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La chance negata

Alcune osservazioni in margine alla decisione della Corte d’appello di Milano del 9 luglio 2011 che chiude il secondo grado di giudizio della nota controversia tra la CIR e la Fininvest; in particolare, in merito al primo motivo d’appello presentato dalla Fininvest e secondo incidentale formulato dalla CIR avverso la sentenza resa dal Tribunale dello stesso capoluogo lombardo in prime cure

La guerra di Segrate

La decisione della Corte d’appello di Milano del 9 luglio 2011[1] - che chiude il secondo grado di giudizio riformando, almeno in parte, la sentenza del Tribunale di prime cure [2]- apre un nuovo capitolo dell’intricata vicenda[3], conosciuta dai media come ‘ la guerra di Segrate’, che vede contrapporsi due noti imprenditori nella contesa per il controllo di un’importante impresa editoriale italiana.

 

I prodromi del libello

La vicenda oggetto del giudizio è assai complessa e riguarda la nota questione dell’acquisizione del controllo della AMEF - Arnoldo Mondadori Finanziaria spa – holding del gruppo Mondadori, che vede coinvolti due importanti gruppi imprenditoriali: la CIR di Carlo De Benedetti, la FININVEST di Silvio Berlusconi e la famiglia Formenton.

I prodromi del libello possono essere riassunti in 8 punti. 

1) Prima del dicembre 1988, il gruppo editoriale Mondadori [composto dalla capogruppo AME – Arnoldo Mondadori Spa[4] e da altre società controllate (fra cui La Repubblica) e non dalla stessa AME]  era controllato dalla AMEF – Arnoldo Mondadori Finanziaria Spa, con funzioni di holding del gruppo, composta dalla famiglia Formenton, dalla famiglia Mondadori, dalla CIR, dalla FININVEST ed altre società.

2)  Nel dicembre 1988, la CIR e la famiglia Formenton conclusero un complesso accordo inteso ad attribuire alla prima, il controllo del gruppo, per il tramite: b.1) di una permuta azionaria, nella quale la  seconda si impegnava a trasferire alla prima il pacchetto azionario detenuto in AMEF (circa il 25,75%), in cambio dell’impegno di CIR a cedere ai Formenton una consistente quota azionaria detenuta in AME (circa il 16%) e b.2) di una serie di patti di sindacato e di voto, sottoscritti contestualmente al contratto di permuta.

3) Successivamente, la FININVEST, venuta a conoscenza dell’accordo, iniziava a rastrellare sul mercato azioni dell’AMEF e della AME per rafforzare la propria posizione nel gruppo (inizialmente la sua quota era dell’8,28 % di AMEF) e tentare di acquisire il controllo di AMEF, e concludeva un accordo con la famiglia Formenton, che contrastava e infrangeva la promessa di permuta sottoscritta da quest’ultima con CIR.

4) Nel gennaio del 1990, la CIR, resasi conto del ‘doppio gioco’ della famiglia Fermenton e temendo il fallimento dell’accordo stipulato con quest’ultima nel dicembre 1988, dopo una breve schermaglia legale con gli altri protagonisti della vicenda [5], attivava la procedura arbitrale di equità (prevista nell’originaria convenzione sottoscritta con i Formenton, per il caso di disaccordo fra i sottoscrittori), che si concludeva sei mesi dopo con un lodo arbitrale (meglio conosciuto come “lodo Pratis”[6]), che – in estrema sintesi – affermava la liceità dei patti di sindacato e l’obbligo della famiglia Formenton di onorare, alla scadenza convenuta, l’accordo di permuta sottoscritto nel dicembre 1988[7].

5) Nel luglio del 1990 la famiglia Formenton impugnava il lodo innanzi alla Corte d’appello di Roma, la cui decisione (del 24 gennaio 1991, meglio conosciuta come “sentenza Metta”[8]) dichiarava la nullità del “lodo Pratis”, dei patti di sindacato e dell’intero accordo, inferendo un durissimo ‘colpo’ alla CIR.

6) A breve distanza di tempo, i duellanti (CIR e Fininvest) posero fine al confronto con una transazione stragiudiziale (c.d. lodo Ciarrapico), che comportava la ‘spartizione’ del gruppo[9], e la  rinuncia da parte di CIR ad impugnare la “sentenza Metta” in Cassazione.

7) Chiuso il procedimento civile, si apriva un lungo e complesso iter penale  per accertare se il giudizio di impugnazione del lodo fosse stato inficiato dalla corruzione di uno dei componenti del collegio (che svolgeva le funzioni di relatore).

8) Dopo alterne vicende, i magistrati penali riconobbero in via definitiva la colpevolezza del magistrato corrotto e di alcuni professionisti coinvolti nell’opera di corruzione nell’interesse della FININVEST, società cui aveva arriso il verdetto favorevole dinanzi alla corte d’appello [10].

