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Il D. Lgs. n. 231/2001 e le imprese individuali

Come è noto, l’ambito soggettivo di applicazione della normativa sulla responsabilità amministrativa degli enti è regolato dall’art. 1 del D. Lgs. n. 231/2001, nel quale si prescrive che: “1. Il presente decreto legislativo disciplina la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato. 2. Le disposizioni in esso previste si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica. 3. Non si applicano allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale”.

La portata letterale della disposizione appena richiamata escluderebbe che la disciplina possa applicarsi all’imprenditore individuale, attesa l’esplicita previsione degli enti, delle società e delle associazioni, forniti o meno di personalità giuridica. Sul punto è chiara anche la Relazione ministeriale di accompagnamento al D. Lgs. n. 231/2001, nella quale si precisa che “l’introduzione di forme di responsabilità degli enti collettivi è stata dettata da ragioni di politica criminale, che consistono, da un lato, in esigenze di omogeneità delle risposte sanzionatorie degli Stati; e, dall’altro, nella consapevolezza di pericolose manifestazioni di reato (…) poste in essere da soggetti a struttura organizzata e complessa”. Invero, presupposto per la responsabilità in questione risulta essere quanto meno la possibilità di una distinzione soggettiva, di uno schermo giuridico fra l’autore del reato ed il soggetto giuridico responsabile ai sensi della disciplina in esame.

Data la forte compenetrazione tra l’impresa individuale e la persona fisica titolare della stessa, difetterebbe quel carattere della collettività che costituisce la ratio della nuova forma di responsabilità da reato degli enti. Il D. Lgs. n. 231 del 2001, infatti, delinea per gli enti una responsabilità da reato chiaramente aggiuntiva e non sostitutiva di quella delle persone fisiche, che resta regolata dal diritto penale comune.

In particolare, l’art. 8 stabilisce che la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile o quando il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia.

La disciplina in esame prevede, quindi, una responsabilità diretta, in quanto deriva da un fatto proprio dell’ente, cioè da un deficit dell’organizzazione dell’impresa ed autonoma rispetto alla responsabilità dell’autore del reato-presupposto.

Tali coordinate interpretative sono state recepite dalla Suprema Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 18941 del 3 marzo-22 aprile 2004 ha osservato come “è certo che in tutta la normativa (convenzioni internazionali; legge di delegazione; decreto delegato) e, segnatamente, nell’art. 1, comma 1, del d. lgs. n. 231 del 2001 essa è riferita unicamente agli <enti>, termine che evoca l’intero spettro dei soggetti di diritto metaindividuali, tanto che, come si è visto, i successivi commi della disposizione da ultimo menzionata ne specificano l’ambito soggettivo di applicazione”.

Questa soluzione ermeneutica, però, è da condividere soltanto nel caso in cui il reo ed il soggetto destinatario della disciplina in esame coincidano completamente, perché opinando altrimenti si verificherebbe un’ingiustificata duplicazione di sanzioni con violazione del divieto del ne bis in idem sostanziale. In realtà, non tutte le imprese individuali si contraddistinguono dal punto di vista organizzativo e decisionale per la coincidenza fra soggetto giuridico e titolare-persona fisica. Infatti, è notorio che molte imprese individuali spesso ricorrono ad un’organizzazione interna complessa, che prescinde dal sistematico intervento del titolare dell’impresa per la soluzione di determinate problematiche e può determinare la responsabilità di soggetti diversi dall’imprenditore, ma che operano nell’interesse della stessa impresa individuale.

Ebbene, il concetto stesso di “ente” presuppone un minimum di organizzazione strutturale, come si evince anche dal particolare meccanismo di imputazione fondato sui modelli. Invero, secondo parte della dottrina, l’intento del legislatore sarebbe quello di sanzionare gli enti dotati di un’apprezzabile complessità organizzativa che sia in grado di differenziarli dalla persona fisica che commette il reato-presupposto.

L’art. 6, comma 4, del D. Lgs. n. 231/2001, difatti, evidenzia come il legislatore delegato, nonostante la diversa volontà palesata nella Relazione ministeriale di accompagnamento alla disciplina de qua, abbia inteso assoggettare alla responsabilità da reato anche realtà organizzative di modeste dimensioni.

