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La responsabilità dell’intermediario sotto la lente della giurisprudenza, quali rimedi?

1. Una questione preliminare: rapporti tra contratto c.d. “quadro” e singoli ordini.

Come asserisce la dottrina, «l’elemento determinante [al fine di risolvere la diatriba concernente l’individuazione dei rimedi posti in mano ai risparmiatori per far valere la responsabilità dell’intermediario] è costituito dalla considerazione, a nostro parere corretta, della separazione esistente tra il contratto quadro ed i singoli ordini di acquisto: separazione che si presta sia sul piano sistematico che su quello funzionale»[1]. In effetti non vi è unanimità in dottrina circa la natura e i rapporti tra il contratto di investimento (c.d. “contratto quadro”) ed i singoli e successivi ordini dei clienti.

Sono rinvenibili, a proposito, due differenti orientamenti: mentre una parte della dottrina ritiene sia il “contratto quadro” che i successivi ordini impartiti all’intermediario veri e propri contratti, un’altra parte sostiene che solo il primo sia un contratto, mentre gli altri siano semplici negozi attuativi dello stesso. Con riguardo al secondo orientamento, c’è chi afferma che il contratto di investimento sarebbe un contratto con caratteristiche peculiari, ma riconducibile al mandato ed i singoli ordini mere istruzioni del mandante ai sensi dell’art. 1711 cod. civ; altri, invece, con una tesi confortata da giurisprudenza autorevole (Cass. Sez. Un. 26725/2007), ritengono che il contratto de quo sia un contratto misto di conto corrente e mandato e che i singoli ordini siano mere istruzioni esecutive del contratto di mandato.

2. Tutele e Rimedi [2]

Come appena affermato, la problematica concernente i rapporti tra “contratto quadro” e singoli ordini ha delle ricadute fondamentali sul rimedio che gli investitori possono utilizzare al fine di far valere la responsabilità dell’intermediario.

A) Nullità

Se si condividesse l’opinione per cui anche i singoli ordini sarebbero contratti di compravendita autonomi, ben potrebbe ipotizzarsi a tutela dell’investitore il rimedio della nullità dei medesimi. La dottrina si divide tra chi ritiene che tale sanzione derivi dalla violazione di norme imperative e chi sostiene che, invece, la stessa origini dalla mancanza del consenso del contraente-investitore. Nel primo caso (violazione di norme imperative) si argomenta partendo dal presupposto per cui tutta la materia concernente gli obblighi degli intermediari rappresenterebbe un corpus di norme a tutela dei risparmiatori e, pertanto, di interessi pubblicistici: la violazione di alcune disposizioni dello stesso configurerebbe una tipica ipotesi di contrarietà a norme imperative, sanzionata, secondo l’art. 1418, comma 1 cod. civ., con la nullità. Si ricordi, inoltre, che la sanzione della nullità non dovrebbe, come ha ritenuto parte della giurisprudenza, essere espressamente prevista dal legislatore, potendosi ipotizzare l’esistenza di un principio generale implicito nell’art. 1418 cod. civ. (è la tesi della nullità virtuale, affermata dalla Cassazione con sent. n. 3272/2001)[3]. Nel secondo caso (nullità per mancanza del consenso), poiché, secondo tale impostazione, i singoli ordini sarebbero contratti autonomi di compravendita, per procedere all’esecuzione di una operazione sarebbe necessaria un’ulteriore manifestazione di volontà da parte dell’investitore rispetto a quella già espressa in sede di conclusione del “contratto quadro”[4]. Ma la volontà dell’investitore (e così il suo consenso) si determinerebbe grazie proprio a quelle informazioni che l’intermediario ha per legge l’obbligo di fornirgli. Dunque se tali informazioni non fossero rese correttamente, la violazione sarebbe tanto grave da determinare addirittura la mancanza del consenso nell’investitore a concludere il “contratto-ordine”.

La tesi della nullità è confortata da moltissime pronunce di merito sino alle sentenze di Cassazione nn. 19024/2005 e 26725/2007 che, al contrario, sostengono la tesi della responsabilità contrattuale o precontrattuale dell’intermediario.

Tale tipo di rimedio ha certamente il pregio di tutelare maggiormente dal punto di vista processuale il risparmiatore, stante l’imprescrittibilità dell’azione e l’alleggerimento degli oneri probatori a suo carico rispetto ad un’azione volta ad ottenere il risarcimento del danno per inadempimento ex art. 1218 cod. civ. Inoltre la banca o, comunque, l’intermediario sarebbe obbligato, in caso di accoglimento della domanda di nullità, a restituire al cliente la somma utilizzata per l’acquisto dei titoli (ex art. 2033 cod. civ.) e a corrispondere altresì gli interessi legali dal giorno del pagamento, stante la ritenuta sua mala fede (talvolta la mala fede è stata esclusa dalla giurisprudenza, così determinando il conteggio degli interessi a partire dal giorno della domanda)[5]. Ciò, ovviamente, non esclude l’ulteriore risarcimento dei danni nel limite, si ritiene, dell’interesse negativo così come interpretato dalla giurisprudenza (cioè il vantaggio o lo svantaggio potenziale che l’investitore avrebbe conseguito se l’intermediario si fosse comportato professionalmente)[6]. Il cliente, dal canto suo, dovrebbe restituire le cedole degli interessi maturati ed i titoli oggetto della negoziazione.

