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I contratti del consumatore: linee generali della disciplina normativa

INTRODUZIONE

Oggi possiamo con certezza affermare l’esistenza di un diritto dei consumatori, diverso dal diritto privato generale, cioè dalla disciplina ordinaria contenuta nel codice civile, e questo sia per la fonte, che per i contenuti.

Le ragioni che hanno portato al consolidamento di questo corpus di norme sono essenzialmente storico-politiche. Il diritto dei consumatori, infatti, è un diritto di genesi comunitaria: non stupisce perciò che la tutela dei consumatori sia uno dei pilastri del trattato di Maastricht. D’altra parte, se vi è un mercato unico, vi deve essere anche una regolamentazione sostanzialmente omogenea negli Stati dell’Unione delle norme a protezione dei consumatori, senza la quale diverrebbe troppo complesso ed oneroso per le imprese, districarsi tra le varie discipline nazionali, e ci sarebbe un problema di eguaglianza tra i cittadini dell’Unione.

A partire dagli anni ottanta, dunque, la legislazione europea (regolamenti e, soprattutto, direttive) ha iniziato ad occuparsi dei consumatori, categoria studiata dall’analisi economica, negli anni cinquanta e sessanta, negli Stati Uniti. Le varie Direttive, emanate dal 1985 al 2000, si sono progressivamente occupate di pressoché tutti gli aspetti del contratto del consumatore e si sono stratificate, formando un vero e proprio corpus normativo: mentre infatti alcune si sono occupate del contratto del consumatore in generale; altre hanno disciplinato singoli specifici contratti dei consumatori che presentassero caratteristiche peculiari.

Il nostro ordinamento ha recepito le varie Direttive, via via che venivano emanate, con leggi speciali, ed il moltiplicarsi dei testi di legge ha determinato crescenti difficoltà di coordinamento e pronto reperimento della disciplina normativa da applicare.

Per riorganizzare la materia, dunque, il Legislatore, nel 2005, ha emanato il c.d. Codice del consumo (Dlgs. 6 settembre 2005 n. 206).

IL COORDINAMENTO TRA CODICE DEL CONSUMO E CODICE CIVILE

Il primo problema che si pone all’attenzione dell’interprete è quello del rapporto tra la disciplina del contratto in generale, come prevista nel Codice Civile, e quella delineata dal Codice dl consumo per il contratto del consumatore: la dottrina ha tuttavia ormai chiarito che la corretta risposta a questo interrogativo è che il contratto del consumatore deve considerarsi solo una peculiare tipologia di negozio a cui si applica, pertanto, oltre alla disciplina generale del contratto, quella speciale prevista dal Codice dl consumo per i contratti conclusi dai consumatori.

Non deve trascurarsi di osservare, tuttavia, che il coordinamento non è sempre facile, perchè la logica sottesa alle disposizioni del Codice Civile e quella che sta dietro al Codice del consumo sono antitetiche: per il Codice Civile, infatti, il contratto è un accordo tra soggetti che sono pari tra loro; le Direttive europee ed il Codice del consumo che le ha recepite partono invece da una concezione di disequilibrio nel rapporto contrattuale tra professionista (l’imprenditore) e consumatore (il cliente), in cui la posizione debole di quest’ultimo giustifica la protezione che la legge gli accorda. Questo può creare delle discrasie e dei conflitti tra i rimedi del Codice del consumo e quelli del Codice Civile, che sono oggetto di riflessione in dottrina e costituiscono materia di lavoro per la giurisprudenza.

L’AMBITO SOGGETTIVO

Passando più nel dettaglio ad esaminare il contratto del consumatore, è d’uopo preliminarmente precisarne l’ambito soggettivo.

I contratti di cui ragioniamo, infatti, sono solo quelli conclusi tra due parti soggettivamente qualificate: uno dei soggetti deve essere un professionista (cioè un soggetto che vende beni o servizi sul mercato nell’esercizio di una attività professionale di cui non rilevano le dimensioni: caso classico l’imprenditore); l’altro soggetto deve essere un consumatore o utente (cioè un soggetto che compra il bene o utilizza il servizio al di fuori di una attività professionale, per soddisfare un proprio bisogno esistenziale).

La definizione dei soggetti interessati dal contratto è quindi ancorata ad un dato finalistico e imperniata sullo scopo perseguito dai soggetti. In particolare quello del consumatore deve essere assolutamente estraneo all’impresa o professione che eventualmente svolge.

LA TUTELA

In secondo luogo, bisogna soffermare l’attenzione sull’articolo 2 del Codice dl Consumo, in cui vengono elencati, quasi alla stregua di un “bill of rights”, i diritti del consumatore, ed in cui accanto a diritti come la sicurezza, l’adeguata informazione, la pubblicità, importanti ma non rivoluzionari, il comma 2 dell’articolo 2 individua diritti che hanno un fortissimo impatto sui tradizionali principi che hanno da sempre ispirato il diritto privato generale. Più precisamente alla lettera e) si legge che ai consumatori ed agli utenti sono riconosciuti come diritti fondamentali la correttezza, la trasparenza e l’equità nei rapporti contrattuali: la qual cosa pone il problema di definire più compiutamente a cosa alluda il termine “equità”.

