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La democrazia interna ai partiti politici in Italia

“I partiti esistono non per se stessi ma per il popolo”

(Konrad Adenauer)

Sommario:

1.1 I partiti politici nell’Ordinamento comunitario

1.2 I partiti politici nella Costituzione italiana

1.3 La tutela giurisdizionale dei diritti politici

1.4 La risarcibilità del danno

Nonostante le fibrillazioni interne al centro-destra la crisi di governo sembra non emergere in modo significativo e le elezioni anticipate rappresentano un’ipotesi piuttosto remota. Tuttavia, i tecnici della politica sono già al lavoro per simulare scenari futuri di governi possibili e di maggioranze stabili. Com’è noto, infatti, l’attuale legge elettorale – cosiddetta “porcellum” - assegna ai partiti politici la nomina dei parlamentari attraverso l’indicazione nelle liste elettorali di Camera e Senato dei candidati (e futuri eletti) sulla base di scelte curate esclusivamente da chi governa i partiti politici, con notevole alterazione dei principi a fondamento del suffragio universale consacrati nell’art. 49 della Costituzione.

La questione della democrazia interna ai partiti è antica quanto i partiti stessi. In tale direzione appare più che attuale uno dei primi studi della scienza politica moderna, “La Sociologia del partito politico” elaborato da Roberto Michels nel lontano 1911. Il dilemma è sempre lo stesso e concerne “il rapporto tra libertà ed efficienza”[1]. Oggi, tale questione, in presenza di sistemi elettorali a prevalente contenuto maggioritario, è divenuta indispensabile per ristabilire l’effettività della sovranità popolare. Da qui l’esigenza di spostare l’asse dell’attenzione anche sul sistema valoriale e sui processi democratici interni ai partiti politici italiani. Ciò, in considerazione che, come ormai accertato in più di cinquant’anni, non corre buon sangue tra quanto previsto dalla Costituzione in ordine alle funzione dei partiti politici e l’applicazione delle regole interne ai medesimi. Difetti e vizi che accomunano tutti i partiti politici italiani a partire da quelli più grandi. Il PDL è nato nel 2007 dalla somma di AN e Forza Italia, violandone nel contempo i rispettivi statuti. In casa AN, la fusione a freddo è stata infatti decisa dall’assemblea nazionale e non dal congresso. Lo scioglimento di Forza Italia è stata addirittura deciso in solitudine dal suo Presidente Berlusconi sul predellino di una Mercedes a San Babila. Quanto al PD, è stato battezzato nello stesso anno da un’assemblea di 2.858 delegati, ma l’anno dopo lo stesso partito ha modificato il proprio statuto senza numero legale con solamente il 20% di presenti. Un’analisi del Prof. Augusto Barbera racconta iscrizioni fittizie, congressi fantasma, espulsioni illecite, votazioni truccate nelle seconda Repubblica al pari della prima[2].

Anche l’ultima tornata elettorale del 13 e 14 aprile 2008 per il rinnovo di Camera e Senato ci ha consegnato ulteriori spunti di riflessione in ordine ai principi di democrazia interna ai partiti politici, già oggetto di numerosi interventi presenti in dottrina. La scelta dei candidati da posizionare utilmente nelle liste per le elezioni politiche ha rappresentato infatti un vero banco di prova per il sistema democratico interno alle associazioni partitiche ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Un Parlamento formato da Deputati e Senatori non scelti dal popolo sovrano ma dalle oligarchìe interne ai partiti. Un sistema elettorale discutibilissimo (non a caso definito “porcellum”) che tuttavia, a giudizio del Consiglio di Stato, non configura la violazione di un diritto fondamentale del singolo cittadino, quale diritto di voto o di un interesse legittimo da tutelare davanti al giudice amministrativo. Infatti i cittadini-elettori possono lamentare esclusivamente scelte discrezionali del legislatore intese a configurare un procedimento elettivo con il quale, pur affidandosi ai partiti politici un potere esclusivo in ordine alla designazione dei candidati, non risultano tuttavia limitati né il pluralismo partitico né la scelta sulle opzioni di voto da parte del singolo elettore e, pertanto, il sistema stesso non appare di per sé idoneo ad incidere in modo diretto sulla libera espressione del voto del cittadino elettore[3].

1.1 I partiti politici nell’Ordinamento comunitario

La Carta dei diritti fondamentale dell’U.E., pubblicata nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee il 18/12/2000, all’articolo 12, comma 1, prevede che “Ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà di associazione a tutti i livelli, segnatamente in campo politico, sindacale e civico, il che implica il diritto di ogni individuo di fondare sindacati insieme con altri e di aderirvi per la difesa dei propri interessi”. Il 2° comma del medesimo articolo prevede che “I partiti politici a livello dell’Unione contribuiscono a esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione”.

I partiti politici, compresi i partkti lmlitici europei, rappresentano quindi un elemento fondamentale nella costruzione dello spazio politico europeo, utile alla democrazia a livello europeo[4]. Il Trattato di Lisbona, approvato il 13/12/2007, che modifica il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità Europea, nel contesto della disciplina delle “Disposizioni relative ai principi democratici”, individua i partiti politici quali elementi fondamentali che “contribuiscono a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione”.

