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Separazione personale dei coniugi e assegnazione della casa familiare in comodato: nuovo passo indietro della Cassazione

Nota a Corte di Cassazione – Sezione Terza Civile, sentenza 7 luglio 2010, n. 15986
Con sentenza n. 15986 del 7 luglio 2010 la Terza Sezione civile della Corte di Cassazione ha stabilito che “nel comodato precario avente ad oggetto un bene immobile, la determinazione del termine di efficacia del vinculum iuris è rimessa in via potestativa alla sola volontà del comodante, che ha facoltà di manifestarla ad nutum con la semplice richiesta di restituzione del bene, senza che assuma rilievo la circostanza che l’immobile fosse stato adibito ad uso familiare ed assegnato, in sede di separazione dei coniugi, all’affidatario dei figli”.

Com’è noto, il comodato (o prestito d’uso) è il contratto con cui, secondo quanto dispone l’art. 1803, comma 1, Codice Civile, una parte (c.d. comodante) consegna all’altra parte (c.d. comodatario) una cosa, mobile o immobile, “affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta”. Aggiunge il comma 2 del citato articolo che esso è “essenzialmente gratuito”.

Il contratto di comodato cessa alla scadenza del termine pattuito ovvero, in mancanza di un termine, quando il comodatario si è servito della cosa per l’uso convenuto (art. 1809, comma 1, c.c.); tuttavia, il comodante, senza dover attendere lo spirare del termine di scadenza o che il comodatario abbia terminato di servirsi della cosa che ha concesso gratuitamente in prestito, può esigerne la sua immediata restituzione qualora sopravvenga un urgente ed impreveduto bisogno (cfr. art. 1809, comma 2, c.c.). E’ altresì prevista la restituzione immediata della cosa qualora il contratto non preveda un termine né questo possa essere stabilito dall’uso cui la cosa è destinata (c.d. comodato precario, art. 1810 c.c.), nonché in caso di morte del comodatario (art. 1811 c.c.), a sottolineare il carattere fiduciario del rapporto, e, infine, ai sensi dell’art. 1804, comma 3, c.c., nel caso di inadempimento alle obbligazioni del comodatario medesimo previste dall’anzidetto articolo ai commi 1 e 2.

Particolari questioni di disciplina sorgono nell’ipotesi, come quella sottoposta all’esame della Corte di Cassazione nella sentenza che qui si commenta, in cui un terzo abbia concesso in comodato a termine indeterminato un bene immobile di sua proprietà affinché sia destinato a casa familiare e successivamente i coniugi si separino con assegnazione in sede giudiziale dell’immobile in favore dell’affidatario dei figli. In questi casi, infatti, è essenziale operare un bilanciamento tra l’interesse della comunità familiare, e specificamente della prole, alla conservazione dell’ambiente domestico, e quello del proprietario del bene, che è estraneo alle vicende del nucleo ed al giudizio tra i coniugi, a recuperarne la disponibilità.

In materia di separazione personale dei coniugi, l’art. 155 quater c.c., inserito dall’art. 1, comma 2, della l. 8 febbraio 2006, n. 54, stabilisce che “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli”, specificando, poi, che di tale assegnazione si debba tener conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori.

La disposizione menzionata sembra abbia recepito quanto pacificamente sostenuto in giurisprudenza fino all’entrata in vigore della legge sull’affido condiviso, ovvero che “l’assegnazione della casa familiare in caso di separazione personale o divorzio risponda all’esigenza di garantire l’interesse dei figli alla conservazione dell’ambiente domestico, inteso come centro degli affetti, degli interessi e delle abitudini in cui si esprime e si articola la vita familiare” (cfr. Cass. civ., sez. I, 27 novembre 1996, n. 10538; Cass. civ., sez. I, 22 gennaio 1998, n. 565; Cass. civ., sez. I, 8 maggio 1998, n. 4679; Cass. civ., sez. I, 23 maggio 2000, n. 6706; Cass. civ., sez. I, 9 settembre 2002, n. 13065; Cass. civ., sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2338).