L’equità che ha in mente il legislatore del Codice del consumo non ha certo a che fare con il prezzo praticato al consumatore: sotto questo aspetto l’autonomia privata non può essere limitata, neppure nel contratto del consumatore. Come la dottrina ha ormai chiarito equità nei rapporti contrattuali non significa che questi contratti debbano riportare prezzi “giusti”, ma significa piuttosto che il rapporto contrattuale di cui il consumatore è protagonista, non deve essere disequilibrato, non dal punto di vista economico, ma dal punto di vista della regolamentazione, cioè del così detto equilibrio normativo. Si ha disequilibrio normativo nella situazione in cui il consumatore è svantaggiato perché alcune clausole del contratto gli addossano rischi, gli impediscono di esercitare diritti o rimedi, in una parola lo penalizzano dal punto di vista del regolamento contrattuale.

L’attenzione si sposta, quindi, a questo punto, sull’articolo 33 del Codice del consumo, che si occupa delle clausole abusive nei contratti del consumatore. Nella pratica il consumatore non negozia le clausole del contratto ma decide se aderire o meno ad un regolamento contrattuale che è predisposto dal professionista (ed è normale che sia così perché l’impresa ha bisogno di contratti standardizzati). Il Codice del consumo pone allora dei paletti circa le clausole che l’imprenditore può legittimamente inserire nel contratto, conservando un equilibrio normativo tra le parti sanzionando le clausole abusive (ovvero vessatorie): quelle clausole cioè che penalizzano in modo intollerabile il consumatore.

L’art. 33 co 1 precisa al proposito che sono vessatorie le clausole che, contrariamente alla buona fede (cioè ledendo il principio di correttezza contrattuale), determina a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto . Poiché, però, una definizione così ampia potrebbe dare incertezze nella tutela, il secondo comma dell’art. 33 elenca anche una serie di clausole presuntivamente vessatorie.

La sanzione prevista per le clausole abusive è la nullità (parziale, relativa). La nullità è parziale perché colpisce solo la clausola vessatoria e non tutto il contratto. E’ poi relativa, perché la nullità della clausola può essere fatta valere solo dal consumatore o può essere rilevata d’ufficio dal giudice a suo vantaggio (c.d. nullità di protezione).

Il professionista può vincere la presunzione del secondo comma dell’articolo 33, solo dimostrando che la clausola stessa è stata oggetto di una trattativa contrattuale tra professionista e consumatore, e per evitare abusi, la giurisprudenza ha chiarito che non è sufficiente per la prova che effettivamente vi è stata una trattativa, la dichiarazione in tal senso sottoscritta dal consumatore.

Vi sono tuttavia delle categorie di clausole che la legge considera nulle in ogni caso. In queste ipotesi, pertanto, il professionista non potrà essere mai ammesso alla prova contraria, che cioè non generano uno squilibrio tra i diritti ed i doveri delle parti.

Il Codice del consumo pertanto individua due tipi di clausole vessatorie:

a) quelle che si reputano vessatorie (e quindi nulle) fino a prova contraria;

b) quelle che si reputano sempre e comunque nulle.

Il giudice, comunque, nel valutare se una clausola sia o meno vessatoria nel senso precisato, incontra pur sempre i limiti di cui all’art. 34 del Codice del consumo, che stabilisce che “…la valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell’oggetto del contratto, né all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile…”: ciò implica che se i predetti elementi (l’oggetto del contratto e l’adeguatezza del corrispettivo) non possono essere utilizzati per compiere l’accertamento circa l’idoneità delle singole pattuizioni a generare lo squilibrio contrattuale indicato dall’art. 33, comma I, ma anche che se tali elementi non sono individuati in "modo chiaro e comprensibile" la valutazione della vessatorietà della clausola potrà riguardare anche l’oggetto ed il corrispettivo.

Non possono mai essere considerate vessatorie le clausole che riproducono disposizioni di legge ovvero che siano riproduttive di disposizioni o attuative di princìpi contenuti in convenzioni internazionali delle quali siano parti contraenti tutti gli Stati membri dell’Unione europea o l’Unione europea. Una serie di eccezioni all’elencazione di cui all’art. 33, comma II, Codice del consumo, sono poi previste nei commi 3-6 del medesimo articolo.

LA CHIAREZZA E LA TRASPARENZA NEI CONTRATTI DEL CONSUMATORE

Il Codice del consumo prevede altresì che le clausole del contratto debbano essere redatte in modo chiaro e comprensibile (articolo 35): la norma però non prevede una sanzione specifica per la violazione di questo precetto. Si applicherà allora il principio (articolo 35 comma 2) della interpretatio contra stipulatorem , per cui, in caso di dubbio, la clausola andrà interpretata nel senso più favorevole al consumatore e contro il professionista, che è colui che predispone il contratto (si veda l’articolo 1367 cc.).

LA TUTELA COLLETTIVA

I consumatori possono agire anche collettivamente contro le clausole vessatorie, per chiedere che il giudice disponga la cancellazione delle clausole abusive da tutti i contratti dell’imprenditore/professionista.

Le associazioni dei consumatori (dei professionisti e le camere di commercio) possono infatti convenire in giudizio, anche con procedure d’urgenza, il professionista (o l’associazione di professionisti) che utilizzano condizioni generali di contratto abusive e richiedere al giudice che inibisca l’uso delle clausole abusive o vessatorie.Della sentenza di condanna può essere ordinata la pubblicazione in uno o più giornali, di cui uno almeno a diffusione nazionale.

I BENI DI CONSUMO

Oltre a queste regole generali valevoli per tutti i contratti del consumatore, nel Codice del consumo vi è anche una sorta di parte speciale, che si occupa di singoli contratti che presentano proprie peculiarità.

Più in particolare, il Legislatore, consapevole dell’inadeguatezza della disciplina codicistica dettata con riferimento ai contratti di vendita, appalto, somministrazione ecc., è intervenuto con il D.Lgs 2.2.2002, n. 24 che ha introdotto gli artt. 1519 bis e ss. del c.c., il cui contenuto è stato in seguito trasfuso, con qualche adattamento, nel Codice del consumo che oggi è la fonte di riferimento applicabile.

