958), perché il correlativo dovere deve, in ogni caso, considerarsi privo di speciale difficoltà, qualunque sia la natura e il contenuto della questione proposta, anche perché, in caso di materia che il professionista non conosca a fondo, questi può e deve esortare il cliente a rivolgersi ad altro avvocato, più esperto nella medesima.

Questi argomenti sono stati più di recente ripresi dalla sentenza Cassazione 16023-2002, la quale si occupa di una fattispecie, totalmente sovrapponibile a quella oggetto della traccia, e configura la responsabilità dell’avvocato che, nel rendere un parere “pro veritate” ometta di informare il Cliente, in relazione alla presenza di elementi, ostativi a una proficua instaurazione del giudizio, configurando anche una responsabilità per colpa lieve del professionista, quando, in concreto, emerga l’ignoranza d’istituti giuridici fondamentali, quale può essere la prescrizione. Secondo tale sentenza, la richiesta a un professionista legale di un parere “pro veritate” costituisce obbligazione di risultato, in quanto il dovere d’informazione, da fornire al cliente, è essenziale, rispetto al principio di buona fede contrattuale e viene correttamente adempiuto, solo ove all’assistito sia fornita una gamma d’informazioni esauriente sulla questione giuridica, con una corretta messa in rilievo di tutti gli elementi favorevoli all’assistito, nonché di quelli sfavorevoli. Il “risultato” richiesto al professionista è proprio l’ottenimento di un esauriente resoconto dei profili giuridici del quesito sottopostogli. In termini generali, perché vi sia nesso causale fra responsabilità del professionista e pregiudizio, subìto dal cliente, occorre la prova che una corretta condotta professionale avrebbe portato, con ragionevole probabilità, a un esito positivo della lite; sul piano causale, le omissioni di atti dovuti ex art. 40 c.p., quale il mancato rilievo del decorso del termine prescrizionale vanno equiparate ai comportamenti commissivi (Cass. 1286-1998).

Va, tuttavia, rilevato che, nel giudizio di appello, svoltosi nella vicenda giudiziaria, oggetto della sentenza del 2002 prima citata, il giudicante era pervenuto alla tesi opposta, negando la responsabilità dell’avvocato, nonostante il mancato rilievo, in sede stragiudiziale, dell’avvenuto decorso del termine di prescrizione del diritto dell’assistito, in quanto, secondo il Giudice d’appello, l’eventualità della proposizione della relativa eccezione, non poteva costituire remora alla proposizione della domanda, anche perché il cliente era stato reso edotto dell’eccezione in parola e, con ordinanza, il giudice, in un primo momento e in conformità a un esame provvisorio della questione, aveva ritenuto la probabile infondatezza dell’eccezione di prescrizione. Tale tesi è stata ribaltata dalla pronuncia della Cassazione, ma fa comprendere come non sia del tutto insostenibile l’opinione, volta a negare la responsabilità dell’avvocato, facendo leva sul fatto che la questione del computo del termine prescrizionale, nel caso specifico, sia di rilevante difficoltà.

Negare la responsabilità del professionista comporterebbe sostenere che l’omissione sulla questione della prescrizione non costituisca colpa grave dell’avvocato, anche in considerazione della circostanza che, in un primo momento, il Magistrato con ordinanza si era pronunciato nel senso della probabile infondatezza dell’eccezione di prescrizione (ma pur sempre con un provvedimento provvisorio, successivamente modificabile e tale da non pregiudicare la decisione definitiva della causa) prospettando, pertanto, la medesima questione come fondamentalmente incerta. In ogni modo, la tesi più conforme agli indirizzi prevalenti in giurisprudenza, e che in questa sede si ritiene preferibile, collega a una vicenda siffatta la responsabilità del professionista, anche se non può negarsi che, in concreto, i Giudici di merito spesso si dimostrano riluttanti a condannare gli avvocati, per responsabilità professionale, nei confronti del Cliente. In particolare, proprio riguardo al mancato rilievo, prima dell’introduzione del giudizio, dell’avvenuta estinzione del diritto per prescrizione, taluni Giudici di merito hanno affermato che tale presupposto non integra responsabilità del professionista, perché la prescrizione estintiva non è rilevabile “ex officio”, ma opera solo per eccezione di parte (in tal senso Trib. Perugia 12 Ottobre 1999). Può osservarsi, peraltro, che è ben difficile supporre che l’eccezione di prescrizione non sarà sollevata in corso di causa, essendo la medesima di pressoché immediata percezione, da parte della Difesa della controparte, salve le ipotesi di speciale difficoltà. Il Tribunale di Como, con la discutibile sentenza 10 giugno 2006, n. 1234 ha sostenuto che l’avvenuto decorso del termine prescrizionale non comporta automaticamente responsabilità del Legale, ove resti indimostrato chel’esperimento dell’azione giudiziaria avrebbe potuto avere successo.