Ora, come anticipato in precedenza, problemi sorgono nel caso in cui un immobile, inizialmente concesso a termine indeterminato in comodato per essere adibito a casa familiare, venga assegnato, in seguito alla separazione personale dei coniugi, al coniuge affidatario dei figli.

In proposito, nel secolo scorso, il principio consolidato espresso dalla giurisprudenza di legittimità è stato sempre nel senso di ravvisare una successione ex lege del coniuge assegnatario nell’originario rapporto di comodato, con conseguente applicabilità della disciplina propria di tale contratto, compreso, tra l’altro, il diritto del comodante di recedere ad nutum dallo stesso (in questo senso si vedano: Cass. civ., sez. III, 26 gennaio 1995, n. 929, che ha peraltro precisato che il provvedimento di assegnazione, non opponibile ai terzi, è attributivo non di un diritto reale, ma di un diritto personale di godimento, variamente segnato da tratti di atipicità, precisazione confermata successivamente da Cass. civ., Sez. Un., 26 luglio 2002, n. 11096; Cass. civ., sez. III, 4 marzo 1998, n. 2407).

Isolata appariva, invece, la sentenza del 10 dicembre 1996, n. 10977, in cui la Suprema Corte affermava che, quando il provvedimento di assegnazione della casa familiare, in seno alla separazione personale dei coniugi, si renda opponibile al terzo proprietario e quando l’alloggio sia utilizzato dai coniugi stessi in virtù di un contratto di comodato senza predeterminazione di un termine finale, la durata dell’utilizzazione dell’immobile è governata dalla disciplina fissata nel provvedimento giudiziale di assegnazione e non da quella propria del rapporto originario di comodato.

Sul punto, di poi, intervenivano le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 13603 del 21 luglio 2004, le quali, richiamandosi alla precedente giurisprudenza di legittimità in materia, avevano aderito all’orientamento allora consolidato che ravvisava una successione ex lege del coniuge assegnatario nell’originario rapporto di comodato, facendo perno sul fatto che “l’ordinamento non stabilisce una ‹‹funzionalizzazione assoluta›› del diritto di proprietà del terzo a tutela di diritti che hanno radice nella solidarietà coniugale o postconiugale” e, quindi, “il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa, idoneo ad escludere uno dei coniugi dalla utilizzazione in atto e a ‹‹concentrare›› il godimento del bene in favore della persona dell’assegnatario, resta regolato dalla disciplina del comodato negli stessi limiti che segnavano il godimento da parte della comunità domestica nella fase fisiologica della vita matrimoniale”.

Di conseguenza, precisavano le Sezioni Unite, “ove il comodato sia stato convenzionalmente stabilito a termine indeterminato (diversamente da quello nel quale sia stato espressamente ed univocamente stabilito un termine finale), il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell’art. 1809, co. 2, c.c.”.

La suddetta sentenza non è andata esente da critiche da parte della dottrina; in particolare, autorevole Autore ha definito “un’evidente forzatura, in nome non già del diritto, ma dell’equità”, l’interpretazione della Cassazione “perché”, a dire dell’Autore, “è assurdo entificare la comunità domestica, quasi fosse una società civile” (Francesco Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, 395).

Nonostante le critiche dottrinali, l’evoluzione giurisprudenziale successiva, sia di merito che di legittimità, si è prevalentemente adeguata all’orientamento suddetto delle Sezioni Unite (si veda, in particolare, Cass. 18 luglio 2008, n. 19939; tra le pronunce di merito, in senso analogo si esprimono Trib. Padova 18 novembre 2008; Trib. Bari-Modugno 29 gennaio 2008), anche se non del tutto (si veda: Cass. civ., 4 maggio 2005, n. 9253; Cass. civ., sez. I, 13 febbraio 2007, n. 3179, in cui si afferma nuovamente che l’assegnazione dell’immobile in sede di separazione determina la successione del coniuge assegnatario nel rapporto di comodato, senza modificarne l’originaria fonte contrattuale, con la conseguenza che il comodante può legittimamente esercitare il recesso nei confronti dell’assegnatario; tra le pronunce di merito, in senso analogo si esprimono Trib. Genova 29 ottobre 2007; Trib. Novara 22 giugno 2009).