Il Capo I del Titolo III del Codice del consumo, infatti, prevede infatti particolari garanzie per il consumatore che acquisti beni di consumo . Più precisamente, la legge stabilisce (art. 129) che il venditore ha l’obbligo di consegnare al consumatore un bene conforme al contratto stipulato e la conformità del bene si presume se ricorrono alcuni requisiti specificamente indicati dalla legge stessa, è cioè se i beni:

- sono idonei all’uso al quale servono abitualmente beni dello stesso tipo;

- sono conformi alla descrizione fatta dal venditore e possiedono le qualità del bene che il venditore ha presentato al consumatore come campione o modello;

- presentano la qualità e le prestazioni abituali di un bene dello stesso tipo, che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi, tenuto conto della natura del bene e, se del caso, delle dichiarazioni pubbliche sulle caratteristiche specifiche dei beni fatte al riguardo dal venditore, dal produttore o dal suo agente o rappresentante, in particolare nella pubblicità o sull’etichettatura;

- sono idonei all’uso particolare voluto dal consumatore e che sia stato da questi portato a conoscenza del venditore al momento della conclusione del contratto e che il venditore abbia accettato anche per fatti concludenti (cioè attraverso un comportamento che inequivocabilmente manifesti la volontà di accettare tale esigenza).

Se il consumatore era a conoscenza del difetto oppure non poteva ignorarlo usando l’ordinaria diligenza (oppure se il difetto deriva da istruzioni o materiali forniti dal consumatore stesso) non trova applicazione la tutela prevista dal Codice del consumo (art. 129). Qualora per converso sia accertato il difetto di conformità spettano al consumatore una serie di rimedi: potrà chiedere la riparazione o la sostituzione del bene , una riduzione del prezzo oppure la risoluzione del contratto.

La responsabilità del venditore (e più in generale del fornitore del bene o del servizio) sussiste se il difetto di conformità si manifesta entro due anni dalla vendita del bene stesso. In ogni caso (come previsto dalla disciplina generale del contratto di vendita) i difetti di conformità devono essere denunciati dal consumatore entro due mesi dalla scoperta, a meno che il venditore non abbia riconosciuto l’esistenza dello stesso oppure lo abbia tenuto nascosto.

Per denuncia si intende la contestazione rivolta al venditore del lamentato difetto: se non è effettua entro il termine stabilito dalla legge si decade dalla garanzia (art. 132) e non è dunque più possibile valersi delle tutele predisposte dalla legge.

In ogni caso l’azione per ottenere la garanzia deve essere esperita nel termine di ventisei mesi dalla consegna del bene, pena l’estinzione del diritto per prescrizione (art. 132, comma IV).

Talvolta il venditore (o il fornitore del servizio), offre una ulteriore garanzia di natura convenzionale, più estesa di quella legale , che si denomina “convenzionale” (per distinguerla appunto da quella legale), che “…vincola chi la offre secondo le modalità indicate nella dichiarazione di garanzia medesima o nella relativa pubblicità…” (art. 133).

Questa garanzia dovrà essere data per iscritto o su altro supporto duraturo accessibile al consumatore e dovrà indicare:

- la specificazione che il consumatore è titolare dei diritti previsti dal Codice del consumo e che la garanzia medesima lascia impregiudicati tali diritti;

- in modo chiaro e comprensibile l’oggetto della garanzia e gli elementi essenziali necessari per farla valere, compresi la durata e l’estensione territoriale della garanzia, nonché il nome o la ditta e il domicilio o la sede di chi la offre.

In ogni caso la garanzia che non risponde a questi requisiti rimane comunque valida e il consumatore può continuare ad avvalersene ed esigerne l’applicazione.

CONTRATTI CONCLUSI FUORI DAI LOCALI COMMERCIALI E CONTRATTI A DISTANZA

Da tempo, anche nel nostro paese, le tecniche commerciali si sono affinate divenendo più aggressive: oggi vengono stipulati contratti invadendo con la proposta commerciale la sfera privata del consumatore, o sorprendendolo mentre è per strada o è occupato in altre faccende.

Per offrire una tutela compiuta al consumatore da contratti indesiderati, dovuti all’espressione di un consenso non sufficientemente ponderato, il nostro ordinamento si era dotato di due provvedimenti normativi:

- il Dlgs. 15.1.1992 n. 50 che ha disciplinato i c.d. contratti conclusi fuori dai locali commerciali;

- il Dlgs. 22.5.1999 n. 185 sui contratti a distanza.

I principi contenuti in questi due testi sono poi confluiti (con alcune non trascurabili modifiche) nel Codice del consumo.

Rientrano nella categoria dei contratti negoziati fuori dai locali commerciali quelli stipulati:

- durante la visita al domicilio del consumatore (o di un altro consumatore ovvero sul posto di lavoro del consumatore o nei locali nei quali il consumatore si trovi, anche temporaneamente, per motivi di lavoro, di studio o di cura);

- durante una escursione organizzata al di fuori dei propri locali commerciali;

- in area pubblica o aperta al pubblico, mediante la sottoscrizione di una nota d’ordine, a prescindere dalla denominazione di quest’ultima;

- per corrispondenza o, comunque, in base ad un catalogo che il consumatore ha avuto modo di consultare senza la presenza del professionista.