 

Il giudizio di primo grado

Nel 2004 la CIR ricorreva dinanzi al Tribunale di Milano per ottenere il risarcimento del danno causatole dalla sentenza ingiusta. Il giudice del capoluogo lombardo, nel decidere la controversia, emetteva una sentenza che può essere sinteticamente riassunta in 6 punti.

A) riconosceva la natura extracontrattuale del rapporto intercorrente tra la FININVEST e la CIR[11].

B) riteneva provata, sia pure per presunzioni, la responsabilità diretta, oltre che ex art. 2049 c.c. per il fatto dei propri mandatari, della FININVEST (rea di aver corrotto un componente del collegio giudicante della Corte d’appello di Roma).

C) ammetteva l’esistenza del nesso tra la corruzione del giudice relatore[12] e l’esito del giudizio[13], ovvero sosteneva che la corruzione aveva condizionato l’esito giudiziario della controversia, aveva portato ad una sentenza ingiusta e aveva rappresenta un antecedente senza il quale l’evento stesso non si sarebbe verificato.

D) ammetteva l’esistenza del rapporto causale tra la sentenza ingiusta e l’indebolimento della posizione contrattuale di CIR nel successivo negoziato transattivo con FININVEST.

E) riteneva “più aderente alla realtà del caso in esame determinare concettualmente il danno subito da CIR come danno da perdita di ‘chance [14], dal momento che “nessuno può dire in assoluto quale sarebbe stata la decisione che un collegio nella sua totalità incorrotto, avrebbe emesso” [15].

F) determinava la misura del danno sofferto da CIR basandosi sull’esito della transazione, che, a suo giudizio, aveva stabilito condizioni negoziali svantaggiose e deteriori per CIR, rispetto a quelle che ragionevolmente si sarebbero avute in una trattativa non inquinata [16] e quantificava nell’80 % la misura della chance perduta da CIR di ottenere una sentenza favorevole [17].  

In estrema sintesi, al termine del giudizio, la CIR si vedeva quindi riconoscere dal Tribunale di Milano il diritto a ottenere dalla FININVEST il risarcimento dei danni patrimoniali da perdita di chance di un giudizio imparziale (quantificati, al lordo di rivalutazione ed interessi per i quasi quattro lustri trascorsi dal verificarsi del danno, in oltre settecentomilioni di euro) e di quelli non patrimoniali, a fronte della lesione del diritto, costituzionalmente garantito, a un giudizio reso da un giudice neutrale e del vulnus inferto all’immagine e alla reputazione (da liquidare in separata sede).

 

Il giudizio di secondo grado

Avverso la sentenza del Tribunale di Milano la FININVEST ricorreva dinanzi alla Corte d’Appello dello stesso capoluogo lombardo per ottenere la riforma della decisione, in quanto frutto di erronea interpretazione e ricostruzione dei fatti (per insussistenza della corruzione) nonché erronea o omessa applicazione della legge circa la ricostruzione del nesso (interrotto, a dire di FININVEST, dal mancato ricorso in Cassazione della CIR avverso la sentenza ingiusta) e la qualificazione giuridica del danno, della natura e dell’ammontare del risarcimento. La CIR, a sua volta, presentava appello incidentale per lamentare la “ridotta quantificazione del danno patrimoniale da lesione all’immagine imprenditoriale” e l’errata applicazione delle norme sul nesso eziologico (dal momento che il giudice di primo grado aveva riconosciuto un danno da perdita di chance e non “l’esistenza di un nesso di causalità immediato, diretto e non interrotto, fra la corruzione di Metta e l’annullamento del lodo”), nonché richiedere l’integrale liquidazione dei danni sofferti a seguito della emissione di una sentenza ingiusta.

Nel decidere la controversia la Corte - pur confermando per buona parte la sentenza appellata, rigettando quasi tutti i motivi di appello [18]  -  si dissocia dalle conclusioni cui era giunto il giudice di prime cure [19] su due punti essenziali della decisione: natura giuridica del danno e ammontare del risarcimento, per riconoscere – da una parte -  a CIR un danno immediato e diretto e non da perdita di chance e, dall’altra, a FININVEST, una revisione dei criteri di calcolo del danno, e per conseguenza una diminuzione dell’ammontare del risarcimento (a circa cinquecentoquarantamilioni di euro),  al fine di evitare  duplicazione di voci o sovrastime ingiustificate.

A questo punto, tralasciando gli aspetti quantitativi del risarcimento - che, seppur importanti, non rilevano all’analisi della decisione resa dalla Corte in merito al primo motivo d’appello della Fininvest e secondo incidentale di CIR –, ci si propone di analizzare quelli qualitativi: la qualificazione del danno e il criterio adottato per la ricostruzione del nesso, che rappresentano la novità della decisione in punto di diritto.

