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I profili di responsabilità dell’avvocato – mediatore: le recenti modifiche al Codice Deontologico Forense

Abstract:

L’articolo è diretto a fornire spunti di riflessione in merito a quelle che sono le modifiche apportate al Codice Deontologico Forense ai fini del necessario adeguamento alla sopravvenuta normativa in materia di mediazione civile e commerciale ed alle possibili eventuali conseguenze, in termini di responsabilità professionale, che esse comportano in capo alla figura dell’avvocato – mediatore.

La sempre maggiore necessità di adeguare i contenuti del Codice Deontologico Forense allo svolgimento da parte dell’avvocato delle funzioni di mediatore, ha indotto il Consiglio Nazionale Forense ad approvare nella seduta del 15 luglio 2011 le modifiche che di seguito verranno approfondite, al fine di adeguarlo alla sopravvenuta normativa in materia di mediazione delle liti civili e commerciali di cui al D.lgs. 4 marzo 2010 n. 28.

La normazione sul tema, che fino a qualche mese fa presentava ancora notevoli profili di marginalità, è divenuta negli ultimi mesi necessaria ed urgente proprio a seguito dell’ampia diffusione tra i professionisti del foro, dell’accesso alla formazione quali mediatori.

Già ad una prima e rapida lettura delle modifiche e della relazione illustrativa, traspare con chiarezza l’approccio rigoroso con il quale il Cnf affronta la complessa tematica deontologica del rapporto tra professione forense ed attività di mediatore.

Il Cnf appare infatti ben consapevole delle tematiche che emergono nell’interazione avvocato/ mediatore e pone quali obiettivi prioritari del suo intervento, il dovere di competenza e gli obblighi di imparzialità, indipendenza e neutralità.

L’intervento del Cnf prevede da un lato l’introduzione dell’art. 55 bis, rubricato “mediazione” e dall’altro due marginali modifiche all’art. 16 “dovere di evitare incompatibilità” ed all’art. 54 “rapporti con arbitri e consulenti tecnici”.

Pertanto il cardine della riforma appare essere, in tutta evidenza, l’art. 55 is che affronta una tematica complessa e ricca di implicazioni, in quanto coniuga il modello italiano di mediazione con l’attività svolta da un avocato che nelle vesti di mediatore dovrà conformarsi alle nuove regole poste dal Cnf.

L’art. 55 bis enuncia quanto segue: “L’avvocato che svolga la funzione di mediatore deve rispettare gli obblighi dettati dalla normativa in materia e le previsioni del regolamento dell’organismo di mediazione, nei limiti in cui dette previsioni non contrastino con quelle del presente codice.”

La norma affida alla valutazione del singolo professionista, la complessa disamina in ordine al possibile contrasto che possa venire a formarsi tra la normativa in materia di mediazione, compresi i regolamenti degli organismi accreditati, ed il Codice Deontologico Forense.

Tale valutazione implica una serie di rilevanti conseguenze per l’avvocato che dovrà operare con la massima scrupolosità, affinché non debba trovarsi esposto ad eventuali procedimenti disciplinari laddove decidesse di accreditarsi presso un organismo il cui regolamento dovesse essere ritenuto poi contrastante con le norme deontologiche afferenti allo svolgimento della propria professione.

I canoni complementari che seguono il sopracitato principio sono volti a chiarire una serie di aspetti deputati a disciplinare i profili di competenza, imparzialità, indipendenza e neutralità.

La competenza.

“L’avvocato non deve assumere la funzione di mediatore in difetto di adeguata competenza”. E’ opportuno rilevare che nella versione inizialmente proposta, il dovere di competenza era relativo alla materia “oggetto del procedimento”, con la conseguenza che le specifiche conoscenze dell’avvocato mediatore erano indissolubilmente legata alla materia oggetto della lite.

