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Analisi della debolezza strutturale del connotato di obbligatorietà nella nuova normativa in tema di mediazione dopo la remissione al giudice delle leggi. Fu vera gloria?

Sommario

1. Il quadro paradigmatico di riferimento

2. Gli elementi di crisi del nuovo istituto della mediaconcliliazione obbligatoria

3. Il ricorso al T.A.R. del Lazio contro la mediaconciliazione obbligatoria

4. L’intervento del Giudice Amministrativo

5. Le considerazioni sulle ragioni di remissione

6. Il ricorso per motivi aggiunti contro la Circolare del 4 aprile 2011 del Ministero della Giustizia su regolamento di procedura e requisiti dei mediatori

7. Sulla possibilità di bypassare le mediazionconciliazione obbligatoria delineata da questo non lineare legislatore

8. Considerazioni per il raggiungimento dell’obiettivo di una giustizia civile efficiente

1. Il quadro paradigmatico di riferimento

L’articolato procedimento di mediazione introdotto dal legislatore interno in sede di riforma del processo civile[1] si pone come unico, malcelato obiettivo quello di operare, mutuando un’espressione dal gergo calcistico, un intervento a piedi uniti allo scopo di deflazionare tout-court il sistema della giustizia civile ormai al collasso.

Quel che colpisce dell’iniziativa legislativa è che essa invece di agire sul processo e sulla bassissima produttività dei magistrati pretende di imporre una disciplina della mediazione che si pone addirittura come condizione di procedibilità dell’azione giustiziale di impatto molto discutibile.

Un simile approccio sistemico non è nuovo nel nostro ordinamento ove si consideri che non moltissimi anni fa il legislatore interno resosi conto di non poter cancellare lo stato patologico rappresentato dalla pazzia ha pensato bene – sia pure con le migliori intenzioni - di eliminare i manicomi[2].

E’ un leit-motiv incredibilmente costante quello di agire per via surrettizia piuttosto che per via diretta, peraltro di sicura maggior ragionata producenza, nella risoluzione dei problemi.

Il risultato di queste contingenti e non sufficientemente meditate operazioni è giustapposto rispetto alle emergenze obiettive e reali di una giustizia civile che non funziona, ma in compenso esse diventano ghiotta fonte di contrapposizioni tra guelfi e ghibellini; attività che sono rinomata specialità della ditta Italia.

Ovviamente il problema non è la mediazione, quale sistema libero e non processualizzato di risoluzione stragiudiziale delle controversie civili e commerciali, che è idea giuridica apprezzabile sul piano effettuale e, peraltro ampiamente praticato da qualunque avvocato che si rispetti al fine di evitare, nell’interesse del cliente, i tempi lunghi del processo, bensì questo tipo di media conciliazione, pesantemente processualizzata, oggi adottato il quale si pone come un unicum nel panorama delle legislazioni europee in cui il connotato dell’obbligatorietà – pensato ed attuato in maniera pittosto goffa ed indifferenziata dal legislatore interno – resta, invece, nel resto d’Europa, confinata per ipotesi assolutamente marginali e di nicchia rispetto a quello che è il contenzioso ordinario nel quale, non si dimentichi, confluiscono gli interessi ed i diritti dei cittadini che fra l’altro, almeno per le situazioni disponibili fatte valere, hanno una valida, e di maggior attrazione, alternativa nell’istituto dell’arbitrato. Istituto, quest’ultimo a cui, e non è cosa questa di poco momento, si può fare ricorso senza passare attraverso le forche caudine dell’attuale mediaconcliazione con tutti i vantaggi di speditezza che ne conseguono.

In verità aver disposto una conciliazione obbligatoria, non in linea con le linee direttrici dell’Europa e, quindi, aver stabilito una condizione di procedibilità per l’azione giustiziale, pressoché per tutti gli oggetti di diritto, è operazione, come già evidenziato, non logica e comunque di difficile comprensione viepiù che la stessa, con carattere così generalizzato, non è contemplata in alcuna delle legislazioni sopra ricordate.

In buona sostanza si impone al cittadino una sorta di processo anticipato eseguito da un giudice non giudice al solo scopo di evitare il vero processo ed il vero giudice attraverso il ricorso ad un meccanismo preordinato a recar nocumento a chi di tale strumento o del suo risultato non rimane soddisfatto e vuole invece adire al giudice statuale per la tutela dei suoi diritti.

Al di là del fatto di non poco momento che non si riesce a comprendere perché mai colui il quale ritenga di essere nel giusto debba assoggettarsi al prefato procedimento di mediazione e per forza, essere costretto ad accettare o rifiutare una proposta di conciliazione in lapalissiano contrasto con le direttive dell’UE[3] e come in seguito si vedrà anche con l’art. 24 della Costituzione.

Il sistema di obbligatorietà così concepito dal legislatore interno – e che si ribadisce è del tutto estraneo agli altri Paesi europei - reca con se aspetti di non secondaria rilevanza quali un costo di ingresso indiscutibilmente elevato, procedure e ricadute illegittime sul processo che contrastano, ictu oculi, con la libertà di accesso dei cittadini alla giustizia.

Infatti l’introduzione di una tassa, prevista come obbligatoria, per ottenere giustizia, che si risolve in una ingiustificata limitazione del diritto di accesso alla giustizia medesima e, quindi all’esercizio di diritti costituzionali garantiti, appare imposizione del tutto arbitraria, viepiù che si devia l’analisi delle materie in capo a mediatori che non offrono sufficienti garanzie di competenza e professionalità.

Sarebbe stato forse più semplice e più producente incidere sull’incentivazione e sul controllo dell’operatività dei giudici, ovvero procedere alla modifica dell’art. 185 c.p.c. facendo gravare su essi giudici, piuttosto che su figure di non altrettanto pari livello di cultura giuridica, l’obbligo del tentativo di conciliazione fra le parti nell’ambito di una controversia già incardinata con la conseguenza che in caso di fallimento della mediazione il processo andrebbe avanti senza spreco di tempo e di soldi, ovvero incentivando il ricorso all’istituto arbitrale in materia di diritti disponibili che indiscutibilmente offre maggiori garanzie procedimentali oltre che di competenza e di professionalità .

2. Gli elementi di crisi del nuovo istituto della mediaconciliazione obbligatoria

La disciplina dell’istituto delineata dal legislatore non appare suscettibile di assicurare, in maniera certa ed esaustiva, la finalità della deflazione dei processi e della celere e qualitativamente apprezzabile definizione dei giudizi, soprattutto con riferimento alla non lineare attribuzione della mediaconciliazione ad organismi pubblici e privati previsti dal legislatore, invece che assegnare tale funzione agli avvocati nell’esercizio del loro servizio professionale.

Inoltre, come peraltro già evidenziato, la scelta legislativa in esame mal si concilia con la normativa dell’UE in materia di mediazione[4], laddove, inibisce, senza una plausibile ragione imperativa, la libertà di rivolgersi per la mediaconciliazione agli avvocati per favorire, senza razionale motivazione, un regime di esclusività a vantaggio degli organismi di mediazione i quali, a differenza degli avvocati non forniscono alcuna oggettiva garanzia di indipendenza rispetto agli interessi in gioco nell’ambito della controversia. E ciò anche in considerazione del fatto che i c.d. mediatori agiscono in regime di evidente e soffocante stato di parasubordinazione, per essere gli stessi gerarchicamente e funzionalmente subordinati nei confronti della struttura dell’organismo mediativo cui appartengono che, per l’effetto, rende gli stessi non idonei ad affrontare eventuali conflitti di interesse con la medesima efficacia ed indipendenza con cui l’avvocato – esso si organo vero della amministrazione della giustizia non legato da alcun rapporto di impiego verso il cliente che lo paga - è aduso fronteggiare detti eventuali contrasti.

Non appare altresì peregrino ravvisare nella normativa della mediaconciliazione introdotta in Italia una assoluta mancanza di razionalità e coerenza della stessa in relazione ai diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU la cui giurisprudenza, con riferimento all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, potrebbe – con alte percentuali di probabilità - sanzionare tanto la ravvisata mancata previsione di un’efficace assistenza tecnica nella previa fase di mediaconciliazione imposta come obbligatoria che l’altrettanto obiettiva evidenza di un non motivato allungamento dei tempi del processo.

In buona sostanza l’istituto esaminato, se non opportunamente rivisitato, soprattutto con riferimento all’improvvido aspetto della sua obbligatorietà, che va senza indugio eliminato, determinerà:

- un senza dubbio più periglioso accesso alla giurisdizione;

- un aumento degli oneri e dei costi a carico del cittadino;

- una maggiore dilatazione dei tempi per la presentazione della domanda giudiziale;

- un regime di favore, in termini di dilazione del redde rationem, per la parte inadempiente che non intenda conciliare la controversia;

- una subornazione del ruolo dell’avvocato, la cui figura professionale non è prevista come necessaria nell’assistenza al cliente e, comunque, il precetto di una obbligatoria dichiarazione scritta del cliente medesimo sull’avvenuta informativa da parte del legale;

- l’individuazione di una figura di mediatore – al quale viene affidata la gestione di più dell’ottanta per cento delle materie e dei processi che resteranno congelati per almeno un anno - non obbligatoriamente dotato di preparazione giuridica, al quale viene attribuito il potere di formulare un progetto di accordo che se non accettato potrà produrre effetti penalizzanti per la difesa giustiziale del cittadino;

- un sistema di obbligatorietà estranea alla delega conferita al Governo dal Parlamento e che, comunque, non assicura in termini di garanzia la qualità del diritto di difesa del cittadino.

- non ultima la non peregrina e purtroppo non remota evenienza che gli organismi di mediaconciliazione così come concepiti (in sostanza pressoché privi di controlli e di garanzie di riservatezza), soprattutto nelle zone del Paese in cui più incombente si manifesta e si avverte la presenza delle organizzazioni criminali, possano restare pesantemente condizionati dall’azione delle cosche medesime, sia in termini di partecipazione occulta a detti organismi, sia attraverso forme di persuasione discratica particolarmente virulente, tanto più facili da porre in essere nei confronti di soggettività (mediatori) non particolarmente dotati e forti sotto il profilo della competenza e della professionalità che si trovano ad amministrare il fenomeno di questa mediaconcliazione - illogicamente e senza una ragione plausibile, processualizzata - peraltro concepito come obbligatorio per legge.

Il non lineare sistema dianzi descritto appare suscettivo di essere aggredito tanto davanti alla giurisdizione amministrativa dello Stato italiano quanto, e forse con maggior pregnanza di ragioni, davanti alla Corte di Giustizia europea.

3. Il ricorso al T.A.R. del Lazio contro la mediaconciliazione obbligatoria

Nel quadro normativo e di considerazioni testé delineato si inserisce l’azione contenziosa proposta dall’OUA, da plurimi Consigli dell’Ordine, da molte delle associazioni forensi e da altrettanto numerosi avvocati in proprio rivolta nei confronti del D.M. 18 ottobre 2010 n°180 avente ad oggetto la richiesta di annullamento del "regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi ai sensi dell’art. 16 del D.Lgs. n°28/2010, nonché la dichiarazione di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt 5 e 16 del medesimo D.Lgs n°28/2010 in riferimento agli artt. 24 e 77 della Carta e per l’effetto la sospensione del processo ed il rinvio alla Corte Costituzionale".

I ricorsi proposti[5] sono stati riuniti dal Collegio giudicante[6] che ha ravvisato, fra gli stessi, evidente connessione oggettiva e parziale connessione soggettiva in ragione dell’identità del provvedimento impugnato e delle resistenti amministrazioni della Giustizia e dello Sviluppo economico.

Le censure ricorsuali mosse aggrediscono in primo luogo la genericità operata nella individuazione della figura del mediaconciliatore e delle strutture di conciliazione; situazione questa che determina un evidente, aperto conflitto con il disposto dell’art. 60 della L. n°69/2009 che ha espressamente previsto che, in ragione della vasta gamma delle materie oggetto di conciliazione, la figura del mediaconciliatore avrebbe dovuto essere espressione forte e significativa del valore rappresentato dalla peculiare ed indiscutibile preparazione tecnico-professionale.

