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Sul matrimonio del “clandestino”

Nota a Corte Costituzionale sentenza 25 luglio 2011, n. 245
Sommario

Introduzione

1. La questione di legittimità sollevata

2. La decisione della Corte costituzionale

3. Conclusioni: verso una nuova visione della famiglia dello straniero irregolare?

Introduzione

L’amore italico non ha confini “giuridici”: la nazionalità estera dell’amato e persino la sua presenza irregolare sul territorio nostrano non possono, infatti, essere elementi capaci di giustificare una seria e generica limitazione della libertà a contrarre matrimonio in Italia con un cittadino italiano. E’ questo il principio che emerge dalla lettura della sentenza n. 245/2011 della Corte costituzionale in commento, con la quale si è dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 116 comma 1 c.c. limitatamente alle parole <<nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano>>.

Con tale decisione, dunque, si è escluso che il matrimonio tra cittadino ed extracomunitario possa essere subordinato al rilascio di un provvedimento amministrativo che comprovi la presenza regolare dello straniero sul suolo italico per una qualunque altra causa, cioè per ragioni che non siano connessi con l’esigenza matrimoniale.

Che un uomo ed una donna, benché di nazionalità diverse, possano sposarsi nel Paese di origine di uno dei coniugi dovrebbe essere l’espressione di un principio all’apparenza quasi ovvio, specie dopo l’abolizione delle leggi razziali e l’affermazione dei valori espressi nella Costituzione repubblicana e nelle Carte internazionali fondamentali all’esito della dolorosa Seconda guerra mondiale. La preservazione della stirpe e la tutela della purezza della razza nostrana sono profili che non possono in alcun modo ledere alcun bene giuridico, né essere posti a fondamento di questo o quell’istituto giuridico.

Del resto, discriminare le capacità matrimoniali in ragione della nazionalità di uno dei coniugi significa porre dei pesi giuridici fortissimi alla libertà personalissima di scelta della persona del proprio marito o della propria moglie sulla scorta di occasionali scelte politiche imposte d’imperio. Una simile opzione appare tanto più inaccettabile e moralmente da biasimare, oltre che giuridicamente incoerente con il principio di eguaglianza, quando la stessa è nei fatti collegata alla condizione di precarietà economica di uno dei coniugi, come avviene per lo più nei casi degli stranieri irregolarmente presenti sul territorio nazionale.

Lo Stato può certamente limitare le capacità matrimoniali, ma ciò nell’Evo contemporaneo, ammesso il principio dello Stato di diritto, non può avvenire per pure esigenze di sicurezza pubblica o di interesse di sovranità interna. Dette definizioni delle capacità, infatti, devono trovare una loro giustificazione proprio nella tutela della società naturale (art. 29 cost.) che si vuole costituire con il matrimonio. La tutela e la responsabilità della famiglia legittima, insomma, è il riferimento essenziale per la configurazione dell’istituto matrimoniale: ogni altro elemento è un di più che in tanto può sussistere in quanto non limiti sostanzialmente la libertà di scegliersi il proprio compagno o la propria compagna di vita.

Eppure, ogni tanto, sulla spinta emotiva di questo o quell’evento e sulla scia di ataviche paure dell’altro, la tesi antichissima, secondo cui – nell’interesse dell’integrità e sicurezza dello Stato - i cittadini hanno diritto di sposarsi solo con propri connazionali potendo solo eccezionalmente (id est, con il plauso del governo di turno) sposarsi con stranieri, può trovare il consenso anche di un Legislatore repubblicano e democratico. Ma un tale favore, per quanto autorevolmente sostenuto nelle aule parlamentari e dalle grida giornalistiche, se posto innanzi a seri valori, non può che perdere di consistenza ed essere ridotto a pura transitorietà e, quindi, condotto nel nulla giuridico.

Nella sentenza de qua, non si è affrontata la questione di legittimità facendo riferimento a concezioni filosofiche tra società “aperte” o “chiuse”, ma, assai più semplicemente ed efficacemente, facendo leva sulla natura del diritto al matrimonio del cittadino come diritto fondamentale della persona.

Gli argomenti espressi dalla Consulta, infatti, sono stati brevi ed efficaci, come altrettanto inequivocabili. La linea tracciata sul punto, per quanto semplice e semplicisticamente considerabile, è – a sommesso parere di chi scrive – in realtà estremamente importante poiché si pone nella linea di una rivoluzione nei valori e non solo nei contenuti formali dell’intera disciplina sull’immigrazione.

Non pare inutile, dunque, analizzare brevemente l’iter argomentativo della decisione, per poi vagliarne i riflessi pratici alla luce di una più ampia considerazione di sistema.

1. La questione di legittimità sollevata

Il Tribunale di Catania, chiamato a decidere sulla legittimità del diniego alle nozze opposto da un Ufficiale dello Stato civile alla celebrazione di un matrimonio tra una cittadina italiana ed un cittadino marocchino, ha sollevato la questione di legittimità dell’art. 116 primo comma c.c., così come modificato dall’art. 1 comma 15 Legge n. 94/2009 (recante Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) limitatamente alla parole <<nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano>>, poiché ritenuto in contrasto con gli artt. 2, 3, 29, 31 e 117 comma 1 cost..

Secondo la Corte di merito, infatti, detta disciplina limiterebbe il diritto al matrimonio, inteso come <<espressione di libertà e dell’autonomia della persona>>, tanto più che, così concepito, lo stesso rientrerebbe nei <<diritti inviolabili dell’uomo, caratterizzati in quanto tali dall’universalità>> (vedi nel punto 1.2 del Ritenuto in fatto della sentenza Corte costituzionale n. 245/2011 rinvenibile sul sito www.cortecostituzionale.it). Diritto fondamentale che peraltro troverebbe espressa tutela anche in alcune Carte internazionali di primaria importanza tra cui l’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e, soprattutto, nell’art. 12 della CEDU e nell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

In estrema sintesi, secondo il Tribunale territoriale siciliano se il Legislatore non può non dettare norme giuridiche sulle forme e sulle condizioni per contrarre matrimonio, lo stesso Legislatore non può imporre condizioni o restrizioni irragionevoli al matrimonio: la libertà è il principio, la limitazione è l’eccezione.