Tuttavia, la nuova disposizione appare essere maggiormente in linea con la recente modifica apportata al D.M. 180/2010 dal D.M. 145/2011 all’art. 7 dove si dispone che i regolamenti degli organismi di mediazione debbano contenere “criteri inderogabili per l’assegnazione degli affari di mediazione predeterminati e rispettosi della specifica competenza professionale del mediatore designato, desunta anche dalla tipologia di laurea universitaria posseduta”.

Attraverso questa norma, il Ministero della Giustizia ha posto una regola generale che mira a valorizzare ulteriormente la specifica competenza professionale del mediatore attraverso l’impiego da parte degli organismi competenti di criteri selettivi che ne garantiscano elevati standard professionali.

La nuova norma si colloca nella scia attuativa dell’art. 3 comma II del D.lgs 28/2010 che impone ai regolamenti di procedura degli organismi di garantire “modalità di nomina del mediatore che ne assicurino l’imparzialità e l’idoneità al corretto e sollecito espletamento dell’incarico.” Idoneità che è caratterizzata dai criteri autoregolamentari di professionalità, rigidi ed orientati all’attuazione di un sistema qualitativo di designazione trasparente e per ciò stesso anche verificabile.

Tuttavia, pur essendo il tema trattato di ampio respiro e concernente tutte le professioni che hanno accesso all’attività di mediatore, è necessario sottolineare come, riferendosi specificamente alle modifiche apportate al Cdf, l’interpretazione autentica della norma in questione appaia nel senso di orientare il ruolo del mediatore ben oltre la normale attività di facilitatore per il raggiungimento di un accordo tra le parti, in una sede conciliativa dove sono gli interessi delle parti a dettare l’eventuale accordo. Le garanzie, infatti, che il mediatore è tenuto ad afferire sono inerenti alla corretta conduzione del procedimento affinché le parti possano arrivare ad un’intesa soddisfacente per entrambe e non si estendono al merito dell’accordo ed ai connessi profili di tutela legale che sono propri dell’attività di consulente legale. In buona sostanza l’avocato – mediatore non può e non deve divenire mai in nessun caso il garante dell’accordo.

Le incompatibilità.

“Non può assumere la funzione di mediatore, l’avvocato che: a) abbia in corso o abbia avuto negli ultimi due anni rapporti professionali con una delle due parti; b) quando una delle due parti sia assistita o sia stata assistita negli ultimi due anni da professionista di lui socio o con lui associato ovvero che eserciti nei medesimi locali”.

E inoltre “in ogni caso costituisce condizione ostativa all’assunzione dell’incarico di mediatore la ricorrenza di una delle ipotesi di cui all’art. 815 comma I cpc”; il riferimento è alle cause di ricusazione dell’arbitro (art. 815 cpc che rinvia all’art. 51 cpc dove si elencano le situazioni che impongono l’obbligo di astensione del giudice).

In base a quanto esposto nella relazione illustrativa, tale norma in lettura combinata con la previsione di cui all’art. 55 in tema di arbitrato, si prefigge l’obiettivo di garantire imparzialità, terzietà ed equidistanza degli interessi delle parti nel procedimento di mediazione. Il mediatore dovrà pertanto essere equiprossimo alle posizioni in oggetto alla controversia e biutrale, a differenza del ruolo di mera neutralità che è portato ad assumere il giudice.

Quanto poi, all’ipotesi sub b) occorre specificare che tale disposizione implica nel caso del procedimento di mediazione delle conseguenze abnormi se si considera che l’avvocato – mediatore, prima di accettare l’incarico dovrà consultarsi con i colleghi con i quali condivide la struttura nella quale si trova il proprio studio per verificare se nei due anni antecedenti una delle parti della mediazione sia stata o meno loro cliente.

Questa norma, laddove si presupponga che la semplice condivisione di locali possa essere “compromettente” appare davvero di ardua applicazione nel caso in cui si estendano le cause di incompatibilità anche a rapporti che si limitano ad una semplice coabitazione e suscita grosse perplessità in ordine alla sua applicazione per la possibile violazione delle norme in materia di trattamento dei dati personali e di segreto professionale.