Al contrario, invece, l’art. 16 del regolamento, in palese disattenzione della norma primaria citata (art. 60 della L. n°69/2009) riqualifica in peius i connotati peculiari del mediatore e degli organismi di conciliazione e con un atteggiamento poco commendevole fa regredire il connotato giuridico della qualificazione tecnico-professionale in favore dell’incidenza patrimoniale (serietà ed efficienza) che diventa così il criterio privilegiato, però altro e diverso rispetto a quello previsto dalla legge delega, per la selezione degli organismi medesimi a cui si aggiungono i forti oneri economici posti a carico dei cittadini, quando, invece, tale fase stragiudiziale avrebbe dovuto essere connotata dalla assoluta gratuità.

Va da se, come facile intuizione, che detti caratteri di incidenza patrimoniale inibiscono l’accesso degli esercenti la professione legale al registro degli organismi di mediazione.

Il tutto in palese eccesso di delega considerato che nel testo del regolamento non risulta traccia del ben che minimo criterio atto ad individuare e selezionare gli organismi di che trattasi in conformità a quanto, invece postulato dall’art. 60 della L. n°69/2009 e dall’art. 4 della Direttiva 2008/52/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa del 21.5.2008. E si che la Sezione consultiva per gli atti normativi del Consiglio di Stato, nei pareri resi sullo schema di regolamento, aveva avvertito ed evidenziato un’assolutamente scarsa chiarezza nella individuazione delle strutture di mediazione.

Nell’intera disciplina regolamentare impugnata i ricorrenti ravvisano, altresì, i caratteri della irrazionalità e della illogicità non avendo obiettivamente detta normativa individuato alcun concreto parametro di valutazione della competenza degli organismi di mediazione; competenza che in coerenza al quadro delineato dalla legislazione comunitaria e nazionale avrebbe dovuto portare ad individuare, quali mediatori, gli esercenti la professione legale muniti di significativa anzianità di iscrizione nei rispettivi albi e di una particolare e comprovata specializzazione nelle materie oggetto dell’attività di mediazione.

L’attuale normativa regolamentare, invece, abbassa a livelli veramente miserrimi la qualità del mediaconciliatore allorquando prevede in capo allo stesso soltanto il possesso di un qualunque titolo di studio, di una laurea triennale anche in discipline non giuridiche o una iscrizione a qualsivoglia albo o collegio professionale e, ciliegina sulla torta, il conseguimento del titolo di mediatore attraverso corsi di formazione di certo non esaltante qualità.

Il secondo gruppo di censure è teso ad ottenere la dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt. 5 e 16 del D.Lgs. n°28/2010 in riferimento agli att. 24 e 77 della Carta.

A tal proposito i ricorrenti sostengono che l’art. 5 del regolamento – peraltro in aperto conflitto con la prescrizione della legge delega –, allorquando prevede che il procedimento di mediaconciliazione, in alternativa al processo o in funzione stragiudiziale, configura una iniqua condizione di procedibilità della domanda giustiziale, sicché non appare revocabile in dubbio che ogni sua fase, proprio per la delicatezza che la connota, presupponga la competenza, la perizia e, quindi, la necessaria presenza dell’avvocato.

Tale considerazione, impropriamente glissata dal regolamento, viene altresì rafforzata dall’obiettiva evidenza degli effetti previsti dal legislatore in caso di mancata conclusione della conciliazione.

Siffatta ingiustificata obbligatoria condizione di procedibilità, peraltro, proprio per escludere ogni altro procedimento, alternativo e facoltativo, di mediazione, porta al risultato di precludere, nel senso di limitare in maniera categorica, l’immediato accesso dei cittadini alla tutela processuale e rischia di compromettere l’effettività della stessa tutela giustiziale.

A questo aggiungasi che l’art. 16 dello stesso D.Lgs. determina lo snaturamento della previsione dell’art. 60 della L. n°69/2009 che prevede che la mediazione venga svolta da organismi professionali ed indipendenti, stabilmente destinati all’erogazione del servizio di conciliazione allorquando esclude dai criteri di selezione degli organismi di mediazione qualsivoglia parametro di “professionalità ed indipendenza”.

L’effetto di entrambe le previsioni– con assoluta incoerenza rispetto all’intero impianto legislativo – è quello di determinare una violazione della delega e lo snaturamento della funzione che il legislatore delegante aveva assegnato al procedimento ed agli organismi della mediazione i cui connotati peculiari avrebbero dovuto essere proprio l’indipendenza e la professionalità.

Da tale effetto deriva, in termini di assoluta indiscutibilità, la violazione operata dagli artt. 5 e 16 del D.Lgs n°28/2010 dei principi costituzionali in materia di legislazione delegata (art. 77 Cost.) e la altrettanto palese violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 della Carta.

L’ultimo complesso di censure afferisce alle previsioni relative alla disciplina transitoria che nelle intenzioni del legislatore del D.Lgs n°28/2010, avrebbero dovuto avere efficacia sino alla entrata in vigore del regolamento n°180/2010, ma che, invece, in assolutamente palese contrasto con le previsioni normative dell’art. 16 del D.Lgs n°28/2010, non soltanto detto regolamento con l’art. 4, 4° comma, introduce un nuovo regime transitorio ma addirittura arbitrariamente utilizza tale nuova normazione transitoria per assicurare la sopravvivenza di organismi per i quali il legislatore aveva già previsto la decadenza, i quali, pertanto a semplice domanda vengono iscritti all’esito “della verifica della sussistenza del solo requisito di cui al 2° comma lett. B), per l’organismo, e dei requisiti di cui al 3° comma per i mediatori”.

Conseguenza di un simile operare è che, ai fini dell’iscrizione nei registri, gli organismi costituiti dai Consigli dell’ordine degli avvocati, con proprio personale e nei locali messi a loro disposizione dal Presidente di ciascun Tribunale, devono dimostrare di essere in possesso – e ciò costituisce ostacolo di non poco conto - di una polizza assicurativa non inferiore ad € 500.000,00.

E non si venga a dire che tale novità è stata introdotta per permettere l’immediata operatività dei procedimenti di mediazione atteso che sarebbe stato sufficiente, a tale scopo, che i ministri della Giustizia e dello Sviluppo economico, giusta il disposto dell’art.60, 3° comma lettere e) ed f) della L. n°69/2009, avessero disposto l’iscrizione di diritto degli organismi istituiti dai Consigli dell’Ordine presso i Tribunali.

4. L’intervento del Giudice Amministrativo

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione I^, investito del problema e delle relative censure di diritto, con ordinanza n°3202 depositata il 12.4.2011, ha dichiarato rilevanti e non manifestamente infondate alcune delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con entrambi i ricorsi proposti contro il D.Lgs n°28/2010 ed il regolamento di attuazione (D.M. n°180/2010) nella parte in cui intervengono a disciplinare l’obbligatorietà della mediazione e, di conseguenza, rimesso gli atti al Giudice della Leggi.

In particolare l’organo giustiziale adito ha:

- disposto la riunione dei ricorsi n°10937/10 R.G. e n° 1235/10 R.G. per connessione oggettiva e parziale connessione soggettiva;

- dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 24 e 77 della Carta, la questione di legittimità costituzionale dell’ art. 5, comma 1°, del D.Lgs n°28/2010 che nel primo periodo introduce a carico di chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa alle controversie nelle materie espressamente elencate l’obbligo del previo esperimento del procedimento di mediazione, nonché nel secondo periodo l’affermazione che l’esperimento della mediazione è condizione di procedibilità della domanda, ed infine nel terzo periodo che l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto o rilevata d’ufficio dal giudice;

- dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 24 e 77 della Carta, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, 1° comma, del D.Lgs n°28/2010 laddove lo stesso dispone che abilitati a costituire, su istanza della parte interessata, organismi deputati a gestire il procedimento di mediazione sono gli enti pubblici e privati, che diano (soltanto) garanzie di serietà e di efficienza;

- disposto la sospensione del giudizio ed ordinato l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.

5. Le considerazioni sulle ragioni di remissione

Il ragionamento del Giudice Amministrativo appare assistito da indiscutibili e non contestabili sopportazioni logiche e giuridiche e, pertanto, del tutto condivisibile.

Invero, sostiene il Tribunale come non appaia revocabile in dubbio che la proposta istanza di annullamento delle norme del D.M. n°180/2010 vada necessariamente correlata con l’accertamento della correttezza della scelta operata dal legislatore paradigmando i criteri espressi dal legislatore delegato, con quelli propri della legge delega, con i precetti costituzionali e con le disposizioni comunitarie, sicché dall’analisi effettuata ha rilevato le seguenti emergenze nell’operato del legislatore che:

- all’art. 16 ha conformato gli organismi di conciliazione a parametri e qualità che attengono "esclusivamente ed essenzialmente all’aspetto della funzionalità generica che, per contro sono scevri da qualsiasi riferimento a canoni tipologici tecnici o professionali di carattere qualificatorio ovvero strutturale";

- le materie contemplate dall’art. 5, hanno delineato l’attività di mediazione come ineludibile fase prodromica al processo con l’ulteriore e significativo effetto di assegnare ad essa fase il potere di conformare in maniera definitiva i diritti soggettivi in essa trattati ovvero persino di incidere sugli stessi anche "laddove ne residui la giustiziabilità in sede di Tribunale".

Il risultato di tale azione legislativa, sostiene il G.A., giunge sino al punto di "deistituzionalizzare e detecnicizzare la giustizia civile e commerciale e di enfatizzare un procedimento paravolontario" di controversie peraltro, per improvvida scelta, neppure omogenee.

Addirittura l’atto che conclude la mediazione attraverso la sua omologazione acquista efficacia di titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale[7].

In pratica viene parificato agli atti propri e tipici delle statuizioni giustiziali con la conseguenza che il diritto positivo è ravvisabile "solo sullo sfondo come cornice esterna ovvero come limite generale alla convenibilità delle posizioni giuridiche coinvolte nella mediazione".

Manca peraltro nel disegno delineato dal legislatore delegato - e ciò non è momento di poco conto al fine di individuare e qualificare la violazione del diritto di difesa costituzionalemente garantito (art. 24 della Carte) – l’insopprimibile necessità di correlare l’ermeneusi dell’art.16 del D.Lgs n°28/2010 (peraltro prodeutica all’esame dell’impugnato art. 4 del regolamento) alla previsione del punto 9 dell’art. 5 del prefato D.Lgs n°28/2010.

Orbene poiché, in termini di tutta evidenza, la prefata condizione non è presente nella legge delega e neppure emerge dal quadro rappresentato dalla direttiva comunitaria n°2008/52/CE del 21.5.2008, appare ictu oculi immanente la perpetrata violazione dell’art. 77 della Costituzione.

Infatti ad avviso del giudice remittente "non si rinviene alcun elemento che consenta di ritenere che la regolazione della materia andasse effettuata nei termini prescelti dall’art. 5 del D.Lgs n°28/2010", viepiù che la scelta del legislatore (art. 60 L. n°69/2009) "di ampliare le controversie interne in ambito civile e commerciale, in alcuno dei criteri e principi direttivi previsti da esso art. 60, assume l’intento deflattivo del contenzioso giurisdizionale o configura l’istituto della mediazione quale fase preprocessuale obbligatoria".

Non può quindi razionalmente essere considerato come rientrante nell’area propria della legislazione delegata il potere di attribuire alla mediazione il connotato obbligatorio ad essa conferito né con riferimento alla disciplina comunitaria né con riferimento al processo civile.