A tale impostazione si è opposta quella seguita dall’Avvocatura dello Stato, che ha invece insistito per una pronuncia di inammissibilità o comunque d’infondatezza della questione, posto che la disciplina oggetto di censura sarebbe pienamente ragionevole, poiché il requisito della regolarità del soggiorno soddisferebbe l’esigenza di garantire un presidio efficace alle frontiere ed un adeguato controllo dei flussi migratori (vedi punto 2.1 del Ritenuto in fatto).

Sotto questo profilo, quindi, il limite al matrimonio in oggetto lungi dall’essere irrazionale sarebbe connesso a fondamentali esigenze di sicurezza ed ordine pubblico, valori che si porrebbero – a detta dell’Avvocatura dello Stato – sopra un indubbio piano costituzionale e come tali capaci di poter limitare, senza escluderlo del tutto, il matrimonio tra cittadino e straniero.

2. La decisione della Corte costituzionale

La Corte costituzionale, innanzi alla questione sollevata, non ha cercato di affrontare il problema mediante escamotage, ma ha posto una serie di elementi assai chiari sul ruolo che le norme sull’ingresso dei cittadini stranieri hanno all’interno del sistema costituzione.

Si è, in altre parole, posto un’indicazione sugli elementi che il Legislatore deve seguire affinché possa influire, mediante la disciplina immigratoria sopra i diritti fondamentali della persona.

Se, infatti, il Legislatore può definire le norme regolanti la situazione giuridica del cittadino extracomunitario, lo stesso Legislatore, nel dettare dette disposizioni, deve perseguire <<pur sempre il risultato di un ragionevole e proporzionale bilanciamento tra i diversi interessi, di rango costituzionale, implicati dalle scelte legislative … specialmente quando esse siano suscettibili di incidere sul godimento di diritti fondamentali, tra i quali rientra certamente il diritto a “contrarre matrimonio”>> (così nel punto 3.1 del Considerato in diritto).

Ma in che modo tutto ciò è concretamente possibile?

I criteri individuati dalla Consulta sono sostanzialmente due:

- la disciplina sull’ingresso e la permanenza degli stranieri nel territorio nazionale può giustificare una deroga al godimento di taluni diritti in capo agli stranieri, ma ciò non può avvenire per i diritti fondamentali dell’uomo tutelati dall’art. 2 cost., in quanto questi sono garantiti non già in funzione della situazione giuridica dello straniero con lo Stato ospitante, ma in ragione dell’umanità intrinseca dell’extracomunitario;

- in ogni caso, l’eventuale limitazione all’esercizio di diritti non può avvenire in maniera irragionevole e tale irragionevolezza, nel campo di cui si tratta, ben può essere riscontrata ogni qual volta il mezzo non risulta proporzionato rispetto ai fini e, dunque, quando il fine ben può essere in concreto perseguito mediante altri e diversi strumenti che non limitino di per sé l’esercizio di diritti fondamentali.

In sostanza, cittadino e straniero, nei loro rapporti con lo Stato, non possono essere del tutto equiparati; tuttavia, ogni qual volta vengono in gioco diritti umani fondamentali tale differenza viene meno e l’intervento del Legislatore, che pur voglia perseguire altre esigenze di rango costituzionale, non può semplicemente giustificare deroghe o limitazioni di diritti sulla necessità “astratta e formale” di tutelare detti altri interessi statali. Tale necessità derogatoria, infatti, va vagliata nel concreto e dovrà essere considerata illegittima se le esigenze sottese alle limitazioni legali possano essere perseguite con altri mezzi, id est con una diversa disciplina legale che non incida significativamente sul godimento dei predetti diritti.

Così ricostruito il sistema del bilanciamento dei valori in gioco posti a confronto con la questione di legittimità sollevata, l’eccezione di costituzionalità de qua non poteva che essere accolta.

L’esigenza “pubblica” di salvaguardare le frontiere ed i flussi migratori e, dunque, l’interesse ad impedire “matrimoni di comodo” non possono essere perseguiti semplicemente mediante la limitazione al matrimonio del clandestino.

Un simile meccanismo, infatti, risulta <<non proporzionato a tale obiettivo>> poiché in tal modo non si limita soltanto il diritto del clandestino a sposarsi, poiché il tutto si traduce anche <<in una compressione del corrispondente diritto del cittadino o della cittadina italiana che tale diritto intende esercitare>> (punto 3.1 del Considerato in diritto), laddove voglia coniugarsi con uno straniero.

Tanto più che, alla luce del sistema vigente, come ben ha notato la Corte costituzionale, l’esigenza di evitare “matrimoni di comodo” è posta alla base di altra disciplina e precisamente dell’art. 30 comma 1bis D. lgs. 286/1998, che prevede, nei casi e modi ivi contemplati, la revoca del permesso di soggiorno nel caso in cui dal matrimonio non sia conseguita effettiva convivenza ovvero il rigetto o la revoca del permesso di soggiorno nel caso in cui sia accertato che il matrimonio ha avuto lo scopo esclusivo di permettere allo straniero di soggiornare nel territorio italiano.

Del pari è evidente che la disciplina de qua risulta in contrasto con l’art. 117 comma 1 cost., attesa l’incompatibilità della stessa con i principi della CEDU ed in particolare con l’art. 12, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, che di recente – come bene ha ricordato la Consulta – con la sentenza 14 dicembre 2010 O’Donogue and Others vs The United Kingdom ha statuito che gli Stati membri non possono introdurre una limitazione automatica, generale ed indiscriminata ad un diritto garantito dalla Convenzione europea.

La normativa in questione, dunque, poiché introduce un generale ed ingiustificato divieto per il clandestino a contrarre matrimonio con un cittadino italiano, senza che sia prevista una verifica sulla genuinità del matrimonio, risulta per ciò stesso censurabile sul piano costituzionale.