 

4 - La posizione della Corte d’appello di Milano rispetto alla ricostruzione eziologica del danno da perdita di chance

La Corte milanese, nel ribadire la validità del ricorso alle due categorie concettuali che presiedono all’indagine sul nesso causale in materia di responsabilità civile - probabilità relativa e possibilità-, esclude un loro diverso impiego a seconda che il danno sia diretto o da perdita di chance, in quanto ciò potrebbe portare a sovrapporre impropriamente “il piano del nesso eziologico con quello del tipo di danno risarcibile” [20].

In sintesi, la Corte afferma sul punto due principi, di notevole importanza [21]:

a) “il canone ‘ più probabile che non’, valevole per ogni tipo di responsabilità civile, non serve a dirimere la questione circa la natura del danno, in quanto detto parametro rileva sia per il danno diretto e immediato che per quello da perdita di chance, che sono due tipi diversi di danno risarcibile” [22];

b) una volta accertata in fatto “la relazione causale tra la condotta del giudice corrotto … e la sentenza ingiusta … secondo un normale criterio di causalità materiale … tutti i danni e non una percentuale di essi, debbano essere risarciti” [23].

Per meglio dire  “la corruzione di Metta, in definitiva, aveva privato CIR non tanto della ‘chance’ di una sentenza favorevole, ma della sentenza favorevole ‘tout court’ … [dal momento che] … il lodo sarebbe stato confermato, alla luce delle regole e della giurisprudenza all’epoca vigenti e a disposizione di una Corte normalmente preparata. E, … erano tanti e tali gli argomenti – di rito e di merito, di legge e di giurisprudenza, principali e subordinati, sistematici e letterali – che imponevano il rigetto dell’impugnazione, che si deve concludere che questo esito [favorevole per CIR] era, in concreto, certo”.

 

5 – Confronto tra il giudizio di causalità svolti in primo e secondo grado

Nella ricostruzione del nesso la Corte meneghina opera una netta distinzione tra causalità di fatto e giuridica[24], evitandone la sovrapposizione e relegando la seconda ad un momento successivo all’accertamento della prima. Nel giudizio di causalità, infatti, la Corte (svolgendo un giudizio ex ante [25]) si muove lungo una linea retta che parte dal primo elemento positivo della fattispecie (ovvero dalla prova che la Fininvest ha posto in essere una condizione dell’evento, e cioè un antecedente  - la corruzione di uno dei componenti del collegio giudicante - senza del quale il risultato – l’emanazione di una sentenza ingiusta - non si sarebbe verificato), per giungere all’evento finale (la pronuncia della sentenza ingiusta), analizzando nel corso lineare del giudizio l’efficienza eziologica, ammesso che vi sia stata [26], dei fattori concorrenti ed eccezionali (elementi negativi) che si sono inseriti nella serie causale – quale il fatto del giudice corrotto -.

Ed è proprio nella valutazione di uno dei fattori concorrenti – la condotta del giudice corrotto (appunto) - che si registra la differenza tra il giudizio di primo grado e quello di appello. Mentre il giudice di prime cure, astenendosi dallo svolgere un’indagine soggettiva della condotta del Metta, giunge alla conclusione che la corruzione non dava alla Fininvest la certezza di ottenere l’annullamento del lodo, ma rendeva solo possibile il conseguimento del risultato, dal momento che il giudice corrotto era un componente del collegio giudicante (e non vi poteva essere la certezza che riuscisse a condizionare ed orientare la decisione degli altri due magistrati) e che l’annullamento del lodo era solo una delle soluzioni possibili della controversia (il collegio ne avrebbe potute adottare anche altre) [27].

Il giudice di secondo grado, invece, al termine di un giudizio soggettivo della condotta del Metta appura l’esistenza di un nesso diretto tra la corruzione (antecedente) e la sentenza ingiusta (evento finale), sostenendo – implicitamente - che l’intervento del giudice corrotto nella serie causale rendeva certo ( e non soltanto possibile) il risultato voluto da Fininvest (cioè l’annullamento del lodo), ovvero la condotta del magistrato ‘comprato’ aumentava le probabilità di conseguire il risultato voluto da Fininvest, giacché era impossibile che un giudice, della preparazione del Metta, in condizioni normali (o, per meglio dire, in assenza di corruzione o di altri fattori eccezionali) potesse emanare una decisione così macroscopicamente sbagliata [28]. Le conseguenze risarcitorie, seguono la conclusione. Se il nesso viene ricostruito in termini di alta probabilità o quasi certezza anche il danno va risarcito nella sua interezza, salvo che non si riconosca all’attività del danneggiante un concorso nella causazione del danno. Al contrario, se il rapporto tra fatto ed evento è solo possibile, il danno va risarcito dopo aver stimato nel merito l’incidenza del fatto (compresa l’eventuale condotta concorrente del danneggiato) sull’evento.