Rientrano invece nella categoria dei contratti a distanza quelli che hanno ad oggetto beni o servizi e che sono stati stipulati nell’ambito di un sistema di vendita o di prestazione di servizi a distanza organizzato dal professionista che, per tale contratto, impiega esclusivamente una o più tecniche di comunicazione a distanza fino alla conclusione del contratto, compresa la conclusione del contratto stesso (ad esempio quelli conclusi con gli operatori telefonici di call center oppure i contratti conclusi via internet).

Affinché operino le garanzie previste dal Codice del Consumo, tuttavia, è sempre necessario che si tratti di contratti conclusi tra un professionista e un consumatore.

Sia in ambito di contratti a distanza che di contratti conclusi fuori dai locali commerciali, il principale strumento di tutela offerto al consumatore è rappresentato dal diritto di recesso o ius poenitendi (artt. 64 e ss. del Codice del consumo), che consiste nella facoltà, accordata esclusivamente al consumatore, di sottrarsi unilateralmente e senza dover fornire alcuna spiegazione, agli impegni contrattuali, mediante una dichiarazione scritta da inviare al professionista a mezzo lettera raccomandata nel termine di dieci giorni lavorativi. La comunicazione può essere inviata, entro lo stesso termine, anche mediante telegramma, telex, posta elettronica e fax, a condizione che sia confermata mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento entro le quarantotto ore successive. Il termine di dieci giorni lavorativi ha poi una decorrenza diversa a seconda del tipo di contratto sottoscritto.

La legge impone al professionista un onere di informazione al consumatore su quelli che sono i suoi diritti, che è evidentemente strumentale al libero esercizio del recesso da parte di quest’ultimo.

Il professionista, infatti, prima della conclusione del contratto, deve informare il consumatore delle caratteristiche del contratto (contenuto economico, caratteristiche del bene o servizio, etc.), ma soprattutto, quando il contratto si sia concluso fuori dai locali commerciali, ovvero quando il contratto si sia concluso attraverso una tecnica di comunicazione a distanza (telefono, fax, internet, etc), deve avvisare il consumatore del diritto di recedere entro 10 giorni dalla conclusione de contratto.

Nel caso in cui il professionista non abbia soddisfatto questo gli obbligo informativo (artt. 47 e 52 del Codice del consumo), il termine di dieci giorni diviene:

- di sessanta giorni per i contratti conclusi fuori dai locali commerciali;

- di novanta giorni per i contratti a distanza.

I predetti termini decorrono:

- per i beni, dal giorno del loro ricevimento da parte del consumatore;

- per i servizi, dal giorno della conclusione del contratto .

Inoltre, sempre nei contratti conclusi fuori dei locali commerciali o a distanza, il professionista deve dare copia al consumatore del contratto, che, dunque, deve essere scritto. Tale obbligo non è però specificamente sanzionato.

IL COMMERCIO ELETTRONICO

Una disciplina speciale, collocata fuori dal Codice del consumo, è dedicata ai contratti del commercio elettronico (Dlgs 70/2003, attuativo della Dir. 2000/31/CE), particolarmente insidiosi per le particolari modalità con cui viene espresso il consenso.

Anche per i contratti del commercio elettronico, essendo contratti a distanza, è previsto il recesso di pentimento il cui termine decorre dalla conclusione del contratto, ma vi sono ulteriori diritti legati al particolare ambiente telematico. L’articolo 13 del Dlgs 70/2003, infatti, prevede che al consumatore debba essere recapitata per via telematica una copia dell’ordine che lui ha inviato, e che il contratto si conclude solo nel momento in cui tale ricezione sia avvenuta. Ciò al fine di rendere edotto il consumatore del significato giuridico di ciò che ha fatto e permettergli eventualmente il recesso (nella conferma dell’ordine ci deve essere infatti l’informativa sul recesso e il riepilogo delle condizioni del contratto).

CENNO AI CONTRATTI ASIMMETRICI

Bisogna, a questo punto, dare conto del fatto che, oggi, non è solo il consumatore a poter essere parte debole del contratto. Vi sono infatti degli imprenditori “deboli” (perché ad esempio fornitori di beni che hanno un unico cliente, la grossa impresa) a cui la dottrina che studia i contratti asimmetrici si domanda se si possano estendere le tutele previste per il consumatore. Mentre a livello europeo, infatti, esiste solo una normativa di tutela del consumatore, il legislatore italiano con la normativa sulla subfornitura (L. 192/98), sembra aver preso una direzione diversa: vuole infatti fornire protezione ad un imprenditore (il subfornitore) che lavora con un altro imprenditore (il committente), ma si trova rispetto a quest’ultimo in una situazione di debolezza economica (esempio l’imprenditore che produce un pezzo dei tergicristalli della ditta automobilistica X, lavorando su un progetto elaborato dall’impresa automobilistica, con i tempi da questa dettati e per i quantitativi richiesti: se la X smette di lavorare con lui, deve chiudere), perché non ha alternative di mercato. Vi è infatti una disposizione della legge, l’articolo 9, che prevede il divieto di abuso di dipendenza economica, cioè dell’approfittamento che la parte forte faccia della situazione di debolezza del subfornitore: sicché il subfornitore può chiedere che sia dichiarata la nullità delle clausole contrattuali che concretizzino un abuso di dipendenza economica, e comunque il risarcimento del danno.

Su questo articolo 9, pertanto, dottrina e giurisprudenza hanno avviato una seria riflessione: nel panorama normativo è infatti riconosciuta una nuova categoria di soggetti deboli, i subfornitori, appunto, che si affianca a quella tradizionale dei consumatori.

Di fatto le norme a tutela degli imprenditori deboli si sono moltiplicate a partire dalla L. 192: ad esempio nel 2004 è stata emanata una analoga normativa protettiva nell’ambito del franchising.