In particolare, la sentenza che si commenta, richiamando semplicemente, anzi, in maniera sbrigativa un suo precedente, che, per quanto si è appena detto, sembrava essere ormai superato in giurisprudenza (Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 1997, n. 10258) rimette nuovamente in discussione l’anzidetto orientamento prevalente in seno alla corte di legittimità: anteponendo l’interesse del proprietario del bene a recuperarne la disponibilità a quello della famiglia alla conservazione dell’ambiente domestico, la Suprema Corte afferma che, nel c.d. comodato precario, nessuna rilevanza assume la circostanza che l’immobile fosse stato adibito ad uso familiare ed assegnato, in sede di separazione dei coniugi, all’affidatario dei figli e, pertanto, il comodante può recedere ad nutum dal contratto medesimo.

Sulla sentenza in questione giova articolare alcune osservazioni.

La decisione della Cassazione, seppur in contrasto con l’orientamento prevalente nella materia in esame, è in sintonia con l’altro consolidato e condivisibile orientamento secondo cui non può desumersi la determinazione della durata del comodato dalla destinazione abitativa cui per sua natura è adibito l’immobile, in difetto di espressa convenzione sul punto, derivando da tale destinazione soltanto la indicazione di un uso indeterminato e continuativo, inidoneo a sorreggere un termine finale (cfr., ex plurimis, Cass. civ., sez. III, 20 gennaio 1984 n. 491; Cass. civ., sez. III, 18 gennaio 1985 n. 133; Cass. civ., sez. I, 22 marzo 1994, n. 2750; Cass. civ., sez. III, 8 marzo 1995, n. 2719; Cass. civ., sez. I, 8 ottobre 1997, n. 9775).

Pertanto, ove le parti abbiano concordato che il contratto di comodato abbia durata indeterminata, senza determinarne esplicitamente l’uso familiare cui la cosa doveva essere destinata, ai sensi dell’art. 1810 c.c., il comodante può chiederne l’immediata restituzione, senza che assuma rilevanza il fatto che l’immobile fosse stato adibito ad uso familiare ed assegnato, in sede di separazione dei coniugi, all’affidatario dei figli, come sostiene giustamente la Cassazione.

Diverso, invece, è il caso della concessione del bene in comodato nella specifica prospettiva della sua utilizzazione quale casa familiare senza determinazione di durata, la quale concessione assume rilevanza, soprattutto in merito alla ravvisabilità di un termine di durata del rapporto stesso, collegato alla destinazione della cosa.

Come emerge dalla lettura dei citati articoli 1803, comma 1, 1809 e 1810 c.c., la durata del comodato può essere espressamente ancorata dalle parti alla scadenza di un termine oppure può implicitamente dipendere dall’uso per il quale la cosa viene consegnata. Qualora ricorrano tali ipotesi, il comodante non può chiedere la restituzione della cosa prima della scadenza del termine o prima che il comodatario si sia servito della cosa per l’uso convenuto, salvo sopravvenga un urgente ed imprevisto bisogno, nel qual caso, come previsto dall’art. 1809, comma 2, c.c., è ammessa la facoltà di esigerne l’immediata restituzione.