3. Conclusioni: verso una nuova visione della famiglia dello straniero irregolare?

Matrimonio e famiglia legittima sono concetti interdipendenti ed, in un certo qual modo, inscindibili.

Con il matrimonio, una società naturale prende forma giuridica e diviene di per sé oggetto di tutela nell’ambito dello Stato: tutela che non può non prevedere quanto meno il diritto dei coniugi di vivere insieme.

Il dove e come vivere è oggetto di decisione comune ed è in linea di principio insindacabile.

Eppure esistono confini geografici e politici e questi non possono essere in alcun modo negati. Si pone così il serissimo problema della legittimità del superamento del limite posto dalla Sovranità statale.

Nella Costituzione italiana, così come in altre nobili Carte fondamentali, il diritto all’emigrazione del cittadino è espressamente riconosciuto (art 35 comma 4 cost.), così come il suo diritto al libero ingresso nella Repubblica (art. 16 comma 2 cost.).

Riguardo allo straniero, la disposizione cardine è data dall’art. 10 cost. che prevede il diritto di asilo politico ed il divieto di estradizione per reati politici. Fuori da questi casi, la fattispecie giuridica dello straniero si trasforma in atto amministrativo e, quindi, la possibilità all’ingresso dello straniero nello Stato riposa nelle scelte politiche del Governo, che ben può imporre limiti non solo formali ma anche sostanziali (id est quantitativi) sulle persone che possono entrare nel territorio sovrano.

Ma quid iuris nel caso in cui lo straniero si accompagni o viva di fatto con il proprio coniuge o con i propri figli minori in terra altrui?

Qui la situazione diviene assai più complessa, poiché da un lato vi è l’esigenza di garantire l’unità familiare, dall’altro vi è il dovere morale, prima ancora che giuridico, di tutelare gli interessi del minore a vivere con i propri genitori.

In una simile situazione la Società statale, come ente morale, si può contrapporre con quella naturale della famiglia: lo Stato può ritenere necessario che lo straniero, per poter permanere e vivere con la propria famiglia, sia di per sé regolare, cioè che abbia avuto un titolo legittimo all’ingresso, e soddisfi una serie di requisiti formali, che nel caso concreto ben possono mancare. In estrema sintesi, lo Stato può considerare il fenomeno familiare dello straniero “irregolare” come del tutto irrilevante e privo di pregio giuridico.

Ma la tutela dell’unità familiare può sempre essere subordinata alla politica migratoria del momento?

La risposta che viene dalla sentenza in commento è certamente negativa e ciò, al di là di ogni considerazione, non può che essere salutato con soddisfazione, poiché si riafferma il valore preminente della famiglia rispetto alle esigenze assai astratte e vaghe di sicurezza pubblica.

Si potrebbe, peraltro, ritenere che la decisione de qua non possa essere presa a parametro per elevare a regola una eccezione e che dunque sia da escludere un generale diritto dello straniero “irregolare” di vivere nel territorio italiano con la propria famiglia.

Ciò è vero, ma avuto riguardo alla casistica, un simile rilievo perde molto della sua importanza.

A ben vedere, infatti, esistono nel sistema ordinario ed internazionale altre norme, prima fra tutte l’art. 31 comma 3 D. lgs. 286/1998, che sono il riflesso di principi giuridici universali, che tutelano direttamente la famiglia straniera irregolare: l’esigenza di garantire l’unità familiare nell’interesse del minore può giustificare la regolarizzazione del genitore “clandestino”.

Privo di una vera e propria tutela giuridica, dunque, è allo stato solo il clandestino che viva senza prole in Italia, sempre che non vi sia in atto un concepimento di un bambino.

Fuori da questo caso, vi è sempre la possibilità di una regolarizzazione del clandestino, ove questi conviva con il coniuge (italiano) o con i propri figli (italiani e non) presenti in Italia.

Se poi si guarda al caso dello straniero regolarmente soggiornante, i diritti al ricongiungimento familiare sono espressamente riconosciuti e tutelati.

Ecco che allora, cadendo il divieto di nozze tra italiano e clandestino, il diritto al matrimonio ed il conseguente riconoscimento della famiglia legittima dell’irregolare sono stati definitivamente consacrati e per ciò stesso sono diventati essenziali oggetti di riferimento normativo per la disciplina sull’immigrazione, che è sì un fenomeno economico ma è un fenomeno anche ed essenzialmente legato ad esigenze familiari e di vita.

La decisione in commento, in definitiva, più che abolire un divieto, che nel concreto operare è apparso più e più volte certamente odioso e privo di ragionevolezza, ha concorso, seppur indirettamente ma in maniera assai significativa, nell’affermazione di un principio: nella disciplina dell’ingresso e della permanenza degli stranieri, lo Stato italiano non può più non considerare i riflessi che le norme hanno o possono avere sulla tutela della famiglia in sé e per sé, quale che sia la nazionalità dei coniugi o dei figli e quale che sia la loro situazione di regolarità formale sul territorio italiano.

Ed un tale principio, almeno a parere di chi scrive, non pare davvero poca ed inutile cosa.

Sommario

Introduzione

1. La questione di legittimità sollevata

2. La decisione della Corte costituzionale

3. Conclusioni: verso una nuova visione della famiglia dello straniero irregolare?

Introduzione

L’amore italico non ha confini “giuridici”: la nazionalità estera dell’amato e persino la sua presenza irregolare sul territorio nostrano non possono, infatti, essere elementi capaci di giustificare una seria e generica limitazione della libertà a contrarre matrimonio in Italia con un cittadino italiano. E’ questo il principio che emerge dalla lettura della sentenza n. 245/2011 della Corte costituzionale in commento, con la quale si è dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 116 comma 1 c.c. limitatamente alle parole <<nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano>>.