In caso di incarico già svolto.

“L’avvocato che ha svolto l’incarico di mediatore non può intrattener rapporti professionali con una delle parti: a) se non siano decorsi almeno due anni dalla definizione del procedimento; b) se l’oggetto dell’attività non sia diverso da quello del processo stesso. Il divieto si estende ai professionisti soci, associati ovvero che esercitino nei medesimi locali.” Anche in questo caso l’applicazione della norma in questione presuppone la trasmissione dell’elenco dei dati delle parti delle mediazioni trattate non soltanto ai soci o agli associati dell’avvocato – mediatore, ma anche ai colleghi con i quali semplicemente condivide l’immobile. Appaiono così ancor più macroscopici i problemi relativi alla tutela dei dati personali ed agli specifici obblighi di riservatezza con riguardo all’art. 9 del D.lgs 28/2010.

La sede dell’organismo di mediazione.

La disposizione trova la sua ratio nell’esigenza di evitare la commistione tra la sede dello studio professionale dell’avvocato e la sede dell’organismo di mediazione. E’ infatti necessario evitare che le sedi coincidano per tutelare l’imparzialità del mediatore e per attuare il divieto di accaparramento della clientela. In riferimento, invece, al “luogo di svolgimento dell’attività di mediazione”, l’organismo consente che le mediazioni possano svolgersi in luoghi diversi dalla sede legale.

Le altre modifiche al codice.

Accanto all’inserimento dell’art. 55 bis si segnalano le marginali modifiche apportate dagli artt. 16 e 54.

La prima destinata ad evitare remoti ma pur sempre possibili equivoci legati al termine “mediazione”; la seconda, tesa a dare rilievo ai rapporti professionali oltre che con arbitri e consulenti tecnici, anche con conciliatori e mediatori.

Sarà, dunque, necessario aspettare i primi riscontri "pratici" da parte degli avvocati - mediatori, per verificare come in concreto possano conciliarsi le norme deontologiche forensi con le previsioni normative in ambito di mediazione civile e commerciale.

Abstract:

L’articolo è diretto a fornire spunti di riflessione in merito a quelle che sono le modifiche apportate al Codice Deontologico Forense ai fini del necessario adeguamento alla sopravvenuta normativa in materia di mediazione civile e commerciale ed alle possibili eventuali conseguenze, in termini di responsabilità professionale, che esse comportano in capo alla figura dell’avvocato – mediatore.

La sempre maggiore necessità di adeguare i contenuti del Codice Deontologico Forense allo svolgimento da parte dell’avvocato delle funzioni di mediatore, ha indotto il Consiglio Nazionale Forense ad approvare nella seduta del 15 luglio 2011 le modifiche che di seguito verranno approfondite, al fine di adeguarlo alla sopravvenuta normativa in materia di mediazione delle liti civili e commerciali di cui al D.lgs. 4 marzo 2010 n. 28.

La normazione sul tema, che fino a qualche mese fa presentava ancora notevoli profili di marginalità, è divenuta negli ultimi mesi necessaria ed urgente proprio a seguito dell’ampia diffusione tra i professionisti del foro, dell’accesso alla formazione quali mediatori.

Già ad una prima e rapida lettura delle modifiche e della relazione illustrativa, traspare con chiarezza l’approccio rigoroso con il quale il Cnf affronta la complessa tematica deontologica del rapporto tra professione forense ed attività di mediatore.

Il Cnf appare infatti ben consapevole delle tematiche che emergono nell’interazione avvocato/ mediatore e pone quali obiettivi prioritari del suo intervento, il dovere di competenza e gli obblighi di imparzialità, indipendenza e neutralità.

L’intervento del Cnf prevede da un lato l’introduzione dell’art. 55 bis, rubricato “mediazione” e dall’altro due marginali modifiche all’art. 16 “dovere di evitare incompatibilità” ed all’art. 54 “rapporti con arbitri e consulenti tecnici”.