INTRODUZIONE

Oggi possiamo con certezza affermare l’esistenza di un diritto dei consumatori, diverso dal diritto privato generale, cioè dalla disciplina ordinaria contenuta nel codice civile, e questo sia per la fonte, che per i contenuti.

Le ragioni che hanno portato al consolidamento di questo corpus di norme sono essenzialmente storico-politiche. Il diritto dei consumatori, infatti, è un diritto di genesi comunitaria: non stupisce perciò che la tutela dei consumatori sia uno dei pilastri del trattato di Maastricht. D’altra parte, se vi è un mercato unico, vi deve essere anche una regolamentazione sostanzialmente omogenea negli Stati dell’Unione delle norme a protezione dei consumatori, senza la quale diverrebbe troppo complesso ed oneroso per le imprese, districarsi tra le varie discipline nazionali, e ci sarebbe un problema di eguaglianza tra i cittadini dell’Unione.

A partire dagli anni ottanta, dunque, la legislazione europea (regolamenti e, soprattutto, direttive) ha iniziato ad occuparsi dei consumatori, categoria studiata dall’analisi economica, negli anni cinquanta e sessanta, negli Stati Uniti. Le varie Direttive, emanate dal 1985 al 2000, si sono progressivamente occupate di pressoché tutti gli aspetti del contratto del consumatore e si sono stratificate, formando un vero e proprio corpus normativo: mentre infatti alcune si sono occupate del contratto del consumatore in generale; altre hanno disciplinato singoli specifici contratti dei consumatori che presentassero caratteristiche peculiari.

Il nostro ordinamento ha recepito le varie Direttive, via via che venivano emanate, con leggi speciali, ed il moltiplicarsi dei testi di legge ha determinato crescenti difficoltà di coordinamento e pronto reperimento della disciplina normativa da applicare.

Per riorganizzare la materia, dunque, il Legislatore, nel 2005, ha emanato il c.d. Codice del consumo (Dlgs. 6 settembre 2005 n. 206).

IL COORDINAMENTO TRA CODICE DEL CONSUMO E CODICE CIVILE

Il primo problema che si pone all’attenzione dell’interprete è quello del rapporto tra la disciplina del contratto in generale, come prevista nel Codice Civile, e quella delineata dal Codice dl consumo per il contratto del consumatore: la dottrina ha tuttavia ormai chiarito che la corretta risposta a questo interrogativo è che il contratto del consumatore deve considerarsi solo una peculiare tipologia di negozio a cui si applica, pertanto, oltre alla disciplina generale del contratto, quella speciale prevista dal Codice dl consumo per i contratti conclusi dai consumatori.

Non deve trascurarsi di osservare, tuttavia, che il coordinamento non è sempre facile, perchè la logica sottesa alle disposizioni del Codice Civile e quella che sta dietro al Codice del consumo sono antitetiche: per il Codice Civile, infatti, il contratto è un accordo tra soggetti che sono pari tra loro; le Direttive europee ed il Codice del consumo che le ha recepite partono invece da una concezione di disequilibrio nel rapporto contrattuale tra professionista (l’imprenditore) e consumatore (il cliente), in cui la posizione debole di quest’ultimo giustifica la protezione che la legge gli accorda. Questo può creare delle discrasie e dei conflitti tra i rimedi del Codice del consumo e quelli del Codice Civile, che sono oggetto di riflessione in dottrina e costituiscono materia di lavoro per la giurisprudenza.

L’AMBITO SOGGETTIVO

Passando più nel dettaglio ad esaminare il contratto del consumatore, è d’uopo preliminarmente precisarne l’ambito soggettivo.

I contratti di cui ragioniamo, infatti, sono solo quelli conclusi tra due parti soggettivamente qualificate: uno dei soggetti deve essere un professionista (cioè un soggetto che vende beni o servizi sul mercato nell’esercizio di una attività professionale di cui non rilevano le dimensioni: caso classico l’imprenditore); l’altro soggetto deve essere un consumatore o utente (cioè un soggetto che compra il bene o utilizza il servizio al di fuori di una attività professionale, per soddisfare un proprio bisogno esistenziale).

La definizione dei soggetti interessati dal contratto è quindi ancorata ad un dato finalistico e imperniata sullo scopo perseguito dai soggetti. In particolare quello del consumatore deve essere assolutamente estraneo all’impresa o professione che eventualmente svolge.

LA TUTELA

In secondo luogo, bisogna soffermare l’attenzione sull’articolo 2 del Codice dl Consumo, in cui vengono elencati, quasi alla stregua di un “bill of rights”, i diritti del consumatore, ed in cui accanto a diritti come la sicurezza, l’adeguata informazione, la pubblicità, importanti ma non rivoluzionari, il comma 2 dell’articolo 2 individua diritti che hanno un fortissimo impatto sui tradizionali principi che hanno da sempre ispirato il diritto privato generale. Più precisamente alla lettera e) si legge che ai consumatori ed agli utenti sono riconosciuti come diritti fondamentali la correttezza, la trasparenza e l’equità nei rapporti contrattuali: la qual cosa pone il problema di definire più compiutamente a cosa alluda il termine “equità”.

L’equità che ha in mente il legislatore del Codice del consumo non ha certo a che fare con il prezzo praticato al consumatore: sotto questo aspetto l’autonomia privata non può essere limitata, neppure nel contratto del consumatore. Come la dottrina ha ormai chiarito equità nei rapporti contrattuali non significa che questi contratti debbano riportare prezzi “giusti”, ma significa piuttosto che il rapporto contrattuale di cui il consumatore è protagonista, non deve essere disequilibrato, non dal punto di vista economico, ma dal punto di vista della regolamentazione, cioè del così detto equilibrio normativo. Si ha disequilibrio normativo nella situazione in cui il consumatore è svantaggiato perché alcune clausole del contratto gli addossano rischi, gli impediscono di esercitare diritti o rimedi, in una parola lo penalizzano dal punto di vista del regolamento contrattuale.