Con tale decisione, dunque, si è escluso che il matrimonio tra cittadino ed extracomunitario possa essere subordinato al rilascio di un provvedimento amministrativo che comprovi la presenza regolare dello straniero sul suolo italico per una qualunque altra causa, cioè per ragioni che non siano connessi con l’esigenza matrimoniale.

Che un uomo ed una donna, benché di nazionalità diverse, possano sposarsi nel Paese di origine di uno dei coniugi dovrebbe essere l’espressione di un principio all’apparenza quasi ovvio, specie dopo l’abolizione delle leggi razziali e l’affermazione dei valori espressi nella Costituzione repubblicana e nelle Carte internazionali fondamentali all’esito della dolorosa Seconda guerra mondiale. La preservazione della stirpe e la tutela della purezza della razza nostrana sono profili che non possono in alcun modo ledere alcun bene giuridico, né essere posti a fondamento di questo o quell’istituto giuridico.

Del resto, discriminare le capacità matrimoniali in ragione della nazionalità di uno dei coniugi significa porre dei pesi giuridici fortissimi alla libertà personalissima di scelta della persona del proprio marito o della propria moglie sulla scorta di occasionali scelte politiche imposte d’imperio. Una simile opzione appare tanto più inaccettabile e moralmente da biasimare, oltre che giuridicamente incoerente con il principio di eguaglianza, quando la stessa è nei fatti collegata alla condizione di precarietà economica di uno dei coniugi, come avviene per lo più nei casi degli stranieri irregolarmente presenti sul territorio nazionale.

Lo Stato può certamente limitare le capacità matrimoniali, ma ciò nell’Evo contemporaneo, ammesso il principio dello Stato di diritto, non può avvenire per pure esigenze di sicurezza pubblica o di interesse di sovranità interna. Dette definizioni delle capacità, infatti, devono trovare una loro giustificazione proprio nella tutela della società naturale (art. 29 cost.) che si vuole costituire con il matrimonio. La tutela e la responsabilità della famiglia legittima, insomma, è il riferimento essenziale per la configurazione dell’istituto matrimoniale: ogni altro elemento è un di più che in tanto può sussistere in quanto non limiti sostanzialmente la libertà di scegliersi il proprio compagno o la propria compagna di vita.

Eppure, ogni tanto, sulla spinta emotiva di questo o quell’evento e sulla scia di ataviche paure dell’altro, la tesi antichissima, secondo cui – nell’interesse dell’integrità e sicurezza dello Stato - i cittadini hanno diritto di sposarsi solo con propri connazionali potendo solo eccezionalmente (id est, con il plauso del governo di turno) sposarsi con stranieri, può trovare il consenso anche di un Legislatore repubblicano e democratico. Ma un tale favore, per quanto autorevolmente sostenuto nelle aule parlamentari e dalle grida giornalistiche, se posto innanzi a seri valori, non può che perdere di consistenza ed essere ridotto a pura transitorietà e, quindi, condotto nel nulla giuridico.

Nella sentenza de qua, non si è affrontata la questione di legittimità facendo riferimento a concezioni filosofiche tra società “aperte” o “chiuse”, ma, assai più semplicemente ed efficacemente, facendo leva sulla natura del diritto al matrimonio del cittadino come diritto fondamentale della persona.

Gli argomenti espressi dalla Consulta, infatti, sono stati brevi ed efficaci, come altrettanto inequivocabili. La linea tracciata sul punto, per quanto semplice e semplicisticamente considerabile, è – a sommesso parere di chi scrive – in realtà estremamente importante poiché si pone nella linea di una rivoluzione nei valori e non solo nei contenuti formali dell’intera disciplina sull’immigrazione.

Non pare inutile, dunque, analizzare brevemente l’iter argomentativo della decisione, per poi vagliarne i riflessi pratici alla luce di una più ampia considerazione di sistema.

1. La questione di legittimità sollevata

Il Tribunale di Catania, chiamato a decidere sulla legittimità del diniego alle nozze opposto da un Ufficiale dello Stato civile alla celebrazione di un matrimonio tra una cittadina italiana ed un cittadino marocchino, ha sollevato la questione di legittimità dell’art. 116 primo comma c.c., così come modificato dall’art. 1 comma 15 Legge n. 94/2009 (recante Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) limitatamente alla parole <<nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano>>, poiché ritenuto in contrasto con gli artt. 2, 3, 29, 31 e 117 comma 1 cost..

Secondo la Corte di merito, infatti, detta disciplina limiterebbe il diritto al matrimonio, inteso come <<espressione di libertà e dell’autonomia della persona>>, tanto più che, così concepito, lo stesso rientrerebbe nei <<diritti inviolabili dell’uomo, caratterizzati in quanto tali dall’universalità>> (vedi nel punto 1.2 del Ritenuto in fatto della sentenza Corte costituzionale n. 245/2011 rinvenibile sul sito www.cortecostituzionale.it). Diritto fondamentale che peraltro troverebbe espressa tutela anche in alcune Carte internazionali di primaria importanza tra cui l’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e, soprattutto, nell’art. 12 della CEDU e nell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

In estrema sintesi, secondo il Tribunale territoriale siciliano se il Legislatore non può non dettare norme giuridiche sulle forme e sulle condizioni per contrarre matrimonio, lo stesso Legislatore non può imporre condizioni o restrizioni irragionevoli al matrimonio: la libertà è il principio, la limitazione è l’eccezione.

A tale impostazione si è opposta quella seguita dall’Avvocatura dello Stato, che ha invece insistito per una pronuncia di inammissibilità o comunque d’infondatezza della questione, posto che la disciplina oggetto di censura sarebbe pienamente ragionevole, poiché il requisito della regolarità del soggiorno soddisferebbe l’esigenza di garantire un presidio efficace alle frontiere ed un adeguato controllo dei flussi migratori (vedi punto 2.1 del Ritenuto in fatto).

Sotto questo profilo, quindi, il limite al matrimonio in oggetto lungi dall’essere irrazionale sarebbe connesso a fondamentali esigenze di sicurezza ed ordine pubblico, valori che si porrebbero – a detta dell’Avvocatura dello Stato – sopra un indubbio piano costituzionale e come tali capaci di poter limitare, senza escluderlo del tutto, il matrimonio tra cittadino e straniero.