 


[1] Il testo integrale della pronuncia, di cui si riproduce la parte della motivazione nella quale si affronta la questione giuridica della risarcibilità del danno, oggetto del presente commento, può leggersi in http://www.dirittodicritica.com/wp-content/uploads/2011/07/Fininvest-Cir-sentenza.pdf. Per un primo commento v. nota di A. PALMIERI e R. PARDOLESI, in Foro it., 2011, I, 2517.

V. anche osservazioni di PALMIERI, Corruzione del giudice, sentenza sfavorevole e indebolimento della posizione negoziale: dalla perdita di chance alla logica del “più probabile che non”, in Danno e responsabilità, 2011, 1060; TASSONE, Perdita di chances e nesso causale nel caso CIR-Fininvest, ibid., 1067; VASQUES, La certezza del diritto e fatti nuovi nel contenzioso e nella transazione CIR-Fininvest, ibid., 1077; DI CIOMMO, Transazione non impugnata e risarcimento dei danni per illecito incidente sulla formazione della volontà negoziale: brevi note sulla sentenza d’appello CIR/Fininvest, ibid., 1083; SIMONE, Appunti in margine alle ricadute del Lodo Mondadori: atto II, ibid., 1090; MONATARI, L’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c. nel caso di sentenza collegiale con asserita corruzione di un suo componente, ibid., 1094; NICITA, Scenario controfattuale e valutazione economica del danno: il caso CIR/Fininvest, ibid., 1098; LENER, Note minime intorno alla clausola di inscindibilità, ibid., 1104; MASTRORILLI, Domanda generica e infrazionabilità del credito, ibid., 1110.

[2] Pronunciata da Trib. Milano, 3 ottobre 2009, testo integrale in Foro it., Le banche dati, archivio Merito extra, per un primo commento v. nota di PALMIERI e PARDOLESI, id., 2009, I, 3193.

V. anche osservazioni di TESCARO, Danni da perdita di “chance” e danni non patrimoniali nella controversia Cir-Fininvest, in La responsabilità civile, 2010, 258; SCOGNAMIGLIO, Ingiustizia e quantificazione del danno da sentenza frutto di corruzione di uno dei componenti del collegio, in Resp. civ. prev., 2010, 611; GABRIELLI, Il contratto, il torto e il danno da chance perduta: profili di un’ipostasi giurisprudenziale, in Giust. Civ., 2010, II, 503; FRANZONI, La chance, il danno non patrimoniale e il caso Mondadori, in Contratto impresa, in Contratto impresa, 2009, 1898; GAZZONI, Ci vorrebbe un giudice di un altro pianeta (qualche dubbio ««garantista» sulla sentenza di risarcimento del danno per il c.d. lodo Mondadori), in Riv. dir. fam., 2009, 1898; CASTRONOVO, Vaga culpa in contraendo: invalidità responsabilità e la ricerca della chance perduta, in Europa dir. priv., 2010, 33.

[3] Ben lontana dal concludersi, prova ne è la notizia che giunge dalle cronache giornalistiche (vedi, tra i tanti, l’articolo pubblicato su “La Repubblica” del 5 ottobre 2011, dal titolo: “Lodo Mondadori, Fininvest contro i giudici. Esposto di Marina: “Omissioni gravissime”. La Cir: “Atto intimidatorio”).

[4] Ai fini della comprensione della vicenda è utile precisare che la CIR possedeva direttamente delle azioni della AME – capogruppo del gruppo Mondadori e controllata dalla holding AMEF.

[5]  Le parti proposero una serie di procedure d’urgenza e di sequestro, che è possibile leggere in Foro it., 1990, I, 1010 e 1701.

[6] Dal nome del terzo arbitro - dott. Carlo Maria Pratis, magistrato a riposo ex Procuratore Generale della S.C., designato dal Prof. Pietro Rescigno (arbitro indicato dalla CIR) e dal  Prof. Natalino Irti (nominato dalla famiglia Formenton).

[7] E’ facile intuire quali fossero le posizioni contrapposte nell’arbitrato: CIR chiedeva la sostanziale conferma dell’accorso stipulato con la famiglia Formenton ( i cui estremi sono riassunti al punto b del testo) e una pronuncia costitutiva che producesse l’effetto del contratto di permuta non concluso, ai sensi dell’art. 2932 c,.c.; la famiglia Formenton, al contrario, chiedeva la declaratoria di illiceità e nullità dei patti di sindacato e dell’intero accordo che li prevedeva.