La tesi, infine, comporterebbe l’esclusione di qualsivoglia profilo di un eventuale concorso di colpa dell’investitore (ex art. 1227 cod. civ.).

Critiche a tali impostazioni giungono da quella dottrina che ritiene i singoli ordini atti esecutivi del “contratto quadro”[7]. In particolar modo, si lamenta il fatto che la nullità inciderebbe sull’atto e non sul comportamento. Pertanto, dato che la violazione dei doveri degli intermediari riguarderebbe proprio il comportamento, la stessa potrebbe essere soltanto fonte di responsabilità contrattuale per inadempimento con eventuale risoluzione del “contratto-quadro” ai sensi dell’art. 1455 cod. civ.

B) Annullabilità

Appaiono voci isolate quelle (non solo di parte della dottrina, ma anche della giurisprudenza) che ravvisano in materia la configurabilità del rimedio dell’annullabilità dei singoli ordini per esistenza di vizi del consenso (Trib. Pinerolo, 14 ottobre 2005): dolo determinante (art. 1439 cod. civ.) o errore essenziale (art. 1429 cod. civ.). Sottolineiamo che la dottrina ritiene che in tali ipotesi non sia possibile applicare l’art. 23, comma 6 del TUF, in quanto previsto solo per i profili risarcitori (la norma prevede che in caso di azione volta ad ottenere il risarcimento del danno nei confronti dell’intermediario, gravi su quest’ultimo l’onere di provare di aver agito con la diligenza richiesta). Un orientamento interessante vorrebbe inquadrare la materia nella più generale disciplina dei contratti del consumatore, applicando alle violazioni de qua la disciplina delle clausole vessatorie (Trib. Roma 31 marzo 2005).

Gli effetti ovviamente di percorrere questa strada comporterebbero, a prescindere dalla prescrizione quinquennale e dalla possibilità di far valere il vizio solo dalla parte nel cui interesse è stabilito l’annullamento (artt. 1441-1442 cod. civ.), l’obbligo di restituzione dell’intero capitale investito, oltre agli interessi nella misura del saggio legale (poiché si tratterebbe di debito di valuta)[8].

Riportiamo due precedenti giurisprudenziali che, insieme a quelli già citati, ci consentono di meglio comprendere l’orientamento in questione.

In primo luogo una sentenza della Corte di Cassazione dell’86 (n. 7322) afferma che l’inganno sarebbe rilevante solo se intenzionale (coscienza e volontà), mentre non lo sarebbe in caso di inganno involontario o semplicemente colposo. In secondo luogo il Tribunale di Torino in una recentissima sentenza asserisce che vada escluso «che la mera violazione di obblighi informativi da parte dell’intermediario o la comunicazione di notizie imprecise rendano di per sé annullabile il contratto, ove manchi (…) qualsiasi allegazione e prova specifica di artifici e/o raggiri che abbiano ingenerato nell’investitore una rappresentazione alterata della realtà» (Trib. Torino 11 febbraio 2011, n. 1506 che comunque condivide la diversa tesi della responsabilità contrattuale in caso di violazione dei doveri informativi degli intermediari).

C) Responsabilità precontrattuale / contrattuale e risarcimento.

A seguito delle recenti pronunce della Corte di Cassazione (sentt. nn. 19024/2005, 26724-26725/2007)[9] è invalsa in giurisprudenza (ma non del tutto in dottrina)[10], la tesi per cui, ferma la natura di contratto misto (in particolar modo di mandato e di conto corrente) del “contratto-quadro” denominato dalla stessa Corte «contratto di intermediazione finanziaria» di investimento, essendo gli ordini successivi, semplici atti esecutivi dello stesso, le violazioni concernenti questi ultimi costituirebbero ipotesi di inadempimento contrattuale con conseguente risarcimento dei danni ed eventuale risoluzione del “contratto-quadro”.

La Corte (osservando, altresì, come i principi enucleati nella sentenza ultima citata siano valevoli anche per la nuova disciplina frutto dell’attuazione della direttiva Mifid - poiché la sentenza de quo si riferiva al sistema normativo anteriore) specifica il suo assunto osservando che, ferma restando la natura di norme imperative delle disposizioni concernenti gli obblighi informativi degli intermediari, la loro violazione non fonderebbe una ipotesi di nullità poiché il legislatore non ha espressamente previsto tale sanzione (frustrando così il principio enunciato dalla stessa Corte relativo alla esistenza dell’istituto della nullità virtuale - su cui vedi supra). La violazione di tali norme, pertanto, concernerebbe solo il rapporto fra (ed il comportamento delle) le parti (e non, dunque, il c.d. contratto-atto), potendo configurare soltanto una responsabilità di tipo precontrattuale (nelle ipotesi di violazione degli obblighi concernenti la consegna al cliente del documento informativo e dell’acquisizione delle informazione dal cliente – obblighi necessariamente anteriori alla stipulazione del “contratto-quadro”) o contrattuale (nei casi, invece, di violazione degli obblighi di informazione al cliente circa la natura e i rischi dell’operazione, di eventuali situazioni di conflitto di interessi, di astensione dal compimento di operazioni non adeguate al profilo di rischio e di tenersi informato sulla situazione del cliente per poterne curare la posizione in modo pienamente efficiente per tutta la fase esecutiva del rapporto – obblighi necessariamente appartenenti alla fase esecutiva del rapporto)[11].