2. La decisione della Corte costituzionale

La Corte costituzionale, innanzi alla questione sollevata, non ha cercato di affrontare il problema mediante escamotage, ma ha posto una serie di elementi assai chiari sul ruolo che le norme sull’ingresso dei cittadini stranieri hanno all’interno del sistema costituzione.

Si è, in altre parole, posto un’indicazione sugli elementi che il Legislatore deve seguire affinché possa influire, mediante la disciplina immigratoria sopra i diritti fondamentali della persona.

Se, infatti, il Legislatore può definire le norme regolanti la situazione giuridica del cittadino extracomunitario, lo stesso Legislatore, nel dettare dette disposizioni, deve perseguire <<pur sempre il risultato di un ragionevole e proporzionale bilanciamento tra i diversi interessi, di rango costituzionale, implicati dalle scelte legislative … specialmente quando esse siano suscettibili di incidere sul godimento di diritti fondamentali, tra i quali rientra certamente il diritto a “contrarre matrimonio”>> (così nel punto 3.1 del Considerato in diritto).

Ma in che modo tutto ciò è concretamente possibile?

I criteri individuati dalla Consulta sono sostanzialmente due:

- la disciplina sull’ingresso e la permanenza degli stranieri nel territorio nazionale può giustificare una deroga al godimento di taluni diritti in capo agli stranieri, ma ciò non può avvenire per i diritti fondamentali dell’uomo tutelati dall’art. 2 cost., in quanto questi sono garantiti non già in funzione della situazione giuridica dello straniero con lo Stato ospitante, ma in ragione dell’umanità intrinseca dell’extracomunitario;

- in ogni caso, l’eventuale limitazione all’esercizio di diritti non può avvenire in maniera irragionevole e tale irragionevolezza, nel campo di cui si tratta, ben può essere riscontrata ogni qual volta il mezzo non risulta proporzionato rispetto ai fini e, dunque, quando il fine ben può essere in concreto perseguito mediante altri e diversi strumenti che non limitino di per sé l’esercizio di diritti fondamentali.

In sostanza, cittadino e straniero, nei loro rapporti con lo Stato, non possono essere del tutto equiparati; tuttavia, ogni qual volta vengono in gioco diritti umani fondamentali tale differenza viene meno e l’intervento del Legislatore, che pur voglia perseguire altre esigenze di rango costituzionale, non può semplicemente giustificare deroghe o limitazioni di diritti sulla necessità “astratta e formale” di tutelare detti altri interessi statali. Tale necessità derogatoria, infatti, va vagliata nel concreto e dovrà essere considerata illegittima se le esigenze sottese alle limitazioni legali possano essere perseguite con altri mezzi, id est con una diversa disciplina legale che non incida significativamente sul godimento dei predetti diritti.

Così ricostruito il sistema del bilanciamento dei valori in gioco posti a confronto con la questione di legittimità sollevata, l’eccezione di costituzionalità de qua non poteva che essere accolta.

L’esigenza “pubblica” di salvaguardare le frontiere ed i flussi migratori e, dunque, l’interesse ad impedire “matrimoni di comodo” non possono essere perseguiti semplicemente mediante la limitazione al matrimonio del clandestino.

Un simile meccanismo, infatti, risulta <<non proporzionato a tale obiettivo>> poiché in tal modo non si limita soltanto il diritto del clandestino a sposarsi, poiché il tutto si traduce anche <<in una compressione del corrispondente diritto del cittadino o della cittadina italiana che tale diritto intende esercitare>> (punto 3.1 del Considerato in diritto), laddove voglia coniugarsi con uno straniero.

Tanto più che, alla luce del sistema vigente, come ben ha notato la Corte costituzionale, l’esigenza di evitare “matrimoni di comodo” è posta alla base di altra disciplina e precisamente dell’art. 30 comma 1bis D. lgs. 286/1998, che prevede, nei casi e modi ivi contemplati, la revoca del permesso di soggiorno nel caso in cui dal matrimonio non sia conseguita effettiva convivenza ovvero il rigetto o la revoca del permesso di soggiorno nel caso in cui sia accertato che il matrimonio ha avuto lo scopo esclusivo di permettere allo straniero di soggiornare nel territorio italiano.

Del pari è evidente che la disciplina de qua risulta in contrasto con l’art. 117 comma 1 cost., attesa l’incompatibilità della stessa con i principi della CEDU ed in particolare con l’art. 12, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, che di recente – come bene ha ricordato la Consulta – con la sentenza 14 dicembre 2010 O’Donogue and Others vs The United Kingdom ha statuito che gli Stati membri non possono introdurre una limitazione automatica, generale ed indiscriminata ad un diritto garantito dalla Convenzione europea.

La normativa in questione, dunque, poiché introduce un generale ed ingiustificato divieto per il clandestino a contrarre matrimonio con un cittadino italiano, senza che sia prevista una verifica sulla genuinità del matrimonio, risulta per ciò stesso censurabile sul piano costituzionale.

3. Conclusioni: verso una nuova visione della famiglia dello straniero irregolare?

Matrimonio e famiglia legittima sono concetti interdipendenti ed, in un certo qual modo, inscindibili.

Con il matrimonio, una società naturale prende forma giuridica e diviene di per sé oggetto di tutela nell’ambito dello Stato: tutela che non può non prevedere quanto meno il diritto dei coniugi di vivere insieme.

Il dove e come vivere è oggetto di decisione comune ed è in linea di principio insindacabile.

Eppure esistono confini geografici e politici e questi non possono essere in alcun modo negati. Si pone così il serissimo problema della legittimità del superamento del limite posto dalla Sovranità statale.

Nella Costituzione italiana, così come in altre nobili Carte fondamentali, il diritto all’emigrazione del cittadino è espressamente riconosciuto (art 35 comma 4 cost.), così come il suo diritto al libero ingresso nella Repubblica (art. 16 comma 2 cost.).

