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Introduzione alla mediazione

Estratto da "La mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali" - Filodiritto Editore - 2011 - www.filodirittoeditore.com
[Estratto da "La mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali" - Filodiritto Editore - 2011 - www.filodirittoeditore.com]

I sistemi di gestione dei conflitti non hanno avuto nella storia i confini netti che, dalla rivoluzione industriale in poi, noi abbiamo ritenuto sussistere.

A ben analizzare quello che è il nostro percorso, ossia quello di matrice greco-romana, riscontriamo che detti sistemi non sono stati percepiti, perlomeno sino alla fine dell’Ottocento , come percorsi alternativi, ma al limite complementari e senz’altro coesistenti nell’ordinamento.

La stessa attuale distinzione tra sistemi di ordine imposto e di ordine negoziato è probabilmente una mera e tarda convenzione: Platone ne “Le Leggi” ci parla di giudici scelti dalle parti che è meglio definire arbitri e che costituiscono il grado inferiore dei primi giudici, i quali a loro volta hanno come corte di riforma, ossia di appello, il Senato: di talché ciascuno di noi può capire che nell’antichità l’idea di giustizia non era vicinissima alla nostra.

In epoca giustinianea la differenza tra arbitrato e conciliazione non riposava sulla natura decisoria del secondo, ma semplicemente sul fatto che l’arbiter si obbligava a decidere, mentre il conciliatore al contrario non assumeva alcun impegno.

Forse tale modo di vedere si diffuse perché la conciliazione ha avuto per secoli connotazioni marcatamente valutative e solo dagli anni ‘70 in poi è entrato in gioco anche il modello facilitativo.

Inoltre nell’antichità non c’era una netta distinzione di ruoli tra i gestori del conflitto: ad Atene nel periodo classico alcuni giudici, i Dieteti, svolgevano funzioni sia di arbitrato, sia di conciliazione, ed era usuale che prima di un approccio contenzioso si tentasse la conciliazione o l’arbitrato mediante l’ausilio dei prossimi congiunti o magari dei vicini.

A Roma l’arbiter (o gli arbitri) era chiamato a giudicare dal praetor che si limitava ad istruire il processo: ai tempi di Cicerone non si riusciva a distinguere con esattezza lo iudex dall’arbiter, e ciò anche perché le questioni bagatellari venivano affidate (al contrario di oggi) allo iudex, mentre all’arbiter si assegnavano le questioni più complesse non solo dal lato tecnico, ma anche da quello giuridico.

Il praetor aveva poi il duplice ruolo di giudicare con equità e conciliare i litiganti, quando non ci riuscissero privatamente e ciò faceva nel foro e pure nelle dimore private (si tratta della cosiddetta giurisdizione de plano).

Nel Medioevo perlomeno in Occidente le magistrature minori (Difensori di città, Sculdasci, Baiuli, Consoli di giustizia ecc.), hanno svolto, almeno nelle questioni di minor rilevo economico, compiti di conciliazione, arbitrato e giurisdizionali; spesso potremmo dire che non avevano nemmeno una vera e propria giurisdizione, almeno nel senso moderno del termine.

I Vescovi stessi, che non avevano di certo una giurisdizione temporale, nell’era cristiana furono autorizzati ad intromettersi negli affari civili dei fedeli quali conciliatori ed arbitri.

Quando Innocenzo III papa (1160-1216 d. C.) istituì il processo canonico scritto, si preoccupò subito di disciplinare il tentativo di conciliazione e la legislazione canonica si fuse col diritto comune in molti paesi.

Per la prima volta sentiamo parlare di Giudici civili sotto Federico II, essi tuttavia non erano dei magistrati “togati”, ma semplici laureati in giurisprudenza a cui le parti affidavano volontariamente le conciliazioni delle loro controversie e pronunciavano sentenza solo in caso di mancato accordo delle parti. Diremmo noi moderni che tale sistema può considerarsi un quasi antenato del med-arb così diffuso nei paesi anglosassoni.