Nello stesso senso si è pronunciato di recente il Tribunale di Torino in data 3 dicembre 2010, stabilendo che: «in tema di intermediazione finanziaria, la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguenze risarcitorie, ove dette violazioni avvengano nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti nel mentre può dar luogo, invece, a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del contratto suddetto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto quadro»[12]. Così allo stesso tempo la Cassazione con sentenza n. 22147/2010 ha affermato il medesimo principio asserendo, inoltre, che «è sufficiente che l’investitore alleghi da parte dell’intermediario l’inadempimento delle obbligazioni poste a suo carico dall’art. 21 del d.lgs. n. 58 del 1998 (integrato dalla normativa secondaria) e che provi che il pregiudizio lamentato consegua a siffatto inadempimento, mentre l’intermediario ha l’onere di provare d’aver rispettato i dettami di legge e di avere agito con la specifica diligenza richiesta»[13].

Così in caso di accoglimento di questa soluzione, nelle ipotesi di risarcimento del danno accompagnato da risoluzione del contratto, in capo alle parti sorgerebbero i rispettivi obblighi restitutori in modo tale da ripristinare le rispettive situazioni patrimoniali, come per il caso di dichiarazione di nullità. Mentre l’intermediario sarebbe tenuto a restituire il capitale investito, gli investitori dovrebbero restituire i titoli e le cedole degli interessi prodotti dai titoli obbligazionari, in quanto da considerarsi alla stregua di frutti. Tuttavia, poiché l’investitore è da considerarsi in buona fede, sarà tenuto a restituire i frutti solo dalla data della domanda, mentre l’intermediario che, secondo l’orientamento dominante, deve considerarsi in mala fede, è tenuto a corrispondere gli interessi sul capitale dal giorno del pagamento (App. Brescia, 20 giugno 2007).

Discorso a parte, ma importante per ciò che concerne la materia della responsabilità in caso di inadempimento, costituisce la problematica della prova dell’inadempimento e del nesso di causalità.

Dal primo punto di vista (prova dell’inadempimento) emblematico è l’art. 23, comma 6 del TUF (Trib. Monza, 14 ottobre 2004). Secondo la più recente giurisprudenza l’intermediario dovrebbe provare di: i) aver assunto adeguate informazioni sul rischio dei titoli negoziati; ii) aver adottato idonee procedure interne di controllo per trasmettere tali informazioni alla propria rete di vendita; iii) avere informato gli investitori dei rischi connessi con le specifiche operazioni di investimento; iv) aver segnalato per iscritto la non adeguatezza delle singole operazioni e l’esistenza di un interesse in conflitto, indicandone in entrambi casi le ragioni.

Dunque l’investitore può limitarsi a provare l’esistenza del contratto, l’evento lesivo ed il nesso di causalità.

In relazione a quest’ultimo, come appena asserito, l’onere della prova, circa la connessione causale tra danno subito e condotta dell’intermediario, graverebbe sull’investitore. Interessante è la sentenza del Tribunale di Rimini del 6 giugno 2007, secondo cui il fatto che l’intermediario abbia invitato l’investitore a vendere i titoli non escluderebbe il nesso di causalità tra la condotta dell’intermediario ed il danno lamentato dal cliente, incidendo semmai, tale circostanza, sull’entità del risarcimento dovuto. Altrettanto degne di nota sono quelle pronunce in base alle quali il danno derivante dal default di un titolo è connesso alla omissione di un obbligo informativo solo qualora possa dirsi provato che la diversa informazione non fornita dall’intermediario era in concreto nella disponibilità di questo e che tale informazione, se resa, avrebbe dissuaso l’investitore dal compiere l’operazione, ovvero lo avrebbe condotto ad una scelta di investimento diversa (Trib. Torino, 11 febbraio 2011; Trib. Milano 27 marzo 2007 e 10 gennaio 2007; Trib. Parma 21 marzo 2007 ). Infatti la citata sentenza del Tribunale di Torino afferma che «spetta a chi agisce l’onere di fornire la prova che, laddove l’intermediario avesse adempiuto ai propri obblighi informativi, non avrebbe proceduto all’acquisto. Invero mentre l’onere probatorio relativo all’adempimento delle prescrizioni del TUF spetta all’ intermediario ai sensi dell’art. 23 comma 6, quello inerente al nesso causale, in forza dei principi generali dell’ordinamento […] incombe sull’attore” (Trib. Torino 11 febbraio 2011). Si osservi, tuttavia, che in dottrina e in giurisprudenza talvolta si afferma che la prova sul nesso di causalità non spetti all’investitore (Trib. Genova, 15 marzo 2005; Trib. Roma, 8 ottobre 2004; Trib. Arezzo, 17 aprile 2004).