Ma v’è di più! Quand’anche fosse ipotizzabile considerare come realizzato un integrale recepimento della direttiva 2008/52/CE da parte dell’art. 60 della L. n°69/2009, non appare revocabile in dubbio come non possa neppure lontanamente supporsi che il silenzio del legislatore delegante vada ad assumere - viepiù alla luce della doverosa ermeneusi paradigmaticamente correlata agli artt. 24 e 77 della Carta – il significato di una "meccanica introduzione nell’ordinamento statale delle opzioni comunitarie che rispetto al diritto di difesa garantito dai succitati articoli della Costituzione", ovvero in alcun modo giustificare l’obbligatorietà del ricorso alla mediazione e l’improcedibilità rilevabile anche d’ufficio dello inadempimento di tale preventivo obbligo come, invece, ha, inopinatamente fatto l’art. 5 del decreto delegato.

Non è, poi, inutile riferire che la delineata non rispondenza alle norme della Carta la si rileva da ulteriori due altri principi e criteri direttivi.

Il primo postulato dall’art. 60, lett. C) che prevede che "la mediazione sia disciplinata anche attraverso l’estensione delle disposizioni di cui al D.Lgs n°5 del 17.1.2003".

Il secondo dall’obiettiva evidenza che il D.Lgs n°5/2003 fa riferimento, per ciò che attiene alla conciliazione stragiudiziale (artt. da 38 a 40 del titolo IV peraltro ormai abrogati dall’art. 23 del D.Lgs n°28/2010), esclusivamente ai procedimenti di diritto societario, di intermediazione finanzaziaria e della materia bancaria e creditizia "in attuazione dell’art. 12 della L. 3.10.2001 n°366)".

Procedimenti questi ultimi espressione di indubbia fonte volontaria privata (contratto o statuto sociale) in cui l’aspetto conciliativo è rimesso alla facoltà della parte che ha interesse ad attivarlo e non già alla "forza cogente della legge" con l’ulteriore considerazione che il mancato esperimento della conciliazione non determina l’estinzione del procedimento giustiziale eventualmente prodotto, ma soltanto l’effetto di sospendere il processo in atto per il periodo necessario ad esperire la conciliazione. Di guisa che l’esistenza nel D.Lgs n°5/2003, del modello di conciliazione delle controversie, alternativo alla giurisdizione non pospone de iure – come avviene nella mediaconciliazione in esame - il diritto della difesa in giudizio, né lo rende inutiliter esercitato come invece impropriamente ed in maniera contraddittoria fa l’art. 5, 1° comma del D.Lgs n°28/2010 che subordina il diritto di difesa in giudizio all’esperimento imposto appunto della mediazione.

E che tutto ciò non trova riscontro alcuno nella legge delega resta viepiù dimostrato dall’art. 60, lettera n) della L. n°69/2009 che prevede "il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio, della possibilità e non dell’obbligo di avvalersi dell’istituto della conciliazione".

Ne discende che sotto qualunque angolazione si voglia riguardare il problema non appare revocabile in dubbio che non sussiste correlazione alcuna tra l’art. 5, 1° comma del D.Lgs n°28/2010 con il più volte richiamato art. 60 della legge delega.

Alla luce delle ragioni espresse ritengo del tutto condivisibili le valutazioni di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, espresse dal G.A., con riferimento all’art. 5, 1° comma del D.Lgs n°28/2010 che ha introdotto a carico di chi intende esercitare in giudizio "un’azione relativa alle controversie nelle materie espressamente elencate, l’obbligo del previo esperimento del procedimento di mediazione", nonché la considerazione "che l’esperimento della mediazione stessa è condizione di procedibilità della domanda giudiziale ed infine che l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto o rilevata d’ufficio dal giudice".

Appare altresì lapalissiana la rilevazione del vizio di legittimità costituzionale anche con riferimento all’art. 16, 1° comma, del prefato D.Lgs n°28/2010, "laddove il medesimo dispone che, abilitati a costituire, su istanza della parte interessata, organismi deputati a gestire il procedimento di mediazione siano gli enti pubblici e privati, che diano garanzie di serietà e di efficienza".

Infatti con riferimento all’art. 24 della Carta non appare conforme al modello costituzionale istituire una situazione di pregiudizialità "sull’azionabilità in giudizio di diritti soggettivi e sulla successiva funzione giurisdizionale statuale su cui lo svolgimento della mediazione variamente influisce", atteso che le disposizioni normative in esame non garantiscono, a causa di un’evidente ed assolutamente inadeguata definizione della figura del mediatore, "che i privati non subiscano irreversibili pregiudizi discendenti dalla non coincidenza degli elementi loro offerti in valutazione al fine di assentire o rifiutare l’accordo conciliativo rispetto a quelli suscettibili, di essere evocati", nella fase successiva del giudizio.

Risulta altresì stridente, per contrasto con l’art. 77 della Costituzione, la pretesa normativa di obbligatorietà, rispetto alla fase giudiziale, del preventivo esperimento del procedimento di mediazione non risultando ammissibile che la legislazione delegata possa, nel silenzio della legge delegante, espandersi sino al punto da travolgere i limiti dettati dalla normativa di delega.

6. Il ricorso per motivi aggiunti contro la Circolare del 4 aprile 2011 del Ministero della Giustizia su regolamento di procedura e requisiti dei mediatori

L’azione ricorsuale avviata viene estesa, dai soggetti dianzi ricordati, con coerenza logica anche nei confronti della Circolare su ricordata che, con motivi aggiunti, è stata anch’essa impugnata, sempre in sede giustiziale amministrativa, sul presupposto, più che evidente, che le previsioni in essa contenute hanno un indiscutibile valore precettivo ed incidono con sicura attendibilità tanto sulla procedura di mediazione che sui requisiti dei mediatori, in ragione del fatto che dalla disciplina illustrata, che reitera pervicacemente, anzi, se possibile, esaspera all’ennesima potenza, tutti i vizi denunciati con il primo gravame e le perplessità di legittimità costituzionale rilevate come non manifestamente infondate dal T.A.R. del Lazio.

Infatti essa – il cui connotato peculiare è l’atipicità del suo precettivo ed estensivo contenuto ermeneutico dell’art. 5 del regolamento - non consente, al pari degli atti normativi che l’hanno preceduta, di rilevare alcuna specifica ed idonea competenza in capo ai mediatori né alcun criterio qualitativamente apprezzabile in ordine alla formazione degli stessi con riferimento al compito, certamente non secondario, che il legislatore ha inteso demandare agli stessi, e perché nel reiterare l’assurda condizione della mediazione come condizione di procedibilità della domanda giudiziale introduce una ermeneusi ancora più dilatata dell’art. 5 del D.Lgs n°28/2010 – peraltro già censurato dall’organismo giustiziale remittente - allorquando prevede, che per considerare esperita la condizione di procedibilità il verbale di esito negativo della mediazione debba essere redatto dal mediatore e non dalla segreteria dell’organismo di mediazione.

L’esame della circolare in questione rafforza viepiù il fondamento di quanto rilevato dal G.A. remittente e cioè che manchi nella maniera e nella misura più assoluta la previsione e la individuazione, da parte del legislatore – come, peraltro, evidenziato anche in sede di secondo gravame – di requisiti idonei a delineare una figura di mediatore in possesso di adeguata e peculiare formazione giuridica e della necessaria esperienza processuale, indispensabili per l’esercizio della funzione mediativa viepiù che se la mediazione va ravvisata, come sostiene il legislatore, quale condizione di procedibilità della domanda non par dubbio che la stessa vada intesa come funzione stragiudiziale alternativa al sistema giudiziale. Di guisa che la gestione del relativo procedimento, sia che si giunga alla soluzione dell’insorgenda controversia, sia che essa si ponga come fase prodromica all’instaurazione in sede giustiziale della controversia stessa, non è dubbio richieda la competenza tecnico-giuridica e l’esperienza professionale dell’avvocato in conformità con l’unico parametro di limitazione disposto tassativamente dall’art. 60 della L. n°69/2009, ossia la professionalità e l’indipendenza: parametri individuabili esclusivamente con criteri tecnico-scientifici e non con quelli affetti da insanabile pressappochismo espressi dal D.Lgs n°28/2010 e dalla Circolare del 4 aprile 2011 esaminati.

7. Sulla possibilità di bypassare la mediazionconciliazione obbligatoria delineata da questo non lineare legislatore.

La risposta alla domanda ritengo possa essere positiva ove si raffronti comparativamente il complesso della normativa interna introdotta dal D.Lgs n°28/2010 e dal D.M. n°180/2010 con la normativa europea in rapporto alla quale si evidenziano non pochi punti di conflitto con l’art 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, viepiù tenuto conto dell’obiettiva circostanza che l’ambito di influenza, postulato dalla normativa comunitaria, giusta l’art. 52, 3° comma, della medesima Carta, coincide con il contenuto dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

La normativa e la giurisprudenza europea, infatti, esaltano[8] come dato paradigmatico fondante l’effettività del diritto all’azione giustiziale come condizione concreta ed essenziale, inserita nel Preambolo di detta Convenzione europea, per la connotazione del primato dello Stato di diritto; primato che, al contrario, la normativa sulla mediaconciliazione obbligatoria introdotta di recente dal legislatore interno, tende a conculcare senza una obiettiva ragione, ponendosi tale limitazione, impropriamente giustificata dalla finalità - che non può, comunque, assurgere al rango di interesse collettivo superprimario - di deflazionare il carico di lavoro dei Tribunali, come un vero e proprio fuor d’opera.

Non è inutile ricordare come la stessa CEDU allorquando si è trovata ad esaminare la obbligatorietà del tentativo di conciliazione stragiudiziale davanti al Co.re.com.[9], ha concluso per la sua ammissibilità in considerazione del fatto che lo stesso non si pone come ostacolo insormontabile per l’esercizio del diritto di agire in giudizio, conferito ai singoli dalla direttiva del Consiglio e del Parlamento europeo 2002/22/CE[10], in ragione del fatto che il risultato del prefato tentativo obbligatorio di conciliazione non è in alcun modo vincolante per le parti che lo eseguono sicché il medesimo non limita il diritto delle parti medesime alla domanda giustiziale; che nella fattispecie considerata, l’esercizio di tale tentativo di conciliazione non determina ritardi considerevoli alla proposizione del diritto alla giustizia in caso di mancata conclusione della procedura di conciliazione allo spirare del termine[11] indicato dal D.Lgs n°259/2003; che ogni possibile prescrizione dei diritti è sospesa durante l’esperimento del procedimento di conciliazione; che non ci sono costi aggiuntivi per le parti.

Al contrario, il D.Lgs n°28/2010 viola apertamente il c.d. diritto al giudice sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE e dalla Convenzione europera dei diritti dell’uomo dianzi richiamate allorquando pone la mediaconcliazione, non già come procedimento amministrativo prodromico alla proposizione della vertenza davanti al giudice, bensì quale iter obbligatorio afferente controversie in essere che precede la fase giustiziale nei confronti della quale una delle parti[12] si è determinata a far ricorso.

Addirittura l’esperimento con successo del procedimento di mediaconciliazione consente di conseguire, attraverso il relativo verbale che costituisce titolo esecutivo[13], effetti del tutto omologhi alle sentenze della giurisdizione.

Questo fatto si connota come emblematico di un dato incontrovertibile e cioè della assoluta equivalenza tra le due procedure (mediazione obbligatoria e giudiziaria) con conseguente alternatività tra di esse: l’unica differenza, e non è cosa di poco conto, e che la prima occupa una fase antecedente alla seconda e per di più senza la previsione dell’assistenza della figura professionale dell’avvocato.

La mancanza dell’assistenza dell’avvocato rappresenta un paradosso ed un’anomalia pregnante ove si consideri che la normativa europea[14] prevede come paradigma obbligatorio la presenza ed immanenza delle essenziali garanzie procedurali anche nell’ambito della mediazione atteso che alle parti contendenti deve essere assicurato l’esercizio della difesa tecnica che ha il non secondario compito di consigliare, difendere e rappresentare.

Va da se che l’assenza del difensore nel procedimento della mediaconciliazione in esame non può ritenersi surrogata dalla previsione dell’omologa del Presidente del Tribunale[15] atteso che, in termini di tutta evidenza siffatto passaggio non è e non può porsi come momento equivalente dell’accesso alla fase giustiziale e comunque non è conforme al c.d. processo equo postulato dal più volte citato art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed in ogni caso i confini del controllo esercitato dal ricordato Presidente del Tribunale negano recisamente che siffatta decisione possa assumere i peculiari connotati propri della piena giurisdizione.

