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I primi dieci anni di applicazione del Decreto 231

Estratto da "La prevenzione della corruzione nelle aziende farmaceutiche" - Filodiritto Editore - 2011 - www.filodirittoeditore.com

[Estratto, senza note, da "La prevenzione della corruzione nelle aziende farmaceutiche" - Filodiritto Editore - 2011 - www.filodirittoeditore.com]

 

Il sistema di responsabilità da reato degli enti collettivi è stato salutato dieci anni fa come una rivoluzione epocale.

 

In effetti, con il D.lgs. 8 giugno 2001 n. 231 l’ordinamento giuridico italiano si allineava ai numerosi altri ordinamenti – prevalentemente, all’epoca, di Common Law – nel prevedere la sanzionabilità di un ente collettivo in relazione a fatti di reato commessi da persone fisiche nel suo interesse o a suo vantaggio.

 

Il Decreto è nato in occasione del recepimento di alcuni atti internazionali in materia di corruzione, ma è stato progressivamente integrato con numerose altre fattispecie di reato.

 

Molti preannunciano un’esplosione dell’operatività della normativa in relazione alle fattispecie colpose, già presenti (art. 25septies: omicidio colposo e lesioni colpose commessi in violazione della normativa antinfortunistica) e in arrivo (reati ambientali); mentre è plausibile la crescita dei casi di applicazione in relazione alla introduzione dei reati tributari (peraltro controversa).

 

Si tratta comunque di riflessioni de iure condendo.

 

Allo stato, il bilancio di questi primi dieci anni ci mostra una realtà incontrovertibile: il Decreto è stato essenzialmente considerato uno strumento per reprimere reati contro la Pubblica Amministrazione.

 

Tutti i leading cases concernono delitti contro la PA.

 

Si pensi al noto “Caso Siemens”, nell’ambito del quale sono stati affrontati i profili di transnazionalità della normativa e si è affermata la giurisdizione italiana in relazione a fatti di reato commessi in Italia nell’interesse o a vantaggio di un ente con sede all’estero.

 

Si ricordi, ancora, il “Caso Finspa”, in cui per la prima volta si è esaminata la rilevanza dei modelli adottati successivamente alla commissione del reato : “quando il rischio si è concretizzato e manifestato in un’elevata probabilità di avvenuta commissione dell’illecito da parte della società, i Modelli organizzativi predisposti dall’ente dovranno necessariamente risultare maggiormente incisivi in termini di efficacia dissuasiva e dovranno valutare in concreto le carenze dell’apparato organizzativo e operativo dell’ente che hanno favorito la perpetrazione dell’illecito”.

 

Soprattutto, va menzionata l’ordinanza cautelare resa nel “Caso IVRI” , dalla quale è stato estrapolato una sorta di “decalogo” del corretto sistema di gestione dei rischi di reato.

 

Severa e perspicua pure l’ordinanza nel “Caso Impregilo”, che, nel ribadire le indicazioni formulate dalla menzionata giurisprudenza milanese, ha aggiunto che se il reato è stato commesso da un soggetto apicale, il requisito soggettivo di responsabilità dell’ente può ritenersi soddisfatto, poiché il vertice rappresenta l’impresa e ne esprime la politica.

 

Da ultimo, va menzionata l’importante pronuncia della Corte di Cassazione che, a fronte del non chiaro disposto di cui all’art. 25 del Decreto, ha sancito l’applicabilità delle sanzioni interdittive – anche in sede cautelare – alla corruzione internazionale .

 

Trattasi essenzialmente di giurisprudenza cautelare, per sua stessa natura confinata in angusti – anche sotto il profilo temporale – spazi di contraddittorio.

 

Molte sentenze sono frutto di applicazione della sanzione su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento): si tratta spesso di una scelta obbligata nelle ipotesi di mancata (o successiva, rispetto al fatto) adozione del Modello organizzativo.

 

Sono pochi i dibattimenti e, di conseguenza, scarsissimo l’approfondimento del “sistema 231” e delle sue possibili contraddizioni.

 

Si è parlato molto di profili processuali: dalla confisca alla costituzione di parte civile nei confronti dell’ente imputato; dal commissariamento ex art. 15 , ai riti alternativi.

 

Sotto il profilo sostanziale, la giurisprudenza si è soffermata sul requisito dell’interesse o vantaggio ex art. 5 e, in qualche occasione, sul principio di legalità .

 

Si è parlato poco, tutto sommato, di Modelli organizzativi e, quasi sempre, perché questi non esistevano.

 

Più della giurisprudenza hanno detto le lineeguida delle associazioni di categoria, ma, a giudizio di chi scrive, in maniera ancora non sufficiente e, soprattutto, non tempestiva.

 

Il sistema stesso delle lineeguida mostra segni di invecchiamento precoce: bisogna forse pensare a qualcosa di diverso, magari seguendo l’esempio del U.K. Bribery Act, con indicazioni di provenienza pubblicistica circa le adequate procedures.

 

Qualche ulteriore riflessione, necessariamente sintetica.

 

Si temeva innanzitutto una sistematica “invasione” giudiziaria nelle scelte organizzative imprenditoriali: si può dire che essa non c’è stata. Forse potrebbe verificarsi in futuro, nel caso in cui l’attenzione dei giudici dovesse concentrarsi esclusivamente sull’effettiva attuazione del Modello, ove quest’ultimo avesse ottenuto una certificazione di idoneità.

 

Il sistema dei Modelli ha dimostrato di rivestire un significato di rilievo per le società mediograndi, mentre si è rivelato scarsamente praticabile per le piccole imprese.

