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La diffamazione e l’aggravante del mezzo della stampa ex art. 595, co.3, Codice Penale

PREMESSA

La libertà di manifestazione del pensiero

L’art. 21 Cost. deve essere interpretato alla luce di una concezione individualistica in quanto riflette il diritto inviolabile della persona umana di realizzare la propria personalità nei confronti sia dell’organizzazione statale che della collettività.

Nella libertà di espressione e diffusione del pensiero, però, possiamo ravvisare anche una dimensione funzionale, tesa all’arricchimento della conoscenza e del sapere di tutti e, di conseguenza, alla garanzia del buon funzionamento del sistema democratico.

I limiti alla libertà di stampa

Il diritto di stampa incontra i limiti imposti dal rispetto degli altri diritti costituzionalmente garantiti.

Invero, la Corte costituzionale ha sancito la costituzionalizzazione del bene dell’onore, comprensivo del decoro e della reputazione, per il tramite degli artt. 2 e 3, co. 1, Cost., poiché “imposto dal rispetto dei fondamentali diritti dell’uomo” (Corte cost., sent. n. 9/1965).

Da ciò si deduce un rapporto di reciproca interferenza tra contrastanti esigenze costituzionali.

E’ necessario, quindi, un bilanciamento tra gli interessi costituzionalmente protetti tale da contenere la libertà di manifestazione del pensiero al fine di evitare che attraverso il suo esercizio vengano sacrificati altri beni di pari dignità costituzionale.

LA DIFFAMAZIONE

Il bene giuridico protetto

La norma incriminatrice ex art. 595 c.p. tutela il bene dell’onore nella sua dimensione oggettiva o interpersonale, cioè garantisce l’opinione o la stima di cui gode un soggetto in un determinato ambiente per qualità fisiche, intellettive e professionali, vietando che altri formulino affermazioni o esprimano giudizi lesivi della reputazione altrui.

La nozione di reputazione è relativa e, quindi, deve essere verificata in concreto facendo riferimento ad indici quali la posizione sociale e professionale in rapporto al contesto in cui si vive e si svolge la propria attività o le peculiarità personali, familiari e lavorative della persona offesa.

Il soggetto passivo

E’ necessario che l’aggressione alla reputazione sia effettuata nei confronti di un soggetto determinato nella sua individualità soggettiva ed è irrilevante l’indicazione nominativa del diffamato quando il riferimento a quest’ultimo sia deducibile dalla stessa prospettazione oggettiva dell’offesa.

Nel caso di diffamazione di persone giuridiche, di associazioni non riconosciute e di enti di fatto, non può essere esclusa la ravvisabilità dell’offesa anche ai singoli componenti tutte le volte che le espressioni denigratorie non siano rivolte all’ente in quanto tale, ma investano i singoli componenti dello stesso (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 1188/2002; Cass. Pen., sez. V, sent. n. 4982/1998; Cass. Pen., sez. V, sent. n. 3756/1988).

Dato che ciascun individuo è titolare inalienabile del bene della reputazione, anche gli infermi di mente e i minori di età possono essere soggetti passivi del reato in esame.

L’elemento soggettivo

Il reato è punito a titolo di dolo generico, come si ricava dalla struttura dell’art. 595 c.p. che non contempla una condotta teleologicamente orientata al perseguimento, da parte dell’agente, di un fine ulteriore che trascenda quella tipica.

Occorre, quindi, “la volontà di usare espressioni offensive con la consapevolezza di offendere l’altrui reputazione” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 16420/2008).

La condotta

La condotta del delitto in esame consiste nell’offendere l’altrui reputazione, comunicando con più persone, fuori dai casi di ingiuria, cioè in assenza del soggetto passivo.

La diffamazione rientra nella categoria dei reati c.d. a condotta libera in quanto la norma incriminatrice non prevede che l’azione tipica si realizzi con modalità o mezzi normativamente determinati, ma solo che l’azione sia idonea a cagionare la lesione del bene protetto.

La natura del reato

Il delitto di diffamazione si colloca nella categoria dei reati di pericolo concreto perchè si ritiene necessaria l’idoneità della condotta ad aggredire la reputazione, a produrre – cioè – una situazione di effettiva messa in pericolo di questa.

La reputazione dei soggetti disonorati

Il diritto al rispetto della dignità umana, sancito dall’art. 3 Cost., non può essere negato a nessuno, per il valore inalienabile dell’integrità morale che appartiene a ciascun individuo, dovendosi riconoscere un minimo etico comune ad ogni persona in quanto tale.

Quindi, la reputazione di una persona, che per taluni aspetti risulti già compromessa, può formare oggetto di ulteriori lesioni ove queste diminuiscano ulteriormente la considerazione di cui gode la persona offesa nel gruppo sociale (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 47452/2004).

Le espressioni dubitative, allusive o equivoche

La giurisprudenza della Suprema Corte ha evidenziato che non solo le espressioni non vere e non obiettive ma anche “quelle meramente insinuanti sono idonee a ledere o a mettere in pericolo la reputazione dei terzi quando, per il modo con cui sono poste all’attenzione del lettore, fanno sorgere in quest’ultimo un atteggiarsi della mente favorevole a ritenere l’effettiva rispondenza a verità dei fatti narrati” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 4712/2003; Cass. Pen., sez. V, sent. n. 45910/2005).

Il risultato diffamatorio, difatti, può essere raggiunto anche con “mezzi indiretti e subdole allusioni, con espressioni sottintese o suggestionanti o mediante l’adozione del condizionale o di formule di uguale risultato” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 10512/1981).

Il momento consumativo del reato

Si identifica con quello della comunicazione dell’espressione offensiva ad almeno due persone, trattandosi di reato istantaneo.

Il tentativo

La configurabilità del tentativo è contrastata da chi ritiene che, trattandosi di reato che si consuma con la comunicazione a più persone, o si ha una diffamazione consumata perchè la comunicazione si è perfezionata, oppure si è in presenza di un’azione penalmente irrilevante.

Sembra più convincente l’opinione di chi individua la possibilità che il concreto svolgimento della condotta sia frazionabile e possa interrompersi prima che il destinatario della comunicazione sia reso edotto del concreto contenuto di questa, come nel caso di una comunicazione diffamatoria trasmessa per iscritto a più persone che non pervenga a destinazione per un disservizio postale.

L’AGGRAVANTE DEL MEZZO DELLA STAMPA

La ratio dell’aggravante va ricercata nel maggior danno che deriva dall’elevata incisività della condotta diffamatoria a ragione della forte capacità diffusiva del mezzo adoperato.

Nozione di stampato

Nello stampato si individuano tutte le riproduzioni tipografiche, o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione.

Per aversi uno stampato è necessario che sia stato predisposto un prodotto idoneo alla diffusione in una molteplicità di esemplari, senza che rilevi la capacità riproduttiva del mezzo usato.