Riguardo allo straniero, la disposizione cardine è data dall’art. 10 cost. che prevede il diritto di asilo politico ed il divieto di estradizione per reati politici. Fuori da questi casi, la fattispecie giuridica dello straniero si trasforma in atto amministrativo e, quindi, la possibilità all’ingresso dello straniero nello Stato riposa nelle scelte politiche del Governo, che ben può imporre limiti non solo formali ma anche sostanziali (id est quantitativi) sulle persone che possono entrare nel territorio sovrano.

Ma quid iuris nel caso in cui lo straniero si accompagni o viva di fatto con il proprio coniuge o con i propri figli minori in terra altrui?

Qui la situazione diviene assai più complessa, poiché da un lato vi è l’esigenza di garantire l’unità familiare, dall’altro vi è il dovere morale, prima ancora che giuridico, di tutelare gli interessi del minore a vivere con i propri genitori. >Sommario

Introduzione

1. La questione di legittimità sollevata

2. La decisione della Corte costituzionale

3. Conclusioni: verso una nuova visione della famiglia dello straniero irregolare?

Introduzione

L’amore italico non ha confini “giuridici”: la nazionalità estera dell’amato e persino la sua presenza irregolare sul territorio nostrano non possono, infatti, essere elementi capaci di giustificare una seria e generica limitazione della libertà a contrarre matrimonio in Italia con un cittadino italiano. E’ questo il principio che emerge dalla lettura della sentenza n. 245/2011 della Corte costituzionale in commento, con la quale si è dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 116 comma 1 c.c. limitatamente alle parole <<nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano>>.

Con tale decisione, dunque, si è escluso che il matrimonio tra cittadino ed extracomunitario possa essere subordinato al rilascio di un provvedimento amministrativo che comprovi la presenza regolare dello straniero sul suolo italico per una qualunque altra causa, cioè per ragioni che non siano connessi con l’esigenza matrimoniale.

Che un uomo ed una donna, benché di nazionalità diverse, possano sposarsi nel Paese di origine di uno dei coniugi dovrebbe essere l’espressione di un principio all’apparenza quasi ovvio, specie dopo l’abolizione delle leggi razziali e l’affermazione dei valori espressi nella Costituzione repubblicana e nelle Carte internazionali fondamentali all’esito della dolorosa Seconda guerra mondiale. La preservazione della stirpe e la tutela della purezza della razza nostrana sono profili che non possono in alcun modo ledere alcun bene giuridico, né essere posti a fondamento di questo o quell’istituto giuridico.

Del resto, discriminare le capacità matrimoniali in ragione della nazionalità di uno dei coniugi significa porre dei pesi giuridici fortissimi alla libertà personalissima di scelta della persona del proprio marito o della propria moglie sulla scorta di occasionali scelte politiche imposte d’imperio. Una simile opzione appare tanto più inaccettabile e moralmente da biasimare, oltre che giuridicamente incoerente con il principio di eguaglianza, quando la stessa è nei fatti collegata alla condizione di precarietà economica di uno dei coniugi, come avviene per lo più nei casi degli stranieri irregolarmente presenti sul territorio nazionale.

Lo Stato può certamente limitare le capacità matrimoniali, ma ciò nell’Evo contemporaneo, ammesso il principio dello Stato di diritto, non può avvenire per pure esigenze di sicurezza pubblica o di interesse di sovranità interna. Dette definizioni delle capacità, infatti, devono trovare una loro giustificazione proprio nella tutela della società naturale (art. 29 cost.) che si vuole costituire con il matrimonio. La tutela e la responsabilità della famiglia legittima, insomma, è il riferimento essenziale per la configurazione dell’istituto matrimoniale: ogni altro elemento è un di più che in tanto può sussistere in quanto non limiti sostanzialmente la libertà di scegliersi il proprio compagno o la propria compagna di vita.

Eppure, ogni tanto, sulla spinta emotiva di questo o quell’evento e sulla scia di ataviche paure dell’altro, la tesi antichissima, secondo cui – nell’interesse dell’integrità e sicurezza dello Stato - i cittadini hanno diritto di sposarsi solo con propri connazionali potendo solo eccezionalmente (id est, con il plauso del governo di turno) sposarsi con stranieri, può trovare il consenso anche di un Legislatore repubblicano e democratico. Ma un tale favore, per quanto autorevolmente sostenuto nelle aule parlamentari e dalle grida giornalistiche, se posto innanzi a seri valori, non può che perdere di consistenza ed essere ridotto a pura transitorietà e, quindi, condotto nel nulla giuridico.

Nella sentenza de qua, non si è affrontata la questione di legittimità facendo riferimento a concezioni filosofiche tra società “aperte” o “chiuse”, ma, assai più semplicemente ed efficacemente, facendo leva sulla natura del diritto al matrimonio del cittadino come diritto fondamentale della persona.

Gli argomenti espressi dalla Consulta, infatti, sono stati brevi ed efficaci, come altrettanto inequivocabili. La linea tracciata sul punto, per quanto semplice e semplicisticamente considerabile, è – a sommesso parere di chi scrive – in realtà estremamente importante poiché si pone nella linea di una rivoluzione nei valori e non solo nei contenuti formali dell’intera disciplina sull’immigrazione.

Non pare inutile, dunque, analizzare brevemente l’iter argomentativo della decisione, per poi vagliarne i riflessi pratici alla luce di una più ampia considerazione di sistema.

1. La questione di legittimità sollevata

Il Tribunale di Catania, chiamato a decidere sulla legittimità del diniego alle nozze opposto da un Ufficiale dello Stato civile alla celebrazione di un matrimonio tra una cittadina italiana ed un cittadino marocchino, ha sollevato la questione di legittimità dell’art. 116 primo comma c.c., così come modificato dall’art. 1 comma 15 Legge n. 94/2009 (recante Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) limitatamente alla parole <<nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano>>, poiché ritenuto in contrasto con gli artt. 2, 3, 29, 31 e 117 comma 1 cost..