Pertanto il cardine della riforma appare essere, in tutta evidenza, l’art. 55 is che affronta una tematica complessa e ricca di implicazioni, in quanto coniuga il modello italiano di mediazione con l’attività svolta da un avocato che nelle vesti di mediatore dovrà conformarsi alle nuove regole poste dal Cnf.

L’art. 55 bis enuncia quanto segue: “L’avvocato che svolga la funzione di mediatore deve rispettare gli obblighi dettati dalla normativa in materia e le previsioni del regolamento dell’organismo di mediazione, nei limiti in cui dette previsioni non contrastino con quelle del presente codice.”

La norma affida alla valutazione del singolo professionista, la complessa disamina in ordine al possibile contrasto che possa venire a formarsi tra la normativa in materia di mediazione, compresi i regolamenti degli organismi accreditati, ed il Codice Deontologico Forense.

Tale valutazione implica una serie di rilevanti conseguenze per l’avvocato che dovrà operare con la massima scrupolosità, affinché non debba trovarsi esposto ad eventuali procedimenti disciplinari laddove decidesse di accreditarsi presso un organismo il cui regolamento dovesse essere ritenuto poi contrastante con le norme deontologiche afferenti allo svolgimento della propria professione.

I canoni complementari che seguono il sopracitato principio sono volti a chiarire una serie di aspetti deputati a disciplinare i profili di competenza, imparzialità, indipendenza e neutralità.

La competenza.

“L’avvocato non deve assumere la funzione di mediatore in difetto di adeguata competenza”. E’ opportuno rilevare che nella versione inizialmente proposta, il dovere di competenza era relativo alla materia “oggetto del procedimento”, con la conseguenza che le specifiche conoscenze dell’avvocato mediatore erano indissolubilmente legata alla materia oggetto della lite.

Tuttavia, la nuova disposizione appare essere maggiormente in linea con la recente modifica apportata al D.M. 180/2010 dal D.M. 145/2011 all’art. 7 dove si dispone che i regolamenti degli organismi di mediazione debbano contenere “criteri inderogabili per l’assegnazione degli affari di mediazione predeterminati e rispettosi della specifica competenza professionale del mediatore designato, desunta anche dalla tipologia di laurea universitaria posseduta”.

Attraverso questa norma, il Ministero della Giustizia ha posto una regola generale che mira a valorizzare ulteriormente la specifica competenza professionale del mediatore attraverso l’impiego da parte degli organismi competenti di criteri selettivi che ne garantiscano elevati standard professionali.

La nuova norma si colloca nella scia attuativa dell’art. 3 comma II del D.lgs 28/2010 che impone ai regolamenti di procedura degli organismi di garantire “modalità di nomina del mediatore che ne assicurino l’imparzialità e l’idoneità al corretto e sollecito espletamento dell’incarico.” Idoneità che è caratterizzata dai criteri autoregolamentari di professionalità, rigidi ed orientati all’attuazione di un sistema qualitativo di designazione trasparente e per ciò stesso anche verificabile.

Tuttavia, pur essendo il tema trattato di ampio respiro e concernente tutte le professioni che hanno accesso all’attività di mediatore, è necessario sottolineare come, riferendosi specificamente alle modifiche apportate al Cdf, l’interpretazione autentica della norma in questione appaia nel senso di orientare il ruolo del mediatore ben oltre la normale attività di facilitatore per il raggiungimento di un accordo tra le parti, in una sede conciliativa dove sono gli interessi delle parti a dettare l’eventuale accordo. Le garanzie, infatti, che il mediatore è tenuto ad afferire sono inerenti alla corretta conduzione del procedimento affinché le parti possano arrivare ad un’intesa soddisfacente per entrambe e non si estendono al merito dell’accordo ed ai connessi profili di tutela legale che sono propri dell’attività di consulente legale. In buona sostanza l’avocato – mediatore non può e non deve divenire mai in nessun caso il garante dell’accordo.

Le incompatibilità.