Riguardo al fatto che il Comune non ha provveduto ad appellarsi alla sentenza di primo grado, nonostante il consiglio in tal senso del professionista, va osservato come questa circostanza non rilevi, ai fini della negazione di una responsabilità del medesimo, perché le decisioni sull’instaurazione, nonché sulla prosecuzione, di una lite giudiziaria, sono inderogabilmente di pertinenza del Cliente, il quale non è vincolato, neppure in minima misura, dall’avviso espresso sul punto dal professionista. Il dovere del professionista d’informare l’assistito della possibilità di proporre appello costituisce una prestazione autonoma, il cui adempimento non esime l’avvocato dalla responsabilità, per mancanza d’informazioni date.

In ogni caso, il fatto che l’errore commesso dall’avvocato nel giudizio di primo grado possa essere rimediato attraverso la proposizione dell’appello contro la sentenza sfavorevole non è sufficiente, di per sé, a escludere che la parte abbia risentito e continui a risentire danno dalla lamentata negligenza (Cass. Sez. III, 02/07/2010, n. 15718). Pertanto, non va esclusa la responsabilità professionale, che dipenda da un errore d’impostazione nella difesa dell’assistito, salvo che si riscontri un’assenza di colpa del legale. Ciò anche perché, in ogni caso, la proposizione di appello dilata i tempi della causa giudiziaria e determina un maggiore onere sull’assistito, anche se la sentenza in esame sembra addossare sul legale l’errore, relativo alla sentenza di primo grado, imputabile all’autorità giudiziaria, dilatando immotivatamente la responsabilità del professionista.

Né sembra decisiva, ai fini della negazione della responsabilità professionale, la circostanza che l’assistito sia un Comune, dotato presumibilmente di un’autonoma competenza in materia giuridica, perché trattasi di postulato indimostrato e non pertinente, permanendo gli obblighi d’informazione dell’avvocato, senza una diminuzione d’intensità degli stessi. La mancata esplicitazione del decorso della prescrizione appare una mancanza rilevante del professionista e appare non condivisibile la difesa, effettuata dal medesimo, nel senso che tale omissione non implica l’assenza di un adeguato esame dei vari profili della questione giuridica, al medesimo sottoposta, data la consistente rilevanza sistematica dell’istituto in parola. In ogni modo, può osservarsi che la traccia non precisi se questa sia stata l’unica omissione del professionista e non chiarifichi se, per il resto, il parere sia stato reso in modo adeguato.

Si conclude, pertanto, nel senso della possibilità, per il Comune, di opporsi alla richiesta del pagamento dei compensi, effettuata dall’avvocato, attraverso un’eccezione d’inadempimento (art. 1460 cod. civ), con contestuale possibilità di domandare il risarcimento dei danni per l’inadempimento del professionista. Ovviamente, a conclusione esattamente opposta si dovrà pervenire, ove si aderisca alla tesi, qui rifiutata, ma in astratto sostenibile, secondo cui manca una responsabilità dell’avvocato per inadempimento; in tal caso, il professionista dovrà essere integralmente pagato. Potrebbe anche ipotizzarsi una responsabilità per inesatto adempimento del professionista e disporsi una riduzione del compenso dovutogli, tenendosi conto delle varie circostanze. In ogni caso, trattasi di adempimento contrattuale e non precontrattuale, per le ragioni sopra esposte.

L’applicazione della disciplina dell’eccezione d’inadempimento (art. 1460 c. civ.) presuppone che la parte, che ha proposto l’eccezione (nel nostro caso, il cliente del professionista) dimostri che la controparte è inadempiente. L’eccezione in parola è eccezione in senso sostanziale, rimessa all’iniziativa delle parti, non rilevabile d’ufficio dal Giudice (cfr. Cassazione 30 marzo 1989, n. 554), sollevabile in giudizio (anche in sede d’appello) dalla parte, convenuta per l’inadempimento. Non sono, peraltro, mancate opinioni, nel senso della rilevabilità d’ufficio dell’eccezione in parola da parte del Giudice, il quale dichiari, legittimo il comportamento inadempiente della parte convenuta, ove l’inadempimento dell’attore risulti dagli atti (SACCO; BIGLIAZZI-GERI). Si è anche sostenuto (GALGANO) che l’eccezione di adempimento possa anche essere stragiudiziale, con la conseguenza che è legittimo il comportamento, consistente nel rifiuto di adempiere, quando l’altro contraente sia inadempiente. Aderendo a quest’opinione, che sembra condivisibile, nella nostra vicenda, il cliente potrà eccepire l’inadempimento del professionista, anche ove questi non agisca giudiziariamente, per ottenere il pagamento dei dodicimila euro, richieste come compenso per l’attività professionale svolta.