In particolare, nella nozione giuridica di stampa sono state ricomprese anche le riproduzioni grafiche ottenute con il mezzo del ciclostile, non rilevando che con esso sia consentita una riproduzione di esemplari in numero minore rispetto a quello ottenibile con gli strumenti tipografici tipici.

La comunicazione giornalistica non si realizza esclusivamente tramite un testo parlato o scritto, ma nelle forme più articolate come interviste, vignette, fotografie, fotomontaggi o sottotitoli.

Dall’aggravante del mezzo di stampa si distingue quella della diffamazione consumata per il tramite o di “ogni altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa o di un atto pubblico.

Il momento consumativo del reato

E’ pacifico che l’elemento della comunicazione con più persone si rinviene in re ipsa quando la diffamazione avviene a mezzo stampa, per il fatto stesso della pubblicazione e della diffusione del mezzo utilizzato, per sua natura diretto e destinato ad una pluralità di soggetti.

Sarà onere dell’imputato dare la prova che alla stampa non è seguita la diffusione della pubblicazione, pur dovendosi considerare che già con la consegna delle c.d. copie di legge alla Prefettura ed alla Procura della Repubblica il reato è consumato, perchè tale momento costituisce di per sé pubblicazione in senso tecnico dello stampato e realizza la sua prima diffusione.

Invero, è solo con il deposito presso tali uffici che lo stampato trova una divulgazione esterna rispetto al luogo dove materialmente avviene la stampa.

Se non si provvede a tale obbligo, la competenza territoriale è individuata nel luogo in cui la pubblicazione viene stampata, solo qualora sia ivi avvenuta la prima diffusione dello stampato, altrimenti si sostiene che debba farsi riferimento esclusivamente al luogo di effettiva diffusione dello scritto.

Con il diffondersi dei sistemi di teletrasmissione che consentono la stampa e l’immediata diffusione dello stesso quotidiano in più aree territoriali, sembra convincente quell’orientamento che fa riferimento all’applicazione del criterio suppletivo di cui all’art. 9, co. 2, c.p.p.

La divulgazione di notizie, pur diffamatorie, ma vere (art. 596 c.p.)

Esclusi i fatti per i quali l’autore non è punibile perchè è accertata la verità storica dell’addebito a seguito della scelta dell’offeso di provocarne l’accertamento processuale, l’ambito oggettivo della “diffamazione lecita” si individua nei fatti integranti estremi di reato ed in quelli che riguardano l’esercizio delle pubbliche funzioni, perchè in entrambi emerge un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti.

Il diritto di cronaca

La cronaca consiste nella narrazione obbiettiva di fatti e può essere esercitata anche quando ne derivi una lesione all’altrui reputazione, in quanto diritto costituzionalmente garantito ex art. 21 Cost., ma l’esistenza di altri diritti di pari dignità giuridica impone che vengano rispettati precisi limiti.

I limiti

La giurisprudenza ha individuato tre limiti all’esercizio del diritto di cronaca:

1) la verità del fatto narrato;

2) la continenza della forma espressiva;

3) l’interesse attuale e pubblico alla divulgazione del fatto.

La verità della notizia

Non si richiede la mera verosimiglianza del fatto narrato, in quanto il giornalista deve sottoporre a verifica rigorosa la fonte della sua notizia, ma la rigorosa corrispondenza tra i fatti accaduti e quelli narrati, dovendo rappresentarsi con fedeltà gli eventi in modo che la verità investa l’intero contenuto informativo della comunicazione.

Ne deriva che non ricorre il requisito della verità della notizia nel caso di espressioni dubitative, perchè i dubbi, le voci incontrollate, le insinuazioni nono possono rivestire mai questo carattere, neppure nel caso di rappresentazione di due fatti alternativi, perchè ciò comporta necessariamente che uno dei due è falso.

La continenza

L’esposizione narrativa deve rappresentare i caratteri della serenità e dell’obbiettività, evitando le espressioni inutilmente aggressive o il modo di presentare la notizia in maniera acrimoniosa, corrosiva, demolitrice.

Occorre riportare i fatti con imparzialità e senza personalismi affinchè l’informazione non si trasformi in uno strumento di mera aggressione dell’altrui reputazione.

L’interesse sociale alla divulgazione del fatto

Deve ritenersi escluso l’esercizio del diritto di cronaca tutte le volte che l’informazione non abbia un contenuto pertinente alla formazione della pubblica opinione, ma sia distorta ad altro fine, come a quello di soddisfare istinti di bassa curiosità del pubblico o di praticare il pettegolezzo.

La cronaca giudiziaria penale

Costituisce una species dell’attività di cronaca ed attiene alle vicende procedimentali e processuali che riguardano l’accertamento dei fatti costituenti reato.

Il sacrificio della presunzione di innocenza ex art. 27 Cost. non deve spingersi oltre quanto sia strettamente necessario ai fini informativi.

Invero, tale principio vieta affermazioni anticipatorie della condanna o pregiudizievoli della posizione dell’indagato o dell’imputato e lo tutela contro ogni indicazione che lo accrediti come colpevole prima di un accertamento processuale definitivo.

Ad esempio, assume rilievo diffamatorio la pubblicazione di una formula di proscioglimento inesatta e meno favorevole.

Per verificare se sia stato rispettato il limite della verità, l’apprezzamento deve essere effettuato in base a quello che risulta al momento in cui la notizia viene diffusa e non già secondo quanto venga successivamente accertato, con la conseguenza che l’eventuale divergenza fra i fatti narrati e quelli realmente accaduti non esclude la possibilità di invocare l’esercizio del diritto di cronaca.

“In tema di diffamazione a mezzo stampa, la cronaca giudiziaria può ritenersi lecita, con conseguente applicabilità della relativa esimente, solo quando sia esercitata correttamente, limitandosi a diffondere la notizia di un provvedimento giudiziario in sé ovvero a riferire o a commentare l’attività investigativa o giurisdizionale. Invece, quando le informazioni desumibili da un provvedimento giudiziario siano utilizzate per ricostruzioni o ipotesi giornalistiche tendenti ad affiancare o a sostituire gli organi investigativi nella ricostruzione di vicende penalmente rilevanti e autonomamente offensive, il giornalista deve assumersi l’onere di verificare le notizie, onde, pur essendo lecito che il giornalista possa reinterpretare i fatti, nel contesto di un’autonoma ricostruzione giornalistica che presenti i connotati di un ragionamento logico e coerente, l’esimente è inapplicabile quando l’informazione fornita si sia sostanziata in una notizia non vera” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 38262/2008).

L’esercizio putativo del diritto di cronaca

La problematica relativa all’errore riguarda solo il requisito della verità del fatto riferito e non l’errore sulle altre condizioni di legittimità dell’esercizio del diritto di cronaca, perchè quello sull’esistenza di un pubblico interesse alla conoscenza della notizia o quello sulla continenza della forma espositiva non attengono al fatto, ma alla valutazione normativa del diritto di cronaca e, pertanto, non spiegano effetto sul dolo.