Ora, se per effetto della concorde volontà delle parti viene a configurarsi un vincolo di destinazione dell’immobile alle esigenze abitative familiari, questo vincolo è idoneo a conferire all’uso cui la cosa doveva essere destinata il carattere di termine implicito della durata del rapporto, la cui scadenza è strettamente correlata alla destinazione impressa ed alle finalità cui essa tende, e non può considerarsi caducato per il sopravvenire della crisi coniugale, prescindendo detta destinazione dalla effettiva composizione, al momento della concessione in comodato, della comunità domestica, con la conseguenza che il comodante può chiedere l’immediata restituzione dell’immobile solo nel caso dimostri un urgente ed imprevisto bisogno, come previsto dall’art. 1809, comma 2, c.c..

In proposito, e a sostegno di quanto si è appena riferito, si deve ricordare quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 454 del 27 luglio 1989, secondo cui, in materia di separazione personale, effetto precipuo del provvedimento di assegnazione è quello di stabilizzare, a tutela della prole, la preesistente organizzazione che trova nella casa familiare il suo momento di aggregazione ed unificazione, escludendo uno dei coniugi da tale contesto e concentrando la detenzione in favore, oltre che della prole, del coniuge, che, pur potendo non essere stato parte formale del negozio attributivo del godimento, era comunque componente del nucleo in favore del quale il godimento stesso era stato concesso.

Pertanto, pur condividendo l’ultimo orientamento della Cassazione, occorre, a mio avviso, valutare le peculiarità di ciascun caso concreto.

In altri termini, considerato che, come si è detto sopra, secondo consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, l’effettività della destinazione a casa familiare da parte del comodante non può essere desunta dalla mera natura immobiliare del bene concesso, occorre verificare la comune intenzione delle parti attraverso una valutazione globale dell’intero contesto nel quale il contratto si è perfezionato, la natura dei rapporti tra le medesime, gli interessi perseguiti e ogni altro elemento che possa far luce sulla effettiva intenzione di dare e ricevere il bene allo specifico fine della sua destinazione a casa familiare oppure no. Soltanto dopo aver compiuto questo accertamento in fatto, si può stabilire quale norma applicare al caso sottoposto a giudizio, ovvero o l’art. 1809, comma 2, o l’art. 1810 c.c..

Con sentenza n. 15986 del 7 luglio 2010 la Terza Sezione civile della Corte di Cassazione ha stabilito che “nel comodato precario avente ad oggetto un bene immobile, la determinazione del termine di efficacia del vinculum iuris è rimessa in via potestativa alla sola volontà del comodante, che ha facoltà di manifestarla ad nutum con la semplice richiesta di restituzione del bene, senza che assuma rilievo la circostanza che l’immobile fosse stato adibito ad uso familiare ed assegnato, in sede di separazione dei coniugi, all’affidatario dei figli”.

Com’è noto, il comodato (o prestito d’uso) è il contratto con cui, secondo quanto dispone l’art. 1803, comma 1, Codice Civile, una parte (c.d. comodante) consegna all’altra parte (c.d. comodatario) una cosa, mobile o immobile, “affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta”. Aggiunge il comma 2 del citato articolo che esso è “essenzialmente gratuito”.

Il contratto di comodato cessa alla scadenza del termine pattuito ovvero, in mancanza di un termine, quando il comodatario si è servito della cosa per l’uso convenuto (art. 1809, comma 1, c.c.); tuttavia, il comodante, senza dover attendere lo spirare del termine di scadenza o che il comodatario abbia terminato di servirsi della cosa che ha concesso gratuitamente in prestito, può esigerne la sua immediata restituzione qualora sopravvenga un urgente ed impreveduto bisogno (cfr. art. 1809, comma 2, c.c.). E’ altresì prevista la restituzione immediata della cosa qualora il contratto non preveda un termine né questo possa essere stabilito dall’uso cui la cosa è destinata (c.d. comodato precario, art. 1810 c.c.), nonché in caso di morte del comodatario (art. 1811 c.c.), a sottolineare il carattere fiduciario del rapporto, e, infine, ai sensi dell’art. 1804, comma 3, c.c., nel caso di inadempimento alle obbligazioni del comodatario medesimo previste dall’anzidetto articolo ai commi 1 e 2.