Né si può sostenere che la mediaconciliazione non libera e pesantemente processualizzata nel senso in altra parte di questa nota riferito, avventurosamente introdotta dal legislatore interno, possa prescindere dalla presenza del difensore tecnico e che tale presenza possa essere sostituita dal c.d. mediatore ausiliario[16] ovvero da esperti, attesa l’inequivoca evidenza che rientrano nell’ampio ambito della mediaconciliazione materie di grande complessità disciplinare.

A questo aggiungasi che tanto nell’ordinamento interno che in quello comunitario l’assenza di difesa tecnica rappresenta l’eccezione e non la regola[17]. E siffatta eccezione viene disposta soltanto per controversie di modestissimo valore.

Le materie previste dalla mediaconciliazione di recente introdotta, invece, sono di non poca entità e complessità tecnica e di notevole spessore e rilievo economico, con l’aggravante che mentre il giudice garantisce la necessaria terzietà, il mediatore è legato ad un vincolo di indiscussa parasubordinazione con l’organismo cui appartiene e non si può configurare in alcun modo come soggetto imparziale rispetto all’esito della mediaconciliazione quantomeno in relazione all’entità dell’indennità di propria spettanza che viene ad accrescersi nelle ipotesi di buon esito della procedura[18].

Va altresì ancora rilevato tanto il carattere defatigante della procedura di mediazione obbligatoria[19] che la sua dispendiosità, tra l’altro, patentemente esclusa dalla Corte di Giustizia europea[20] che sancisce la necessità di insussistenza dei costi della mediazione.

Va ulteriormente rilevato che l’effetto interruttivo della prescrizione e della decadenza, al contrario di quanto previsto dall’art. 410 c.p.c., non è correlato al deposito dell’istanza, bensì al momento della comunicazione alle altre parti dell’avvenuto deposito della domanda con conseguente dilatazione – e ciò è indiscutibilmente grave considerato l’ambito spropositato delle materie soggette alla mediaconciliazione e della correlativa area applicativa della irrazionalmente introdotta condizione di procedibilità dell’azione – dei tempi di azione degli organismi di mediazione.

Il difetto di assonanza con l’UE in tema di accesso alla giurisdizione, resta viepiù accentuato dalla giurisprudenza della CEDU, che ha ritenuto sussistente la violazione dell’art. 6 della Convenzione proprio nei casi in cui l’irricevibilità dell’azione dichiarata dal giudice derivi da vizi dipendenti dal personale dell’Amministrazione pubblica[21] ovvero nell’ipotesi in cui il procedimento imposto come obbligatorio non abbia dato alcun esito per mancata risposta dell’Amministrazione nei termini normativamente prefissati[22].

In buona sostanza, non appare revocabile in dubbio che il carattere obbligatorio della mediazione introdotta dagli artt. 5 e ss. del D.Lgs n°28/2010 si appalesa irragionevole, dispendioso e del tutto in contrasto con il dovere di assicurare l’esercizio del diritto di accesso al giudice e per ciò stesso in contrasto con gli artt. 24 della Costituzione, con l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.

In ragione di siffatto contrasto e delle intervenute sentenze della Grande Sezione della CEDU del 22.11.2005[23] e più di recente del 19.1.2010[24] - le quali hanno sancito che la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ha assolutamente identico valore dei trattati – è attribuito, a ciascun giudice nazionale, il potere di sindacare ogni normazione interna in contrasto con un diritto fondamentale europeo e, quindi, di disapplicare ogni legge interna che dia luogo alla violazione dei principi di natura comunitaria, sia con riferimento ad ipotesi di c.d. efficacia verticale diretta (rapporti tra cittadino e Stato) sia in fattispecie di c.d. efficacia orizzontale diretta (rapporti tra privati); il tutto senza l’obbligo di sollevare eccezioni di carattere costituzionale o questioni pregiudiziali davanti alla Corte di giustizia dell’UE.

In simili evenienze il giudice nazionale ha l’obbligo, nell’ambito della sua competenza, di garantire la tutela giuridica che il diritto comunitario affida ai soggetti dell’ordinamento nonché il dovere di garantire la piena efficacia di esso attraverso l’istituto della disapplicazione della normativa interna in contrasto senza dover transitare per il filtro dell’accertamento della loro incostituzionalità sul piano interno[25] .

Alla luce di quanto evidenziato non è dubbio che l’A.G.O. sia facultata a disapplicare l’art. 5, 1° comma, del D.Lgs n°5 del D.Lgs n°28/2010 in quanto palesemente in contrasto con l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE magari – anche se ciò non appare necessario – previo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 267 del TFUE.

8. Considerazioni per il raggiungimento dell’obiettivo di una giustizia civile efficiente.

A conclusione di questa lunga disamina ritengo doveroso esporre qualche profilo di analisi sul sistema della giustizia civile atteso che l’aspetto della risoluzione delle controversie è il tema giuridico che, forse più di tutti, agita la società del nostro tempo, e come tale merita un particolare approfondimento, soprattutto in un momento in cui la sete di giustizia non risulta soddisfatta dall’andamento della giurisdizione statuale sempre più lontana, quanto meno sotto il profilo della tempestività e dell’adeguatezza, dalla esigenza di una concreta ed efficiente risposta che il cittadino, che ad essa si rivolge, si attende[26].

Ed è perciò che di fronte allo stremo del sistema della giurisdizione istituzionale, ormai ridotto ad un simulacro, sotto il profilo dell’efficienza e dell’efficacia nei confronti delle situazioni fatte valere, il ricorso a riti e strumenti alternativi rappresenta un percorso del tutto necessitato se si vuole tentare di colmare il non indifferente iato ormai esistente tra i dichiarati intendimenti di assicurare giustizia da parte dell’apparato istituzionale e le effettive prospettive di risultato.

Di fronte al macilento funzionamento dei Tribunali, dunque, si rende necessario rivolgere altrove lo sguardo e valorizzare istituti - a mio avviso più l’arbitrato, che si ribadisce non necessita, per il suo espletamento, dell’esperimento del preventivo filtro dell’attuale mediaconciliazione obbligatoria - che la mediazione o gli altri strumenti di giustizia contrattuale che nell’ambito dello ordinamento consentono una maggiore velocità e qualità di risultato.

Gli strumenti della giustizia contrattuale, sono istituti di orgini antichissime, addirittura venuti in essere in tempo anteatto alla stessa istituzionalizzazione della giurisdizione statuale, e che in effetti, consentono, attraverso la valorizzazione dell’elemento volontaristico, di accedere ad una forma di giurisdizione caratterizzata dal principio di libertà della scelta fisiologicamente orientata verso una modalità di risoluzione delle controversie, sicuramente più rapida ed aderente alle esigenze della odierna società.

Va, comunque, evidenziato come vertendosi di giustizia, cioè di un valore che da sempre si intreccia con la vita dell’uomo, il ricorso ad una forma di risoluzione di controversie di tipo privatistico deve ragionevolmente poter poggiare su rassicuranti fondamenta governate dall’autorevolezza delle istituzioni che amministrano tale modello di risoluzione di conflitti, ossia di istituzioni ed associazioni di giustizia negoziale munite di consolidate specificità ed affidabilità.

In buona sostanza il passaggio alla giustizia privata impone la spendita di una fase preparatoria caratterizzata da un momento di intensa promozione culturale che prepari l’evento, e, soprattutto sia in grado di certificare, con anticipo, l’affidamento circa la sua qualità.

Soltanto in presenza di tali necessarie essenzialità la scelta di rivolgersi ad un soggetto (preferibilmente arbitro) professionalizzato e motivato e che giudica con celerità, risulterà vincente di fronte ad una giurisdizione statuale ormai al collasso e messa alle corde dai processi evolutivi di una società che si allontana sempre più dalla logica stagnante di un processo giustiziale che, per la sua congenita lentezza, non è quasi mai in condizioni di fornire risposte tempestive ed efficienti alle situazioni fatte valere ed alle esigenze di giustizia del cittadino. E’ ormai principio acquisito al comune sentire, la considerazione secondo la quale rendere tardivamente giustizia equivale a denegare giustizia.

La scelta di adire all’arbitrato, alla mediazione o ad altro metodo negoziale è dunque, oggi una opzione da privilegiare per coloro che intendono giungere più celermente al soddisfacimento degli interessi in campo, senza, peraltro, perdere alcuna garanzia formale, attesa la tutela che il legislatore ha, in linea generale, inteso assicurare alla giustizia alternativa a quella statuale.

L’ istituto arbitrale o anche una mediazione, come ad esempio quella assistita di tipo transalpino, priva dell’obbrobrioso connotato dell’obbligatorietà, altra e diversa da quella improvvidamente delineata dall’attuale legislatore o ancora altro metodo negoziale, comunque affidato ai difensori, sono, infatti, previsioni ordinamentali certamente legittime e correlate alla libertà contrattuale dei privati, attesa l’evidenza che nelle legislazioni in cui i privati sono in condizione di agire liberamente e di determinare, attraverso la loro volontà il contenuto dei contratti che pongono in essere, altrettanto liberamente possono devolvere a chi meglio credono le controversie che possono insorgere tra di loro.

Il problema dello smaltimento dell’arretrato civile correlato peraltro all’esigenza di rendere efficiente il servizio della giustizia deve passare, in termini di contestualità, anche attraverso il potenziamento del numero dei giudici, l’incentivazione ed il controllo dell’operatività dei magistrati stessi, l’approntamento di discipline processuali più snelle e funzionali, e deve altresì assumere forme e modalità concordate fra tutti gli operatori giuridici, compresi gli avvocati e non già essere il frutto di interventi surrettizi, calati dall’alto senza la loro verifica con l’unico vero elemento di riscontro, cioè la realtà effettuale.



[1] L. n°69/2009; D.Lgs n°28/2010; D.M. n°180/2010

[2] L. 13.5.1978 n°180 (c.d. legge Basaglia), confluita quasi integralmente nella legge 23.12.1978 n°833

[3] Direttive 98/257/CE del 30.3.1998; 2001/310/CE del 4.4.2001; 2008/52/CE del 21.5.2008

[4] Direttiva 2008/52/CE del 21.5.2008

[5] N°10937/2010 R.G. e n°11235/2010 R.G.

[6] T.A.R. Lazio, Sez. I

[7] Art. 12 D.Lgas n°28/2010

[8] Decisione Golder / Regno Unito del 21.2.1975

[9] Art. 84 del D.Lgs 1.8.2003 n°259

[10] 7 marzo 2002

[11] 30 giorni a decorrere dalla data di inoltro della domanda

[12] Cfr. art.4, 3°comma, D.Lgs n°28/2010

[13] Art. 12, 2° comma, D.Lgs n°28/2010

[14] Art. 47, 2° comma della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E.