“In tema di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, la scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca è ipotizzabile solo qualora, pur non essendo obiettivamente vero il fatto pubblicato, il giornalista abbia assolto all’obbligo di esaminare, controllare e verificare quanto oggetto della sua narrativa, al fine di vincere ogni dubbio, non essendo sufficiente l’affidamento riposto in buona fede sulla fonte e, quando si intende pubblicare la notizia di un fatto lesivo dell’altrui reputazione, la verifica, per una deontologica esigenza di garanzia, va fatta, quando ciò è impossibile, interpellando la persona che dalla pubblicazione risulterebbe lesa, anche per riceverne eventuali giustificazioni o spiegazioni” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 25033/2007).

Il diritto di critica

Mentre la cronaca è esposizione dei fatti ed il suo fine è informare il lettore, la critica consiste, invece, in un’attività prettamente valutativa, in un dissenso o consenso per lo più ragionati rispetto alle condotte o alle opinioni altrui.

Dal concetto di critica esula, quindi, il requisito dell’obiettività perchè si risolve in un’interpretazione soggettiva ed è, quindi, manifestazione di una lettura individuale dei fatti.

I limiti

Condizioni indispensabili affinchè possa essere utilmente invocata la scriminante del diritto di critica sono:

1) la verità del fatto narrato e assunto a presupposto delle espressioni di critica, in quanto, “fermo restando che la realtà può essere percepita in modo differente e che due narrazioni dello stesso fatto possono rilevare divergenze anche marcate, non può essere consentito attribuire ad un soggetto specifici comportamenti dallo stesso non tenuti o espressioni mai pronunciate, per poi esporlo a critica come se quei fatti o quelle espressioni fossero effettivamente a lui riferibili” (Cass. Pen., sez. I, sent. n. 35646/2008);

2) la correttezza dell’esposizione dei fatti narrati, che si concretizza nell’uso di espressioni non contumeliose, nell’assenza di toni sarcastici, denigratori o di derisione, ma anche nel divieto di sottintesi sapienti, di accostamenti suggestivi, di insinuazioni (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 43043/2009);

3) l’interesse che i fatti narrati rivestano per l’opinione pubblica, secondo il principio della pertinenza (Cass. Pen., sez. I, sent. n. 35646/2008).

La critica politica

“In tema di diffamazione a mezzo stampa, quando si verta in tema di critica politica, il limite entro cui questa può essere legittimamente esercitata è più ampio del consueto per la necessità di una più ampia base di informazione di cui ha bisogno la collettività per poter valutare criticamente l’azione delle forze politiche, la gestione dell’apparato politico-amministrativo e ogni altro fatto o evento rilevante di natura politica. Pertanto, in materia di critica politica, l’interesse all’informazione, per la maggior rilevanza del suo oggetto, comprime la tutela della reputazione e legittima la critica di un fatto anche ancora da verificare, ma probabile in base alla ragionevole valutazione di altri fatti invece certi; a condizione peraltro: a) che il fatto in questione sia attinente alla vita politica nazionale e locale e rivesta un sufficiente grado di interesse per la collettività; b) che la rappresentazione di quel fatto come probabile o possibile sia ragionevole e derivi dalla concatenazione logica di fatti già accertati e correttamente riferiti” (Cass. Pen., sez. I, sent. n. 31037/2001). Benchè caratterizzato da confini più lati di quello ordinario, il diritto di critica politica non è privo di limiti, perchè può essere esercitato solo entro e non oltre quello della necessità della diffusione delle idee politiche professate, evitando superflue aggressioni all’altrui sfera morale ed è condizionato dall’obbligo di rispettare la verità delle affermazioni che riportano fatti determinati.

La critica giudiziaria

In tema di diffamazione, la critica deve ritenersi legittima anche quando ha ad oggetto l’attività giudiziaria, “giacchè il ruolo fondamentale nel dibattito democratico svolto dalla libertà di stampa non consente di escludere che essa si esplichi anche in attacchi al potere giudiziario, risultando i giornali il mezzo principale diretto a garantire un controllo appropriato sul corretto operato dei giudici” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 25138/2007).

La critica storica

“In tema di diffamazione a mezzo stampa, l’esercizio del diritto di critica storica postula l’uso del metodo scientifico d’indagine, l’esaustiva ricerca del materiale utilizzabile, lo studio di fonti varie, interpellabili e di certa provenienza, esigendo peraltro che il fenomeno oggetto di studio sia ampio e riguardato sotto le più varie sfaccettature, poiché la ricerca dello storico comporta la necessità di una indagine complessa in cui persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla formulazione di tesi e/o ipotesi che è impossibile documentare aggettivamente, ma che devono trovare la loro base infanti certe ed essere plausibili e sostenibili; ne deriva che il giudice, al fine di stabilire il carattere storico dell’opera oggetto di contestazione, deve accertare l’esistenza delle fonti indicate ed utilizzate dall’autore per esprimere giudizi” (Cass. Pen., sez. V, 11/05/2005).

La satira

Costituisce una forma di espressione che consiste in una critica basata su una rappresentazione della realtà idonea a suscitare l’ilarità, della quale sia palese il carattere dell’inverosimiglianza e dell’esagerazione.

Non può comunque travalicare il limite del rispetto dei valori fondamentali della persona, risolvendosi in allusioni, gratuitamente offensive, a fatti inesistenti o ad attribuzione di condotte illecite o moralmente disonorevoli, gli accostamenti volgari o ripugnanti, la deformazione dell’immagine in modo da suscitare disprezzo o dileggio (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 23712/2006).

“La satira, comunque estrinsecata (in forma scritta, orale, gestuale, figurata) costituisce una critica corrosiva e talvolta impietosa, basata su una rappresentazione che, per muovere al riso, si basa sull’enfatizzazione e sulla deformazione della realtà; di essa è espressione anche la caricatura, ossia la consapevole e accentuata alterazione dei tratti somatici, morali e comportamentali di una persona, per suscitare ilarità o anche derisione nel pubblico, realizzata con lo scritto, il disegno, la narrazione, la rappresentazione scenica. Il diritto di satira, peraltro, non può costituire una franchigia per condurre virulenti attacchi alla personalità dei soggetti esposti a critica. Esso, invece, come ogni altra critica, non sfugge al limite della continenza e/o della correttezza, cosicché non può essere legittimamente invocata la scriminante di cui all’articolo 51 del Cp, in relazione al reato di diffamazione, per le attribuzioni di condotte illecite o moralmente disonorevoli, gli accostamenti volgari o ripugnanti, la deformazione dell’immagine in modo da suscitare disprezzo e dileggio. In altri termini, pur non potendosi applicare il metro consueto della correttezza dell’espressione - dal momento che il linguaggio essenzialmente simbolico e spesso paradossale della satira è svincolato da forme convenzionali - la satira, al pari di qualsiasi altra manifestazione del pensiero, non può infrangere il rispetto dei valori fondamentali, esponendo la persona al disprezzo e al ludibrio della sua immagine pubblica” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 2128/2000).