[1] INZITARI-PICCININI, La tutela del cliente nella negoziazione di strumenti finanziari, in Il diritto degli affari, a cura di INZITARI, Padova, 2008, p.168 ss.

[2] Per un’analisi approfondita si veda AA.VV., Banche, consumatori e tutela del risparmio. Servizi di investimento, market abuse e rapporti bancari, a cura di AMBROSINI, DEMARCHI, Torino, 2009.

[3] In giurisprudenza hanno seguito questo orientamento una serie di tribunali, tra cui, ad esempio: Trib. Modena, 10 gennaio 2008; Trib. Trento, 1 febbraio 2007; Trib. Firenze, 18 gennaio 2007; Trib. Firenze, 4 dicembre 2006; Tribunale Brindisi, 18 agosto 2006; Trib. Trani, 30 maggio 2006; Trib. Teramo, 18 maggio 2006; Trib. Foggia, 15 maggio 2006; Trib. Cagliari, 11 gennaio 2006; Trib. Cagliari, 2 gennaio 2006; Trib. Parma 21 ottobre 2005; Trib. Treviso, 10 ottobre 2005; Trib. Brindisi, 4 ottobre 2005; Trib. Brindisi, 22 luglio 2005; Trib. Venezia, 22 novembre 2004.

[4] INZITARI, op. cit., p. 168 ss.

[5] INZITARI, op. cit., p. 168 ss.

[6] SARTORI, Le regole di condotta degli intermediari finanziari. Disciplina e forme di tutela, Milano, 2004

[7] Su questo GALGANO, Trattato di diritto civile, t.2, Torino, 2010, p. 759 ss. Interessante è l’opinione di quella giurisprudenza che, pur condividendo la tesi della nullità, afferma che non tutte le violazioni di obblighi comportamentali comportano la nullità, dovendosi distinguere tra obblighi specifici (la cui violazione comporterebbe sempre nullità), e obblighi generici (la cui violazione comporterebbe l’applicazione delle regole della responsabilità contrattuale). Così Trib. Milano, 25 luglio 2005 e Trib. Roma 11 marzo 2005

[8] INZITARI, op. cit., p. 168 ss..

[9] Numerosi sono, in realtà, i Tribunali di merito che già prima della sentenza di Cassazione del 2007 richiamata, stabilivano, seppur con una posizione minoritaria, la responsabilità contrattuale in materia e non la nullità: Trib. Firenze, 23 ottobre 2006; Trib. di Biella, 12 luglio 2005 che, tra i diversi principi, enuncia l’applicazione dell’art. 1227 cod. civ.; Trib. Milano, 25 luglio 2005; Trib. Genova, 15 marzo 2005. Interessante la posizione di alcuni autori per cui la legge imporrebbe all’intermediario un obbligazione di mezzi (GAETA, Responsabilità oggettiva degli intermediari e validità dei contratti di investimento, in Contratti, 2005, 590) ovvero di coloro che sostengono la teoria del contatto sociale (FAILLACE, La responsabilità del contatto sociale, Padova, 2004, 136 ss., per la giurisprudenza: Trib. Roma, 23 marzo 2005, Trib. Taranto, 27 ottobre 2004 che equipara la posizione dell’intermediario a quella del medico come si legge in INZITARI, op. cit., p. 168 ss.). A metà tra la tesi della responsabilità contrattuale e quella della nullità, troviamo una pronuncia del tribunale di Milano del 15 febbraio 2005 per cui la violazione di obblighi informativi previsti da norme di natura imperative concernenti il momento genetico del negozio, comporterebbe la nullità del contratto, mentre l’inosservanza dei doveri di valutazione di adeguatezza dell’operazione al profilo di rischio dell’investitore, riferendosi alla diligenza dell’intermediario, comporterebbe una responsabilità contrattuale con possibile risoluzione del contratto (ex art. 1453 cod. civ.).

[10] Si veda, ad esempio, per la tesi della nullità INZITARI, cit., mentre per la tesi della responsabilità contrattuale, GALGANO, op.cit. e AA.VV., Banche, consumatori e tutela del risparmio, op. cit.

[11] INZITARI, op. cit., p. 168 ss.

[12] Nello stesso senso, Trib. Rovigo 2008.

[13] La Cassazione, nella stessa sentenza, stabilisce altresì una serie di importanti principi di diritto. Oltre al riconoscimento del configurarsi di una responsabilità precontrattuale a fronte di un contratto concluso (mentre era opinione tradizionale per cui una responsabilità di tale tipo fosse configurabile solo nelle ipotesi di rottura ingiustificata delle trattative o nel caso ex art. 1338 cod. civ.), fissa un importante principio in tema di entità del danno risarcibile (in caso di responsabilità precontrattuale): lo stesso deve essere commisurato al minor vantaggio ovvero al maggior aggravio economico conseguente al comportamento dell’intermediario, a meno che l’investitore non riesca a dimostrare la sussistenza di un maggior danno.