Va precisato che nel motivare il lodo gli arbitri sostenevano di non essersi pronunciati ai sensi dell’art. 2932 c.c., in quanto il termine per la conclusione dell’accordo non era spirato, e sottolinearono che la lamentata illiceità e nullità dei patti non poteva estendersi all’intero accordo, giacché la convenzione era scindibile per volontà delle parti. 

La guerra di Segrate

La decisione della Corte d’appello di Milano del 9 luglio 2011[1] - che chiude il secondo grado di giudizio riformando, almeno in parte, la sentenza del Tribunale di prime cure [2]- apre un nuovo capitolo dell’intricata vicenda[3], conosciuta dai media come ‘ la guerra di Segrate’, che vede contrapporsi due noti imprenditori nella contesa per il controllo di un’importante impresa editoriale italiana.

 

I prodromi del libello

La vicenda oggetto del giudizio è assai complessa e riguarda la nota questione dell’acquisizione del controllo della AMEF - Arnoldo Mondadori Finanziaria spa – holding del gruppo Mondadori, che vede coinvolti due importanti gruppi imprenditoriali: la CIR di Carlo De Benedetti, la FININVEST di Silvio Berlusconi e la famiglia Formenton.

I prodromi del libello possono essere riassunti in 8 punti. 

1) Prima del dicembre 1988, il gruppo editoriale Mondadori [composto dalla capogruppo AME – Arnoldo Mondadori Spa[4] e da altre società controllate (fra cui La Repubblica) e non dalla stessa AME]  era controllato dalla AMEF – Arnoldo Mondadori Finanziaria Spa, con funzioni di holding del gruppo, composta dalla famiglia Formenton, dalla famiglia Mondadori, dalla CIR, dalla FININVEST ed altre società.

2)  Nel dicembre 1988, la CIR e la famiglia Formenton conclusero un complesso accordo inteso ad attribuire alla prima, il controllo del gruppo, per il tramite: b.1) di una permuta azionaria, nella quale la  seconda si impegnava a trasferire alla prima il pacchetto azionario detenuto in AMEF (circa il 25,75%), in cambio dell’impegno di CIR a cedere ai Formenton una consistente quota azionaria detenuta in AME (circa il 16%) e b.2) di una serie di patti di sindacato e di voto, sottoscritti contestualmente al contratto di permuta.

3) Successivamente, la FININVEST, venuta a conoscenza dell’accordo, iniziava a rastrellare sul mercato azioni dell’AMEF e della AME per rafforzare la propria posizione nel gruppo (inizialmente la sua quota era dell’8,28 % di AMEF) e tentare di acquisire il controllo di AMEF, e concludeva un accordo con la famiglia Formenton, che contrastava e infrangeva la promessa di permuta sottoscritta da quest’ultima con CIR.

4) Nel gennaio del 1990, la CIR, resasi conto del ‘doppio gioco’ della famiglia Fermenton e temendo il fallimento dell’accordo stipulato con quest’ultima nel dicembre 1988, dopo una breve schermaglia legale con gli altri protagonisti della vicenda [5], attivava la procedura arbitrale di equità (prevista nell’originaria convenzione sottoscritta con i Formenton, per il caso di disaccordo fra i sottoscrittori), che si concludeva sei mesi dopo con un lodo arbitrale (meglio conosciuto come “lodo Pratis”[6]), che – in estrema sintesi – affermava la liceità dei patti di sindacato e l’obbligo della famiglia Formenton di onorare, alla scadenza convenuta, l’accordo di permuta sottoscritto nel dicembre 1988[7].

5) Nel luglio del 1990 la famiglia Formenton impugnava il lodo innanzi alla Corte d’appello di Roma, la cui decisione (del 24 gennaio 1991, meglio conosciuta come “sentenza Metta”[8]) dichiarava la nullità del “lodo Pratis”, dei patti di sindacato e dell’intero accordo, inferendo un durissimo ‘colpo’ alla CIR.

6) A breve distanza di tempo, i duellanti (CIR e Fininvest) posero fine al confronto con una transazione stragiudiziale (c.d. lodo Ciarrapico), che comportava la ‘spartizione’ del gruppo[9], e la  rinuncia da parte di CIR ad impugnare la “sentenza Metta” in Cassazione.

7) Chiuso il procedimento civile, si apriva un lungo e complesso iter penale  per accertare se il giudizio di impugnazione del lodo fosse stato inficiato dalla corruzione di uno dei componenti del collegio (che svolgeva le funzioni di relatore).

8) Dopo alterne vicende, i magistrati penali riconobbero in via definitiva la colpevolezza del magistrato corrotto e di alcuni professionisti coinvolti nell’opera di corruzione nell’interesse della FININVEST, società cui aveva arriso il verdetto favorevole dinanzi alla corte d’appello [10].