Particolari questioni di disciplina sorgono nell’ipotesi, come quella sottoposta all’esame della Corte di Cassazione nella sentenza che qui si commenta, in cui un terzo abbia concesso in comodato a termine indeterminato un bene immobile di sua proprietà affinché sia destinato a casa familiare e successivamente i coniugi si separino con assegnazione in sede giudiziale dell’immobile in favore dell’affidatario dei figli. In questi casi, infatti, è essenziale operare un bilanciamento tra l’interesse della comunità familiare, e specificamente della prole, alla conservazione dell’ambiente domestico, e quello del proprietario del bene, che è estraneo alle vicende del nucleo ed al giudizio tra i coniugi, a recuperarne la disponibilità.

In materia di separazione personale dei coniugi, l’art. 155 quater c.c., inserito dall’art. 1, comma 2, della l. 8 febbraio 2006, n. 54, stabilisce che “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli”, specificando, poi, che di tale assegnazione si debba tener conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori.

La disposizione menzionata sembra abbia recepito quanto pacificamente sostenuto in giurisprudenza fino all’entrata in vigore della legge sull’affido condiviso, ovvero che “l’assegnazione della casa familiare in caso di separazione personale o divorzio risponda all’esigenza di garantire l’interesse dei figli alla conservazione dell’ambiente domestico, inteso come centro degli affetti, degli interessi e delle abitudini in cui si esprime e si articola la vita familiare” (cfr. Cass. civ., sez. I, 27 novembre 1996, n. 10538; Cass. civ., sez. I, 22 gennaio 1998, n. 565; Cass. civ., sez. I, 8 maggio 1998, n. 4679; Cass. civ., sez. I, 23 maggio 2000, n. 6706; Cass. civ., sez. I, 9 settembre 2002, n. 13065; Cass. civ., sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2338).

Ora, come anticipato in precedenza, problemi sorgono nel caso in cui un immobile, inizialmente concesso a termine indeterminato in comodato per essere adibito a casa familiare, venga assegnato, in seguito alla separazione personale dei coniugi, al coniuge affidatario dei figli.

In proposito, nel secolo scorso, il principio consolidato espresso dalla giurisprudenza di legittimità è stato sempre nel senso di ravvisare una successione ex lege del coniuge assegnatario nell’originario rapporto di comodato, con conseguente applicabilità della disciplina propria di tale contratto, compreso, tra l’altro, il diritto del comodante di recedere ad nutum dallo stesso (in questo senso si vedano: Cass. civ., sez. III, 26 gennaio 1995, n. 929, che ha peraltro precisato che il provvedimento di assegnazione, non opponibile ai terzi, è attributivo non di un diritto reale, ma di un diritto personale di godimento, variamente segnato da tratti di atipicità, precisazione confermata successivamente da Cass. civ., Sez. Un., 26 luglio 2002, n. 11096; Cass. civ., sez. III, 4 marzo 1998, n. 2407).

Isolata appariva, invece, la sentenza del 10 dicembre 1996, n. 10977, in cui la Suprema Corte affermava che, quando il provvedimento di assegnazione della casa familiare, in seno alla separazione personale dei coniugi, si renda opponibile al terzo proprietario e quando l’alloggio sia utilizzato dai coniugi stessi in virtù di un contratto di comodato senza predeterminazione di un termine finale, la durata dell’utilizzazione dell’immobile è governata dalla disciplina fissata nel provvedimento giudiziale di assegnazione e non da quella propria del rapporto originario di comodato.

