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Malattie e infortuni imputabili all’impresa non si computano nel periodo di comporto

Nota a Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 7 aprile 2011, n.7946
Lavoro subordinato (rapporto di) - Durata del rapporto - Diritto alla conservazione del posto - Infortuni e malattie - Comporto - Superamento - Licenziamento - Legittimità - Limiti - Infermità dipendente dalla nocività delle mansioni - Rilevanza - Onere probatorio relativo - Incidenza sul lavoratore.

In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, le assenze del lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro ove l’infermità dipenda dalla nocività delle mansioni o dell’ambiente di lavoro che lo stesso datore di lavoro abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell’obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.) o di specifiche norme. Peraltro, incombe sul lavoratore l’onere di provare il collegamento causale tra la malattia che ha determinato l’assenza e le mansioni espletate, in mancanza del quale deve ritenersi legittimo il licenziamento.

La sentenza in commento, condivisibile sia nell’iter argomentativo seguito che negli esisti raggiunti, ribadisce alcuni punti saldi della giurisprudenza di legittimità in materia di licenziamento per superamento del periodo di comporto.

Tale particolare causa di recesso datoriale, motivata dalle troppe assenze per malattia di cui si è reso responsabile il dipendente, è una figura che trova il suo fondamento normativo all’art. 2110 del Codice civile, a norma del quale, in caso d’infortunio o di malattia, l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’articolo 2118 (rispettando, cioè, l’obbligo di preavviso), decorso il periodo stabilito dalla legge o, in difetto, dagli usi o secondo equità.

Invero, precisa la sentenza in epigrafe, la fattispecie del recesso del datore di lavoro - per l’ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (c.d. eccessiva morbilità) - si inquadra nello schema previsto ed è soggetta alle regole dettate dall’art. 2110 c.c., le quali prevalgono - per la loro specialità - sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa (art. 1256 c.c., comma 2, e art. 1464 c.c.), sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali (L. n. 604 del 1966 e L. n. 300 del 1970 e successive modifiche).

Da ciò consegue che, in dipendenza della prospettata specialità e del contenuto derogatorio di dette regole, il datore di lavoro, da un lato, non può unilateralmente recedere o comunque, far cessare il rapporto di lavoro prima del superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (c.d. periodo comporto) - predeterminato dalla legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi oppure, nel difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa - e, dall’altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è all’uopo necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo (L. n. 604 del 1966, art. 3), né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa (art. 1256 c.c., comma 2, e art. 1464 c.c.), né, infine, della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, senza che ne risultino violati disposizioni o principi costituzionali (ex plurimis, Cass. 5413/2003).

Se questo vale in generale, è però da rimarcare che le assenze del lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro (anche in ipotesi di avvenuto superamento del periodo di comporto) ove l’evento morboso che ha colpito il dipendente sia, comunque, imputabile a responsabilità dello stesso datore di lavoro, il quale (in dipendenza, per es., della nocività delle mansioni o dell’ambiente di lavoro) abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. o di altre specifiche norme, i rischi di un nocumento al lavoratore.

Quanto, infine all’onere della prova, grava sul lavoratore di provare il collegamento causale fra la malattia che ha determinato l’assenza e il superamento del periodo di comporto, e le mansioni espletate.

Lavoro subordinato (rapporto di) - Durata del rapporto - Diritto alla conservazione del posto - Infortuni e malattie - Comporto - Superamento - Licenziamento - Legittimità - Limiti - Infermità dipendente dalla nocività delle mansioni - Rilevanza - Onere probatorio relativo - Incidenza sul lavoratore.

In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, le assenze del lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro ove l’infermità dipenda dalla nocività delle mansioni o dell’ambiente di lavoro che lo stesso datore di lavoro abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell’obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.) o di specifiche norme. Peraltro, incombe sul lavoratore l’onere di provare il collegamento causale tra la malattia che ha determinato l’assenza e le mansioni espletate, in mancanza del quale deve ritenersi legittimo il licenziamento.

La sentenza in commento, condivisibile sia nell’iter argomentativo seguito che negli esisti raggiunti, ribadisce alcuni punti saldi della giurisprudenza di legittimità in materia di licenziamento per superamento del periodo di comporto.

Tale particolare causa di recesso datoriale, motivata dalle troppe assenze per malattia di cui si è reso responsabile il dipendente, è una figura che trova il suo fondamento normativo all’art. 2110 del Codice civile, a norma del quale, in caso d’infortunio o di malattia, l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’articolo 2118 (rispettando, cioè, l’obbligo di preavviso), decorso il periodo stabilito dalla legge o, in difetto, dagli usi o secondo equità.

Invero, precisa la sentenza in epigrafe, la fattispecie del recesso del datore di lavoro - per l’ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (c.d. eccessiva morbilità) - si inquadra nello schema previsto ed è soggetta alle regole dettate dall’art. 2110 c.c., le quali prevalgono - per la loro specialità - sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa (art. 1256 c.c., comma 2, e art. 1464 c.c.), sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali (L. n. 604 del 1966 e L. n. 300 del 1970 e successive modifiche).

Da ciò consegue che, in dipendenza della prospettata specialità e del contenuto derogatorio di dette regole, il datore di lavoro, da un lato, non può unilateralmente recedere o comunque, far cessare il rapporto di lavoro prima del superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (c.d. periodo comporto) - predeterminato dalla legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi oppure, nel difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa - e, dall’altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è all’uopo necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo (L. n. 604 del 1966, art. 3), né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa (art. 1256 c.c., comma 2, e art. 1464 c.c.), né, infine, della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, senza che ne risultino violati disposizioni o principi costituzionali (ex plurimis, Cass. 5413/2003).

Se questo vale in generale, è però da rimarcare che le assenze del lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro (anche in ipotesi di avvenuto superamento del periodo di comporto) ove l’evento morboso che ha colpito il dipendente sia, comunque, imputabile a responsabilità dello stesso datore di lavoro, il quale (in dipendenza, per es., della nocività delle mansioni o dell’ambiente di lavoro) abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. o di altre specifiche norme, i rischi di un nocumento al lavoratore.

Quanto, infine all’onere della prova, grava sul lavoratore di provare il collegamento causale fra la malattia che ha determinato l’assenza e il superamento del periodo di comporto, e le mansioni espletate.