All’arbitrato sono sempre state devolute le questioni familiari (v. l’istituzione dei tribunali di famiglia) e sino alla metà dell’Ottocento anche la materia societaria era perlopiù oggetto di arbitrato obbligatorio.

Il conciliatore del Regno delle Due Sicilie e quello italiano del 1865 tenevano di norma due registri: uno per conciliazioni e compromessi e l’altro per i giudizi . Entrambi potevano, al pari di qualsiasi cittadino, svolgere la funzione arbitrale che peraltro rivestivano abitualmente ed inappellabilmente per le questioni di modica entità.

Emerge inoltre, sin dalle origini, il fatto che il giudizio fosse comunque visto come un’estrema ratio.

Già le XII tavole, infatti, dopo avere sancito tra i litiganti la validità “dell’accordo per via”, precisavano che solo nel caso in cui esso non si fosse raggiunto, ambedue le parti potevano comparire nel foro o nel comizio per perorare la loro causa ed il praetor conosceva della causa prima di mezzogiorno.

Tale impostazione, per necessità o per convinzione, si è mantenuta sino ai giorni nostri, anche successivamente alla Rivoluzione francese, con la conciliazione preventiva obbligatoria del 1790.

Le regole della negoziazione che in ultimo ci hanno consegnato i professori di Harvard e la successiva evoluzione degli strumenti alternativi hanno trovato in Occidente e pure in Oriente un retroterra molto antico e assai solido.

Si tratta di regole molto particolari, che spesso si distaccano da quello che è il pensare comune e ciò perché sono nate per far fronte ad un determinato tipo di società, quella rurale, che si caratterizzava per il diffuso vincolo di parentela. Paradigmatica in questo senso è l’esperienza cinese.

In Cina la conciliazione “tra gli uomini” è nata circa 6000 anni fa.

In una società di contadini legati da vincoli di sangue si assunse necessariamente come valore da salvaguardare quello della comunità delle famiglie, del clan familiare: l’interesse del singolo acquistava importanza soltanto nel momento in cui fosse consono a quello comunitario.

Chi sapeva rinunciare al proprio interesse era oggetto di riguardo, mentre chi perseguiva il proprio tornaconto era assai biasimato.

Non era dunque un bene per la comunità che il singolo volesse imporre la sua volontà attraverso il processo; era la stessa famiglia che doveva insegnare ai figli a non alimentare il contenzioso, con il risultato che, quando lo stesso fosse stato promosso, si veniva a determinare un vero e proprio disonore.

In una società di questo tipo non esistevano (ed entro certi limite non esistono nemmeno oggi) categorie come creditore e debitore, torto e ragione, né la convinzione che il colpevole dovesse subire una punizione (tranne, naturalmente, in caso di reato), ma solo l’accomodamento ad ogni costo, in virtù del mantenimento del vincolo familiare.

Nel momento in cui in una società semplice entra in gioco il principio di specializzazione, arrivano, cioè, in un determinato territorio gli specialisti di una determinata attività (artigiani, operai ecc.) - processo che nella sterminata Cina è stato assai lento e potremmo dire non ancora del tutto completato -, i vincoli familiari si attenuano ed è qui che l’interesse singolo inizia a divenire predominante, è qui che mancando il vincolo di sangue l’avversario diviene dapprima estraneo e poi nemico e si sente dunque l’esigenza di vincere e non di co-vincere; è qui, in una parola, che nasce l’esigenza del processo nel quale una parte vince e l’altra perde.

Ma se il processo non è in grado per mille motivi di risolvere il conflitto, ed anzi lo alimenta, non si può che tentare di tornare indietro.

Non a caso, dunque, gli studiosi americani hanno cercato di riportare nella società conflittuale degli anni ’70 modelli primitivi dove fosse forte il legame familiare e non è un caso che anche in Cina, dopo i timidi entusiasmi degli anni ’80 e ’90 legati al tentativo di imporre un modello legislativo occidentale, si sta tornando a quelle regole concrete che hanno retto per millenni i clan familiari.