[15] Art. 12, 1° comma, D.Lgs n°28/2010

[16] Art. 8 D.Lgs n°28/2010

[17] Art. 82 c.p.c. (sino a € 516,46) e Regolamento CE 11.7.2007 n°861 (sino a € 2.000,00)

[18] Art. 17, 4° comma D.Lgs n°28/2010

[19] Quattro mesi per la sua conclusione contro il termine ritenuto accettabile (30 gg.) dalla sentenza della Corte di Giustizia

[20] Sent. R.A. del 18.3.2010, C-317, 318, 319, 320/08

[21] Sent. Platakou / Grecia dell’11.1.2001; sent. Boulougouras / Grecia del 27.5.2004

[22] Sent. Faimblat / Romania del 13.1.2009; Maria Atansiu c/ Romania 123.10.2010

[23] Procedimento C-144/2004, Mangold

[24] Procedimento C-555/07, Kucukdeveci /Sweedex GmbH &Co. KG

[25] TAR Lazio, Sez. II, sent. n°11984 del 18.5.2010

[26] L.M. Delfino, Nel rapporto tra arbitrato e giurisdizione ancora nessuna novità all’orizzonte! in www.filodiritto.com

Sommario

1. Il quadro paradigmatico di riferimento

2. Gli elementi di crisi del nuovo istituto della mediaconcliliazione obbligatoria

3. Il ricorso al T.A.R. del Lazio contro la mediaconciliazione obbligatoria

4. L’intervento del Giudice Amministrativo

5. Le considerazioni sulle ragioni di remissione

6. Il ricorso per motivi aggiunti contro la Circolare del 4 aprile 2011 del Ministero della Giustizia su regolamento di procedura e requisiti dei mediatori

7. Sulla possibilità di bypassare le mediazionconciliazione obbligatoria delineata da questo non lineare legislatore

8. Considerazioni per il raggiungimento dell’obiettivo di una giustizia civile efficiente

1. Il quadro paradigmatico di riferimento

L’articolato procedimento di mediazione introdotto dal legislatore interno in sede di riforma del processo civile[1] si pone come unico, malcelato obiettivo quello di operare, mutuando un’espressione dal gergo calcistico, un intervento a piedi uniti allo scopo di deflazionare tout-court il sistema della giustizia civile ormai al collasso.

Quel che colpisce dell’iniziativa legislativa è che essa invece di agire sul processo e sulla bassissima produttività dei magistrati pretende di imporre una disciplina della mediazione che si pone addirittura come condizione di procedibilità dell’azione giustiziale di impatto molto discutibile.

Un simile approccio sistemico non è nuovo nel nostro ordinamento ove si consideri che non moltissimi anni fa il legislatore interno resosi conto di non poter cancellare lo stato patologico rappresentato dalla pazzia ha pensato bene – sia pure con le migliori intenzioni - di eliminare i manicomi[2].

E’ un leit-motiv incredibilmente costante quello di agire per via surrettizia piuttosto che per via diretta, peraltro di sicura maggior ragionata producenza, nella risoluzione dei problemi.

Il risultato di queste contingenti e non sufficientemente meditate operazioni è giustapposto rispetto alle emergenze obiettive e reali di una giustizia civile che non funziona, ma in compenso esse diventano ghiotta fonte di contrapposizioni tra guelfi e ghibellini; attività che sono rinomata specialità della ditta Italia.

Ovviamente il problema non è la mediazione, quale sistema libero e non processualizzato di risoluzione stragiudiziale delle controversie civili e commerciali, che è idea giuridica apprezzabile sul piano effettuale e, peraltro ampiamente praticato da qualunque avvocato che si rispetti al fine di evitare, nell’interesse del cliente, i tempi lunghi del processo, bensì questo tipo di media conciliazione, pesantemente processualizzata, oggi adottato il quale si pone come un unicum nel panorama delle legislazioni europee in cui il connotato dell’obbligatorietà – pensato ed attuato in maniera pittosto goffa ed indifferenziata dal legislatore interno – resta, invece, nel resto d’Europa, confinata per ipotesi assolutamente marginali e di nicchia rispetto a quello che è il contenzioso ordinario nel quale, non si dimentichi, confluiscono gli interessi ed i diritti dei cittadini che fra l’altro, almeno per le situazioni disponibili fatte valere, hanno una valida, e di maggior attrazione, alternativa nell’istituto dell’arbitrato. Istituto, quest’ultimo a cui, e non è cosa questa di poco momento, si può fare ricorso senza passare attraverso le forche caudine dell’attuale mediaconcliazione con tutti i vantaggi di speditezza che ne conseguono.

In verità aver disposto una conciliazione obbligatoria, non in linea con le linee direttrici dell’Europa e, quindi, aver stabilito una condizione di procedibilità per l’azione giustiziale, pressoché per tutti gli oggetti di diritto, è operazione, come già evidenziato, non logica e comunque di difficile comprensione viepiù che la stessa, con carattere così generalizzato, non è contemplata in alcuna delle legislazioni sopra ricordate.

In buona sostanza si impone al cittadino una sorta di processo anticipato eseguito da un giudice non giudice al solo scopo di evitare il vero processo ed il vero giudice attraverso il ricorso ad un meccanismo preordinato a recar nocumento a chi di tale strumento o del suo risultato non rimane soddisfatto e vuole invece adire al giudice statuale per la tutela dei suoi diritti.

Al di là del fatto di non poco momento che non si riesce a comprendere perché mai colui il quale ritenga di essere nel giusto debba assoggettarsi al prefato procedimento di mediazione e per forza, essere costretto ad accettare o rifiutare una proposta di conciliazione in lapalissiano contrasto con le direttive dell’UE[3] e come in seguito si vedrà anche con l’art. 24 della Costituzione.

Il sistema di obbligatorietà così concepito dal legislatore interno – e che si ribadisce è del tutto estraneo agli altri Paesi europei - reca con se aspetti di non secondaria rilevanza quali un costo di ingresso indiscutibilmente elevato, procedure e ricadute illegittime sul processo che contrastano, ictu oculi, con la libertà di accesso dei cittadini alla giustizia.

Infatti l’introduzione di una tassa, prevista come obbligatoria, per ottenere giustizia, che si risolve in una ingiustificata limitazione del diritto di accesso alla giustizia medesima e, quindi all’esercizio di diritti costituzionali garantiti, appare imposizione del tutto arbitraria, viepiù che si devia l’analisi delle materie in capo a mediatori che non offrono sufficienti garanzie di competenza e professionalità.

Sarebbe stato forse più semplice e più producente incidere sull’incentivazione e sul controllo dell’operatività dei giudici, ovvero procedere alla modifica dell’art. 185 c.p.c. facendo gravare su essi giudici, piuttosto che su figure di non altrettanto pari livello di cultura giuridica, l’obbligo del tentativo di conciliazione fra le parti nell’ambito di una controversia già incardinata con la conseguenza che in caso di fallimento della mediazione il processo andrebbe avanti senza spreco di tempo e di soldi, ovvero incentivando il ricorso all’istituto arbitrale in materia di diritti disponibili che indiscutibilmente offre maggiori garanzie procedimentali oltre che di competenza e di professionalità .

2. Gli elementi di crisi del nuovo istituto della mediaconciliazione obbligatoria

La disciplina dell’istituto delineata dal legislatore non appare suscettibile di assicurare, in maniera certa ed esaustiva, la finalità della deflazione dei processi e della celere e qualitativamente apprezzabile definizione dei giudizi, soprattutto con riferimento alla non lineare attribuzione della mediaconciliazione ad organismi pubblici e privati previsti dal legislatore, invece che assegnare tale funzione agli avvocati nell’esercizio del loro servizio professionale.

Inoltre, come peraltro già evidenziato, la scelta legislativa in esame mal si concilia con la normativa dell’UE in materia di mediazione[4], laddove, inibisce, senza una plausibile ragione imperativa, la libertà di rivolgersi per la mediaconciliazione agli avvocati per favorire, senza razionale motivazione, un regime di esclusività a vantaggio degli organismi di mediazione i quali, a differenza degli avvocati non forniscono alcuna oggettiva garanzia di indipendenza rispetto agli interessi in gioco nell’ambito della controversia. E ciò anche in considerazione del fatto che i c.d. mediatori agiscono in regime di evidente e soffocante stato di parasubordinazione, per essere gli stessi gerarchicamente e funzionalmente subordinati nei confronti della struttura dell’organismo mediativo cui appartengono che, per l’effetto, rende gli stessi non idonei ad affrontare eventuali conflitti di interesse con la medesima efficacia ed indipendenza con cui l’avvocato – esso si organo vero della amministrazione della giustizia non legato da alcun rapporto di impiego verso il cliente che lo paga - è aduso fronteggiare detti eventuali contrasti.

Non appare altresì peregrino ravvisare nella normativa della mediaconciliazione introdotta in Italia una assoluta mancanza di razionalità e coerenza della stessa in relazione ai diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU la cui giurisprudenza, con riferimento all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, potrebbe – con alte percentuali di probabilità - sanzionare tanto la ravvisata mancata previsione di un’efficace assistenza tecnica nella previa fase di mediaconciliazione imposta come obbligatoria che l’altrettanto obiettiva evidenza di un non motivato allungamento dei tempi del processo.

In buona sostanza l’istituto esaminato, se non opportunamente rivisitato, soprattutto con riferimento all’improvvido aspetto della sua obbligatorietà, che va senza indugio eliminato, determinerà:

- un senza dubbio più periglioso accesso alla giurisdizione;

- un aumento degli oneri e dei costi a carico del cittadino;

- una maggiore dilatazione dei tempi per la presentazione della domanda giudiziale;

- un regime di favore, in termini di dilazione del redde rationem, per la parte inadempiente che non intenda conciliare la controversia;

- una subornazione del ruolo dell’avvocato, la cui figura professionale non è prevista come necessaria nell’assistenza al cliente e, comunque, il precetto di una obbligatoria dichiarazione scritta del cliente medesimo sull’avvenuta informativa da parte del legale;

- l’individuazione di una figura di mediatore – al quale viene affidata la gestione di più dell’ottanta per cento delle materie e dei processi che resteranno congelati per almeno un anno - non obbligatoriamente dotato di preparazione giuridica, al quale viene attribuito il potere di formulare un progetto di accordo che se non accettato potrà produrre effetti penalizzanti per la difesa giustiziale del cittadino;

- un sistema di obbligatorietà estranea alla delega conferita al Governo dal Parlamento e che, comunque, non assicura in termini di garanzia la qualità del diritto di difesa del cittadino.

- non ultima la non peregrina e purtroppo non remota evenienza che gli organismi di mediaconciliazione così come concepiti (in sostanza pressoché privi di controlli e di garanzie di riservatezza), soprattutto nelle zone del Paese in cui più incombente si manifesta e si avverte la presenza delle organizzazioni criminali, possano restare pesantemente condizionati dall’azione delle cosche medesime, sia in termini di partecipazione occulta a detti organismi, sia attraverso forme di persuasione discratica particolarmente virulente, tanto più facili da porre in essere nei confronti di soggettività (mediatori) non particolarmente dotati e forti sotto il profilo della competenza e della professionalità che si trovano ad amministrare il fenomeno di questa mediaconcliazione - illogicamente e senza una ragione plausibile, processualizzata - peraltro concepito come obbligatorio per legge.

Il non lineare sistema dianzi descritto appare suscettivo di essere aggredito tanto davanti alla giurisdizione amministrativa dello Stato italiano quanto, e forse con maggior pregnanza di ragioni, davanti alla Corte di Giustizia europea.

3. Il ricorso al T.A.R. del Lazio contro la mediaconciliazione obbligatoria

Nel quadro normativo e di considerazioni testé delineato si inserisce l’azione contenziosa proposta dall’OUA, da plurimi Consigli dell’Ordine, da molte delle associazioni forensi e da altrettanto numerosi avvocati in proprio rivolta nei confronti del D.M. 18 ottobre 2010 n°180 avente ad oggetto la richiesta di annullamento del "regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi ai sensi dell’art. 16 del D.Lgs. n°28/2010, nonché la dichiarazione di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt 5 e 16 del medesimo D.Lgs n°28/2010 in riferimento agli artt. 24 e 77 della Carta e per l’effetto la sospensione del processo ed il rinvio alla Corte Costituzionale".

I ricorsi proposti[5] sono stati riuniti dal Collegio giudicante[6] che ha ravvisato, fra gli stessi, evidente connessione oggettiva e parziale connessione soggettiva in ragione dell’identità del provvedimento impugnato e delle resistenti amministrazioni della Giustizia e dello Sviluppo economico.

Le censure ricorsuali mosse aggrediscono in primo luogo la genericità operata nella individuazione della figura del mediaconciliatore e delle strutture di conciliazione; situazione questa che determina un evidente, aperto conflitto con il disposto dell’art. 60 della L. n°69/2009 che ha espressamente previsto che, in ragione della vasta gamma delle materie oggetto di conciliazione, la figura del mediaconciliatore avrebbe dovuto essere espressione forte e significativa del valore rappresentato dalla peculiare ed indiscutibile preparazione tecnico-professionale.