 

Lo stesso sistema trova, probabilmente, un limite genetico nel controllo degli apicali : troppo spesso il Modello è strutturato per il controllo dei “sottoposti”, risultando invece scarsamente efficace in relazione alla disciplina dell’attività dei vertici, alla loro formazione e al sistema sanzionatorio nei loro confronti.

 

Il giudice valuta innanzitutto – e, ad oggi, quasi esclusivamente, contrariamente a quello che si sente spesso dire in sede convegnistica – l’idoneità in astratto del modello.

 

A ben vedere, l’art. 6 del Decreto richiede che il Modello sia idoneo ed effettivamente attuato: la verifica dell’effettiva attuazione è senz’altro successiva, sia logicamente che giuridicamente, rispetto a quella dell’adeguatezza in astratto del Modello.

 

Pertanto è corretto – se adeguatamente motivato – il ragionamento del Giudicante che esclude l’esimente anche sulla sola base dell’inidoneità in astratto del Modello, pur se in ipotesi il Modello stesso sia stato reso operativo.

 

Non v’è poi dubbio alcuno che i giudici considerino assolutamente decisive la mappatura dei rischi di reato, l’esistenza di protocolli specifici e la strutturazione e disciplina dell’Organismo di vigilanza .

 

I profili di criticità della normativa sono molteplici ed evidenziati in numerose occasioni.

 

Innanzitutto, il novero dei reatipresupposto è disomogeneo, contemplando reati estremamente “patologici” e difficilmente riconducibili ad attività di impresa.

 

D’altro canto, mancano all’appello reati contigui al “nocciolo duro” del Decreto: inadempimento e frode nelle pubbliche forniture; turbata libertà degli incanti; usura; reati tributari; esercizio abusivo di attività bancaria e finanziaria; trattamento illecito di dati personali.

 

Per non parlare della “Illustre Scomparsa”, la corruzione tra privati, che avrebbe dovuto essere inserita nel codice penale e richiamata nel Decreto sulla base della delega contenuta nella legge Comunitaria 2007, inutilmente scaduta nell’aprile 2009.

 

Inoltre, bisognerebbe porre rimedio ad alcune mancanze di coordinamento che determinano conseguenze irragionevoli: ci si riferisce al reato di falso in prospetto, prima disciplinato dall’art. 2623 del codice civile e oggi – successivamente alla riforma del risparmio – dall’art. 173 bis del TUF, non più richiamato dall’art. 25 ter del Decreto.

 

Lo stesso dicasi per le false dichiarazioni del revisore e per l’impedito controllo del revisore, che non sono più richiamati nell’art. 25 ter, in quanto spostati ratione materiae nel D.lgs. n. 39/2010 sulla revisione legale dei conti.

 

Il regime di prescrizione dell’illecito dell’ente andrebbe disciplinato secondo le regole penalistiche, superando l’attuale disposto di cui all’art. 22. Andrebbe altresì chiarito il criterio oggettivo di imputazione nel caso di reati colposi.

 

La giurisprudenza sta superando, forse con eccessiva disinvoltura, un profilo applicativo che potrebbe invece cozzare con il principio di stretta legalità: ci si riferisce alla compatibilità del criterio dell’interesse con la natura colposa del reato.

 

Infine, sulla scia della recente normativa sammarinese, si potrebbe chiarire che l’ODV non ha un obbligo giuridico di impedire il reato altrui.

 

Prima di tutto, però, deve essere definitivamente sciolto il nodo della natura della responsabilità dell’ente. O meglio: si devono trarre le dovute conseguenze da certe affermazioni fatte incidenter tantum. Più volte in giurisprudenza si è detto che la responsabilità dell’ente è sostanzialmente penale; mai, però, si è andati fino in fondo in quella direzione. L’ente subisce una sanzione di tipo afflittivo (e con effetto stigmatizzante) in relazione ad un fatto di reato: questo è il proprium della responsabilità penale. Tale responsabilità viene sancita da un giudice penale, all’esito di un processo penale, nel quale l’ente è equiparato all’imputato.

 

Anche la giurisprudenza ha aggiunto spunti utili a questa riflessione, laddove ha configurato il Modello organizzativo come elemento impeditivo di un illecito dell’ente già perfetto e non come elemento costitutivo dell’illecito stesso o, ancora, ha assimilato il rapporto tra persona fisica autrice del reato ed ente collettivo allo schema concorsuale tipico .

 

Se l’illecito dell’ente è sostanzialmente penale le ricadute possono essere molteplici. In particolare, sarebbero in conflitto con noti principi costituzionali l’inversione dell’onere della prova ex art. 6, il potere di archiviazione diretta da parte del pubblico ministero, il regime della prescrizione, la traslazione della sanzione nelle ipotesi di vicende modificative dell’ente, l’estensione della responsabilità ai gruppi di impresa ed alcune previsioni sui reatipresupposto.

 

Stessa sorte potrebbe subire, forse, anche il sistema stesso dei Modelli (rectius: la disciplina ex art. 6), nonostante le contrarie argomentazioni contenute in una recente e perspicua sentenza (relativa al settore bancario/finanziario).

 

Lo stesso dicasi per l’impossibilità dell’ente di difendersi dimostrando una diligenza sostanziale anticrimine, tuttavia non codificata in un vero e proprio Modello organizzativo.

 

Questi profili – ed altri sicuramente ipotizzabili – dovranno prima o poi arrivare ad un serio esame dibattimentale.

 

Non si vuole qui negare l’inevitabilità di un adattamento dei principi del diritto penale della persona fisica al corporate crime, ma altro è l’adattamento dei principi, altro ancora è l’immediata svalutazione degli stessi sulla base di un (superficiale, a dire il vero) “così fan tutti” (gli altri Paesi).