L’attenzione si sposta, quindi, a questo punto, sull’articolo 33 del Codice del consumo, che si occupa delle clausole abusive nei contratti del consumatore. Nella pratica il consumatore non negozia le clausole del contratto ma decide se aderire o meno ad un regolamento contrattuale che è predisposto dal professionista (ed è normale che sia così perché l’impresa ha bisogno di contratti standardizzati). Il Codice del consumo pone allora dei paletti circa le clausole che l’imprenditore può legittimamente inserire nel contratto, conservando un equilibrio normativo tra le parti sanzionando le clausole abusive (ovvero vessatorie): quelle clausole cioè che penalizzano in modo intollerabile il consumatore.

L’art. 33 co 1 precisa al proposito che sono vessatorie le clausole che, contrariamente alla buona fede (cioè ledendo il principio di correttezza contrattuale), determina a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto . Poiché, però, una definizione così ampia potrebbe dare incertezze nella tutela, il secondo comma dell’art. 33 elenca anche una serie di clausole presuntivamente vessatorie.

La sanzione prevista per le clausole abusive è la nullità (parziale, relativa). La nullità è parziale perché colpisce solo la clausola vessatoria e non tutto il contratto. E’ poi relativa, perché la nullità della clausola può essere fatta valere solo dal consumatore o può essere rilevata d’ufficio dal giudice a suo vantaggio (c.d. nullità di protezione).

Il professionista può vincere la presunzione del secondo comma dell’articolo 33, solo dimostrando che la clausola stessa è stata oggetto di una trattativa contrattuale tra professionista e consumatore, e per evitare abusi, la giurisprudenza ha chiarito che non è sufficiente per la prova che effettivamente vi è stata una trattativa, la dichiarazione in tal senso sottoscritta dal consumatore.

Vi sono tuttavia delle categorie di clausole che la legge considera nulle in ogni caso. In queste ipotesi, pertanto, il professionista non potrà essere mai ammesso alla prova contraria, che cioè non generano uno squilibrio tra i diritti ed i doveri delle parti.

Il Codice del consumo pertanto individua due tipi di clausole vessatorie:

a) quelle che si reputano vessatorie (e quindi nulle) fino a prova contraria;

b) quelle che si reputano sempre e comunque nulle.

Il giudice, comunque, nel valutare se una clausola sia o meno vessatoria nel senso precisato, incontra pur sempre i limiti di cui all’art. 34 del Codice del consumo, che stabilisce che “…la valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell’oggetto del contratto, né all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile…”: ciò implica che se i predetti elementi (l’oggetto del contratto e l’adeguatezza del corrispettivo) non possono essere utilizzati per compiere l’accertamento circa l’idoneità delle singole pattuizioni a generare lo squilibrio contrattuale indicato dall’art. 33, comma I, ma anche che se tali elementi non sono individuati in "modo chiaro e comprensibile" la valutazione della vessatorietà della clausola potrà riguardare anche l’oggetto ed il corrispettivo.

Non possono mai essere considerate vessatorie le clausole che riproducono disposizioni di legge ovvero che siano riproduttive di disposizioni o attuative di princìpi contenuti in convenzioni internazionali delle quali siano parti contraenti tutti gli Stati membri dell’Unione europea o l’Unione europea. Una serie di eccezioni all’elencazione di cui all’art. 33, comma II, Codice del consumo, sono poi previste nei commi 3-6 del medesimo articolo.

LA CHIAREZZA E LA TRASPARENZA NEI CONTRATTI DEL CONSUMATORE

Il Codice del consumo prevede altresì che le clausole del contratto debbano essere redatte in modo chiaro e comprensibile (articolo 35): la norma però non prevede una sanzione specifica per la violazione di questo precetto. Si applicherà allora il principio (articolo 35 comma 2) della interpretatio contra stipulatorem , per cui, in caso di dubbio, la clausola andrà interpretata nel senso più favorevole al consumatore e contro il professionista, che è colui che predispone il contratto (si veda l’articolo 1367 cc.).

LA TUTELA COLLETTIVA

I consumatori possono agire anche collettivamente contro le clausole vessatorie, per chiedere che il giudice disponga la cancellazione delle clausole abusive da tutti i contratti dell’imprenditore/professionista.

Le associazioni dei consumatori (dei professionisti e le camere di commercio) possono infatti convenire in giudizio, anche con procedure d’urgenza, il professionista (o l’associazione di professionisti) che utilizzano condizioni generali di contratto abusive e richiedere al giudice che inibisca l’uso delle clausole abusive o vessatorie.Della sentenza di condanna può essere ordinata la pubblicazione in uno o più giornali, di cui uno almeno a diffusione nazionale.

I BENI DI CONSUMO

Oltre a queste regole generali valevoli per tutti i contratti del consumatore, nel Codice del consumo vi è anche una sorta di parte speciale, che si occupa di singoli contratti che presentano proprie peculiarità.

Più in particolare, il Legislatore, consapevole dell’inadeguatezza della disciplina codicistica dettata con riferimento ai contratti di vendita, appalto, somministrazione ecc., è intervenuto con il D.Lgs 2.2.2002, n. 24 che ha introdotto gli artt. 1519 bis e ss. del c.c., il cui contenuto è stato in seguito trasfuso, con qualche adattamento, nel Codice del consumo che oggi è la fonte di riferimento applicabile.