Le imprese individuali, pertanto, sono soggetti economici che, in quanto caratterizzati da strutture più agili e, in genere, privi di organi di controllo, potrebbero costituire terreno fertile per il compimento di attività criminose.

A tal proposito, la Cassazione, segnando un’inversione di rotta sulla portata applicativa del D. Lgs. n. 231/2001, con la sentenza n. 15657 del 20 aprile 2011 ha respinto il ricorso presentato dalla difesa di un’impresa individuale di Caltanissetta, alla quale il Tribunale del riesame aveva inflitto la sanzione interdittiva della revoca dell’autorizzazione alla raccolta e conferimento di rifiuti speciali.

La misura era stata decisa nell’ambito di un procedimento penale per il reato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati in materia di trattamento dei rifiuti.

In particolare, tra i motivi della difesa trovava posto, in primo piano, l’inapplicabilità del decreto in esame alle imprese individuali, come stabilito dalla sentenza della Cassazione del 2004 menzionata in precedenza, in quanto la responsabilità amministrativa poteva essere applicata solo agli enti dotati di personalità giuridica e strutturati in forma societaria o pluripersonale.

La Suprema Corte, premettendo che “l’attività riconducibile all’impresa (al pari di quella riconducibile alla ditta individuale propriamente detta) è attività che fa capo ad una persona fisica e non ad una persona giuridica intesa quale società di persone (o di capitali)”, ha ritenuto però innegabile che “l’impresa individuale (sostanzialmente divergente, anche da un punto di vista semantico, dalla cd. "ditta individuale"), ben può assimilarsi ad una persona giuridica nella quale viene a confondersi la persona dell’imprenditore quale soggetto fisico che esercita una determinata attività: il che porta alla conclusione che, da un punto di vista prettamente tecnico, per impresa deve intendersi l’attività svolta dall’imprenditore-persona fisica per la cui definizione deve farsi rinvio agli artt. 2082 e 2083 del c.c.” Invero, secondo la Cassazione, i soggetti destinatari delle prescrizioni normative non vanno soltanto individuati attraverso la loro espressa previsione o la loro altrettanto espressa esclusione, ma ben possono identificarsi sulla base dell’appartenenza alla generale categoria degli enti forniti di personalità giuridica, nonché alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica, come stabilito dall’art. 1, comma 2.

Tale posizione interpretativa ha lo scopo di non vanificare l’incidenza della disciplina in quanto il legislatore ha ritenuto di estendere la responsabilità anche a quei soggetti sprovvisti di personalità giuridica che possono sottrarsi più agevolmente ai controlli pubblici e risultano nel contempo a maggior rischio di attività illecite.

In tal modo, la Suprema Corte, suggerendo una lettura costituzionalmente orientata del D. Lgs. n. 231/2001 anche in termini di ragionevolezza del sistema normativo, elimina eventuali disparità di trattamento tra coloro i quali, per svolgere la propria attività, decidono di ricorrere a forme semplici ed agili di impresa e coloro che, al contrario, utilizzano strutture ben più complesse ed articolate. Ad avviso dello scrivente, la soluzione proposta dalla Corte di Cassazione appare convincente dal punto di vista dell’ampliamento alle imprese individuali della disciplina in esame, ma allo stesso tempo meriterebbe un’osservazione critica. In effetti, l’impresa individuale è, per sua natura, priva di personalità giuridica e quindi non può rientrare nel concetto di "ente fornito di personalità giuridica".

Del resto, la stessa Corte di Cassazione afferma che l’impresa individuale può soltanto "assimilarsi" ad una persona giuridica, ammettendo quindi un’applicazione analogica "in malam partem" del D. Lgs. n. 231/2001 che, come è noto, è vietata in materia penale dagli artt. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile e 25, comma 2, della Costituzione.

Ebbene, sarebbe stato più corretto, invece, definire l’impresa individuale come ente privo di personalità giuridica, ma nel contempo dotato di un minimum organizzativo tale da distinguerlo dal suo titolare-persona fisica e quindi punibile ai sensi del D. Lgs. n. 231/2001.