1. Una questione preliminare: rapporti tra contratto c.d. “quadro” e singoli ordini.

Come asserisce la dottrina, «l’elemento determinante [al fine di risolvere la diatriba concernente l’individuazione dei rimedi posti in mano ai risparmiatori per far valere la responsabilità dell’intermediario] è costituito dalla considerazione, a nostro parere corretta, della separazione esistente tra il contratto quadro ed i singoli ordini di acquisto: separazione che si presta sia sul piano sistematico che su quello funzionale»[1]. In effetti non vi è unanimità in dottrina circa la natura e i rapporti tra il contratto di investimento (c.d. “contratto quadro”) ed i singoli e successivi ordini dei clienti.

Sono rinvenibili, a proposito, due differenti orientamenti: mentre una parte della dottrina ritiene sia il “contratto quadro” che i successivi ordini impartiti all’intermediario veri e propri contratti, un’altra parte sostiene che solo il primo sia un contratto, mentre gli altri siano semplici negozi attuativi dello stesso. Con riguardo al secondo orientamento, c’è chi afferma che il contratto di investimento sarebbe un contratto con caratteristiche peculiari, ma riconducibile al mandato ed i singoli ordini mere istruzioni del mandante ai sensi dell’art. 1711 cod. civ; altri, invece, con una tesi confortata da giurisprudenza autorevole (Cass. Sez. Un. 26725/2007), ritengono che il contratto de quo sia un contratto misto di conto corrente e mandato e che i singoli ordini siano mere istruzioni esecutive del contratto di mandato.

2. Tutele e Rimedi [2]

Come appena affermato, la problematica concernente i rapporti tra “contratto quadro” e singoli ordini ha delle ricadute fondamentali sul rimedio che gli investitori possono utilizzare al fine di far valere la responsabilità dell’intermediario.

A) Nullità

Se si condividesse l’opinione per cui anche i singoli ordini sarebbero contratti di compravendita autonomi, ben potrebbe ipotizzarsi a tutela dell’investitore il rimedio della nullità dei medesimi. La dottrina si divide tra chi ritiene che tale sanzione derivi dalla violazione di norme imperative e chi sostiene che, invece, la stessa origini dalla mancanza del consenso del contraente-investitore. Nel primo caso (violazione di norme imperative) si argomenta partendo dal presupposto per cui tutta la materia concernente gli obblighi degli intermediari rappresenterebbe un corpus di norme a tutela dei risparmiatori e, pertanto, di interessi pubblicistici: la violazione di alcune disposizioni dello stesso configurerebbe una tipica ipotesi di contrarietà a norme imperative, sanzionata, secondo l’art. 1418, comma 1 cod. civ., con la nullità. Si ricordi, inoltre, che la sanzione della nullità non dovrebbe, come ha ritenuto parte della giurisprudenza, essere espressamente prevista dal legislatore, potendosi ipotizzare l’esistenza di un principio generale implicito nell’art. 1418 cod. civ. (è la tesi della nullità virtuale, affermata dalla Cassazione con sent. n. 3272/2001)[3]. Nel secondo caso (nullità per mancanza del consenso), poiché, secondo tale impostazione, i singoli ordini sarebbero contratti autonomi di compravendita, per procedere all’esecuzione di una operazione sarebbe necessaria un’ulteriore manifestazione di volontà da parte dell’investitore rispetto a quella già espressa in sede di conclusione del “contratto quadro”[4]. Ma la volontà dell’investitore (e così il suo consenso) si determinerebbe grazie proprio a quelle informazioni che l’intermediario ha per legge l’obbligo di fornirgli. Dunque se tali informazioni non fossero rese correttamente, la violazione sarebbe tanto grave da determinare addirittura la mancanza del consenso nell’investitore a concludere il “contratto-ordine”.

La tesi della nullità è confortata da moltissime pronunce di merito sino alle sentenze di Cassazione nn. 19024/2005 e 26725/2007 che, al contrario, sostengono la tesi della responsabilità contrattuale o precontrattuale dell’intermediario.

Tale tipo di rimedio ha certamente il pregio di tutelare maggiormente dal punto di vista processuale il risparmiatore, stante l’imprescrittibilità dell’azione e l’alleggerimento degli oneri probatori a suo carico rispetto ad un’azione volta ad ottenere il risarcimento del danno per inadempimento ex art. 1218 cod. civ. Inoltre la banca o, comunque, l’intermediario sarebbe obbligato, in caso di accoglimento della domanda di nullità, a restituire al cliente la somma utilizzata per l’acquisto dei titoli (ex art. 2033 cod. civ.) e a corrispondere altresì gli interessi legali dal giorno del pagamento, stante la ritenuta sua mala fede (talvolta la mala fede è stata esclusa dalla giurisprudenza, così determinando il conteggio degli interessi a partire dal giorno della domanda)[5]. Ciò, ovviamente, non esclude l’ulteriore risarcimento dei danni nel limite, si ritiene, dell’interesse negativo così come interpretato dalla giurisprudenza (cioè il vantaggio o lo svantaggio potenziale che l’investitore avrebbe conseguito se l’intermediario si fosse comportato professionalmente)[6]. Il cliente, dal canto suo, dovrebbe restituire le cedole degli interessi maturati ed i titoli oggetto della negoziazione.