Il rifiuto di adempiere presuppone, ai fini della sua legittimità, la non scarsa importanza dell’inadempimento della controparte, ai sensi dell’art. 1455 c.civ., che, nella nostra vicenda, sussiste, ove si presupponga un’agevole individuazione, per un esperto di diritto, dell’avvenuto decorso del termine prescrizionale. Può ritenersi che la buona fede, requisito essenziale per la legittimità del rifiuto di adempiere, in conformità all’art. 1460 c.civ., va valutata, avuto riguardo all’interdipendenza causale fra i due inadempimenti (Cass. 23 ottobre 1976-3809). Occorre valutare comparativamente il comportamento delle parti inadempienti reciprocamente, con riguardo alle reciproche conseguenze, dovendosi riscontrare una certa proporzionalità fra le conseguenze dell’inadempimento attoreo e di quello scaturente dalla correlativa eccezione del convenuto, anche avuto riguardo al profilo cronologico e al nesso di causalità (Cass. 21 maggio 1990-4565).

L’eccezione in parola può esser sollevata anche in caso d’inadempimento parziale; pertanto, la circostanza che, sotto altri profili, l’avvocato abbia eventualmente bene adempiuto i suoi compiti, durante la controversia giudiziaria, introdotta per conto del Comune, non preclude la proponibilità della relativa eccezione. Quest’ultima trae fondamento dal nesso d’interdipendenza, che lega le prestazioni, nel rapporto sinallagmatico, in cui assumono rilievo non solo le obbligazioni principali, ma anche quelle accessorie di reciproca collaborazione e informazione (a maggior ragione, nel rapporto fra cliente e professionista legale), dovendosi privilegiare l’attenzione sul dovere informativo, quando l’inadempimento di questo abbia causato un pregiudizio, per la controparte, come nella nostra ipotesi (Cass. 16 gennaio 1997, n. 387, 27 settembre 1999, n. 10668).

Si propone un possibile svolgimento di una delle tracce, assegnate alla sessione 2010 dell’esame di avvocato.

PARERE DI DIRITTO CIVILE, ASSEGNATO ALL’ESAME DI AVVOCATO, SESSIONE 2010

Traccia

Il comune di Gamma interessato all’adempimento di oneri testamentari relativi all’eredità di Tizio da parte dell’ente Alfa, sottoponeva la questione all’esame dell’avvocato Sempronio richiedendo allo stesso un parere sulla possibilità di intraprendere un giudizio diretto ad ottenere la condanna dell’ente all’esecuzione di detti oneri. Sulla scorta del parere favorevole espresso dall’avvocato Sempronio circa la sussistenza dei presupposti legali della domanda, il comune di Gamma aveva quindi promosso giudizio tramite il medesimo legale.

Il giudizio aveva avuto, però, esito sfavorevole in quanto l’adìto tribunale aveva rigettato la domanda avendo accolto l’eccezione di prescrizione dell’azionato diritto sollevata dall’ente convenuto.

Successivamente l’avvocato Sempronio formulava richiesta di pagamento dell’importo di 12.000 euro a titolo di compenso per le prestazioni commissionate rese in favore del comune.

Dinnanzi a tale pretesa il comune contestava a mezzo di lettera raccomandata la pretesa in particolare evidenziava che la prescrizione del diritto avrebbe dovuto essere rilevata dal professionista in quanto intervenuta anteriormente all’introduzione della domanda.

L’avvocato Sempronio allora, ribadiva con una nuova missiva la propria pretesa ed evidenziava:

a) che nel corso del giudizio lo stesso giudice aveva rilevato con propria ordinanza la probabile infondatezza dell’eccezione di prescrizione;

b) che il discutibile diverso avviso in sede di decisione finale lo aveva indotto a consigliare la proposizione dell’appello che, tuttavia, non era stato proposto per volontà del comune, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza;

c) che l’omesso rilievo in sede di parere del decorso del termine prescrizionale non stava a indicare che egli avesse colposamente ignorato il problema;

d) infine, che l’incarico professionale di promuovere un’azione a tutela del diritto del cliente non poteva implicare la lungimirante revisione di tutte le possibili avverse contestazioni specie di queste deducibili con eccezioni in senso proprio.