Il Capo I del Titolo III del Codice del consumo, infatti, prevede infatti particolari garanzie per il consumatore che acquisti beni di consumo . Più precisamente, la legge stabilisce (art. 129) che il venditore ha l’obbligo di consegnare al consumatore un bene conforme al contratto stipulato e la conformità del bene si presume se ricorrono alcuni requisiti specificamente indicati dalla legge stessa, è cioè se i beni:

- sono idonei all’uso al quale servono abitualmente beni dello stesso tipo;

- sono conformi alla descrizione fatta dal venditore e possiedono le qualità del bene che il venditore ha presentato al consumatore come campione o modello;

- presentano la qualità e le prestazioni abituali di un bene dello stesso tipo, che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi, tenuto conto della natura del bene e, se del caso, delle dichiarazioni pubbliche sulle caratteristiche specifiche dei beni fatte al riguardo dal venditore, dal produttore o dal suo agente o rappresentante, in particolare nella pubblicità o sull’etichettatura;

- sono idonei all’uso particolare voluto dal consumatore e che sia stato da questi portato a conoscenza del venditore al momento della conclusione del contratto e che il venditore abbia accettato anche per fatti concludenti (cioè attraverso un comportamento che inequivocabilmente manifesti la volontà di accettare tale esigenza).

Se il consumatore era a conoscenza del difetto oppure non poteva ignorarlo usando l’ordinaria diligenza (oppure se il difetto deriva da istruzioni o materiali forniti dal consumatore stesso) non trova applicazione la tutela prevista dal Codice del consumo (art. 129). Qualora per converso sia accertato il difetto di conformità spettano al consumatore una serie di rimedi: potrà chiedere la riparazione o la sostituzione del bene , una riduzione del prezzo oppure la risoluzione del contratto.

La responsabilità del venditore (e più in generale del fornitore del bene o del servizio) sussiste se il difetto di conformità si manifesta entro due anni dalla vendita del bene stesso. In ogni caso (come previsto dalla disciplina generale del contratto di vendita) i difetti di conformità devono essere denunciati dal consumatore entro due mesi dalla scoperta, a meno che il venditore non abbia riconosciuto l’esistenza dello stesso oppure lo abbia tenuto nascosto.

Per denuncia si intende la contestazione rivolta al venditore del lamentato difetto: se non è effettua entro il termine stabilito dalla legge si decade dalla garanzia (art. 132) e non è dunque più possibile valersi delle tutele predisposte dalla legge.

In ogni caso l’azione per ottenere la garanzia deve essere esperita nel termine di ventisei mesi dalla consegna del bene, pena l’estinzione del diritto per prescrizione (art. 132, comma IV).

Talvolta il venditore (o il fornitore del servizio), offre una ulteriore garanzia di natura convenzionale, più estesa di quella legale , che si denomina “convenzionale” (per distinguerla appunto da quella legale), che “…vincola chi la offre secondo le modalità indicate nella dichiarazione di garanzia medesima o nella relativa pubblicità…” (art. 133).

Questa garanzia dovrà essere data per iscritto o su altro supporto duraturo accessibile al consumatore e dovrà indicare:

- la specificazione che il consumatore è titolare dei diritti previsti dal Codice del consumo e che la garanzia medesima lascia impregiudicati tali diritti;

- in modo chiaro e comprensibile l’oggetto della garanzia e gli elementi essenziali necessari per farla valere, compresi la durata e l’estensione territoriale della garanzia, nonché il nome o la ditta e il domicilio o la sede di chi la offre.

In ogni caso la garanzia che non risponde a questi requisiti rimane comunque valida e il consumatore può continuare ad avvalersene ed esigerne l’applicazione.

CONTRATTI CONCLUSI FUORI DAI LOCALI COMMERCIALI E CONTRATTI A DISTANZA

Da tempo, anche nel nostro paese, le tecniche commerciali si sono affinate divenendo più aggressive: oggi vengono stipulati contratti invadendo con la proposta commerciale la sfera privata del consumatore, o sorprendendolo mentre è per strada o è occupato in altre faccende.

Per offrire una tutela compiuta al consumatore da contratti indesiderati, dovuti all’espressione di un consenso non sufficientemente ponderato, il nostro ordinamento si era dotato di due provvedimenti normativi:

- il Dlgs. 15.1.1992 n. 50 che ha disciplinato i c.d. contratti conclusi fuori dai locali commerciali;

- il Dlgs. 22.5.1999 n. 185 sui contratti a distanza.

I principi contenuti in questi due testi sono poi confluiti (con alcune non trascurabili modifiche) nel Codice del consumo.

Rientrano nella categoria dei contratti negoziati fuori dai locali commerciali quelli stipulati:

- durante la visita al domicilio del consumatore (o di un altro consumatore ovvero sul posto di lavoro del consumatore o nei locali nei quali il consumatore si trovi, anche temporaneamente, per motivi di lavoro, di studio o di cura);

- durante una escursione organizzata al di fuori dei propri locali commerciali;

- in area pubblica o aperta al pubblico, mediante la sottoscrizione di una nota d’ordine, a prescindere dalla denominazione di quest’ultima;

- per corrispondenza o, comunque, in base ad un catalogo che il consumatore ha avuto modo di consultare senza la presenza del professionista.