La tesi, infine, comporterebbe l’esclusione di qualsivoglia profilo di un eventuale concorso di colpa dell’investitore (ex art. 1227 cod. civ.).

Critiche a tali impostazioni giungono da quella dottrina che ritiene i singoli ordini atti esecutivi del “contratto quadro”[7]. In particolar modo, si lamenta il fatto che la nullità inciderebbe sull’atto e non sul comportamento. Pertanto, dato che la violazione dei doveri degli intermediari riguarderebbe proprio il comportamento, la stessa potrebbe essere soltanto fonte di responsabilità contrattuale per inadempimento con eventuale risoluzione del “contratto-quadro” ai sensi dell’art. 1455 cod. civ.

B) Annullabilità

Appaiono voci isolate quelle (non solo di parte della dottrina, ma anche della giurisprudenza) che ravvisano in materia la configurabilità del rimedio dell’annullabilità dei singoli ordini per esistenza di vizi del consenso (Trib. Pinerolo, 14 ottobre 2005): dolo determinante (art. 1439 cod. civ.) o errore essenziale (art. 1429 cod. civ.). Sottolineiamo che la dottrina ritiene che in tali ipotesi non sia possibile applicare l’art. 23, comma 6 del TUF, in quanto previsto solo per i profili risarcitori (la norma prevede che in caso di azione volta ad ottenere il risarcimento del danno nei confronti dell’intermediario, gravi su quest’ultimo l’onere di provare di aver agito con la diligenza richiesta). Un orientamento interessante vorrebbe inquadrare la materia nella più generale disciplina dei contratti del consumatore, applicando alle violazioni de qua la disciplina delle clausole vessatorie (Trib. Roma 31 marzo 2005).

Gli effetti ovviamente di percorrere questa strada comporterebbero, a prescindere dalla prescrizione quinquennale e dalla possibilità di far valere il vizio solo dalla parte nel cui interesse è stabilito l’annullamento (artt. 1441-1442 cod. civ.), l’obbligo di restituzione dell’intero capitale investito, oltre agli interessi nella misura del saggio legale (poiché si tratterebbe di debito di valuta)[8].

Riportiamo due precedenti giurisprudenziali che, insieme a quelli già citati, ci consentono di meglio comprendere l’orientamento in questione.

In primo luogo una sentenza della Corte di Cassazione dell’86 (n. 7322) afferma che l’inganno sarebbe rilevante solo se intenzionale (coscienza e volontà), mentre non lo sarebbe in caso di inganno involontario o semplicemente colposo. In secondo luogo il Tribunale di Torino in una recentissima sentenza asserisce che vada escluso «che la mera violazione di obblighi informativi da parte dell’intermediario o la comunicazione di notizie imprecise rendano di per sé annullabile il contratto, ove manchi (…) qualsiasi allegazione e prova specifica di artifici e/o raggiri che abbiano ingenerato nell’investitore una rappresentazione alterata della realtà» (Trib. Torino 11 febbraio 2011, n. 1506 che comunque condivide la diversa tesi della responsabilità contrattuale in caso di violazione dei doveri informativi degli intermediari).

C) Responsabilità precontrattuale / contrattuale e risarcimento.

A seguito delle recenti pronunce della Corte di Cassazione (sentt. nn. 19024/2005, 26724-26725/2007)[9] è invalsa in giurisprudenza (ma non del tutto in dottrina)[10], la tesi per cui, ferma la natura di contratto misto (in particolar modo di mandato e di conto corrente) del “contratto-quadro” denominato dalla stessa Corte «contratto di intermediazione finanziaria» di investimento, essendo gli ordini successivi, semplici atti esecutivi dello stesso, le violazioni concernenti questi ultimi costituirebbero ipotesi di inadempimento contrattuale con conseguente risarcimento dei danni ed eventuale risoluzione del “contratto-quadro”.

La Corte (osservando, altresì, come i principi enucleati nella sentenza ultima citata siano valevoli anche per la nuova disciplina frutto dell’attuazione della direttiva Mifid - poiché la sentenza de quo si riferiva al sistema normativo anteriore) specifica il suo assunto osservando che, ferma restando la natura di norme imperative delle disposizioni concernenti gli obblighi informativi degli intermediari, la loro violazione non fonderebbe una ipotesi di nullità poiché il legislatore non ha espressamente previsto tale sanzione (frustrando così il principio enunciato dalla stessa Corte relativo alla esistenza dell’istituto della nullità virtuale - su cui vedi supra). La violazione di tali norme, pertanto, concernerebbe solo il rapporto fra (ed il comportamento delle) le parti (e non, dunque, il c.d. contratto-atto), potendo configurare soltanto una responsabilità di tipo precontrattuale (nelle ipotesi di violazione degli obblighi concernenti la consegna al cliente del documento informativo e dell’acquisizione delle informazione dal cliente – obblighi necessariamente anteriori alla stipulazione del “contratto-quadro”) o contrattuale (nei casi, invece, di violazione degli obblighi di informazione al cliente circa la natura e i rischi dell’operazione, di eventuali situazioni di conflitto di interessi, di astensione dal compimento di operazioni non adeguate al profilo di rischio e di tenersi informato sulla situazione del cliente per poterne curare la posizione in modo pienamente efficiente per tutta la fase esecutiva del rapporto – obblighi necessariamente appartenenti alla fase esecutiva del rapporto)[11].