Il candidato, assunte le vesti di legale del comune di Gamma rediga parere motivato illustrando gli istituti e le problematiche sottese alla fattispecie.

Svolgimento

Occorre preliminarmente esporre alcuni princìpi relativi alla responsabilità dell’avvocato nei riguardi dei propri clienti.

Il professionista stipula con il proprio assistito un contratto d’opera intellettuale, il quale obbliga il medesimo legale a una serie di prestazioni, in relazione al caso concreto, fra cui si può inserire, come nell’ipotesi individuata dalla traccia, lo studio di una questione giuridica, con la contestuale costruzione di un parere pro veritate sulla medesima.

Va subito segnalato come la giurisprudenza tenda a valutare in modo rigoroso la responsabilità dell’avvocato, riguardo all’aspetto preliminare dello studio della controversia, in quanto essa, di regola, richiede che il professionista fornisca al cliente tutti gli elementi, perché il medesimo possa decidere con cognizione di causa se instaurare il giudizio, oppur no, arrivando a configurare responsabilità professionale anche in ipotesi di colpa lieve, ove vengano in considerazione istituti giuridici essenziali, la cui disciplina l’avvocato non può ignorare. Il conferimento dell’incarico comporta, per l’avvocato, il dovere di inquadrare correttamente la fattispecie, sottoposta alla sua attenzione, rilevando elementi favorevoli e sfavorevoli per il proprio assistito, oltre che a seguito dell’applicazione delle regole di deontologia, anche in virtù delle clausole generali di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1375 e 1175 cod. civ..

Il cliente deve essere messo in grado di conoscere, sia pure orientativamente, la probabilità di successo nella controversia e deve esser reso edotto anche riguardo all’eventuale infondatezza della sua pretesa. Ciò, peraltro, andrà opportunamente bilanciato con la considerazione che, spesso, l’esito delle cause è molto incerto e una valutazione attendibile è difficile da compiere, anche da parte di un esperto in diritto. Si ritiene che il mancato adempimento di tali doveri, da parte del professionista legale, configuri responsabilità contrattuale del medesimo, e non precontrattuale, perché già nel momento in cui si consulta il professionista per ottenere un suo parere su una vicenda giuridica può ritenersi operativo il contratto d’opera intellettuale (per il quale si adopera anche l’espressione "contratto di clientela"). Un parametro affidabile, per discriminare le varie ipotesi di responsabilità è rappresentato dalla distinzione fra attività, totalmente controllabili dal professionista, quali la qualità e il livello dello studio di una questione, al medesimo sottoposta, e attività, collegate a influenze esterne, non controllabili dal medesimo, come l’esito di un’azione giudiziaria, dipendente da decisioni di altri soggetti.

L’applicazione della normativa, propria del contratto d’opera intellettuale (artt. 2229 e segg. cod. civ.) va integrata con quella del contratto di mandato (artt. 1703 e segg. cod. civ.), quando l’incarico al professionista comprenda il compimento di atti giuridici, normalmente di natura giudiziale, come nel nostro caso, in cui l’avvocato è incaricato dal Comune Gamma di occuparsi del giudizio, per l’adempimento degli oneri testamentari dell’ente Alfa. In ogni modo, piuttosto che di coesistenza fra due contratti, uno d’opera intellettuale e uno di mandato (in questo senso SANTAGATA), appare opportuno configurare un contratto misto, in cui convergono elementi del mandato e del contratto d’opera intellettuale (LEGA).

L’obbligazione dell’avvocato è stata tradizionalmente considerata come obbligazione di mezzi, nel senso che, riguardo a essa, il professionista debitore è tenuto solo a prestare un’attività diligente, senza che il mancato conseguimento del risultato perseguito (nella nostra ipotesi: vittoria della causa civile) implichi responsabilità, perché l’aleatorietà delle liti giudiziarie non consente di prevedere l’esito delle medesime. In conformità a tale impostazione, se l’avvocato ha realizzato misure idonee alla tutela dell’interesse del Cliente, il professionista non può esser ritenuto responsabile, anche in assenza dell’ottenimento del risultato sperato. E’ chiaro che, se l’obbligazione è di mezzi, il creditore è tenuto a dimostrare l’inesatto adempimento, a prescindere dal conseguimento dell’esito sperato. Diversa l’ipotesi delle obbligazioni di risultato, in cui, ove il creditore provi di non aver ottenuto l’esito, originariamente garantito, ciò basta a configurare la responsabilità del debitore. Va, peraltro, rilevato come la distinzione fra obbligazione di mezzi e di risultato stia progressivamente sfumando e questa impostazione, propria dell’elaborazione giurisprudenziale nel settore della responsabilità medica, si stia espandendo in modo ampio anche nell’ipotesi della responsabilità, collegata alle professioni legali. Si è rilevato come possa considerarsi implicitamente richiesto all’avvocato anche un “risultato”, nel senso dello svolgimento di un’adeguata tutela della posizione del suo assistito, nonché il corretto svolgimento delle attività procuratorie (redazione di un atto di citazione, di un’istanza di scarcerazione, materiale presenza alle udienze, rispetto dei termini processuali perentori, etc).