Il reato di omesso controllo ex art. 57 c.p.

L’art. 596-bis c.p. prevede che se il delitto di diffamazione è commesso con il mezzo della stampa le disposizioni dell’articolo precedente (art. 595 c.p.) si applicano anche al direttore o vice-direttore responsabile, all’editore o allo stampatore, per i reati previsti negli articoli 57, 57-bis e 58 c.p.

Il reato di cui all’art. 57 c.p. si configura come atto di omissione del direttore o del vice-direttore responsabile di esercitare sul contenuto del periodico il controllo necessario ad impedire che con il mezzo della pubblicazione siano commessi reati.

“La responsabilità a titolo di colpa del direttore per l’omesso controllo sul contenuto del periodico in riferimento al fatto diffamatorio a mezzo stampa può dirsi esclusa ove si dimostri che il predetto, titolare di una posizione di garanzia, ha fatto quanto in suo potere per prevenire la diffusione di notizie non rispondenti al vero, prescrivendo e imponendo regole e controlli, anche mediati, di accuratezza, di assoluta fedeltà e di imparzialità rispetto alla fonte-notizia” (Cass. Pen., sez. I, sent. n. 48119/2009).

Si tratta di un reato del tutto diverso ed autonomo rispetto a quello di diffamazione a mezzo stampa commesso dall’autore della pubblicazione quanto a comportamento ed elemento psicologico: si è in presenza, invero, in tale ipotesi di un reato omissivo e colposo (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 42067/2007).

“In materia di reati di stampa la responsabilità del direttore, a titolo di colpa, per non avere impedito la commissione del reato, è ben diversa da quella a titolo di concorso, la quale ultima in tanto può sussistere in quanto siano presenti tutti gli elementi generalmente occorrenti a norma dell’art. 110 cod. pen., tra i quali in primo luogo il dolo. Per affermare il concorso nella diffamazione commessa dall’autore dello scritto occorre dimostrare che il direttore ha voluto la pubblicazione nell’esatta conoscenza del suo contenuto lesivo e, quindi, con la consapevolezza di aggredire la reputazione altrui. Quando invece al direttore è addebitabile solo l’omissione del controllo dovuto ci si trova in presenza della diversa fattispecie colposa di cui all’art. 57 cod. pen. rispetto alla quale l’eventuale diffamazione si configura come l’evento dello specifico reato previsto a carico del direttore” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 11494/1990).

Pubblicazione di un articolo anonimo

“In tema di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, la pubblicazione di un articolo senza nome comporta l’attribuzione di questo alla redazione e cioè al direttore responsabile del periodico. La firma apposta sull’articolo, infatti, ha la funzione di individuare la persona che si assume professionalmente la responsabilità delle notizie pubblicate. Nel caso di articolo sottoscritto, pertanto, il direttore è chiamato a rispondere solo del reato «proprio» previsto dall’articolo 57 del Cp. Il direttore che consenta, invece, la pubblicazione di un articolo anonimo assume in prima persona la responsabilità del contenuto, avendo comunque utilizzato lo strumento, di cui egli stesso può disporre, per la sua diffusione. Non si tratta, al riguardo, di una «responsabilità oggettiva», bensì di una consapevole condotta volta a diffondere uno scritto diffamatorio” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 16988/2001).

La delega del controllo

L’orientamento della giurisprudenza di legittimità è nel senso di sostenere l’esclusiva e non delegabile responsabilità del direttore responsabile e l’inammissibilità di responsabilità alternative.

Di conseguenza, la responsabilità non incombe anche sui responsabili delle singole pagine o dei singoli settori perchè la figura di costoro rileva soltanto per l’organizzazione interna del lavoro, ma è priva di rilevanza in ordine ai doveri di vigilanza e controllo propri del direttore (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 46786/2004).

Il controllo sulle trasmissioni radiotelevisive

“Il reato di omesso controllo previsto dall’articolo 57 del Cp è dettato esclusivamente per i reati commessi con il mezzo della «stampa» periodica e non può intendersi riferito anche alle trasmissioni radiofoniche e televisive. In proposito, il legislatore, nel disciplinare, con la legge 6 agosto 1990 n. 223, le trasmissioni radiofoniche o televisive, si è posto il problema, per il reato di diffamazione con l’attribuzione di un fatto determinato, della responsabilità omissiva, fuori dei casi di concorso nel reato principale, e lo ha risolto individuando i responsabili nelle seguenti categorie di persone (articolo 30, comma 1, richiamato anche dal comma 4): «il concessionario privato o la concessionaria pubblica ovvero la persona da loro delegata al controllo della trasmissione». La precisa specificazione delle persone a cui deve attribuirsi la responsabilità penale non consente, quindi, interpretazioni analogiche o estensive, conseguendone che non è configurabile il reato di omesso controllo, perché il fatto non è preveduto dalla legge come reato, a carico del direttore della trasmissione televisiva, che non rientra tra i soggetti presi in considerazione dalla norma incriminatrice” (Cass. Pen., sez. II, sent. n. 34717/2008).

La diffamazione a mezzo internet

In dottrina e in giurisprudenza si è discusso circa l’estensibilità del concetto di stampa agli altri mezzi di comunicazione.

In particolare, per quanto riguarda l’assimilabilità di internet al concetto di stampato, l’orientamento prevalente è stato negativo atteso che, perchè possa parlarsi di stampa in senso giuridico, occorrono due condizioni: a) che vi sia una riproduzione tipografica; b) che il prodotto di tale attività sia destinato alla pubblicazione e, quindi, debba essere effettivamente distribuito tra il pubblico.

Il fatto che il messaggio internet si possa stampare non appare circostanza determinante, in ragione della mera eventualità sia oggettiva che soggettiva.

I files pubblicati su internet non sono, in realtà, riproduzioni, ma documenti informatici originali.

Non si può non sottolineare che differenti sono le modalità tecniche di trasmissione del messaggio a seconda del mezzo utilizzato: consegna materiale dello stampato e sua lettura da parte del destinatario nella stampa; irradiazione nell’etere e percezione da parte di chi si sintonizza nella radio e nella TV; trasmissione telematica tramite ISP, con utilizzo di rete telefonica nel caso di internet.

Di conseguenza, il dettato normativo dell’art. 57 c.p. non è applicabile al c.d. giornale telematico, in particolare al direttore del giornale diffuso sul web (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 35511/2010).

Si tratta di un reato di evento, in quanto si consuma al momento della ricezione del messaggio diffamatorio da parte di terzi rispetto all’agente ed alla persona offesa (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 4741/2000).

In relazione al mezzo di comunicazione in questione sono ipotizzabili sia il tentativo, laddove l’evento non si verifichi perchè, per una qualsiasi ragione, nessuno visiti quel determinato sito, sia il reato impossibile, ove l’azione sia inidonea, quando per esempio l’agente faccia uso di uno strumento difettoso, che solo apparentemente gli consenta l’accesso ad uno spazio web ed in realtà il messaggio non venga mai immesso in rete.