Nello stesso senso si è pronunciato di recente il Tribunale di Torino in data 3 dicembre 2010, stabilendo che: «in tema di intermediazione finanziaria, la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguenze risarcitorie, ove dette violazioni avvengano nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti nel mentre può dar luogo, invece, a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del contratto suddetto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto quadro»[12]. Così allo stesso tempo la Cassazione con sentenza n. 22147/2010 ha affermato il medesimo principio asserendo, inoltre, che «è sufficiente che l’investitore alleghi da parte dell’intermediario l’inadempimento delle obbligazioni poste a suo carico dall’art. 21 del d.lgs. n. 58 del 1998 (integrato dalla normativa secondaria) e che provi che il pregiudizio lamentato consegua a siffatto inadempimento, mentre l’intermediario ha l’onere di provare d’aver rispettato i dettami di legge e di avere agito con la specifica diligenza richiesta»[13].

Così in caso di accoglimento di questa soluzione, nelle ipotesi di risarcimento del danno accompagnato da risoluzione del contratto, in capo alle parti sorgerebbero i rispettivi obblighi restitutori in modo tale da ripristinare le rispettive situazioni patrimoniali, come per il caso di dichiarazione di nullità. Mentre l’intermediario sarebbe tenuto a restituire il capitale investito, gli investitori dovrebbero restituire i titoli e le cedole degli interessi prodotti dai titoli obbligazionari, in quanto da considerarsi alla stregua di frutti. Tuttavia, poiché l’investitore è da considerarsi in buona fede, sarà tenuto a restituire i frutti solo dalla data della domanda, mentre l’intermediario che, secondo l’orientamento dominante, deve considerarsi in mala fede, è tenuto a corrispondere gli interessi sul capitale dal giorno del pagamento (App. Brescia, 20 giugno 2007).

Discorso a parte, ma importante per ciò che concerne la materia della responsabilità in caso di inadempimento, costituisce la problematica della prova dell’inadempimento e del nesso di causalità.

Dal primo punto di vista (prova dell’inadempimento) emblematico è l’art. 23, comma 6 del TUF (Trib. Monza, 14 ottobre 2004). Secondo la più recente giurisprudenza l’intermediario dovrebbe provare di: i) aver assunto adeguate informazioni sul rischio dei titoli negoziati; ii) aver adottato idonee procedure interne di controllo per trasmettere tali informazioni alla propria rete di vendita; iii) avere informato gli investitori dei rischi connessi con le specifiche operazioni di investimento; iv) aver segnalato per iscritto la non adeguatezza delle singole operazioni e l’esistenza di un interesse in conflitto, indicandone in entrambi casi le ragioni.

Dunque l’investitore può limitarsi a provare l’esistenza del contratto, l’evento lesivo ed il nesso di causalità.

In relazione a quest’ultimo, come appena asserito, l’onere della prova, circa la connessione causale tra danno subito e condotta dell’intermediario, graverebbe sull’investitore. Interessante è la sentenza del Tribunale di Rimini del 6 giugno 2007, secondo cui il fatto che l’intermediario abbia invitato l’investitore a vendere i titoli non escluderebbe il nesso di causalità tra la condotta dell’intermediario ed il danno lamentato dal cliente, incidendo semmai, tale circostanza, sull’entità del risarcimento dovuto. Altrettanto degne di nota sono quelle pronunce in base alle quali il danno derivante dal default di un titolo è connesso alla omissione di un obbligo informativo solo qualora possa dirsi provato che la diversa informazione non fornita dall’intermediario era in concreto nella disponibilità di questo e che tale informazione, se resa, avrebbe dissuaso l’investitore dal compiere l’operazione, ovvero lo avrebbe condotto ad una scelta di investimento diversa (Trib. Torino, 11 febbraio 2011; Trib. Milano 27 marzo 2007 e 10 gennaio 2007; Trib. Parma 21 marzo 2007 ). Infatti la citata sentenza del Tribunale di Torino afferma che «spetta a chi agisce l’onere di fornire la prova che, laddove l’intermediario avesse adempiuto ai propri obblighi informativi, non avrebbe proceduto all’acquisto. Invero mentre l’onere probatorio relativo all’adempimento delle prescrizioni del TUF spetta all’ intermediario ai sensi dell’art. 23 comma 6, quello inerente al nesso causale, in forza dei principi generali dell’ordinamento […] incombe sull’attore” (Trib. Torino 11 febbraio 2011). Si osservi, tuttavia, che in dottrina e in giurisprudenza talvolta si afferma che la prova sul nesso di causalità non spetti all’investitore (Trib. Genova, 15 marzo 2005; Trib. Roma, 8 ottobre 2004; Trib. Arezzo, 17 aprile 2004).