E’ richiesto, inoltre, l’adempimento di un dovere d’informazione, che, in una prima fase comprende un parere sulla controversia, con la contestuale indicazione degli strumenti di tutela, di cui l’assistito potrebbe avvalersi (Cass, 29 novembre 1973, n. 3298). Questo primo aspetto dell’obbligo d’informazione assume fondamentale rilievo, ai fini della soluzione del nostro caso, perché il professionista, consultato dal Comune Gamma, non rileva l’avvenuto decorso del termine prescrizionale, relativo alla pretesa avanzata dal comune medesimo. Ciò deve condurre alla configurazione di una responsabilità dell’avvocato, perché la sopraccitata Cassazione del 1973 ha ritenuto rientri nel dovere di diligenza del professionista medio informare il cliente a proposito della prescrizione del diritto vantato, a meno che la questione di prescrizione del caso specifico trascenda la preparazione professionale media e implichi un impegno in attività tecnico-professionale di livello superiore.

E’ il cliente che deve decidere se adìre ugualmente il Giudice, nonostante il decorso del termine prescrizionale, sperando che la controparte non sollevi la relativa eccezione, o che, ove la questione sulla prescrizione sia opinabile, la medesima sia risolta in senso favorevole al cliente medesimo. Oltre a una violazione del dovere d’informazione, l’opinione favorevole a configurare, nella nostra vicenda, una responsabilità del professionista può ulteriormente integrarsi, sulla falsariga della sopraccitata sentenza della Cassazione del 1973, nel senso che è riscontrabile, oltre che una violazione del dovere d’informazione, anche dei doveri di dissuasione e sollecitazione, nel senso che il professionista è tenuto a consigliare al Cliente, se intraprendere l’azione giudiziaria o meno, fermo restando che il cliente non è, sotto nessun aspetto vincolato dal parere espresso dal Legale, ben potendo discostarsene, eventualmente consultando altri avvocati. L’errore professionale dell’avvocato determina responsabilità del medesimo, quando comprometta il buon esito del giudizio, mentre possono non considerarsi causa di responsabilità gli errori di valutazione, collegate a leggi, suscettibili di diverse interpretazioni, ove non si convertano nella probabilità di una compromissione del giudizio (Cass. civ., sez. II, 11.8.2005, n. 16846).

La violazione del dovere d’informazione costituisce, secondo un’interpretazione da non condividere, violazione del dovere di buona fede precontrattuale, di cui all’art. 1337 cod. civ., con conseguente obbligo del professionista inadempiente di risarcire il solo interesse negativo, ma configurare l’effettuazione di “trattative” tra professionista e cliente appare fuorviante, perché il dovere informativo si sostanzia in una parte essenziale della prestazione, dovuta dall’avvocato, così che si rientra nella responsabilità contrattuale. Va osservato come la disciplina, relativa al diritto all’informazione contrattuale abbia assunto, nel tempo, il rango di principio di “ordine pubblico”, a tutela della parte debole dl contratto; questa ricostruzione è applicabile anche agli assistiti da parte dei professionisti legali, assistiti che, nella maggior parte dei casi, non hanno cognizioni tecniche in materia di diritto e, pertanto, si affidano a chi dovrebbe avere tali nozioni.

Ai fini della configurazione di responsabilità professionale, per violazione del dovere d’informazione, si ritiene indifferente se la condotta successiva del professionista sia stata eseguita in modo adeguato o meno, perché ciò si colloca in un diverso settore di responsabilità, rispetto a quella, collegata all’avvenuta violazione del dovere informativo. Il quadro della giurisprudenza, relativa alla “colpa professionale”, svela la reciproca compenetrazione fra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, quale intreccio, fra l’interesse del Cliente a ricevere la prestazione informativa, di natura contrattuale, e interesse del medesimo alla conservazione della possibilità di decidere se agire in giudizio o no.