PREMESSA

La libertà di manifestazione del pensiero

L’art. 21 Cost. deve essere interpretato alla luce di una concezione individualistica in quanto riflette il diritto inviolabile della persona umana di realizzare la propria personalità nei confronti sia dell’organizzazione statale che della collettività.

Nella libertà di espressione e diffusione del pensiero, però, possiamo ravvisare anche una dimensione funzionale, tesa all’arricchimento della conoscenza e del sapere di tutti e, di conseguenza, alla garanzia del buon funzionamento del sistema democratico.

I limiti alla libertà di stampa

Il diritto di stampa incontra i limiti imposti dal rispetto degli altri diritti costituzionalmente garantiti.

Invero, la Corte costituzionale ha sancito la costituzionalizzazione del bene dell’onore, comprensivo del decoro e della reputazione, per il tramite degli artt. 2 e 3, co. 1, Cost., poiché “imposto dal rispetto dei fondamentali diritti dell’uomo” (Corte cost., sent. n. 9/1965).

Da ciò si deduce un rapporto di reciproca interferenza tra contrastanti esigenze costituzionali.

E’ necessario, quindi, un bilanciamento tra gli interessi costituzionalmente protetti tale da contenere la libertà di manifestazione del pensiero al fine di evitare che attraverso il suo esercizio vengano sacrificati altri beni di pari dignità costituzionale.

LA DIFFAMAZIONE

Il bene giuridico protetto

La norma incriminatrice ex art. 595 c.p. tutela il bene dell’onore nella sua dimensione oggettiva o interpersonale, cioè garantisce l’opinione o la stima di cui gode un soggetto in un determinato ambiente per qualità fisiche, intellettive e professionali, vietando che altri formulino affermazioni o esprimano giudizi lesivi della reputazione altrui.

La nozione di reputazione è relativa e, quindi, deve essere verificata in concreto facendo riferimento ad indici quali la posizione sociale e professionale in rapporto al contesto in cui si vive e si svolge la propria attività o le peculiarità personali, familiari e lavorative della persona offesa.

Il soggetto passivo

E’ necessario che l’aggressione alla reputazione sia effettuata nei confronti di un soggetto determinato nella sua individualità soggettiva ed è irrilevante l’indicazione nominativa del diffamato quando il riferimento a quest’ultimo sia deducibile dalla stessa prospettazione oggettiva dell’offesa.

Nel caso di diffamazione di persone giuridiche, di associazioni non riconosciute e di enti di fatto, non può essere esclusa la ravvisabilità dell’offesa anche ai singoli componenti tutte le volte che le espressioni denigratorie non siano rivolte all’ente in quanto tale, ma investano i singoli componenti dello stesso (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 1188/2002; Cass. Pen., sez. V, sent. n. 4982/1998; Cass. Pen., sez. V, sent. n. 3756/1988).

Dato che ciascun individuo è titolare inalienabile del bene della reputazione, anche gli infermi di mente e i minori di età possono essere soggetti passivi del reato in esame.

L’elemento soggettivo

Il reato è punito a titolo di dolo generico, come si ricava dalla struttura dell’art. 595 c.p. che non contempla una condotta teleologicamente orientata al perseguimento, da parte dell’agente, di un fine ulteriore che trascenda quella tipica.

Occorre, quindi, “la volontà di usare espressioni offensive con la consapevolezza di offendere l’altrui reputazione” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 16420/2008).

La condotta

La condotta del delitto in esame consiste nell’offendere l’altrui reputazione, comunicando con più persone, fuori dai casi di ingiuria, cioè in assenza del soggetto passivo.

La diffamazione rientra nella categoria dei reati c.d. a condotta libera in quanto la norma incriminatrice non prevede che l’azione tipica si realizzi con modalità o mezzi normativamente determinati, ma solo che l’azione sia idonea a cagionare la lesione del bene protetto.

La natura del reato

Il delitto di diffamazione si colloca nella categoria dei reati di pericolo concreto perchè si ritiene necessaria l’idoneità della condotta ad aggredire la reputazione, a produrre – cioè – una situazione di effettiva messa in pericolo di questa.

La reputazione dei soggetti disonorati

Il diritto al rispetto della dignità umana, sancito dall’art. 3 Cost., non può essere negato a nessuno, per il valore inalienabile dell’integrità morale che appartiene a ciascun individuo, dovendosi riconoscere un minimo etico comune ad ogni persona in quanto tale.

Quindi, la reputazione di una persona, che per taluni aspetti risulti già compromessa, può formare oggetto di ulteriori lesioni ove queste diminuiscano ulteriormente la considerazione di cui gode la persona offesa nel gruppo sociale (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 47452/2004).

Le espressioni dubitative, allusive o equivoche

La giurisprudenza della Suprema Corte ha evidenziato che non solo le espressioni non vere e non obiettive ma anche “quelle meramente insinuanti sono idonee a ledere o a mettere in pericolo la reputazione dei terzi quando, per il modo con cui sono poste all’attenzione del lettore, fanno sorgere in quest’ultimo un atteggiarsi della mente favorevole a ritenere l’effettiva rispondenza a verità dei fatti narrati” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 4712/2003; Cass. Pen., sez. V, sent. n. 45910/2005).

Il risultato diffamatorio, difatti, può essere raggiunto anche con “mezzi indiretti e subdole allusioni, con espressioni sottintese o suggestionanti o mediante l’adozione del condizionale o di formule di uguale risultato” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 10512/1981).

Il momento consumativo del reato

Si identifica con quello della comunicazione dell’espressione offensiva ad almeno due persone, trattandosi di reato istantaneo.

Il tentativo

La configurabilità del tentativo è contrastata da chi ritiene che, trattandosi di reato che si consuma con la comunicazione a più persone, o si ha una diffamazione consumata perchè la comunicazione si è perfezionata, oppure si è in presenza di un’azione penalmente irrilevante.

Sembra più convincente l’opinione di chi individua la possibilità che il concreto svolgimento della condotta sia frazionabile e possa interrompersi prima che il destinatario della comunicazione sia reso edotto del concreto contenuto di questa, come nel caso di una comunicazione diffamatoria trasmessa per iscritto a più persone che non pervenga a destinazione per un disservizio postale.

L’AGGRAVANTE DEL MEZZO DELLA STAMPA

La ratio dell’aggravante va ricercata nel maggior danno che deriva dall’elevata incisività della condotta diffamatoria a ragione della forte capacità diffusiva del mezzo adoperato.

Nozione di stampato

Nello stampato si individuano tutte le riproduzioni tipografiche, o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione.

Per aversi uno stampato è necessario che sia stato predisposto un prodotto idoneo alla diffusione in una molteplicità di esemplari, senza che rilevi la capacità riproduttiva del mezzo usato.

In particolare, nella nozione giuridica di stampa sono state ricomprese anche le riproduzioni grafiche ottenute con il mezzo del ciclostile, non rilevando che con esso sia consentita una riproduzione di esemplari in numero minore rispetto a quello ottenibile con gli strumenti tipografici tipici.