[Estratto da "La mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali" - Filodiritto Editore - 2011 - www.filodirittoeditore.com]

I sistemi di gestione dei conflitti non hanno avuto nella storia i confini netti che, dalla rivoluzione industriale in poi, noi abbiamo ritenuto sussistere.

A ben analizzare quello che è il nostro percorso, ossia quello di matrice greco-romana, riscontriamo che detti sistemi non sono stati percepiti, perlomeno sino alla fine dell’Ottocento , come percorsi alternativi, ma al limite complementari e senz’altro coesistenti nell’ordinamento.

La stessa attuale distinzione tra sistemi di ordine imposto e di ordine negoziato è probabilmente una mera e tarda convenzione: Platone ne “Le Leggi” ci parla di giudici scelti dalle parti che è meglio definire arbitri e che costituiscono il grado inferiore dei primi giudici, i quali a loro volta hanno come corte di riforma, ossia di appello, il Senato: di talché ciascuno di noi può capire che nell’antichità l’idea di giustizia non era vicinissima alla nostra.

In epoca giustinianea la differenza tra arbitrato e conciliazione non riposava sulla natura decisoria del secondo, ma semplicemente sul fatto che l’arbiter si obbligava a decidere, mentre il conciliatore al contrario non assumeva alcun impegno.

Forse tale modo di vedere si diffuse perché la conciliazione ha avuto per secoli connotazioni marcatamente valutative e solo dagli anni ‘70 in poi è entrato in gioco anche il modello facilitativo.

Inoltre nell’antichità non c’era una netta distinzione di ruoli tra i gestori del conflitto: ad Atene nel periodo classico alcuni giudici, i Dieteti, svolgevano funzioni sia di arbitrato, sia di conciliazione, ed era usuale che prima di un approccio contenzioso si tentasse la conciliazione o l’arbitrato mediante l’ausilio dei prossimi congiunti o magari dei vicini.

A Roma l’arbiter (o gli arbitri) era chiamato a giudicare dal praetor che si limitava ad istruire il processo: ai tempi di Cicerone non si riusciva a distinguere con esattezza lo iudex dall’arbiter, e ciò anche perché le questioni bagatellari venivano affidate (al contrario di oggi) allo iudex, mentre all’arbiter si assegnavano le questioni più complesse non solo dal lato tecnico, ma anche da quello giuridico.

Il praetor aveva poi il duplice ruolo di giudicare con equità e conciliare i litiganti, quando non ci riuscissero privatamente e ciò faceva nel foro e pure nelle dimore private (si tratta della cosiddetta giurisdizione de plano).

Nel Medioevo perlomeno in Occidente le magistrature minori (Difensori di città, Sculdasci, Baiuli, Consoli di giustizia ecc.), hanno svolto, almeno nelle questioni di minor rilevo economico, compiti di conciliazione, arbitrato e giurisdizionali; spesso potremmo dire che non avevano nemmeno una vera e propria giurisdizione, almeno nel senso moderno del termine.

I Vescovi stessi, che non avevano di certo una giurisdizione temporale, nell’era cristiana furono autorizzati ad intromettersi negli affari civili dei fedeli quali conciliatori ed arbitri.

Quando Innocenzo III papa (1160-1216 d. C.) istituì il processo canonico scritto, si preoccupò subito di disciplinare il tentativo di conciliazione e la legislazione canonica si fuse col diritto comune in molti paesi.

Per la prima volta sentiamo parlare di Giudici civili sotto Federico II, essi tuttavia non erano dei magistrati “togati”, ma semplici laureati in giurisprudenza a cui le parti affidavano volontariamente le conciliazioni delle loro controversie e pronunciavano sentenza solo in caso di mancato accordo delle parti. Diremmo noi moderni che tale sistema può considerarsi un quasi antenato del med-arb così diffuso nei paesi anglosassoni.