Il legale dovrà, altresì, informare il proprio assistito, ove in giudizio venga effettivamente sollevata l’eccezione di prescrizione. Appare difficile negare una responsabilità del professionista, nell’ipotesi in esame, in relazione all’art. 1176 cod. civ., il quale prescrive che l’opera del professionista venga svolta in base ai doveri attinenti l’attività professionale, con riguardo alla natura della medesima che egli svolge, enucleando così, nel settore delle attività professionali, un parametro diverso, rispetto a quello della diligenza del buon padre di famiglia, previsto come regola di base per le obbligazioni e configurando come parametro quello della diligenza del professionista “medio”. Come parametro normativo, andrà considerato anche l’art. 2236 cod. civ., il quale prevede che, ove il professionista intellettuale si trovi a dover risolvere problemi particolarmente difficoltosi, non risponde per colpa lieve, ma solo per dolo o colpa grave, con la precisazione che, nel nostro caso, ove si consideri la mancata rilevanza del decorso del termine prescrizionale come questione di scarsa difficoltà, la responsabilità andrà valutata con maggior rigore, includendosi anche i casi di colpa lieve. Emerge, da questa disciplina la distinzione fra attività “routinarie” e attività di esecuzione difficoltosa, anche se spesso in giurisprudenza questo binomio sfuma, per il consolidarsi di una tendenza restrittiva, nell’applicazione dell’art. 2236 c.civ.

A proposito dell’art. 2236 cod. civ., non sono mancate critiche alla disposizione in esame, sostenendosi l’assenza di una plausibile ragione, per la quale va applicato un regime di responsabilità meno intenso, quando venga in considerazione una questione particolarmente difficoltosa; ciò ha portato a ritenere applicabile la disposizione in parola solo ai casi di difetto di perizia professionale, a partire dall’orientamento espresso dalla sentenza della Corte costituzionale 28 novembre 1973, n. 166. Riguardo a un’ipotesi di applicazione dell’art. 2236, collegabile alla nostra vicenda, si è considerata ipotesi, tale da superare i limiti di diligenza dell’avvocato medio, la prospettabilità di una questione di prescrizione di livello tecnico superiore (cass 4 novembre 1990, n. 11612). E’ diffuso il convincimento della non applicabilità dell’art. 2236 all’attività d’informazione e consulenza dei professionisti intellettuali (tale tesi è stata originariamente espressa dalla Cassazione 11 dicembre 1969, n. 3958), perché il correlativo dovere deve, in ogni caso, considerarsi privo di speciale difficoltà, qualunque sia la natura e il contenuto della questione proposta, anche perché, in caso di materia che il professionista non conosca a fondo, questi può e deve esortare il cliente a rivolgersi ad altro avvocato, più esperto nella medesima.

Questi argomenti sono stati più di recente ripresi dalla sentenza Cassazione 16023-2002, la quale si occupa di una fattispecie, totalmente sovrapponibile a quella oggetto della traccia, e configura la responsabilità dell’avvocato che, nel rendere un parere “pro veritate” ometta di informare il Cliente, in relazione alla presenza di elementi, ostativi a una proficua instaurazione del giudizio, configurando anche una responsabilità per colpa lieve del professionista, quando, in concreto, emerga l’ignoranza d’istituti giuridici fondamentali, quale può essere la prescrizione. Secondo tale sentenza, la richiesta a un professionista legale di un parere “pro veritate” costituisce obbligazione di risultato, in quanto il dovere d’informazione, da fornire al cliente, è essenziale, rispetto al principio di buona fede contrattuale e viene correttamente adempiuto, solo ove all’assistito sia fornita una gamma d’informazioni esauriente sulla questione giuridica, con una corretta messa in rilievo di tutti gli elementi favorevoli all’assistito, nonché di quelli sfavorevoli. Il “risultato” richiesto al professionista è proprio l’ottenimento di un esauriente resoconto dei profili giuridici del quesito sottopostogli. In termini generali, perché vi sia nesso causale fra responsabilità del professionista e pregiudizio, subìto dal cliente, occorre la prova che una corretta condotta professionale avrebbe portato, con ragionevole probabilità, a un esito positivo della lite; sul piano causale, le omissioni di atti dovuti ex art. 40 c.p., quale il mancato rilievo del decorso del termine prescrizionale vanno equiparate ai comportamenti commissivi (Cass. 1286-1998).