Al contrario, invece, l’art. 16 del regolamento, in palese disattenzione della norma primaria citata (art. 60 della L. n°69/2009) riqualifica in peius i connotati peculiari del mediatore e degli organismi di conciliazione e con un atteggiamento poco commendevole fa regredire il connotato giuridico della qualificazione tecnico-professionale in favore dell’incidenza patrimoniale (serietà ed efficienza) che diventa così il criterio privilegiato, però altro e diverso rispetto a quello previsto dalla legge delega, per la selezione degli organismi medesimi a cui si aggiungono i forti oneri economici posti a carico dei cittadini, quando, invece, tale fase stragiudiziale avrebbe dovuto essere connotata dalla assoluta gratuità.

Va da se, come facile intuizione, che detti caratteri di incidenza patrimoniale inibiscono l’accesso degli esercenti la professione legale al registro degli organismi di mediazione.

Il tutto in palese eccesso di delega considerato che nel testo del regolamento non risulta traccia del ben che minimo criterio atto ad individuare e selezionare gli organismi di che trattasi in conformità a quanto, invece postulato dall’art. 60 della L. n°69/2009 e dall’art. 4 della Direttiva 2008/52/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa del 21.5.2008. E si che la Sezione consultiva per gli atti normativi del Consiglio di Stato, nei pareri resi sullo schema di regolamento, aveva avvertito ed evidenziato un’assolutamente scarsa chiarezza nella individuazione delle strutture di mediazione.

Nell’intera disciplina regolamentare impugnata i ricorrenti ravvisano, altresì, i caratteri della irrazionalità e della illogicità non avendo obiettivamente detta normativa individuato alcun concreto parametro di valutazione della competenza degli organismi di mediazione; competenza che in coerenza al quadro delineato dalla legislazione comunitaria e nazionale avrebbe dovuto portare ad individuare, quali mediatori, gli esercenti la professione legale muniti di significativa anzianità di iscrizione nei rispettivi albi e di una particolare e comprovata specializzazione nelle materie oggetto dell’attività di mediazione.

L’attuale normativa regolamentare, invece, abbassa a livelli veramente miserrimi la qualità del mediaconciliatore allorquando prevede in capo allo stesso soltanto il possesso di un qualunque titolo di studio, di una laurea triennale anche in discipline non giuridiche o una iscrizione a qualsivoglia albo o collegio professionale e, ciliegina sulla torta, il conseguimento del titolo di mediatore attraverso corsi di formazione di certo non esaltante qualità.

Il secondo gruppo di censure è teso ad ottenere la dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt. 5 e 16 del D.Lgs. n°28/2010 in riferimento agli att. 24 e 77 della Carta.

A tal proposito i ricorrenti sostengono che l’art. 5 del regolamento – peraltro in aperto conflitto con la prescrizione della legge delega –, allorquando prevede che il procedimento di mediaconciliazione, in alternativa al processo o in funzione stragiudiziale, configura una iniqua condizione di procedibilità della domanda giustiziale, sicché non appare revocabile in dubbio che ogni sua fase, proprio per la delicatezza che la connota, presupponga la competenza, la perizia e, quindi, la necessaria presenza dell’avvocato.

Tale considerazione, impropriamente glissata dal regolamento, viene altresì rafforzata dall’obiettiva evidenza degli effetti previsti dal legislatore in caso di mancata conclusione della conciliazione.

Siffatta ingiustificata obbligatoria condizione di procedibilità, peraltro, proprio per escludere ogni altro procedimento, alternativo e facoltativo, di mediazione, porta al risultato di precludere, nel senso di limitare in maniera categorica, l’immediato accesso dei cittadini alla tutela processuale e rischia di compromettere l’effettività della stessa tutela giustiziale.

A questo aggiungasi che l’art. 16 dello stesso D.Lgs. determina lo snaturamento della previsione dell’art. 60 della L. n°69/2009 che prevede che la mediazione venga svolta da organismi professionali ed indipendenti, stabilmente destinati all’erogazione del servizio di conciliazione allorquando esclude dai criteri di selezione degli organismi di mediazione qualsivoglia parametro di “professionalità ed indipendenza”.

L’effetto di entrambe le previsioni– con assoluta incoerenza rispetto all’intero impianto legislativo – è quello di determinare una violazione della delega e lo snaturamento della funzione che il legislatore delegante aveva assegnato al procedimento ed agli organismi della mediazione i cui connotati peculiari avrebbero dovuto essere proprio l’indipendenza e la professionalità.

Da tale effetto deriva, in termini di assoluta indiscutibilità, la violazione operata dagli artt. 5 e 16 del D.Lgs n°28/2010 dei principi costituzionali in materia di legislazione delegata (art. 77 Cost.) e la altrettanto palese violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 della Carta.

L’ultimo complesso di censure afferisce alle previsioni relative alla disciplina transitoria che nelle intenzioni del legislatore del D.Lgs n°28/2010, avrebbero dovuto avere efficacia sino alla entrata in vigore del regolamento n°180/2010, ma che, invece, in assolutamente palese contrasto con le previsioni normative dell’art. 16 del D.Lgs n°28/2010, non soltanto detto regolamento con l’art. 4, 4° comma, introduce un nuovo regime transitorio ma addirittura arbitrariamente utilizza tale nuova normazione transitoria per assicurare la sopravvivenza di organismi per i quali il legislatore aveva già previsto la decadenza, i quali, pertanto a semplice domanda vengono iscritti all’esito “della verifica della sussistenza del solo requisito di cui al 2° comma lett. B), per l’organismo, e dei requisiti di cui al 3° comma per i mediatori”.

Conseguenza di un simile operare è che, ai fini dell’iscrizione nei registri, gli organismi costituiti dai Consigli dell’ordine degli avvocati, con proprio personale e nei locali messi a loro disposizione dal Presidente di ciascun Tribunale, devono dimostrare di essere in possesso – e ciò costituisce ostacolo di non poco conto - di una polizza assicurativa non inferiore ad € 500.000,00.

E non si venga a dire che tale novità è stata introdotta per permettere l’immediata operatività dei procedimenti di mediazione atteso che sarebbe stato sufficiente, a tale scopo, che i ministri della Giustizia e dello Sviluppo economico, giusta il disposto dell’art.60, 3° comma lettere e) ed f) della L. n°69/2009, avessero disposto l’iscrizione di diritto degli organismi istituiti dai Consigli dell’Ordine presso i Tribunali.

4. L’intervento del Giudice Amministrativo

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione I^, investito del problema e delle relative censure di diritto, con ordinanza n°3202 depositata il 12.4.2011, ha dichiarato rilevanti e non manifestamente infondate alcune delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con entrambi i ricorsi proposti contro il D.Lgs n°28/2010 ed il regolamento di attuazione (D.M. n°180/2010) nella parte in cui intervengono a disciplinare l’obbligatorietà della mediazione e, di conseguenza, rimesso gli atti al Giudice della Leggi.

In particolare l’organo giustiziale adito ha:

- disposto la riunione dei ricorsi n°10937/10 R.G. e n° 1235/10 R.G. per connessione oggettiva e parziale connessione soggettiva;

- dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 24 e 77 della Carta, la questione di legittimità costituzionale dell’ art. 5, comma 1°, del D.Lgs n°28/2010 che nel primo periodo introduce a carico di chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa alle controversie nelle materie espressamente elencate l’obbligo del previo esperimento del procedimento di mediazione, nonché nel secondo periodo l’affermazione che l’esperimento della mediazione è condizione di procedibilità della domanda, ed infine nel terzo periodo che l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto o rilevata d’ufficio dal giudice;

- dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 24 e 77 della Carta, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, 1° comma, del D.Lgs n°28/2010 laddove lo stesso dispone che abilitati a costituire, su istanza della parte interessata, organismi deputati a gestire il procedimento di mediazione sono gli enti pubblici e privati, che diano (soltanto) garanzie di serietà e di efficienza;

- disposto la sospensione del giudizio ed ordinato l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.

5. Le considerazioni sulle ragioni di remissione

Il ragionamento del Giudice Amministrativo appare assistito da indiscutibili e non contestabili sopportazioni logiche e giuridiche e, pertanto, del tutto condivisibile.

Invero, sostiene il Tribunale come non appaia revocabile in dubbio che la proposta istanza di annullamento delle norme del D.M. n°180/2010 vada necessariamente correlata con l’accertamento della correttezza della scelta operata dal legislatore paradigmando i criteri espressi dal legislatore delegato, con quelli propri della legge delega, con i precetti costituzionali e con le disposizioni comunitarie, sicché dall’analisi effettuata ha rilevato le seguenti emergenze nell’operato del legislatore che:

- all’art. 16 ha conformato gli organismi di conciliazione a parametri e qualità che attengono "esclusivamente ed essenzialmente all’aspetto della funzionalità generica che, per contro sono scevri da qualsiasi riferimento a canoni tipologici tecnici o professionali di carattere qualificatorio ovvero strutturale";

- le materie contemplate dall’art. 5, hanno delineato l’attività di mediazione come ineludibile fase prodromica al processo con l’ulteriore e significativo effetto di assegnare ad essa fase il potere di conformare in maniera definitiva i diritti soggettivi in essa trattati ovvero persino di incidere sugli stessi anche "laddove ne residui la giustiziabilità in sede di Tribunale".

Il risultato di tale azione legislativa, sostiene il G.A., giunge sino al punto di "deistituzionalizzare e detecnicizzare la giustizia civile e commerciale e di enfatizzare un procedimento paravolontario" di controversie peraltro, per improvvida scelta, neppure omogenee.

Addirittura l’atto che conclude la mediazione attraverso la sua omologazione acquista efficacia di titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale[7].

In pratica viene parificato agli atti propri e tipici delle statuizioni giustiziali con la conseguenza che il diritto positivo è ravvisabile "solo sullo sfondo come cornice esterna ovvero come limite generale alla convenibilità delle posizioni giuridiche coinvolte nella mediazione".

Manca peraltro nel disegno delineato dal legislatore delegato - e ciò non è momento di poco conto al fine di individuare e qualificare la violazione del diritto di difesa costituzionalemente garantito (art. 24 della Carte) – l’insopprimibile necessità di correlare l’ermeneusi dell’art.16 del D.Lgs n°28/2010 (peraltro prodeutica all’esame dell’impugnato art. 4 del regolamento) alla previsione del punto 9 dell’art. 5 del prefato D.Lgs n°28/2010.

Orbene poiché, in termini di tutta evidenza, la prefata condizione non è presente nella legge delega e neppure emerge dal quadro rappresentato dalla direttiva comunitaria n°2008/52/CE del 21.5.2008, appare ictu oculi immanente la perpetrata violazione dell’art. 77 della Costituzione.

Infatti ad avviso del giudice remittente "non si rinviene alcun elemento che consenta di ritenere che la regolazione della materia andasse effettuata nei termini prescelti dall’art. 5 del D.Lgs n°28/2010", viepiù che la scelta del legislatore (art. 60 L. n°69/2009) "di ampliare le controversie interne in ambito civile e commerciale, in alcuno dei criteri e principi direttivi previsti da esso art. 60, assume l’intento deflattivo del contenzioso giurisdizionale o configura l’istituto della mediazione quale fase preprocessuale obbligatoria".

Non può quindi razionalmente essere considerato come rientrante nell’area propria della legislazione delegata il potere di attribuire alla mediazione il connotato obbligatorio ad essa conferito né con riferimento alla disciplina comunitaria né con riferimento al processo civile.

Ma v’è di più! Quand’anche fosse ipotizzabile considerare come realizzato un integrale recepimento della direttiva 2008/52/CE da parte dell’art. 60 della L. n°69/2009, non appare revocabile in dubbio come non possa neppure lontanamente supporsi che il silenzio del legislatore delegante vada ad assumere - viepiù alla luce della doverosa ermeneusi paradigmaticamente correlata agli artt. 24 e 77 della Carta – il significato di una "meccanica introduzione nell’ordinamento statale delle opzioni comunitarie che rispetto al diritto di difesa garantito dai succitati articoli della Costituzione", ovvero in alcun modo giustificare l’obbligatorietà del ricorso alla mediazione e l’improcedibilità rilevabile anche d’ufficio dello inadempimento di tale preventivo obbligo come, invece, ha, inopinatamente fatto l’art. 5 del decreto delegato.