Come è noto, l’ambito soggettivo di applicazione della normativa sulla responsabilità amministrativa degli enti è regolato dall’art. 1 del D. Lgs. n. 231/2001, nel quale si prescrive che: “1. Il presente decreto legislativo disciplina la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato. 2. Le disposizioni in esso previste si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica. 3. Non si applicano allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale”.

La portata letterale della disposizione appena richiamata escluderebbe che la disciplina possa applicarsi all’imprenditore individuale, attesa l’esplicita previsione degli enti, delle società e delle associazioni, forniti o meno di personalità giuridica. Sul punto è chiara anche la Relazione ministeriale di accompagnamento al D. Lgs. n. 231/2001, nella quale si precisa che “l’introduzione di forme di responsabilità degli enti collettivi è stata dettata da ragioni di politica criminale, che consistono, da un lato, in esigenze di omogeneità delle risposte sanzionatorie degli Stati; e, dall’altro, nella consapevolezza di pericolose manifestazioni di reato (…) poste in essere da soggetti a struttura organizzata e complessa”. Invero, presupposto per la responsabilità in questione risulta essere quanto meno la possibilità di una distinzione soggettiva, di uno schermo giuridico fra l’autore del reato ed il soggetto giuridico responsabile ai sensi della disciplina in esame.

Data la forte compenetrazione tra l’impresa individuale e la persona fisica titolare della stessa, difetterebbe quel carattere della collettività che costituisce la ratio della nuova forma di responsabilità da reato degli enti. Il D. Lgs. n. 231 del 2001, infatti, delinea per gli enti una responsabilità da reato chiaramente aggiuntiva e non sostitutiva di quella delle persone fisiche, che resta regolata dal diritto penale comune.

In particolare, l’art. 8 stabilisce che la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile o quando il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia.

La disciplina in esame prevede, quindi, una responsabilità diretta, in quanto deriva da un fatto proprio dell’ente, cioè da un deficit dell’organizzazione dell’impresa ed autonoma rispetto alla responsabilità dell’autore del reato-presupposto.

Tali coordinate interpretative sono state recepite dalla Suprema Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 18941 del 3 marzo-22 aprile 2004 ha osservato come “è certo che in tutta la normativa (convenzioni internazionali; legge di delegazione; decreto delegato) e, segnatamente, nell’art. 1, comma 1, del d. lgs. n. 231 del 2001 essa è riferita unicamente agli <enti>, termine che evoca l’intero spettro dei soggetti di diritto metaindividuali, tanto che, come si è visto, i successivi commi della disposizione da ultimo menzionata ne specificano l’ambito soggettivo di applicazione”.

Questa soluzione ermeneutica, però, è da condividere soltanto nel caso in cui il reo ed il soggetto destinatario della disciplina in esame coincidano completamente, perché opinando altrimenti si verificherebbe un’ingiustificata duplicazione di sanzioni con violazione del divieto del ne bis in idem sostanziale. In realtà, non tutte le imprese individuali si contraddistinguono dal punto di vista organizzativo e decisionale per la coincidenza fra soggetto giuridico e titolare-persona fisica. Infatti, è notorio che molte imprese individuali spesso ricorrono ad un’organizzazione interna complessa, che prescinde dal sistematico intervento del titolare dell’impresa per la soluzione di determinate problematiche e può determinare la responsabilità di soggetti diversi dall’imprenditore, ma che operano nell’interesse della stessa impresa individuale.

Ebbene, il concetto stesso di “ente” presuppone un minimum di organizzazione strutturale, come si evince anche dal particolare meccanismo di imputazione fondato sui modelli. Invero, secondo parte della dottrina, l’intento del legislatore sarebbe quello di sanzionare gli enti dotati di un’apprezzabile complessità organizzativa che sia in grado di differenziarli dalla persona fisica che commette il reato-presupposto.

L’art. 6, comma 4, del D. Lgs. n. 231/2001, difatti, evidenzia come il legislatore delegato, nonostante la diversa volontà palesata nella Relazione ministeriale di accompagnamento alla disciplina de qua, abbia inteso assoggettare alla responsabilità da reato anche realtà organizzative di modeste dimensioni.