Va, tuttavia, rilevato che, nel giudizio di appello, svoltosi nella vicenda giudiziaria, oggetto della sentenza del 2002 prima citata, il giudicante era pervenuto alla tesi opposta, negando la responsabilità dell’avvocato, nonostante il mancato rilievo, in sede stragiudiziale, dell’avvenuto decorso del termine di prescrizione del diritto dell’assistito, in quanto, secondo il Giudice d’appello, l’eventualità della proposizione della relativa eccezione, non poteva costituire remora alla proposizione della domanda, anche perché il cliente era stato reso edotto dell’eccezione in parola e, con ordinanza, il giudice, in un primo momento e in conformità a un esame provvisorio della questione, aveva ritenuto la probabile infondatezza dell’eccezione di prescrizione. Tale tesi è stata ribaltata dalla pronuncia della Cassazione, ma fa comprendere come non sia del tutto insostenibile l’opinione, volta a negare la responsabilità dell’avvocato, facendo leva sul fatto che la questione del computo del termine prescrizionale, nel caso specifico, sia di rilevante difficoltà.

Negare la responsabilità del professionista comporterebbe sostenere che l’omissione sulla questione della prescrizione non costituisca colpa grave dell’avvocato, anche in considerazione della circostanza che, in un primo momento, il Magistrato con ordinanza si era pronunciato nel senso della probabile infondatezza dell’eccezione di prescrizione (ma pur sempre con un provvedimento provvisorio, successivamente modificabile e tale da non pregiudicare la decisione definitiva della causa) prospettando, pertanto, la medesima questione come fondamentalmente incerta. In ogni modo, la tesi più conforme agli indirizzi prevalenti in giurisprudenza, e che in questa sede si ritiene preferibile, collega a una vicenda siffatta la responsabilità del professionista, anche se non può negarsi che, in concreto, i Giudici di merito spesso si dimostrano riluttanti a condannare gli avvocati, per responsabilità professionale, nei confronti del Cliente. In particolare, proprio riguardo al mancato rilievo, prima dell’introduzione del giudizio, dell’avvenuta estinzione del diritto per prescrizione, taluni Giudici di merito hanno affermato che tale presupposto non integra responsabilità del professionista, perché la prescrizione estintiva non è rilevabile “ex officio”, ma opera solo per eccezione di parte (in tal senso Trib. Perugia 12 Ottobre 1999). Può osservarsi, peraltro, che è ben difficile supporre che l’eccezione di prescrizione non sarà sollevata in corso di causa, essendo la medesima di pressoché immediata percezione, da parte della Difesa della controparte, salve le ipotesi di speciale difficoltà. Il Tribunale di Como, con la discutibile sentenza 10 giugno 2006, n. 1234 ha sostenuto che l’avvenuto decorso del termine prescrizionale non comporta automaticamente responsabilità del Legale, ove resti indimostrato chel’esperimento dell’azione giudiziaria avrebbe potuto avere successo.

Riguardo al fatto che il Comune non ha provveduto ad appellarsi alla sentenza di primo grado, nonostante il consiglio in tal senso del professionista, va osservato come questa circostanza non rilevi, ai fini della negazione di una responsabilità del medesimo, perché le decisioni sull’instaurazione, nonché sulla prosecuzione, di una lite giudiziaria, sono inderogabilmente di pertinenza del Cliente, il quale non è vincolato, neppure in minima misura, dall’avviso espresso sul punto dal professionista. Il dovere del professionista d’informare l’assistito della possibilità di proporre appello costituisce una prestazione autonoma, il cui adempimento non esime l’avvocato dalla responsabilità, per mancanza d’informazioni date.

In ogni caso, il fatto che l’errore commesso dall’avvocato nel giudizio di primo grado possa essere rimediato attraverso la proposizione dell’appello contro la sentenza sfavorevole non è sufficiente, di per sé, a escludere che la parte abbia risentito e continui a risentire danno dalla lamentata negligenza (Cass. Sez. III, 02/07/2010, n. 15718). Pertanto, non va esclusa la responsabilità professionale, che dipenda da un errore d’impostazione nella difesa dell’assistito, salvo che si riscontri un’assenza di colpa del legale. Ciò anche perché, in ogni caso, la proposizione di appello dilata i tempi della causa giudiziaria e determina un maggiore onere sull’assistito, anche se la sentenza in esame sembra addossare sul legale l’errore, relativo alla sentenza di primo grado, imputabile all’autorità giudiziaria, dilatando immotivatamente la responsabilità del professionista.

Né sembra decisiva, ai fini della negazione della responsabilità professionale, la circostanza che l’assistito sia un Comune, dotato presumibilmente di un’autonoma competenza in materia giuridica, perché trattasi di postulato indimostrato e non pertinente, permanendo gli obblighi d’informazione dell’avvocato, senza una diminuzione d’intensità degli stessi. La mancata esplicitazione del decorso della prescrizione appare una mancanza rilevante del professionista e appare non condivisibile la difesa, effettuata dal medesimo, nel senso che tale omissione non implica l’assenza di un adeguato esame dei vari profili della questione giuridica, al medesimo sottoposta, data la consistente rilevanza sistematica dell’istituto in parola. In ogni modo, può osservarsi che la traccia non precisi se questa sia stata l’unica omissione del professionista e non chiarifichi se, per il resto, il parere sia stato reso in modo adeguato.