Non è, poi, inutile riferire che la delineata non rispondenza alle norme della Carta la si rileva da ulteriori due altri principi e criteri direttivi.

Il primo postulato dall’art. 60, lett. C) che prevede che "la mediazione sia disciplinata anche attraverso l’estensione delle disposizioni di cui al D.Lgs n°5 del 17.1.2003".

Il secondo dall’obiettiva evidenza che il D.Lgs n°5/2003 fa riferimento, per ciò che attiene alla conciliazione stragiudiziale (artt. da 38 a 40 del titolo IV peraltro ormai abrogati dall’art. 23 del D.Lgs n°28/2010), esclusivamente ai procedimenti di diritto societario, di intermediazione finanzaziaria e della materia bancaria e creditizia "in attuazione dell’art. 12 della L. 3.10.2001 n°366)".

Procedimenti questi ultimi espressione di indubbia fonte volontaria privata (contratto o statuto sociale) in cui l’aspetto conciliativo è rimesso alla facoltà della parte che ha interesse ad attivarlo e non già alla "forza cogente della legge" con l’ulteriore considerazione che il mancato esperimento della conciliazione non determina l’estinzione del procedimento giustiziale eventualmente prodotto, ma soltanto l’effetto di sospendere il processo in atto per il periodo necessario ad esperire la conciliazione. Di guisa che l’esistenza nel D.Lgs n°5/2003, del modello di conciliazione delle controversie, alternativo alla giurisdizione non pospone de iure – come avviene nella mediaconciliazione in esame - il diritto della difesa in giudizio, né lo rende inutiliter esercitato come invece impropriamente ed in maniera contraddittoria fa l’art. 5, 1° comma del D.Lgs n°28/2010 che subordina il diritto di difesa in giudizio all’esperimento imposto appunto della mediazione.

E che tutto ciò non trova riscontro alcuno nella legge delega resta viepiù dimostrato dall’art. 60, lettera n) della L. n°69/2009 che prevede "il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio, della possibilità e non dell’obbligo di avvalersi dell’istituto della conciliazione".

Ne discende che sotto qualunque angolazione si voglia riguardare il problema non appare revocabile in dubbio che non sussiste correlazione alcuna tra l’art. 5, 1° comma del D.Lgs n°28/2010 con il più volte richiamato art. 60 della legge delega.

Alla luce delle ragioni espresse ritengo del tutto condivisibili le valutazioni di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, espresse dal G.A., con riferimento all’art. 5, 1° comma del D.Lgs n°28/2010 che ha introdotto a carico di chi intende esercitare in giudizio "un’azione relativa alle controversie nelle materie espressamente elencate, l’obbligo del previo esperimento del procedimento di mediazione", nonché la considerazione "che l’esperimento della mediazione stessa è condizione di procedibilità della domanda giudiziale ed infine che l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto o rilevata d’ufficio dal giudice".

Appare altresì lapalissiana la rilevazione del vizio di legittimità costituzionale anche con riferimento all’art. 16, 1° comma, del prefato D.Lgs n°28/2010, "laddove il medesimo dispone che, abilitati a costituire, su istanza della parte interessata, organismi deputati a gestire il procedimento di mediazione siano gli enti pubblici e privati, che diano garanzie di serietà e di efficienza".

Infatti con riferimento all’art. 24 della Carta non appare conforme al modello costituzionale istituire una situazione di pregiudizialità "sull’azionabilità in giudizio di diritti soggettivi e sulla successiva funzione giurisdizionale statuale su cui lo svolgimento della mediazione variamente influisce", atteso che le disposizioni normative in esame non garantiscono, a causa di un’evidente ed assolutamente inadeguata definizione della figura del mediatore, "che i privati non subiscano irreversibili pregiudizi discendenti dalla non coincidenza degli elementi loro offerti in valutazione al fine di assentire o rifiutare l’accordo conciliativo rispetto a quelli suscettibili, di essere evocati", nella fase successiva del giudizio.

Risulta altresì stridente, per contrasto con l’art. 77 della Costituzione, la pretesa normativa di obbligatorietà, rispetto alla fase giudiziale, del preventivo esperimento del procedimento di mediazione non risultando ammissibile che la legislazione delegata possa, nel silenzio della legge delegante, espandersi sino al punto da travolgere i limiti dettati dalla normativa di delega.

6. Il ricorso per motivi aggiunti contro la Circolare del 4 aprile 2011 del Ministero della Giustizia su regolamento di procedura e requisiti dei mediatori

L’azione ricorsuale avviata viene estesa, dai soggetti dianzi ricordati, con coerenza logica anche nei confronti della Circolare su ricordata che, con motivi aggiunti, è stata anch’essa impugnata, sempre in sede giustiziale amministrativa, sul presupposto, più che evidente, che le previsioni in essa contenute hanno un indiscutibile valore precettivo ed incidono con sicura attendibilità tanto sulla procedura di mediazione che sui requisiti dei mediatori, in ragione del fatto che dalla disciplina illustrata, che reitera pervicacemente, anzi, se possibile, esaspera all’ennesima potenza, tutti i vizi denunciati con il primo gravame e le perplessità di legittimità costituzionale rilevate come non manifestamente infondate dal T.A.R. del Lazio.

Infatti essa – il cui connotato peculiare è l’atipicità del suo precettivo ed estensivo contenuto ermeneutico dell’art. 5 del regolamento - non consente, al pari degli atti normativi che l’hanno preceduta, di rilevare alcuna specifica ed idonea competenza in capo ai mediatori né alcun criterio qualitativamente apprezzabile in ordine alla formazione degli stessi con riferimento al compito, certamente non secondario, che il legislatore ha inteso demandare agli stessi, e perché nel reiterare l’assurda condizione della mediazione come condizione di procedibilità della domanda giudiziale introduce una ermeneusi ancora più dilatata dell’art. 5 del D.Lgs n°28/2010 – peraltro già censurato dall’organismo giustiziale remittente - allorquando prevede, che per considerare esperita la condizione di procedibilità il verbale di esito negativo della mediazione debba essere redatto dal mediatore e non dalla segreteria dell’organismo di mediazione.

L’esame della circolare in questione rafforza viepiù il fondamento di quanto rilevato dal G.A. remittente e cioè che manchi nella maniera e nella misura più assoluta la previsione e la individuazione, da parte del legislatore – come, peraltro, evidenziato anche in sede di secondo gravame – di requisiti idonei a delineare una figura di mediatore in possesso di adeguata e peculiare formazione giuridica e della necessaria esperienza processuale, indispensabili per l’esercizio della funzione mediativa viepiù che se la mediazione va ravvisata, come sostiene il legislatore, quale condizione di procedibilità della domanda non par dubbio che la stessa vada intesa come funzione stragiudiziale alternativa al sistema giudiziale. Di guisa che la gestione del relativo procedimento, sia che si giunga alla soluzione dell’insorgenda controversia, sia che essa si ponga come fase prodromica all’instaurazione in sede giustiziale della controversia stessa, non è dubbio richieda la competenza tecnico-giuridica e l’esperienza professionale dell’avvocato in conformità con l’unico parametro di limitazione disposto tassativamente dall’art. 60 della L. n°69/2009, ossia la professionalità e l’indipendenza: parametri individuabili esclusivamente con criteri tecnico-scientifici e non con quelli affetti da insanabile pressappochismo espressi dal D.Lgs n°28/2010 e dalla Circolare del 4 aprile 2011 esaminati.

7. Sulla possibilità di bypassare la mediazionconciliazione obbligatoria delineata da questo non lineare legislatore.

La risposta alla domanda ritengo possa essere positiva ove si raffronti comparativamente il complesso della normativa interna introdotta dal D.Lgs n°28/2010 e dal D.M. n°180/2010 con la normativa europea in rapporto alla quale si evidenziano non pochi punti di conflitto con l’art 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, viepiù tenuto conto dell’obiettiva circostanza che l’ambito di influenza, postulato dalla normativa comunitaria, giusta l’art. 52, 3° comma, della medesima Carta, coincide con il contenuto dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

La normativa e la giurisprudenza europea, infatti, esaltano[8] come dato paradigmatico fondante l’effettività del diritto all’azione giustiziale come condizione concreta ed essenziale, inserita nel Preambolo di detta Convenzione europea, per la connotazione del primato dello Stato di diritto; primato che, al contrario, la normativa sulla mediaconciliazione obbligatoria introdotta di recente dal legislatore interno, tende a conculcare senza una obiettiva ragione, ponendosi tale limitazione, impropriamente giustificata dalla finalità - che non può, comunque, assurgere al rango di interesse collettivo superprimario - di deflazionare il carico di lavoro dei Tribunali, come un vero e proprio fuor d’opera.

Non è inutile ricordare come la stessa CEDU allorquando si è trovata ad esaminare la obbligatorietà del tentativo di conciliazione stragiudiziale davanti al Co.re.com.[9], ha concluso per la sua ammissibilità in considerazione del fatto che lo stesso non si pone come ostacolo insormontabile per l’esercizio del diritto di agire in giudizio, conferito ai singoli dalla direttiva del Consiglio e del Parlamento europeo 2002/22/CE[10], in ragione del fatto che il risultato del prefato tentativo obbligatorio di conciliazione non è in alcun modo vincolante per le parti che lo eseguono sicché il medesimo non limita il diritto delle parti medesime alla domanda giustiziale; che nella fattispecie considerata, l’esercizio di tale tentativo di conciliazione non determina ritardi considerevoli alla proposizione del diritto alla giustizia in caso di mancata conclusione della procedura di conciliazione allo spirare del termine[11] indicato dal D.Lgs n°259/2003; che ogni possibile prescrizione dei diritti è sospesa durante l’esperimento del procedimento di conciliazione; che non ci sono costi aggiuntivi per le parti.

Al contrario, il D.Lgs n°28/2010 viola apertamente il c.d. diritto al giudice sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE e dalla Convenzione europera dei diritti dell’uomo dianzi richiamate allorquando pone la mediaconcliazione, non già come procedimento amministrativo prodromico alla proposizione della vertenza davanti al giudice, bensì quale iter obbligatorio afferente controversie in essere che precede la fase giustiziale nei confronti della quale una delle parti[12] si è determinata a far ricorso.

Addirittura l’esperimento con successo del procedimento di mediaconciliazione consente di conseguire, attraverso il relativo verbale che costituisce titolo esecutivo[13], effetti del tutto omologhi alle sentenze della giurisdizione.

Questo fatto si connota come emblematico di un dato incontrovertibile e cioè della assoluta equivalenza tra le due procedure (mediazione obbligatoria e giudiziaria) con conseguente alternatività tra di esse: l’unica differenza, e non è cosa di poco conto, e che la prima occupa una fase antecedente alla seconda e per di più senza la previsione dell’assistenza della figura professionale dell’avvocato.

La mancanza dell’assistenza dell’avvocato rappresenta un paradosso ed un’anomalia pregnante ove si consideri che la normativa europea[14] prevede come paradigma obbligatorio la presenza ed immanenza delle essenziali garanzie procedurali anche nell’ambito della mediazione atteso che alle parti contendenti deve essere assicurato l’esercizio della difesa tecnica che ha il non secondario compito di consigliare, difendere e rappresentare.

Va da se che l’assenza del difensore nel procedimento della mediaconciliazione in esame non può ritenersi surrogata dalla previsione dell’omologa del Presidente del Tribunale[15] atteso che, in termini di tutta evidenza siffatto passaggio non è e non può porsi come momento equivalente dell’accesso alla fase giustiziale e comunque non è conforme al c.d. processo equo postulato dal più volte citato art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed in ogni caso i confini del controllo esercitato dal ricordato Presidente del Tribunale negano recisamente che siffatta decisione possa assumere i peculiari connotati propri della piena giurisdizione.