 

Il giudizio di primo grado

Nel 2004 la CIR ricorreva dinanzi al Tribunale di Milano per ottenere il risarcimento del danno causatole dalla sentenza ingiusta. Il giudice del capoluogo lombardo, nel decidere la controversia, emetteva una sentenza che può essere sinteticamente riassunta in 6 punti.

A) riconosceva la natura extracontrattuale del rapporto intercorrente tra la FININVEST e la CIR[11].

B) riteneva provata, sia pure per presunzioni, la responsabilità diretta, oltre che ex art. 2049 c.c. per il fatto dei propri mandatari, della FININVEST (rea di aver corrotto un componente del collegio giudicante della Corte d’appello di Roma).

C) ammetteva l’esistenza del nesso tra la corruzione del giudice relatore[12] e l’esito del giudizio[13], ovvero sosteneva che la corruzione aveva condizionato l’esito giudiziario della controversia, aveva portato ad una sentenza ingiusta e aveva rappresenta un antecedente senza il quale l’evento stesso non si sarebbe verificato.

D) ammetteva l’esistenza del rapporto causale tra la sentenza ingiusta e l’indebolimento della posizione contrattuale di CIR nel successivo negoziato transattivo con FININVEST.

E) riteneva “più aderente alla realtà del caso in esame determinare concettualmente il danno subito da CIR come danno da perdita di ‘chance [14], dal momento che “nessuno può dire in assoluto quale sarebbe stata la decisione che un collegio nella sua totalità incorrotto, avrebbe emesso” [15].

F) determinava la misura del danno sofferto da CIR basandosi sull’esito della transazione, che, a suo giudizio, aveva stabilito condizioni negoziali svantaggiose e deteriori per CIR, rispetto a quelle che ragionevolmente si sarebbero avute in una trattativa non inquinata [16] e quantificava nell’80 % la misura della chance perduta da CIR di ottenere una sentenza favorevole [17].  

In estrema sintesi, al termine del giudizio, la CIR si vedeva quindi riconoscere dal Tribunale di Milano il diritto a ottenere dalla FININVEST il risarcimento dei danni patrimoniali da perdita di chance di un giudizio imparziale (quantificati, al lordo di rivalutazione ed interessi per i quasi quattro lustri trascorsi dal verificarsi del danno, in oltre settecentomilioni di euro) e di quelli non patrimoniali, a fronte della lesione del diritto, costituzionalmente garantito, a un giudizio reso da un giudice neutrale e del vulnus inferto all’immagine e alla reputazione (da liquidare in separata sede).

 

Il giudizio di secondo grado

Avverso la sentenza del Tribunale di Milano la FININVEST ricorreva dinanzi alla Corte d’Appello dello stesso capoluogo lombardo per ottenere la riforma della decisione, in quanto frutto di erronea interpretazione e ricostruzione dei fatti (per insussistenza della corruzione) nonché erronea o omessa applicazione della legge circa la ricostruzione del nesso (interrotto, a dire di FININVEST, dal mancato ricorso in Cassazione della CIR avverso la sentenza ingiusta) e la qualificazione giuridica del danno, della natura e dell’ammontare del risarcimento. La CIR, a sua volta, presentava appello incidentale per lamentare la “ridotta quantificazione del danno patrimoniale da lesione all’immagine imprenditoriale” e l’errata applicazione delle norme sul nesso eziologico (dal momento che il giudice di primo grado aveva riconosciuto un danno da perdita di chance e non “l’esistenza di un nesso di causalità immediato, diretto e non interrotto, fra la corruzione di Metta e l’annullamento del lodo”), nonché richiedere l’integrale liquidazione dei danni sofferti a seguito della emissione di una sentenza ingiusta.

Nel decidere la controversia la Corte - pur confermando per buona parte la sentenza appellata, rigettando quasi tutti i motivi di appello [18]  -  si dissocia dalle conclusioni cui era giunto il giudice di prime cure [19] su due punti essenziali della decisione: natura giuridica del danno e ammontare del risarcimento, per riconoscere – da una parte -  a CIR un danno immediato e diretto e non da perdita di chance e, dall’altra, a FININVEST, una revisione dei criteri di calcolo del danno, e per conseguenza una diminuzione dell’ammontare del risarcimento (a circa cinquecentoquarantamilioni di euro),  al fine di evitare  duplicazione di voci o sovrastime ingiustificate.

A questo punto, tralasciando gli aspetti quantitativi del risarcimento - che, seppur importanti, non rilevano all’analisi della decisione resa dalla Corte in merito al primo motivo d’appello della Fininvest e secondo incidentale di CIR –, ci si propone di analizzare quelli qualitativi: la qualificazione del danno e il criterio adottato per la ricostruzione del nesso, che rappresentano la novità della decisione in punto di diritto.