Si conclude, pertanto, nel senso della possibilità, per il Comune, di opporsi alla richiesta del pagamento dei compensi, effettuata dall’avvocato, attraverso un’eccezione d’inadempimento (art. 1460 cod. civ), con contestuale possibilità di domandare il risarcimento dei danni per l’inadempimento del professionista. Ovviamente, a conclusione esattamente opposta si dovrà pervenire, ove si aderisca alla tesi, qui rifiutata, ma in astratto sostenibile, secondo cui manca una responsabilità dell’avvocato per inadempimento; in tal caso, il professionista dovrà essere integralmente pagato. Potrebbe anche ipotizzarsi una responsabilità per inesatto adempimento del professionista e disporsi una riduzione del compenso dovutogli, tenendosi conto delle varie circostanze. In ogni caso, trattasi di adempimento contrattuale e non precontrattuale, per le ragioni sopra esposte.

L’applicazione della disciplina dell’eccezione d’inadempimento (art. 1460 c. civ.) presuppone che la parte, che ha proposto l’eccezione (nel nostro caso, il cliente del professionista) dimostri che la controparte è inadempiente. L’eccezione in parola è eccezione in senso sostanziale, rimessa all’iniziativa delle parti, non rilevabile d’ufficio dal Giudice (cfr. Cassazione 30 marzo 1989, n. 554), sollevabile in giudizio (anche in sede d’appello) dalla parte, convenuta per l’inadempimento. Non sono, peraltro, mancate opinioni, nel senso della rilevabilità d’ufficio dell’eccezione in parola da parte del Giudice, il quale dichiari, legittimo il comportamento inadempiente della parte convenuta, ove l’inadempimento dell’attore risulti dagli atti (SACCO; BIGLIAZZI-GERI). Si è anche sostenuto (GALGANO) che l’eccezione di adempimento possa anche essere stragiudiziale, con la conseguenza che è legittimo il comportamento, consistente nel rifiuto di adempiere, quando l’altro contraente sia inadempiente. Aderendo a quest’opinione, che sembra condivisibile, nella nostra vicenda, il cliente potrà eccepire l’inadempimento del professionista, anche ove questi non agisca giudiziariamente, per ottenere il pagamento dei dodicimila euro, richieste come compenso per l’attività professionale svolta.

Il rifiuto di adempiere presuppone, ai fini della sua legittimità, la non scarsa importanza dell’inadempimento della controparte, ai sensi dell’art. 1455 c.civ., che, nella nostra vicenda, sussiste, ove si presupponga un’agevole individuazione, per un esperto di diritto, dell’avvenuto decorso del termine prescrizionale. Può ritenersi che la buona fede, requisito essenziale per la legittimità del rifiuto di adempiere, in conformità all’art. 1460 c.civ., va valutata, avuto riguardo all’interdipendenza causale fra i due inadempimenti (Cass. 23 ottobre 1976-3809). Occorre valutare comparativamente il comportamento delle parti inadempienti reciprocamente, con riguardo alle reciproche conseguenze, dovendosi riscontrare una certa proporzionalità fra le conseguenze dell’inadempimento attoreo e di quello scaturente dalla correlativa eccezione del convenuto, anche avuto riguardo al profilo cronologico e al nesso di causalità (Cass. 21 maggio 1990-4565).

L’eccezione in parola può esser sollevata anche in caso d’inadempimento parziale; pertanto, la circostanza che, sotto altri profili, l’avvocato abbia eventualmente bene adempiuto i suoi compiti, durante la controversia giudiziaria, introdotta per conto del Comune, non preclude la proponibilità della relativa eccezione. Quest’ultima trae fondamento dal nesso d’interdipendenza, che lega le prestazioni, nel rapporto sinallagmatico, in cui assumono rilievo non solo le obbligazioni principali, ma anche quelle accessorie di reciproca collaborazione e informazione (a maggior ragione, nel rapporto fra cliente e professionista legale), dovendosi privilegiare l’attenzione sul dovere informativo, quando l’inadempimento di questo abbia causato un pregiudizio, per la controparte, come nella nostra ipotesi (Cass. 16 gennaio 1997, n. 387, 27 settembre 1999, n. 10668).