Secondo la Corte di merito, infatti, detta disciplina limiterebbe il diritto al matrimonio, inteso come <<espressione di libertà e dell’autonomia della persona>>, tanto più che, così concepito, lo stesso rientrerebbe nei <<diritti inviolabili dell’uomo, caratterizzati in quanto tali dall’universalità>> (vedi nel punto 1.2 del Ritenuto in fatto della sentenza Corte costituzionale n. 245/2011 rinvenibile sul sito www.cortecostituzionale.it). Diritto fondamentale che peraltro troverebbe espressa tutela anche in alcune Carte internazionali di primaria importanza tra cui l’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e, soprattutto, nell’art. 12 della CEDU e nell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

In estrema sintesi, secondo il Tribunale territoriale siciliano se il Legislatore non può non dettare norme giuridiche sulle forme e sulle condizioni per contrarre matrimonio, lo stesso Legislatore non può imporre condizioni o restrizioni irragionevoli al matrimonio: la libertà è il principio, la limitazione è l’eccezione.

A tale impostazione si è opposta quella seguita dall’Avvocatura dello Stato, che ha invece insistito per una pronuncia di inammissibilità o comunque d’infondatezza della questione, posto che la disciplina oggetto di censura sarebbe pienamente ragionevole, poiché il requisito della regolarità del soggiorno soddisferebbe l’esigenza di garantire un presidio efficace alle frontiere ed un adeguato controllo dei flussi migratori (vedi punto 2.1 del Ritenuto in fatto).

Sotto questo profilo, quindi, il limite al matrimonio in oggetto lungi dall’essere irrazionale sarebbe connesso a fondamentali esigenze di sicurezza ed ordine pubblico, valori che si porrebbero – a detta dell’Avvocatura dello Stato – sopra un indubbio piano costituzionale e come tali capaci di poter limitare, senza escluderlo del tutto, il matrimonio tra cittadino e straniero.

2. La decisione della Corte costituzionale

La Corte costituzionale, innanzi alla questione sollevata, non ha cercato di affrontare il problema mediante escamotage, ma ha posto una serie di elementi assai chiari sul ruolo che le norme sull’ingresso dei cittadini stranieri hanno all’interno del sistema costituzione.

Si è, in altre parole, posto un’indicazione sugli elementi che il Legislatore deve seguire affinché possa influire, mediante la disciplina immigratoria sopra i diritti fondamentali della persona.

Se, infatti, il Legislatore può definire le norme regolanti la situazione giuridica del cittadino extracomunitario, lo stesso Legislatore, nel dettare dette disposizioni, deve perseguire <<pur sempre il risultato di un ragionevole e proporzionale bilanciamento tra i diversi interessi, di rango costituzionale, implicati dalle scelte legislative … specialmente quando esse siano suscettibili di incidere sul godimento di diritti fondamentali, tra i quali rientra certamente il diritto a “contrarre matrimonio”>> (così nel punto 3.1 del Considerato in diritto).

Ma in che modo tutto ciò è concretamente possibile?

I criteri individuati dalla Consulta sono sostanzialmente due:

- la disciplina sull’ingresso e la permanenza degli stranieri nel territorio nazionale può giustificare una deroga al godimento di taluni diritti in capo agli stranieri, ma ciò non può avvenire per i diritti fondamentali dell’uomo tutelati dall’art. 2 cost., in quanto questi sono garantiti non già in funzione della situazione giuridica dello straniero con lo Stato ospitante, ma in ragione dell’umanità intrinseca dell’extracomunitario;

- in ogni caso, l’eventuale limitazione all’esercizio di diritti non può avvenire in maniera irragionevole e tale irragionevolezza, nel campo di cui si tratta, ben può essere riscontrata ogni qual volta il mezzo non risulta proporzionato rispetto ai fini e, dunque, quando il fine ben può essere in concreto perseguito mediante altri e diversi strumenti che non limitino di per sé l’esercizio di diritti fondamentali.

In sostanza, cittadino e straniero, nei loro rapporti con lo Stato, non possono essere del tutto equiparati; tuttavia, ogni qual volta vengono in gioco diritti umani fondamentali tale differenza viene meno e l’intervento del Legislatore, che pur voglia perseguire altre esigenze di rango costituzionale, non può semplicemente giustificare deroghe o limitazioni di diritti sulla necessità “astratta e formale” di tutelare detti altri interessi statali. Tale necessità derogatoria, infatti, va vagliata nel concreto e dovrà essere considerata illegittima se le esigenze sottese alle limitazioni legali possano essere perseguite con altri mezzi, id est con una diversa disciplina legale che non incida significativamente sul godimento dei predetti diritti.

Così ricostruito il sistema del bilanciamento dei valori in gioco posti a confronto con la questione di legittimità sollevata, l’eccezione di costituzionalità de qua non poteva che essere accolta.

L’esigenza “pubblica” di salvaguardare le frontiere ed i flussi migratori e, dunque, l’interesse ad impedire “matrimoni di comodo” non possono essere perseguiti semplicemente mediante la limitazione al matrimonio del clandestino.

Un simile meccanismo, infatti, risulta <<non proporzionato a tale obiettivo>> poiché in tal modo non si limita soltanto il diritto del clandestino a sposarsi, poiché il tutto si traduce anche <<in una compressione del corrispondente diritto del cittadino o della cittadina italiana che tale diritto intende esercitare>> (punto 3.1 del Considerato in diritto), laddove voglia coniugarsi con uno straniero.

Tanto più che, alla luce del sistema vigente, come ben ha notato la Corte costituzionale, l’esigenza di evitare “matrimoni di comodo” è posta alla base di altra disciplina e precisamente dell’art. 30 comma 1bis D. lgs. 286/1998, che prevede, nei casi e modi ivi contemplati, la revoca del permesso di soggiorno nel caso in cui dal matrimonio non sia conseguita effettiva convivenza ovvero il rigetto o la revoca del permesso di soggiorno nel caso in cui sia accertato che il matrimonio ha avuto lo scopo esclusivo di permettere allo straniero di soggiornare nel territorio italiano.