[1] INZITARI-PICCININI, La tutela del cliente nella negoziazione di strumenti finanziari, in Il diritto degli affari, a cura di INZITARI, Padova, 2008, p.168 ss.

[2] Per un’analisi approfondita si veda AA.VV., Banche, consumatori e tutela del risparmio. Servizi di investimento, market abuse e rapporti bancari, a cura di AMBROSINI, DEMARCHI, Torino, 2009.

[3] In giurisprudenza hanno seguito questo orientamento una serie di tribunali, tra cui, ad esempio: Trib. Modena, 10 gennaio 2008; Trib. Trento, 1 febbraio 2007; Trib. Firenze, 18 gennaio 2007; Trib. Firenze, 4 dicembre 2006; Tribunale Brindisi, 18 agosto 2006; Trib. Trani, 30 maggio 2006; Trib. Teramo, 18 maggio 2006; Trib. Foggia, 15 maggio 2006; Trib. Cagliari, 11 gennaio 2006; Trib. Cagliari, 2 gennaio 2006; Trib. Parma 21 ottobre 2005; Trib. Treviso, 10 ottobre 2005; Trib. Brindisi, 4 ottobre 2005; Trib. Brindisi, 22 luglio 2005; Trib. Venezia, 22 novembre 2004.

[4] INZITARI, op. cit., p. 168 ss.

[5] INZITARI, op. cit., p. 168 ss.

[6] SARTORI, Le regole di condotta degli intermediari finanziari. Disciplina e forme di tutela, Milano, 2004

[7] Su questo GALGANO, Trattato di diritto civile, t.2, Torino, 2010, p. 759 ss. Interessante è l’opinione di quella giurisprudenza che, pur condividendo la tesi della nullità, afferma che non tutte le violazioni di obblighi comportamentali comportano la nullità, dovendosi distinguere tra obblighi specifici (la cui violazione comporterebbe sempre nullità), e obblighi generici (la cui violazione comporterebbe l’applicazione delle regole della responsabilità contrattuale). Così Trib. Milano, 25 luglio 2005 e Trib. Roma 11 marzo 2005

[8] INZITARI, op. cit., p. 168 ss..

[9] Numerosi sono, in realtà, i Tribunali di merito che già prima della sentenza di Cassazione del 2007 richiamata, stabilivano, seppur con una posizione minoritaria, la responsabilità contrattuale in materia e non la nullità: Trib. Firenze, 23 ottobre 2006; Trib. di Biella, 12 luglio 2005 che, tra i diversi principi, enuncia l’applicazione dell’art. 1227 cod. civ.; Trib. Milano, 25 luglio 2005; Trib. Genova, 15 marzo 2005. Interessante la posizione di alcuni autori per cui la legge imporrebbe all’intermediario un obbligazione di mezzi (GAETA, Responsabilità oggettiva degli intermediari e validità dei contratti di investimento, in Contratti, 2005, 590) ovvero di coloro che sostengono la teoria del contatto sociale (FAILLACE, La responsabilità del contatto sociale, Padova, 2004, 136 ss., per la giurisprudenza: Trib. Roma, 23 marzo 2005, Trib. Taranto, 27 ottobre 2004 che equipara la posizione dell’intermediario a quella del medico come si legge in INZITARI, op. cit., p. 168 ss.). A metà tra la tesi della responsabilità contrattuale e quella della nullità, troviamo una pronuncia del tribunale di Milano del 15 febbraio 2005 per cui la violazione di obblighi informativi previsti da norme di natura imperative concernenti il momento genetico del negozio, comporterebbe la nullità del contratto, mentre l’inosservanza dei doveri di valutazione di adeguatezza dell’operazione al profilo di rischio dell’investitore, riferendosi alla diligenza dell’intermediario, comporterebbe una responsabilità contrattuale con possibile risoluzione del contratto (ex art. 1453 cod. civ.).

[10] Si veda, ad esempio, per la tesi della nullità INZITARI, cit., mentre per la tesi della responsabilità contrattuale, GALGANO, op.cit. e AA.VV., Banche, consumatori e tutela del risparmio, op. cit.

[11] INZITARI, op. cit., p. 168 ss.

[12] Nello stesso senso, Trib. Rovigo 2008.

[13] La Cassazione, nella stessa sentenza, stabilisce altresì una serie di importanti principi di diritto. Oltre al riconoscimento del configurarsi di una responsabilità precontrattuale a fronte di un contratto concluso (mentre era opinione tradizionale per cui una responsabilità di tale tipo fosse configurabile solo nelle ipotesi di rottura ingiustificata delle trattative o nel caso ex art. 1338 cod. civ.), fissa un importante principio in tema di entità del danno risarcibile (in caso di responsabilità precontrattuale): lo stesso deve essere commisurato al minor vantaggio ovvero al maggior aggravio economico conseguente al comportamento dell’intermediario, a meno che l’investitore non riesca a dimostrare la sussistenza di un maggior danno.