Sul punto, di poi, intervenivano le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 13603 del 21 luglio 2004, le quali, richiamandosi alla precedente giurisprudenza di legittimità in materia, avevano aderito all’orientamento allora consolidato che ravvisava una successione ex lege del coniuge assegnatario nell’originario rapporto di comodato, facendo perno sul fatto che “l’ordinamento non stabilisce una ‹‹funzionalizzazione assoluta›› del diritto di proprietà del terzo a tutela di diritti che hanno radice nella solidarietà coniugale o postconiugale” e, quindi, “il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa, idoneo ad escludere uno dei coniugi dalla utilizzazione in atto e a ‹‹concentrare›› il godimento del bene in favore della persona dell’assegnatario, resta regolato dalla disciplina del comodato negli stessi limiti che segnavano il godimento da parte della comunità domestica nella fase fisiologica della vita matrimoniale”.

Di conseguenza, precisavano le Sezioni Unite, “ove il comodato sia stato convenzionalmente stabilito a termine indeterminato (diversamente da quello nel quale sia stato espressamente ed univocamente stabilito un termine finale), il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell’art. 1809, co. 2, c.c.”.

La suddetta sentenza non è andata esente da critiche da parte della dottrina; in particolare, autorevole Autore ha definito “un’evidente forzatura, in nome non già del diritto, ma dell’equità”, l’interpretazione della Cassazione “perché”, a dire dell’Autore, “è assurdo entificare la comunità domestica, quasi fosse una società civile” (Francesco Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, 395).

Nonostante le critiche dottrinali, l’evoluzione giurisprudenziale successiva, sia di merito che di legittimità, si è prevalentemente adeguata all’orientamento suddetto delle Sezioni Unite (si veda, in particolare, Cass. 18 luglio 2008, n. 19939; tra le pronunce di merito, in senso analogo si esprimono Trib. Padova 18 novembre 2008; Trib. Bari-Modugno 29 gennaio 2008), anche se non del tutto (si veda: Cass. civ., 4 maggio 2005, n. 9253; Cass. civ., sez. I, 13 febbraio 2007, n. 3179, in cui si afferma nuovamente che l’assegnazione dell’immobile in sede di separazione determina la successione del coniuge assegnatario nel rapporto di comodato, senza modificarne l’originaria fonte contrattuale, con la conseguenza che il comodante può legittimamente esercitare il recesso nei confronti dell’assegnatario; tra le pronunce di merito, in senso analogo si esprimono Trib. Genova 29 ottobre 2007; Trib. Novara 22 giugno 2009).

In particolare, la sentenza che si commenta, richiamando semplicemente, anzi, in maniera sbrigativa un suo precedente, che, per quanto si è appena detto, sembrava essere ormai superato in giurisprudenza (Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 1997, n. 10258) rimette nuovamente in discussione l’anzidetto orientamento prevalente in seno alla corte di legittimità: anteponendo l’interesse del proprietario del bene a recuperarne la disponibilità a quello della famiglia alla conservazione dell’ambiente domestico, la Suprema Corte afferma che, nel c.d. comodato precario, nessuna rilevanza assume la circostanza che l’immobile fosse stato adibito ad uso familiare ed assegnato, in sede di separazione dei coniugi, all’affidatario dei figli e, pertanto, il comodante può recedere ad nutum dal contratto medesimo.

Sulla sentenza in questione giova articolare alcune osservazioni.

La decisione della Cassazione, seppur in contrasto con l’orientamento prevalente nella materia in esame, è in sintonia con l’altro consolidato e condivisibile orientamento secondo cui non può desumersi la determinazione della durata del comodato dalla destinazione abitativa cui per sua natura è adibito l’immobile, in difetto di espressa convenzione sul punto, derivando da tale destinazione soltanto la indicazione di un uso indeterminato e continuativo, inidoneo a sorreggere un termine finale (cfr., ex plurimis, Cass. civ., sez. III, 20 gennaio 1984 n. 491; Cass. civ., sez. III, 18 gennaio 1985 n. 133; Cass. civ., sez. I, 22 marzo 1994, n. 2750; Cass. civ., sez. III, 8 marzo 1995, n. 2719; Cass. civ., sez. I, 8 ottobre 1997, n. 9775).