All’arbitrato sono sempre state devolute le questioni familiari (v. l’istituzione dei tribunali di famiglia) e sino alla metà dell’Ottocento anche la materia societaria era perlopiù oggetto di arbitrato obbligatorio.

Il conciliatore del Regno delle Due Sicilie e quello italiano del 1865 tenevano di norma due registri: uno per conciliazioni e compromessi e l’altro per i giudizi . Entrambi potevano, al pari di qualsiasi cittadino, svolgere la funzione arbitrale che peraltro rivestivano abitualmente ed inappellabilmente per le questioni di modica entità.

Emerge inoltre, sin dalle origini, il fatto che il giudizio fosse comunque visto come un’estrema ratio.

Già le XII tavole, infatti, dopo avere sancito tra i litiganti la validità “dell’accordo per via”, precisavano che solo nel caso in cui esso non si fosse raggiunto, ambedue le parti potevano comparire nel foro o nel comizio per perorare la loro causa ed il praetor conosceva della causa prima di mezzogiorno.

Tale impostazione, per necessità o per convinzione, si è mantenuta sino ai giorni nostri, anche successivamente alla Rivoluzione francese, con la conciliazione preventiva obbligatoria del 1790.

Le regole della negoziazione che in ultimo ci hanno consegnato i professori di Harvard e la successiva evoluzione degli strumenti alternativi hanno trovato in Occidente e pure in Oriente un retroterra molto antico e assai solido.

Si tratta di regole molto particolari, che spesso si distaccano da quello che è il pensare comune e ciò perché sono nate per far fronte ad un determinato tipo di società, quella rurale, che si caratterizzava per il diffuso vincolo di parentela. Paradigmatica in questo senso è l’esperienza cinese.

In Cina la conciliazione “tra gli uomini” è nata circa 6000 anni fa.

In una società di contadini legati da vincoli di sangue si assunse necessariamente come valore da salvaguardare quello della comunità delle famiglie, del clan familiare: l’interesse del singolo acquistava importanza soltanto nel momento in cui fosse consono a quello comunitario.

Chi sapeva rinunciare al proprio interesse era oggetto di riguardo, mentre chi perseguiva il proprio tornaconto era assai biasimato.

Non era dunque un bene per la comunità che il singolo volesse imporre la sua volontà attraverso il processo; era la stessa famiglia che doveva insegnare ai figli a non alimentare il contenzioso, con il risultato che, quando lo stesso fosse stato promosso, si veniva a determinare un vero e proprio disonore.

In una società di questo tipo non esistevano (ed entro certi limite non esistono nemmeno oggi) categorie come creditore e debitore, torto e ragione, né la convinzione che il colpevole dovesse subire una punizione (tranne, naturalmente, in caso di reato), ma solo l’accomodamento ad ogni costo, in virtù del mantenimento del vincolo familiare.

Nel momento in cui in una società semplice entra in gioco il principio di specializzazione, arrivano, cioè, in un determinato territorio gli specialisti di una determinata attività (artigiani, operai ecc.) - processo che nella sterminata Cina è stato assai lento e potremmo dire non ancora del tutto completato -, i vincoli familiari si attenuano ed è qui che l’interesse singolo inizia a divenire predominante, è qui che mancando il vincolo di sangue l’avversario diviene dapprima estraneo e poi nemico e si sente dunque l’esigenza di vincere e non di co-vincere; è qui, in una parola, che nasce l’esigenza del processo nel quale una parte vince e l’altra perde.

Ma se il processo non è in grado per mille motivi di risolvere il conflitto, ed anzi lo alimenta, non si può che tentare di tornare indietro.

Non a caso, dunque, gli studiosi americani hanno cercato di riportare nella società conflittuale degli anni ’70 modelli primitivi dove fosse forte il legame familiare e non è un caso che anche in Cina, dopo i timidi entusiasmi degli anni ’80 e ’90 legati al tentativo di imporre un modello legislativo occidentale, si sta tornando a quelle regole concrete che hanno retto per millenni i clan familiari.