La comunicazione giornalistica non si realizza esclusivamente tramite un testo parlato o scritto, ma nelle forme più articolate come interviste, vignette, fotografie, fotomontaggi o sottotitoli.

Dall’aggravante del mezzo di stampa si distingue quella della diffamazione consumata per il tramite o di “ogni altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa o di un atto pubblico.

Il momento consumativo del reato

E’ pacifico che l’elemento della comunicazione con più persone si rinviene in re ipsa quando la diffamazione avviene a mezzo stampa, per il fatto stesso della pubblicazione e della diffusione del mezzo utilizzato, per sua natura diretto e destinato ad una pluralità di soggetti.

Sarà onere dell’imputato dare la prova che alla stampa non è seguita la diffusione della pubblicazione, pur dovendosi considerare che già con la consegna delle c.d. copie di legge alla Prefettura ed alla Procura della Repubblica il reato è consumato, perchè tale momento costituisce di per sé pubblicazione in senso tecnico dello stampato e realizza la sua prima diffusione.

Invero, è solo con il deposito presso tali uffici che lo stampato trova una divulgazione esterna rispetto al luogo dove materialmente avviene la stampa.

Se non si provvede a tale obbligo, la competenza territoriale è individuata nel luogo in cui la pubblicazione viene stampata, solo qualora sia ivi avvenuta la prima diffusione dello stampato, altrimenti si sostiene che debba farsi riferimento esclusivamente al luogo di effettiva diffusione dello scritto.

Con il diffondersi dei sistemi di teletrasmissione che consentono la stampa e l’immediata diffusione dello stesso quotidiano in più aree territoriali, sembra convincente quell’orientamento che fa riferimento all’applicazione del criterio suppletivo di cui all’art. 9, co. 2, c.p.p.

La divulgazione di notizie, pur diffamatorie, ma vere (art. 596 c.p.)

Esclusi i fatti per i quali l’autore non è punibile perchè è accertata la verità storica dell’addebito a seguito della scelta dell’offeso di provocarne l’accertamento processuale, l’ambito oggettivo della “diffamazione lecita” si individua nei fatti integranti estremi di reato ed in quelli che riguardano l’esercizio delle pubbliche funzioni, perchè in entrambi emerge un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti.

Il diritto di cronaca

La cronaca consiste nella narrazione obbiettiva di fatti e può essere esercitata anche quando ne derivi una lesione all’altrui reputazione, in quanto diritto costituzionalmente garantito ex art. 21 Cost., ma l’esistenza di altri diritti di pari dignità giuridica impone che vengano rispettati precisi limiti.

I limiti

La giurisprudenza ha individuato tre limiti all’esercizio del diritto di cronaca:

1) la verità del fatto narrato;

2) la continenza della forma espressiva;

3) l’interesse attuale e pubblico alla divulgazione del fatto.

La verità della notizia

Non si richiede la mera verosimiglianza del fatto narrato, in quanto il giornalista deve sottoporre a verifica rigorosa la fonte della sua notizia, ma la rigorosa corrispondenza tra i fatti accaduti e quelli narrati, dovendo rappresentarsi con fedeltà gli eventi in modo che la verità investa l’intero contenuto informativo della comunicazione.

Ne deriva che non ricorre il requisito della verità della notizia nel caso di espressioni dubitative, perchè i dubbi, le voci incontrollate, le insinuazioni nono possono rivestire mai questo carattere, neppure nel caso di rappresentazione di due fatti alternativi, perchè ciò comporta necessariamente che uno dei due è falso.

La continenza

L’esposizione narrativa deve rappresentare i caratteri della serenità e dell’obbiettività, evitando le espressioni inutilmente aggressive o il modo di presentare la notizia in maniera acrimoniosa, corrosiva, demolitrice.

Occorre riportare i fatti con imparzialità e senza personalismi affinchè l’informazione non si trasformi in uno strumento di mera aggressione dell’altrui reputazione.

L’interesse sociale alla divulgazione del fatto

Deve ritenersi escluso l’esercizio del diritto di cronaca tutte le volte che l’informazione non abbia un contenuto pertinente alla formazione della pubblica opinione, ma sia distorta ad altro fine, come a quello di soddisfare istinti di bassa curiosità del pubblico o di praticare il pettegolezzo.

La cronaca giudiziaria penale

Costituisce una species dell’attività di cronaca ed attiene alle vicende procedimentali e processuali che riguardano l’accertamento dei fatti costituenti reato.

Il sacrificio della presunzione di innocenza ex art. 27 Cost. non deve spingersi oltre quanto sia strettamente necessario ai fini informativi.

Invero, tale principio vieta affermazioni anticipatorie della condanna o pregiudizievoli della posizione dell’indagato o dell’imputato e lo tutela contro ogni indicazione che lo accrediti come colpevole prima di un accertamento processuale definitivo.

Ad esempio, assume rilievo diffamatorio la pubblicazione di una formula di proscioglimento inesatta e meno favorevole.

Per verificare se sia stato rispettato il limite della verità, l’apprezzamento deve essere effettuato in base a quello che risulta al momento in cui la notizia viene diffusa e non già secondo quanto venga successivamente accertato, con la conseguenza che l’eventuale divergenza fra i fatti narrati e quelli realmente accaduti non esclude la possibilità di invocare l’esercizio del diritto di cronaca.

“In tema di diffamazione a mezzo stampa, la cronaca giudiziaria può ritenersi lecita, con conseguente applicabilità della relativa esimente, solo quando sia esercitata correttamente, limitandosi a diffondere la notizia di un provvedimento giudiziario in sé ovvero a riferire o a commentare l’attività investigativa o giurisdizionale. Invece, quando le informazioni desumibili da un provvedimento giudiziario siano utilizzate per ricostruzioni o ipotesi giornalistiche tendenti ad affiancare o a sostituire gli organi investigativi nella ricostruzione di vicende penalmente rilevanti e autonomamente offensive, il giornalista deve assumersi l’onere di verificare le notizie, onde, pur essendo lecito che il giornalista possa reinterpretare i fatti, nel contesto di un’autonoma ricostruzione giornalistica che presenti i connotati di un ragionamento logico e coerente, l’esimente è inapplicabile quando l’informazione fornita si sia sostanziata in una notizia non vera” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 38262/2008).

L’esercizio putativo del diritto di cronaca

La problematica relativa all’errore riguarda solo il requisito della verità del fatto riferito e non l’errore sulle altre condizioni di legittimità dell’esercizio del diritto di cronaca, perchè quello sull’esistenza di un pubblico interesse alla conoscenza della notizia o quello sulla continenza della forma espositiva non attengono al fatto, ma alla valutazione normativa del diritto di cronaca e, pertanto, non spiegano effetto sul dolo.