Pertanto, ove le parti abbiano concordato che il contratto di comodato abbia durata indeterminata, senza determinarne esplicitamente l’uso familiare cui la cosa doveva essere destinata, ai sensi dell’art. 1810 c.c., il comodante può chiederne l’immediata restituzione, senza che assuma rilevanza il fatto che l’immobile fosse stato adibito ad uso familiare ed assegnato, in sede di separazione dei coniugi, all’affidatario dei figli, come sostiene giustamente la Cassazione.

Diverso, invece, è il caso della concessione del bene in comodato nella specifica prospettiva della sua utilizzazione quale casa familiare senza determinazione di durata, la quale concessione assume rilevanza, soprattutto in merito alla ravvisabilità di un termine di durata del rapporto stesso, collegato alla destinazione della cosa.

Come emerge dalla lettura dei citati articoli 1803, comma 1, 1809 e 1810 c.c., la durata del comodato può essere espressamente ancorata dalle parti alla scadenza di un termine oppure può implicitamente dipendere dall’uso per il quale la cosa viene consegnata. Qualora ricorrano tali ipotesi, il comodante non può chiedere la restituzione della cosa prima della scadenza del termine o prima che il comodatario si sia servito della cosa per l’uso convenuto, salvo sopravvenga un urgente ed imprevisto bisogno, nel qual caso, come previsto dall’art. 1809, comma 2, c.c., è ammessa la facoltà di esigerne l’immediata restituzione.

Ora, se per effetto della concorde volontà delle parti viene a configurarsi un vincolo di destinazione dell’immobile alle esigenze abitative familiari, questo vincolo è idoneo a conferire all’uso cui la cosa doveva essere destinata il carattere di termine implicito della durata del rapporto, la cui scadenza è strettamente correlata alla destinazione impressa ed alle finalità cui essa tende, e non può considerarsi caducato per il sopravvenire della crisi coniugale, prescindendo detta destinazione dalla effettiva composizione, al momento della concessione in comodato, della comunità domestica, con la conseguenza che il comodante può chiedere l’immediata restituzione dell’immobile solo nel caso dimostri un urgente ed imprevisto bisogno, come previsto dall’art. 1809, comma 2, c.c..

In proposito, e a sostegno di quanto si è appena riferito, si deve ricordare quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 454 del 27 luglio 1989, secondo cui, in materia di separazione personale, effetto precipuo del provvedimento di assegnazione è quello di stabilizzare, a tutela della prole, la preesistente organizzazione che trova nella casa familiare il suo momento di aggregazione ed unificazione, escludendo uno dei coniugi da tale contesto e concentrando la detenzione in favore, oltre che della prole, del coniuge, che, pur potendo non essere stato parte formale del negozio attributivo del godimento, era comunque componente del nucleo in favore del quale il godimento stesso era stato concesso.

Pertanto, pur condividendo l’ultimo orientamento della Cassazione, occorre, a mio avviso, valutare le peculiarità di ciascun caso concreto.

In altri termini, considerato che, come si è detto sopra, secondo consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, l’effettività della destinazione a casa familiare da parte del comodante non può essere desunta dalla mera natura immobiliare del bene concesso, occorre verificare la comune intenzione delle parti attraverso una valutazione globale dell’intero contesto nel quale il contratto si è perfezionato, la natura dei rapporti tra le medesime, gli interessi perseguiti e ogni altro elemento che possa far luce sulla effettiva intenzione di dare e ricevere il bene allo specifico fine della sua destinazione a casa familiare oppure no. Soltanto dopo aver compiuto questo accertamento in fatto, si può stabilire quale norma applicare al caso sottoposto a giudizio, ovvero o l’art. 1809, comma 2, o l’art. 1810 c.c..