 

4 - La posizione della Corte d’appello di Milano rispetto alla ricostruzione eziologica del danno da perdita di chance

La Corte milanese, nel ribadire la validità del ricorso alle due categorie concettuali che presiedono all’indagine sul nesso causale in materia di responsabilità civile - probabilità relativa e possibilità-, esclude un loro diverso impiego a seconda che il danno sia diretto o da perdita di chance, in quanto ciò potrebbe portare a sovrapporre impropriamente “il piano del nesso eziologico con quello del tipo di danno risarcibile” [20].

In sintesi, la Corte afferma sul punto due principi, di notevole importanza [21]:

a) “il canone ‘ più probabile che non’, valevole per ogni tipo di responsabilità civile, non serve a dirimere la questione circa la natura del danno, in quanto detto parametro rileva sia per il danno diretto e immediato che per quello da perdita di chance, che sono due tipi diversi di danno risarcibile” [22];

b) una volta accertata in fatto “la relazione causale tra la condotta del giudice corrotto … e la sentenza ingiusta … secondo un normale criterio di causalità materiale … tutti i danni e non una percentuale di essi, debbano essere risarciti” [23].

Per meglio dire  “la corruzione di Metta, in definitiva, aveva privato CIR non tanto della ‘chance’ di una sentenza favorevole, ma della sentenza favorevole ‘tout court’ … [dal momento che] … il lodo sarebbe stato confermato, alla luce delle regole e della giurisprudenza all’epoca vigenti e a disposizione di una Corte normalmente preparata. E, … erano tanti e tali gli argomenti – di rito e di merito, di legge e di giurisprudenza, principali e subordinati, sistematici e letterali – che imponevano il rigetto dell’impugnazione, che si deve concludere che questo esito [favorevole per CIR] era, in concreto, certo”.

 

5 – Confronto tra il giudizio di causalità svolti in primo e secondo grado

Nella ricostruzione del nesso la Corte meneghina opera una netta distinzione tra causalità di fatto e giuridica[24], evitandone la sovrapposizione e relegando la seconda ad un momento successivo all’accertamento della prima. Nel giudizio di causalità, infatti, la Corte (svolgendo un giudizio ex ante [25]) si muove lungo una linea retta che parte dal primo elemento positivo della fattispecie (ovvero dalla prova che la Fininvest ha posto in essere una condizione dell’evento, e cioè un antecedente  - la corruzione di uno dei componenti del collegio giudicante - senza del quale il risultato – l’emanazione di una sentenza ingiusta - non si sarebbe verificato), per giungere all’evento finale (la pronuncia della sentenza ingiusta), analizzando nel corso lineare del giudizio l’efficienza eziologica, ammesso che vi sia stata [26], dei fattori concorrenti ed eccezionali (elementi negativi) che si sono inseriti nella serie causale – quale il fatto del giudice corrotto -.

Ed è proprio nella valutazione di uno dei fattori concorrenti – la condotta del giudice corrotto (appunto) - che si registra la differenza tra il giudizio di primo grado e quello di appello. Mentre il giudice di prime cure, astenendosi dallo svolgere un’indagine soggettiva della condotta del Metta, giunge alla conclusione che la corruzione non dava alla Fininvest la certezza di ottenere l’annullamento del lodo, ma rendeva solo possibile il conseguimento del risultato, dal momento che il giudice corrotto era un componente del collegio giudicante (e non vi poteva essere la certezza che riuscisse a condizionare ed orientare la decisione degli altri due magistrati) e che l’annullamento del lodo era solo una delle soluzioni possibili della controversia (il collegio ne avrebbe potute adottare anche altre) [27].

Il giudice di secondo grado, invece, al termine di un giudizio soggettivo della condotta del Metta appura l’esistenza di un nesso diretto tra la corruzione (antecedente) e la sentenza ingiusta (evento finale), sostenendo – implicitamente - che l’intervento del giudice corrotto nella serie causale rendeva certo ( e non soltanto possibile) il risultato voluto da Fininvest (cioè l’annullamento del lodo), ovvero la condotta del magistrato ‘comprato’ aumentava le probabilità di conseguire il risultato voluto da Fininvest, giacché era impossibile che un giudice, della preparazione del Metta, in condizioni normali (o, per meglio dire, in assenza di corruzione o di altri fattori eccezionali) potesse emanare una decisione così macroscopicamente sbagliata [28]. Le conseguenze risarcitorie, seguono la conclusione. Se il nesso viene ricostruito in termini di alta probabilità o quasi certezza anche il danno va risarcito nella sua interezza, salvo che non si riconosca all’attività del danneggiante un concorso nella causazione del danno. Al contrario, se il rapporto tra fatto ed evento è solo possibile, il danno va risarcito dopo aver stimato nel merito l’incidenza del fatto (compresa l’eventuale condotta concorrente del danneggiato) sull’evento.