Né si può sostenere che la mediaconciliazione non libera e pesantemente processualizzata nel senso in altra parte di questa nota riferito, avventurosamente introdotta dal legislatore interno, possa prescindere dalla presenza del difensore tecnico e che tale presenza possa essere sostituita dal c.d. mediatore ausiliario[16] ovvero da esperti, attesa l’inequivoca evidenza che rientrano nell’ampio ambito della mediaconciliazione materie di grande complessità disciplinare.

A questo aggiungasi che tanto nell’ordinamento interno che in quello comunitario l’assenza di difesa tecnica rappresenta l’eccezione e non la regola[17]. E siffatta eccezione viene disposta soltanto per controversie di modestissimo valore.

Le materie previste dalla mediaconciliazione di recente introdotta, invece, sono di non poca entità e complessità tecnica e di notevole spessore e rilievo economico, con l’aggravante che mentre il giudice garantisce la necessaria terzietà, il mediatore è legato ad un vincolo di indiscussa parasubordinazione con l’organismo cui appartiene e non si può configurare in alcun modo come soggetto imparziale rispetto all’esito della mediaconciliazione quantomeno in relazione all’entità dell’indennità di propria spettanza che viene ad accrescersi nelle ipotesi di buon esito della procedura[18].

Va altresì ancora rilevato tanto il carattere defatigante della procedura di mediazione obbligatoria[19] che la sua dispendiosità, tra l’altro, patentemente esclusa dalla Corte di Giustizia europea[20] che sancisce la necessità di insussistenza dei costi della mediazione.

Va ulteriormente rilevato che l’effetto interruttivo della prescrizione e della decadenza, al contrario di quanto previsto dall’art. 410 c.p.c., non è correlato al deposito dell’istanza, bensì al momento della comunicazione alle altre parti dell’avvenuto deposito della domanda con conseguente dilatazione – e ciò è indiscutibilmente grave considerato l’ambito spropositato delle materie soggette alla mediaconciliazione e della correlativa area applicativa della irrazionalmente introdotta condizione di procedibilità dell’azione – dei tempi di azione degli organismi di mediazione.

Il difetto di assonanza con l’UE in tema di accesso alla giurisdizione, resta viepiù accentuato dalla giurisprudenza della CEDU, che ha ritenuto sussistente la violazione dell’art. 6 della Convenzione proprio nei casi in cui l’irricevibilità dell’azione dichiarata dal giudice derivi da vizi dipendenti dal personale dell’Amministrazione pubblica[21] ovvero nell’ipotesi in cui il procedimento imposto come obbligatorio non abbia dato alcun esito per mancata risposta dell’Amministrazione nei termini normativamente prefissati[22].

In buona sostanza, non appare revocabile in dubbio che il carattere obbligatorio della mediazione introdotta dagli artt. 5 e ss. del D.Lgs n°28/2010 si appalesa irragionevole, dispendioso e del tutto in contrasto con il dovere di assicurare l’esercizio del diritto di accesso al giudice e per ciò stesso in contrasto con gli artt. 24 della Costituzione, con l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.

In ragione di siffatto contrasto e delle intervenute sentenze della Grande Sezione della CEDU del 22.11.2005[23] e più di recente del 19.1.2010[24] - le quali hanno sancito che la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ha assolutamente identico valore dei trattati – è attribuito, a ciascun giudice nazionale, il potere di sindacare ogni normazione interna in contrasto con un diritto fondamentale europeo e, quindi, di disapplicare ogni legge interna che dia luogo alla violazione dei principi di natura comunitaria, sia con riferimento ad ipotesi di c.d. efficacia verticale diretta (rapporti tra cittadino e Stato) sia in fattispecie di c.d. efficacia orizzontale diretta (rapporti tra privati); il tutto senza l’obbligo di sollevare eccezioni di carattere costituzionale o questioni pregiudiziali davanti alla Corte di giustizia dell’UE.

In simili evenienze il giudice nazionale ha l’obbligo, nell’ambito della sua competenza, di garantire la tutela giuridica che il diritto comunitario affida ai soggetti dell’ordinamento nonché il dovere di garantire la piena efficacia di esso attraverso l’istituto della disapplicazione della normativa interna in contrasto senza dover transitare per il filtro dell’accertamento della loro incostituzionalità sul piano interno[25] .

Alla luce di quanto evidenziato non è dubbio che l’A.G.O. sia facultata a disapplicare l’art. 5, 1° comma, del D.Lgs n°5 del D.Lgs n°28/2010 in quanto palesemente in contrasto con l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE magari – anche se ciò non appare necessario – previo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 267 del TFUE.

8. Considerazioni per il raggiungimento dell’obiettivo di una giustizia civile efficiente.

A conclusione di questa lunga disamina ritengo doveroso esporre qualche profilo di analisi sul sistema della giustizia civile atteso che l’aspetto della risoluzione delle controversie è il tema giuridico che, forse più di tutti, agita la società del nostro tempo, e come tale merita un particolare approfondimento, soprattutto in un momento in cui la sete di giustizia non risulta soddisfatta dall’andamento della giurisdizione statuale sempre più lontana, quanto meno sotto il profilo della tempestività e dell’adeguatezza, dalla esigenza di una concreta ed efficiente risposta che il cittadino, che ad essa si rivolge, si attende[26].

Ed è perciò che di fronte allo stremo del sistema della giurisdizione istituzionale, ormai ridotto ad un simulacro, sotto il profilo dell’efficienza e dell’efficacia nei confronti delle situazioni fatte valere, il ricorso a riti e strumenti alternativi rappresenta un percorso del tutto necessitato se si vuole tentare di colmare il non indifferente iato ormai esistente tra i dichiarati intendimenti di assicurare giustizia da parte dell’apparato istituzionale e le effettive prospettive di risultato.

Di fronte al macilento funzionamento dei Tribunali, dunque, si rende necessario rivolgere altrove lo sguardo e valorizzare istituti - a mio avviso più l’arbitrato, che si ribadisce non necessita, per il suo espletamento, dell’esperimento del preventivo filtro dell’attuale mediaconciliazione obbligatoria - che la mediazione o gli altri strumenti di giustizia contrattuale che nell’ambito dello ordinamento consentono una maggiore velocità e qualità di risultato.

Gli strumenti della giustizia contrattuale, sono istituti di orgini antichissime, addirittura venuti in essere in tempo anteatto alla stessa istituzionalizzazione della giurisdizione statuale, e che in effetti, consentono, attraverso la valorizzazione dell’elemento volontaristico, di accedere ad una forma di giurisdizione caratterizzata dal principio di libertà della scelta fisiologicamente orientata verso una modalità di risoluzione delle controversie, sicuramente più rapida ed aderente alle esigenze della odierna società.

Va, comunque, evidenziato come vertendosi di giustizia, cioè di un valore che da sempre si intreccia con la vita dell’uomo, il ricorso ad una forma di risoluzione di controversie di tipo privatistico deve ragionevolmente poter poggiare su rassicuranti fondamenta governate dall’autorevolezza delle istituzioni che amministrano tale modello di risoluzione di conflitti, ossia di istituzioni ed associazioni di giustizia negoziale munite di consolidate specificità ed affidabilità.

In buona sostanza il passaggio alla giustizia privata impone la spendita di una fase preparatoria caratterizzata da un momento di intensa promozione culturale che prepari l’evento, e, soprattutto sia in grado di certificare, con anticipo, l’affidamento circa la sua qualità.

Soltanto in presenza di tali necessarie essenzialità la scelta di rivolgersi ad un soggetto (preferibilmente arbitro) professionalizzato e motivato e che giudica con celerità, risulterà vincente di fronte ad una giurisdizione statuale ormai al collasso e messa alle corde dai processi evolutivi di una società che si allontana sempre più dalla logica stagnante di un processo giustiziale che, per la sua congenita lentezza, non è quasi mai in condizioni di fornire risposte tempestive ed efficienti alle situazioni fatte valere ed alle esigenze di giustizia del cittadino. E’ ormai principio acquisito al comune sentire, la considerazione secondo la quale rendere tardivamente giustizia equivale a denegare giustizia.

La scelta di adire all’arbitrato, alla mediazione o ad altro metodo negoziale è dunque, oggi una opzione da privilegiare per coloro che intendono giungere più celermente al soddisfacimento degli interessi in campo, senza, peraltro, perdere alcuna garanzia formale, attesa la tutela che il legislatore ha, in linea generale, inteso assicurare alla giustizia alternativa a quella statuale.

L’ istituto arbitrale o anche una mediazione, come ad esempio quella assistita di tipo transalpino, priva dell’obbrobrioso connotato dell’obbligatorietà, altra e diversa da quella improvvidamente delineata dall’attuale legislatore o ancora altro metodo negoziale, comunque affidato ai difensori, sono, infatti, previsioni ordinamentali certamente legittime e correlate alla libertà contrattuale dei privati, attesa l’evidenza che nelle legislazioni in cui i privati sono in condizione di agire liberamente e di determinare, attraverso la loro volontà il contenuto dei contratti che pongono in essere, altrettanto liberamente possono devolvere a chi meglio credono le controversie che possono insorgere tra di loro.

Il problema dello smaltimento dell’arretrato civile correlato peraltro all’esigenza di rendere efficiente il servizio della giustizia deve passare, in termini di contestualità, anche attraverso il potenziamento del numero dei giudici, l’incentivazione ed il controllo dell’operatività dei magistrati stessi, l’approntamento di discipline processuali più snelle e funzionali, e deve altresì assumere forme e modalità concordate fra tutti gli operatori giuridici, compresi gli avvocati e non già essere il frutto di interventi surrettizi, calati dall’alto senza la loro verifica con l’unico vero elemento di riscontro, cioè la realtà effettuale.



[1] L. n°69/2009; D.Lgs n°28/2010; D.M. n°180/2010

[2] L. 13.5.1978 n°180 (c.d. legge Basaglia), confluita quasi integralmente nella legge 23.12.1978 n°833

[3] Direttive 98/257/CE del 30.3.1998; 2001/310/CE del 4.4.2001; 2008/52/CE del 21.5.2008

[4] Direttiva 2008/52/CE del 21.5.2008

[5] N°10937/2010 R.G. e n°11235/2010 R.G.

[6] T.A.R. Lazio, Sez. I

[7] Art. 12 D.Lgas n°28/2010

[8] Decisione Golder / Regno Unito del 21.2.1975

[9] Art. 84 del D.Lgs 1.8.2003 n°259

[10] 7 marzo 2002

[11] 30 giorni a decorrere dalla data di inoltro della domanda

[12] Cfr. art.4, 3°comma, D.Lgs n°28/2010

[13] Art. 12, 2° comma, D.Lgs n°28/2010

[14] Art. 47, 2° comma della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E.

[15] Art. 12, 1° comma, D.Lgs n°28/2010

[16] Art. 8 D.Lgs n°28/2010

[17] Art. 82 c.p.c. (sino a € 516,46) e Regolamento CE 11.7.2007 n°861 (sino a € 2.000,00)

[18] Art. 17, 4° comma D.Lgs n°28/2010

[19] Quattro mesi per la sua conclusione contro il termine ritenuto accettabile (30 gg.) dalla sentenza della Corte di Giustizia

[20] Sent. R.A. del 18.3.2010, C-317, 318, 319, 320/08

[21] Sent. Platakou / Grecia dell’11.1.2001; sent. Boulougouras / Grecia del 27.5.2004

[22] Sent. Faimblat / Romania del 13.1.2009; Maria Atansiu c/ Romania 123.10.2010

[23] Procedimento C-144/2004, Mangold

[24] Procedimento C-555/07, Kucukdeveci /Sweedex GmbH &Co. KG

[25] TAR Lazio, Sez. II, sent. n°11984 del 18.5.2010

[26] L.M. Delfino, Nel rapporto tra arbitrato e giurisdizione ancora nessuna novità all’orizzonte! in www.filodiritto.com