Le imprese individuali, pertanto, sono soggetti economici che, in quanto caratterizzati da strutture più agili e, in genere, privi di organi di controllo, potrebbero costituire terreno fertile per il compimento di attività criminose.

A tal proposito, la Cassazione, segnando un’inversione di rotta sulla portata applicativa del D. Lgs. n. 231/2001, con la sentenza n. 15657 del 20 aprile 2011 ha respinto il ricorso presentato dalla difesa di un’impresa individuale di Caltanissetta, alla quale il Tribunale del riesame aveva inflitto la sanzione interdittiva della revoca dell’autorizzazione alla raccolta e conferimento di rifiuti speciali.

La misura era stata decisa nell’ambito di un procedimento penale per il reato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati in materia di trattamento dei rifiuti.

In particolare, tra i motivi della difesa trovava posto, in primo piano, l’inapplicabilità del decreto in esame alle imprese individuali, come stabilito dalla sentenza della Cassazione del 2004 menzionata in precedenza, in quanto la responsabilità amministrativa poteva essere applicata solo agli enti dotati di personalità giuridica e strutturati in forma societaria o pluripersonale.

La Suprema Corte, premettendo che “l’attività riconducibile all’impresa (al pari di quella riconducibile alla ditta individuale propriamente detta) è attività che fa capo ad una persona fisica e non ad una persona giuridica intesa quale società di persone (o di capitali)”, ha ritenuto però innegabile che “l’impresa individuale (sostanzialmente divergente, anche da un punto di vista semantico, dalla cd. "ditta individuale"), ben può assimilarsi ad una persona giuridica nella quale viene a confondersi la persona dell’imprenditore quale soggetto fisico che esercita una determinata attività: il che porta alla conclusione che, da un punto di vista prettamente tecnico, per impresa deve intendersi l’attività svolta dall’imprenditore-persona fisica per la cui definizione deve farsi rinvio agli artt. 2082 e 2083 del c.c.” Invero, secondo la Cassazione, i soggetti destinatari delle prescrizioni normative non vanno soltanto individuati attraverso la loro espressa previsione o la loro altrettanto espressa esclusione, ma ben possono identificarsi sulla base dell’appartenenza alla generale categoria degli enti forniti di personalità giuridica, nonché alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica, come stabilito dall’art. 1, comma 2.

Tale posizione interpretativa ha lo scopo di non vanificare l’incidenza della disciplina in quanto il legislatore ha ritenuto di estendere la responsabilità anche a quei soggetti sprovvisti di personalità giuridica che possono sottrarsi più agevolmente ai controlli pubblici e risultano nel contempo a maggior rischio di attività illecite.

In tal modo, la Suprema Corte, suggerendo una lettura costituzionalmente orientata del D. Lgs. n. 231/2001 anche in termini di ragionevolezza del sistema normativo, elimina eventuali disparità di trattamento tra coloro i quali, per svolgere la propria attività, decidono di ricorrere a forme semplici ed agili di impresa e coloro che, al contrario, utilizzano strutture ben più complesse ed articolate. Ad avviso dello scrivente, la soluzione proposta dalla Corte di Cassazione appare convincente dal punto di vista dell’ampliamento alle imprese individuali della disciplina in esame, ma allo stesso tempo meriterebbe un’osservazione critica. In effetti, l’impresa individuale è, per sua natura, priva di personalità giuridica e quindi non può rientrare nel concetto di "ente fornito di personalità giuridica".

Del resto, la stessa Corte di Cassazione afferma che l’impresa individuale può soltanto "assimilarsi" ad una persona giuridica, ammettendo quindi un’applicazione analogica "in malam partem" del D. Lgs. n. 231/2001 che, come è noto, è vietata in materia penale dagli artt. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile e 25, comma 2, della Costituzione.

Ebbene, sarebbe stato più corretto, invece, definire l’impresa individuale come ente privo di personalità giuridica, ma nel contempo dotato di un minimum organizzativo tale da distinguerlo dal suo titolare-persona fisica e quindi punibile ai sensi del D. Lgs. n. 231/2001.