Del pari è evidente che la disciplina de qua risulta in contrasto con l’art. 117 comma 1 cost., attesa l’incompatibilità della stessa con i principi della CEDU ed in particolare con l’art. 12, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, che di recente – come bene ha ricordato la Consulta – con la sentenza 14 dicembre 2010 O’Donogue and Others vs The United Kingdom ha statuito che gli Stati membri non possono introdurre una limitazione automatica, generale ed indiscriminata ad un diritto garantito dalla Convenzione europea.

La normativa in questione, dunque, poiché introduce un generale ed ingiustificato divieto per il clandestino a contrarre matrimonio con un cittadino italiano, senza che sia prevista una verifica sulla genuinità del matrimonio, risulta per ciò stesso censurabile sul piano costituzionale.

3. Conclusioni: verso una nuova visione della famiglia dello straniero irregolare?

Matrimonio e famiglia legittima sono concetti interdipendenti ed, in un certo qual modo, inscindibili.

Con il matrimonio, una società naturale prende forma giuridica e diviene di per sé oggetto di tutela nell’ambito dello Stato: tutela che non può non prevedere quanto meno il diritto dei coniugi di vivere insieme.

Il dove e come vivere è oggetto di decisione comune ed è in linea di principio insindacabile.

Eppure esistono confini geografici e politici e questi non possono essere in alcun modo negati. Si pone così il serissimo problema della legittimità del superamento del limite posto dalla Sovranità statale.

Nella Costituzione italiana, così come in altre nobili Carte fondamentali, il diritto all’emigrazione del cittadino è espressamente riconosciuto (art 35 comma 4 cost.), così come il suo diritto al libero ingresso nella Repubblica (art. 16 comma 2 cost.).

Riguardo allo straniero, la disposizione cardine è data dall’art. 10 cost. che prevede il diritto di asilo politico ed il divieto di estradizione per reati politici. Fuori da questi casi, la fattispecie giuridica dello straniero si trasforma in atto amministrativo e, quindi, la possibilità all’ingresso dello straniero nello Stato riposa nelle scelte politiche del Governo, che ben può imporre limiti non solo formali ma anche sostanziali (id est quantitativi) sulle persone che possono entrare nel territorio sovrano.

Ma quid iuris nel caso in cui lo straniero si accompagni o viva di fatto con il proprio coniuge o con i propri figli minori in terra altrui?

Qui la situazione diviene assai più complessa, poiché da un lato vi è l’esigenza di garantire l’unità familiare, dall’altro vi è il dovere morale, prima ancora che giuridico, di tutelare gli interessi del minore a vivere con i propri genitori.

In una simile situazione la Società statale, come ente morale, si può contrapporre con quella naturale della famiglia: lo Stato può ritenere necessario che lo straniero, per poter permanere e vivere con la propria famiglia, sia di per sé regolare, cioè che abbia avuto un titolo legittimo all’ingresso, e soddisfi una serie di requisiti formali, che nel caso concreto ben possono mancare. In estrema sintesi, lo Stato può considerare il fenomeno familiare dello straniero “irregolare” come del tutto irrilevante e privo di pregio giuridico.

Ma la tutela dell’unità familiare può sempre essere subordinata alla politica migratoria del momento?

La risposta che viene dalla sentenza in commento è certamente negativa e ciò, al di là di ogni considerazione, non può che essere salutato con soddisfazione, poiché si riafferma il valore preminente della famiglia rispetto alle esigenze assai astratte e vaghe di sicurezza pubblica.

Si potrebbe, peraltro, ritenere che la decisione de qua non possa essere presa a parametro per elevare a regola una eccezione e che dunque sia da escludere un generale diritto dello straniero “irregolare” di vivere nel territorio italiano con la propria famiglia.

Ciò è vero, ma avuto riguardo alla casistica, un simile rilievo perde molto della sua importanza.

A ben vedere, infatti, esistono nel sistema ordinario ed internazionale altre norme, prima fra tutte l’art. 31 comma 3 D. lgs. 286/1998, che sono il riflesso di principi giuridici universali, che tutelano direttamente la famiglia straniera irregolare: l’esigenza di garantire l’unità familiare nell’interesse del minore può giustificare la regolarizzazione del genitore “clandestino”.

Privo di una vera e propria tutela giuridica, dunque, è allo stato solo il clandestino che viva senza prole in Italia, sempre che non vi sia in atto un concepimento di un bambino.

Fuori da questo caso, vi è sempre la possibilità di una regolarizzazione del clandestino, ove questi conviva con il coniuge (italiano) o con i propri figli (italiani e non) presenti in Italia.

Se poi si guarda al caso dello straniero regolarmente soggiornante, i diritti al ricongiungimento familiare sono espressamente riconosciuti e tutelati.

Ecco che allora, cadendo il divieto di nozze tra italiano e clandestino, il diritto al matrimonio ed il conseguente riconoscimento della famiglia legittima dell’irregolare sono stati definitivamente consacrati e per ciò stesso sono diventati essenziali oggetti di riferimento normativo per la disciplina sull’immigrazione, che è sì un fenomeno economico ma è un fenomeno anche ed essenzialmente legato ad esigenze familiari e di vita.

La decisione in commento, in definitiva, più che abolire un divieto, che nel concreto operare è apparso più e più volte certamente odioso e privo di ragionevolezza, ha concorso, seppur indirettamente ma in maniera assai significativa, nell’affermazione di un principio: nella disciplina dell’ingresso e della permanenza degli stranieri, lo Stato italiano non può più non considerare i riflessi che le norme hanno o possono avere sulla tutela della famiglia in sé e per sé, quale che sia la nazionalità dei coniugi o dei figli e quale che sia la loro situazione di regolarità formale sul territorio italiano.

Ed un tale principio, almeno a parere di chi scrive, non pare davvero poca ed inutile cosa.