“In tema di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, la scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca è ipotizzabile solo qualora, pur non essendo obiettivamente vero il fatto pubblicato, il giornalista abbia assolto all’obbligo di esaminare, controllare e verificare quanto oggetto della sua narrativa, al fine di vincere ogni dubbio, non essendo sufficiente l’affidamento riposto in buona fede sulla fonte e, quando si intende pubblicare la notizia di un fatto lesivo dell’altrui reputazione, la verifica, per una deontologica esigenza di garanzia, va fatta, quando ciò è impossibile, interpellando la persona che dalla pubblicazione risulterebbe lesa, anche per riceverne eventuali giustificazioni o spiegazioni” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 25033/2007).

Il diritto di critica

Mentre la cronaca è esposizione dei fatti ed il suo fine è informare il lettore, la critica consiste, invece, in un’attività prettamente valutativa, in un dissenso o consenso per lo più ragionati rispetto alle condotte o alle opinioni altrui.

Dal concetto di critica esula, quindi, il requisito dell’obiettività perchè si risolve in un’interpretazione soggettiva ed è, quindi, manifestazione di una lettura individuale dei fatti.

I limiti

Condizioni indispensabili affinchè possa essere utilmente invocata la scriminante del diritto di critica sono:

1) la verità del fatto narrato e assunto a presupposto delle espressioni di critica, in quanto, “fermo restando che la realtà può essere percepita in modo differente e che due narrazioni dello stesso fatto possono rilevare divergenze anche marcate, non può essere consentito attribuire ad un soggetto specifici comportamenti dallo stesso non tenuti o espressioni mai pronunciate, per poi esporlo a critica come se quei fatti o quelle espressioni fossero effettivamente a lui riferibili” (Cass. Pen., sez. I, sent. n. 35646/2008);

2) la correttezza dell’esposizione dei fatti narrati, che si concretizza nell’uso di espressioni non contumeliose, nell’assenza di toni sarcastici, denigratori o di derisione, ma anche nel divieto di sottintesi sapienti, di accostamenti suggestivi, di insinuazioni (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 43043/2009);

3) l’interesse che i fatti narrati rivestano per l’opinione pubblica, secondo il principio della pertinenza (Cass. Pen., sez. I, sent. n. 35646/2008).

La critica politica

“In tema di diffamazione a mezzo stampa, quando si verta in tema di critica politica, il limite entro cui questa può essere legittimamente esercitata è più ampio del consueto per la necessità di una più ampia base di informazione di cui ha bisogno la collettività per poter valutare criticamente l’azione delle forze politiche, la gestione dell’apparato politico-amministrativo e ogni altro fatto o evento rilevante di natura politica. Pertanto, in materia di critica politica, l’interesse all’informazione, per la maggior rilevanza del suo oggetto, comprime la tutela della reputazione e legittima la critica di un fatto anche ancora da verificare, ma probabile in base alla ragionevole valutazione di altri fatti invece certi; a condizione peraltro: a) che il fatto in questione sia attinente alla vita politica nazionale e locale e rivesta un sufficiente grado di interesse per la collettività; b) che la rappresentazione di quel fatto come probabile o possibile sia ragionevole e derivi dalla concatenazione logica di fatti già accertati e correttamente riferiti” (Cass. Pen., sez. I, sent. n. 31037/2001). Benchè caratterizzato da confini più lati di quello ordinario, il diritto di critica politica non è privo di limiti, perchè può essere esercitato solo entro e non oltre quello della necessità della diffusione delle idee politiche professate, evitando superflue aggressioni all’altrui sfera morale ed è condizionato dall’obbligo di rispettare la verità delle affermazioni che riportano fatti determinati.

La critica giudiziaria

In tema di diffamazione, la critica deve ritenersi legittima anche quando ha ad oggetto l’attività giudiziaria, “giacchè il ruolo fondamentale nel dibattito democratico svolto dalla libertà di stampa non consente di escludere che essa si esplichi anche in attacchi al potere giudiziario, risultando i giornali il mezzo principale diretto a garantire un controllo appropriato sul corretto operato dei giudici” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 25138/2007).

La critica storica

“In tema di diffamazione a mezzo stampa, l’esercizio del diritto di critica storica postula l’uso del metodo scientifico d’indagine, l’esaustiva ricerca del materiale utilizzabile, lo studio di fonti varie, interpellabili e di certa provenienza, esigendo peraltro che il fenomeno oggetto di studio sia ampio e riguardato sotto le più varie sfaccettature, poiché la ricerca dello storico comporta la necessità di una indagine complessa in cui persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla formulazione di tesi e/o ipotesi che è impossibile documentare aggettivamente, ma che devono trovare la loro base infanti certe ed essere plausibili e sostenibili; ne deriva che il giudice, al fine di stabilire il carattere storico dell’opera oggetto di contestazione, deve accertare l’esistenza delle fonti indicate ed utilizzate dall’autore per esprimere giudizi” (Cass. Pen., sez. V, 11/05/2005).

La satira

Costituisce una forma di espressione che consiste in una critica basata su una rappresentazione della realtà idonea a suscitare l’ilarità, della quale sia palese il carattere dell’inverosimiglianza e dell’esagerazione.

Non può comunque travalicare il limite del rispetto dei valori fondamentali della persona, risolvendosi in allusioni, gratuitamente offensive, a fatti inesistenti o ad attribuzione di condotte illecite o moralmente disonorevoli, gli accostamenti volgari o ripugnanti, la deformazione dell’immagine in modo da suscitare disprezzo o dileggio (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 23712/2006).

“La satira, comunque estrinsecata (in forma scritta, orale, gestuale, figurata) costituisce una critica corrosiva e talvolta impietosa, basata su una rappresentazione che, per muovere al riso, si basa sull’enfatizzazione e sulla deformazione della realtà; di essa è espressione anche la caricatura, ossia la consapevole e accentuata alterazione dei tratti somatici, morali e comportamentali di una persona, per suscitare ilarità o anche derisione nel pubblico, realizzata con lo scritto, il disegno, la narrazione, la rappresentazione scenica. Il diritto di satira, peraltro, non può costituire una franchigia per condurre virulenti attacchi alla personalità dei soggetti esposti a critica. Esso, invece, come ogni altra critica, non sfugge al limite della continenza e/o della correttezza, cosicché non può essere legittimamente invocata la scriminante di cui all’articolo 51 del Cp, in relazione al reato di diffamazione, per le attribuzioni di condotte illecite o moralmente disonorevoli, gli accostamenti volgari o ripugnanti, la deformazione dell’immagine in modo da suscitare disprezzo e dileggio. In altri termini, pur non potendosi applicare il metro consueto della correttezza dell’espressione - dal momento che il linguaggio essenzialmente simbolico e spesso paradossale della satira è svincolato da forme convenzionali - la satira, al pari di qualsiasi altra manifestazione del pensiero, non può infrangere il rispetto dei valori fondamentali, esponendo la persona al disprezzo e al ludibrio della sua immagine pubblica” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 2128/2000).