Rientrano invece nella categoria dei contratti a distanza quelli che hanno ad oggetto beni o servizi e che sono stati stipulati nell’ambito di un sistema di vendita o di prestazione di servizi a distanza organizzato dal professionista che, per tale contratto, impiega esclusivamente una o più tecniche di comunicazione a distanza fino alla conclusione del contratto, compresa la conclusione del contratto stesso (ad esempio quelli conclusi con gli operatori telefonici di call center oppure i contratti conclusi via internet).

Affinché operino le garanzie previste dal Codice del Consumo, tuttavia, è sempre necessario che si tratti di contratti conclusi tra un professionista e un consumatore.

Sia in ambito di contratti a distanza che di contratti conclusi fuori dai locali commerciali, il principale strumento di tutela offerto al consumatore è rappresentato dal diritto di recesso o ius poenitendi (artt. 64 e ss. del Codice del consumo), che consiste nella facoltà, accordata esclusivamente al consumatore, di sottrarsi unilateralmente e senza dover fornire alcuna spiegazione, agli impegni contrattuali, mediante una dichiarazione scritta da inviare al professionista a mezzo lettera raccomandata nel termine di dieci giorni lavorativi. La comunicazione può essere inviata, entro lo stesso termine, anche mediante telegramma, telex, posta elettronica e fax, a condizione che sia confermata mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento entro le quarantotto ore successive. Il termine di dieci giorni lavorativi ha poi una decorrenza diversa a seconda del tipo di contratto sottoscritto.

La legge impone al professionista un onere di informazione al consumatore su quelli che sono i suoi diritti, che è evidentemente strumentale al libero esercizio del recesso da parte di quest’ultimo.

Il professionista, infatti, prima della conclusione del contratto, deve informare il consumatore delle caratteristiche del contratto (contenuto economico, caratteristiche del bene o servizio, etc.), ma soprattutto, quando il contratto si sia concluso fuori dai locali commerciali, ovvero quando il contratto si sia concluso attraverso una tecnica di comunicazione a distanza (telefono, fax, internet, etc), deve avvisare il consumatore del diritto di recedere entro 10 giorni dalla conclusione de contratto.

Nel caso in cui il professionista non abbia soddisfatto questo gli obbligo informativo (artt. 47 e 52 del Codice del consumo), il termine di dieci giorni diviene:

- di sessanta giorni per i contratti conclusi fuori dai locali commerciali;

- di novanta giorni per i contratti a distanza.

I predetti termini decorrono:

- per i beni, dal giorno del loro ricevimento da parte del consumatore;

- per i servizi, dal giorno della conclusione del contratto .

Inoltre, sempre nei contratti conclusi fuori dei locali commerciali o a distanza, il professionista deve dare copia al consumatore del contratto, che, dunque, deve essere scritto. Tale obbligo non è però specificamente sanzionato.

IL COMMERCIO ELETTRONICO

Una disciplina speciale, collocata fuori dal Codice del consumo, è dedicata ai contratti del commercio elettronico (Dlgs 70/2003, attuativo della Dir. 2000/31/CE), particolarmente insidiosi per le particolari modalità con cui viene espresso il consenso.

Anche per i contratti del commercio elettronico, essendo contratti a distanza, è previsto il recesso di pentimento il cui termine decorre dalla conclusione del contratto, ma vi sono ulteriori diritti legati al particolare ambiente telematico. L’articolo 13 del Dlgs 70/2003, infatti, prevede che al consumatore debba essere recapitata per via telematica una copia dell’ordine che lui ha inviato, e che il contratto si conclude solo nel momento in cui tale ricezione sia avvenuta. Ciò al fine di rendere edotto il consumatore del significato giuridico di ciò che ha fatto e permettergli eventualmente il recesso (nella conferma dell’ordine ci deve essere infatti l’informativa sul recesso e il riepilogo delle condizioni del contratto).

CENNO AI CONTRATTI ASIMMETRICI

Bisogna, a questo punto, dare conto del fatto che, oggi, non è solo il consumatore a poter essere parte debole del contratto. Vi sono infatti degli imprenditori “deboli” (perché ad esempio fornitori di beni che hanno un unico cliente, la grossa impresa) a cui la dottrina che studia i contratti asimmetrici si domanda se si possano estendere le tutele previste per il consumatore. Mentre a livello europeo, infatti, esiste solo una normativa di tutela del consumatore, il legislatore italiano con la normativa sulla subfornitura (L. 192/98), sembra aver preso una direzione diversa: vuole infatti fornire protezione ad un imprenditore (il subfornitore) che lavora con un altro imprenditore (il committente), ma si trova rispetto a quest’ultimo in una situazione di debolezza economica (esempio l’imprenditore che produce un pezzo dei tergicristalli della ditta automobilistica X, lavorando su un progetto elaborato dall’impresa automobilistica, con i tempi da questa dettati e per i quantitativi richiesti: se la X smette di lavorare con lui, deve chiudere), perché non ha alternative di mercato. Vi è infatti una disposizione della legge, l’articolo 9, che prevede il divieto di abuso di dipendenza economica, cioè dell’approfittamento che la parte forte faccia della situazione di debolezza del subfornitore: sicché il subfornitore può chiedere che sia dichiarata la nullità delle clausole contrattuali che concretizzino un abuso di dipendenza economica, e comunque il risarcimento del danno.

Su questo articolo 9, pertanto, dottrina e giurisprudenza hanno avviato una seria riflessione: nel panorama normativo è infatti riconosciuta una nuova categoria di soggetti deboli, i subfornitori, appunto, che si affianca a quella tradizionale dei consumatori.

Di fatto le norme a tutela degli imprenditori deboli si sono moltiplicate a partire dalla L. 192: ad esempio nel 2004 è stata emanata una analoga normativa protettiva nell’ambito del franchising.