 


[1] Il testo integrale della pronuncia, di cui si riproduce la parte della motivazione nella quale si affronta la questione giuridica della risarcibilità del danno, oggetto del presente commento, può leggersi in http://www.dirittodicritica.com/wp-content/uploads/2011/07/Fininvest-Cir-sentenza.pdf. Per un primo commento v. nota di A. PALMIERI e R. PARDOLESI, in Foro it., 2011, I, 2517.

V. anche osservazioni di PALMIERI, Corruzione del giudice, sentenza sfavorevole e indebolimento della posizione negoziale: dalla perdita di chance alla logica del “più probabile che non”, in Danno e responsabilità, 2011, 1060; TASSONE, Perdita di chances e nesso causale nel caso CIR-Fininvest, ibid., 1067; VASQUES, La certezza del diritto e fatti nuovi nel contenzioso e nella transazione CIR-Fininvest, ibid., 1077; DI CIOMMO, Transazione non impugnata e risarcimento dei danni per illecito incidente sulla formazione della volontà negoziale: brevi note sulla sentenza d’appello CIR/Fininvest, ibid., 1083; SIMONE, Appunti in margine alle ricadute del Lodo Mondadori: atto II, ibid., 1090; MONATARI, L’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c. nel caso di sentenza collegiale con asserita corruzione di un suo componente, ibid., 1094; NICITA, Scenario controfattuale e valutazione economica del danno: il caso CIR/Fininvest, ibid., 1098; LENER, Note minime intorno alla clausola di inscindibilità, ibid., 1104; MASTRORILLI, Domanda generica e infrazionabilità del credito, ibid., 1110.

[2] Pronunciata da Trib. Milano, 3 ottobre 2009, testo integrale in Foro it., Le banche dati, archivio Merito extra, per un primo commento v. nota di PALMIERI e PARDOLESI, id., 2009, I, 3193.

V. anche osservazioni di TESCARO, Danni da perdita di “chance” e danni non patrimoniali nella controversia Cir-Fininvest, in La responsabilità civile, 2010, 258; SCOGNAMIGLIO, Ingiustizia e quantificazione del danno da sentenza frutto di corruzione di uno dei componenti del collegio, in Resp. civ. prev., 2010, 611; GABRIELLI, Il contratto, il torto e il danno da chance perduta: profili di un’ipostasi giurisprudenziale, in Giust. Civ., 2010, II, 503; FRANZONI, La chance, il danno non patrimoniale e il caso Mondadori, in Contratto impresa, in Contratto impresa, 2009, 1898; GAZZONI, Ci vorrebbe un giudice di un altro pianeta (qualche dubbio ««garantista» sulla sentenza di risarcimento del danno per il c.d. lodo Mondadori), in Riv. dir. fam., 2009, 1898; CASTRONOVO, Vaga culpa in contraendo: invalidità responsabilità e la ricerca della chance perduta, in Europa dir. priv., 2010, 33.

[3] Ben lontana dal concludersi, prova ne è la notizia che giunge dalle cronache giornalistiche (vedi, tra i tanti, l’articolo pubblicato su “La Repubblica” del 5 ottobre 2011, dal titolo: “Lodo Mondadori, Fininvest contro i giudici. Esposto di Marina: “Omissioni gravissime”. La Cir: “Atto intimidatorio”).

[4] Ai fini della comprensione della vicenda è utile precisare che la CIR possedeva direttamente delle azioni della AME – capogruppo del gruppo Mondadori e controllata dalla holding AMEF.

[5]  Le parti proposero una serie di procedure d’urgenza e di sequestro, che è possibile leggere in Foro it., 1990, I, 1010 e 1701.

[6] Dal nome del terzo arbitro - dott. Carlo Maria Pratis, magistrato a riposo ex Procuratore Generale della S.C., designato dal Prof. Pietro Rescigno (arbitro indicato dalla CIR) e dal  Prof. Natalino Irti (nominato dalla famiglia Formenton).

[7] E’ facile intuire quali fossero le posizioni contrapposte nell’arbitrato: CIR chiedeva la sostanziale conferma dell’accorso stipulato con la famiglia Formenton ( i cui estremi sono riassunti al punto b del testo) e una pronuncia costitutiva che producesse l’effetto del contratto di permuta non concluso, ai sensi dell’art. 2932 c,.c.; la famiglia Formenton, al contrario, chiedeva la declaratoria di illiceità e nullità dei patti di sindacato e dell’intero accordo che li prevedeva.

Va precisato che nel motivare il lodo gli arbitri sostenevano di non essersi pronunciati ai sensi dell’art. 2932 c.c., in quanto il termine per la conclusione dell’accordo non era spirato, e sottolinearono che la lamentata illiceità e nullità dei patti non poteva estendersi all’intero accordo, giacché la convenzione era scindibile per volontà delle parti.