“Non può assumere la funzione di mediatore, l’avvocato che: a) abbia in corso o abbia avuto negli ultimi due anni rapporti professionali con una delle due parti; b) quando una delle due parti sia assistita o sia stata assistita negli ultimi due anni da professionista di lui socio o con lui associato ovvero che eserciti nei medesimi locali”.

E inoltre “in ogni caso costituisce condizione ostativa all’assunzione dell’incarico di mediatore la ricorrenza di una delle ipotesi di cui all’art. 815 comma I cpc”; il riferimento è alle cause di ricusazione dell’arbitro (art. 815 cpc che rinvia all’art. 51 cpc dove si elencano le situazioni che impongono l’obbligo di astensione del giudice).

In base a quanto esposto nella relazione illustrativa, tale norma in lettura combinata con la previsione di cui all’art. 55 in tema di arbitrato, si prefigge l’obiettivo di garantire imparzialità, terzietà ed equidistanza degli interessi delle parti nel procedimento di mediazione. Il mediatore dovrà pertanto essere equiprossimo alle posizioni in oggetto alla controversia e biutrale, a differenza del ruolo di mera neutralità che è portato ad assumere il giudice.

Quanto poi, all’ipotesi sub b) occorre specificare che tale disposizione implica nel caso del procedimento di mediazione delle conseguenze abnormi se si considera che l’avvocato – mediatore, prima di accettare l’incarico dovrà consultarsi con i colleghi con i quali condivide la struttura nella quale si trova il proprio studio per verificare se nei due anni antecedenti una delle parti della mediazione sia stata o meno loro cliente.

Questa norma, laddove si presupponga che la semplice condivisione di locali possa essere “compromettente” appare davvero di ardua applicazione nel caso in cui si estendano le cause di incompatibilità anche a rapporti che si limitano ad una semplice coabitazione e suscita grosse perplessità in ordine alla sua applicazione per la possibile violazione delle norme in materia di trattamento dei dati personali e di segreto professionale.

In caso di incarico già svolto.

“L’avvocato che ha svolto l’incarico di mediatore non può intrattener rapporti professionali con una delle parti: a) se non siano decorsi almeno due anni dalla definizione del procedimento; b) se l’oggetto dell’attività non sia diverso da quello del processo stesso. Il divieto si estende ai professionisti soci, associati ovvero che esercitino nei medesimi locali.” Anche in questo caso l’applicazione della norma in questione presuppone la trasmissione dell’elenco dei dati delle parti delle mediazioni trattate non soltanto ai soci o agli associati dell’avvocato – mediatore, ma anche ai colleghi con i quali semplicemente condivide l’immobile. Appaiono così ancor più macroscopici i problemi relativi alla tutela dei dati personali ed agli specifici obblighi di riservatezza con riguardo all’art. 9 del D.lgs 28/2010.

La sede dell’organismo di mediazione.

La disposizione trova la sua ratio nell’esigenza di evitare la commistione tra la sede dello studio professionale dell’avvocato e la sede dell’organismo di mediazione. E’ infatti necessario evitare che le sedi coincidano per tutelare l’imparzialità del mediatore e per attuare il divieto di accaparramento della clientela. In riferimento, invece, al “luogo di svolgimento dell’attività di mediazione”, l’organismo consente che le mediazioni possano svolgersi in luoghi diversi dalla sede legale.

Le altre modifiche al codice.

Accanto all’inserimento dell’art. 55 bis si segnalano le marginali modifiche apportate dagli artt. 16 e 54.

La prima destinata ad evitare remoti ma pur sempre possibili equivoci legati al termine “mediazione”; la seconda, tesa a dare rilievo ai rapporti professionali oltre che con arbitri e consulenti tecnici, anche con conciliatori e mediatori.

Sarà, dunque, necessario aspettare i primi riscontri "pratici" da parte degli avvocati - mediatori, per verificare come in concreto possano conciliarsi le norme deontologiche forensi con le previsioni normative in ambito di mediazione civile e commerciale.