Il reato di omesso controllo ex art. 57 c.p.

L’art. 596-bis c.p. prevede che se il delitto di diffamazione è commesso con il mezzo della stampa le disposizioni dell’articolo precedente (art. 595 c.p.) si applicano anche al direttore o vice-direttore responsabile, all’editore o allo stampatore, per i reati previsti negli articoli 57, 57-bis e 58 c.p.

Il reato di cui all’art. 57 c.p. si configura come atto di omissione del direttore o del vice-direttore responsabile di esercitare sul contenuto del periodico il controllo necessario ad impedire che con il mezzo della pubblicazione siano commessi reati.

“La responsabilità a titolo di colpa del direttore per l’omesso controllo sul contenuto del periodico in riferimento al fatto diffamatorio a mezzo stampa può dirsi esclusa ove si dimostri che il predetto, titolare di una posizione di garanzia, ha fatto quanto in suo potere per prevenire la diffusione di notizie non rispondenti al vero, prescrivendo e imponendo regole e controlli, anche mediati, di accuratezza, di assoluta fedeltà e di imparzialità rispetto alla fonte-notizia” (Cass. Pen., sez. I, sent. n. 48119/2009).

Si tratta di un reato del tutto diverso ed autonomo rispetto a quello di diffamazione a mezzo stampa commesso dall’autore della pubblicazione quanto a comportamento ed elemento psicologico: si è in presenza, invero, in tale ipotesi di un reato omissivo e colposo (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 42067/2007).

“In materia di reati di stampa la responsabilità del direttore, a titolo di colpa, per non avere impedito la commissione del reato, è ben diversa da quella a titolo di concorso, la quale ultima in tanto può sussistere in quanto siano presenti tutti gli elementi generalmente occorrenti a norma dell’art. 110 cod. pen., tra i quali in primo luogo il dolo. Per affermare il concorso nella diffamazione commessa dall’autore dello scritto occorre dimostrare che il direttore ha voluto la pubblicazione nell’esatta conoscenza del suo contenuto lesivo e, quindi, con la consapevolezza di aggredire la reputazione altrui. Quando invece al direttore è addebitabile solo l’omissione del controllo dovuto ci si trova in presenza della diversa fattispecie colposa di cui all’art. 57 cod. pen. rispetto alla quale l’eventuale diffamazione si configura come l’evento dello specifico reato previsto a carico del direttore” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 11494/1990).

Pubblicazione di un articolo anonimo

“In tema di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, la pubblicazione di un articolo senza nome comporta l’attribuzione di questo alla redazione e cioè al direttore responsabile del periodico. La firma apposta sull’articolo, infatti, ha la funzione di individuare la persona che si assume professionalmente la responsabilità delle notizie pubblicate. Nel caso di articolo sottoscritto, pertanto, il direttore è chiamato a rispondere solo del reato «proprio» previsto dall’articolo 57 del Cp. Il direttore che consenta, invece, la pubblicazione di un articolo anonimo assume in prima persona la responsabilità del contenuto, avendo comunque utilizzato lo strumento, di cui egli stesso può disporre, per la sua diffusione. Non si tratta, al riguardo, di una «responsabilità oggettiva», bensì di una consapevole condotta volta a diffondere uno scritto diffamatorio” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 16988/2001).

La delega del controllo

L’orientamento della giurisprudenza di legittimità è nel senso di sostenere l’esclusiva e non delegabile responsabilità del direttore responsabile e l’inammissibilità di responsabilità alternative.

Di conseguenza, la responsabilità non incombe anche sui responsabili delle singole pagine o dei singoli settori perchè la figura di costoro rileva soltanto per l’organizzazione interna del lavoro, ma è priva di rilevanza in ordine ai doveri di vigilanza e controllo propri del direttore (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 46786/2004).

Il controllo sulle trasmissioni radiotelevisive

“Il reato di omesso controllo previsto dall’articolo 57 del Cp è dettato esclusivamente per i reati commessi con il mezzo della «stampa» periodica e non può intendersi riferito anche alle trasmissioni radiofoniche e televisive. In proposito, il legislatore, nel disciplinare, con la legge 6 agosto 1990 n. 223, le trasmissioni radiofoniche o televisive, si è posto il problema, per il reato di diffamazione con l’attribuzione di un fatto determinato, della responsabilità omissiva, fuori dei casi di concorso nel reato principale, e lo ha risolto individuando i responsabili nelle seguenti categorie di persone (articolo 30, comma 1, richiamato anche dal comma 4): «il concessionario privato o la concessionaria pubblica ovvero la persona da loro delegata al controllo della trasmissione». La precisa specificazione delle persone a cui deve attribuirsi la responsabilità penale non consente, quindi, interpretazioni analogiche o estensive, conseguendone che non è configurabile il reato di omesso controllo, perché il fatto non è preveduto dalla legge come reato, a carico del direttore della trasmissione televisiva, che non rientra tra i soggetti presi in considerazione dalla norma incriminatrice” (Cass. Pen., sez. II, sent. n. 34717/2008).

La diffamazione a mezzo internet

In dottrina e in giurisprudenza si è discusso circa l’estensibilità del concetto di stampa agli altri mezzi di comunicazione.

In particolare, per quanto riguarda l’assimilabilità di internet al concetto di stampato, l’orientamento prevalente è stato negativo atteso che, perchè possa parlarsi di stampa in senso giuridico, occorrono due condizioni: a) che vi sia una riproduzione tipografica; b) che il prodotto di tale attività sia destinato alla pubblicazione e, quindi, debba essere effettivamente distribuito tra il pubblico.

Il fatto che il messaggio internet si possa stampare non appare circostanza determinante, in ragione della mera eventualità sia oggettiva che soggettiva.

I files pubblicati su internet non sono, in realtà, riproduzioni, ma documenti informatici originali.

Non si può non sottolineare che differenti sono le modalità tecniche di trasmissione del messaggio a seconda del mezzo utilizzato: consegna materiale dello stampato e sua lettura da parte del destinatario nella stampa; irradiazione nell’etere e percezione da parte di chi si sintonizza nella radio e nella TV; trasmissione telematica tramite ISP, con utilizzo di rete telefonica nel caso di internet.

Di conseguenza, il dettato normativo dell’art. 57 c.p. non è applicabile al c.d. giornale telematico, in particolare al direttore del giornale diffuso sul web (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 35511/2010).

Si tratta di un reato di evento, in quanto si consuma al momento della ricezione del messaggio diffamatorio da parte di terzi rispetto all’agente ed alla persona offesa (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 4741/2000).

In relazione al mezzo di comunicazione in questione sono ipotizzabili sia il tentativo, laddove l’evento non si verifichi perchè, per una qualsiasi ragione, nessuno visiti quel determinato sito, sia il reato impossibile, ove l’azione sia inidonea, quando per esempio l’agente faccia uso di uno strumento difettoso, che solo apparentemente gli consenta l’accesso ad uno spazio web ed in realtà il messaggio non venga mai immesso in rete.