La collocazione di tale disposizione nell’ambito del Capo II dedicato alle “Libertà” “manifesta l’ampio rilievo che si intende attribuire ai partiti politici, destinati a non esaurire la propria attività con riferimento alla formazione del parlamento, ma sollecitati a dispiegare il proprio intervento in relazione a tutte le occasioni e ad ogni forma in cui può manifestarsi la partecipazione politica dei cittadini comunitari”[5].

Il ruolo fondamentale che le Istituzioni europee attribuiscono ai partiti politici sembra fuori discussione, tuttavia – a differenza di quanto accade nell’ordinamento italiano, dalla lettura delle citate disposizioni non emerge alcun richiamo ai principi democratici che dovrebbero regolare ed orientare la vita interna ai medesimi.

1.2 I partiti politici nella Costituzione italiana

L’art. 49 della Costituzione prevede che “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Per il successivo art. 51 “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Due disposizioni costituzionali che concorrono ad irrobustire il diritto di elettorato passivo di ogni cittadino ad assumere cariche elettive ed a determinare le politiche pubbliche anche per il tramite dei partiti politici.

Quali organizzazioni proprie della società civile e protagonisti indefettibili della vita politica ed istituzionale dello Stato italiano, i partiti politici godono quindi di una sfera di attribuzioni riservata e protetta perché “titolari ex lege di alcune pubbliche funzioni, in quanto ciò riguarda le elezioni, il funzionamento dei corpi rappresentativi ed il contributo dei cittadini, con metodo democratico, alla formazione della politica nazionale, ossia della funzione d’indirizzo politico”[6] ma non come poteri dello Stato ai quali riconoscere, ai fini dell’art. 134 Cost., “la natura di organi competenti a dichiarare la volontà di un potere dello Stato per la delimitazione di una sfera di attribuzioni determinata da norme costituzionali”[7].

Le funzioni da loro svolte, oltrechè pubbliche, sono anche costituzionalmente rilevanti, perché trovano fondamento nel citato art. 49 Cost.. Esse non possono quindi essere lese dall’autonomia, cosiddetta interna, riconosciuta ai partiti senza con ciò ledere il ruolo fondamentale che la Costituzione assegna agli stessi. I partiti politici sono infatti il principale, se non unico, strumento attraverso cui si esprime il pluralismo politico dei cittadini, i quali, loro tramite, possono partecipare quotidianamente alla determinazione della politica nazionale. Al riguardo è decisivo rilevare che “i partiti politici sono garantiti dalla carta costituzionale – nella prospettiva dei diritto dei cittadini di associarsi – quali strumenti di rappresentanza di interessi politicamente organizzati; diritto di associazione al quale si ricollega la garanzia del pluralismo”[8].

I partiti, quindi, concorrono alla formazione e manifestazione della volontà popolare e sono strumento fondamentale per la partecipazione politica e democratica. Le funzioni attribuite ai medesimi nel procedimento elettorale – deposito contrassegni delle candidature individuali e di lista, raccolta firme, selezione delle candidature, presentazione delle liste, campagna elettorale, applicazione della par condicio – costituiscono l’unico modo costituzionalmente possibile e legittimo perché nelle odierne democrazie rappresentative il popolo possa esercitare la propria sovranità, cioè per “raccordare”, come dice la Corte Costituzionale[9], democrazia e rappresentanza politica. Il ruolo fondamentale svolto dai partiti nel procedimento elettorale assume quindi natura non solo pubblica ma anche costituzionale perché costituisce la principale modalità di esercizio del ruolo attribuito ai partiti dall’art. 49 Cost.[10].

Peraltro, proprio in relazione a tali funzioni, i partiti godono di finanziamento pubblico. In tale contesto non appare inconferente evidenziare che l’Italia ha il primato europeo di paese con i costi più elevati della politica: 295 milioni l’anno contro i 130 della Germania, gli 80 della Spagna, i 75 della Francia e i 4 della Gran Bretagna dove il finanziamento pubblico è riconosciuto solo ai partiti politici d’opposizione.

1.3 La tutela giurisdizionale dei diritti politici

E’ di tutta evidenza come l’effettiva possibilità, per i cittadini, di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale abbia necessità di una serie di garanzie che investono anche vicende interne ai partiti politici. Nell’attuale sistema politico, la selezione dei candidati (e futuri eletti) alle cariche politiche è affidata esclusivamente agli organi di partito, con notevole alterazione dei principi a fondamento del suffragio universale consacrati nell’art. 48 della Costituzione. La democrazia interna ai partiti, nei sistemi elettorali a prevalente contenuto maggioritario, è divenuta, quindi, indispensabile per ristabilire l’effettività della sovranità popolare. L’organizzazione interna dei partiti, infatti, non può essere indifferente nelle relazioni giuridiche, e la giustiziabilità di talune pretese si profila sullo sfondo dell’attività dei partiti. Non si tratta (tanto) di riproporre le vessate questioni circa il controllo pubblico (id est: amministrativo alla stregua della disciplina legislativa) sui partiti, ma di “leggere” le relazioni tra singolo e associazioni privilegiate, valorizzando le logiche proprie del diritto comune dei rapporti interprivati, il quale non a caso si impernia sulla tutela delle posizioni soggettive e – di conseguenza – sui poteri del giudice[11].

In assenza di un’organica disciplina legislativa del problema, attuativa dell’art. 49 Cost., il rimedio comunemente ritenuto esperibile, in caso di violazioni in materia, è quello ordinario dell’art. 700 c.p.c., mediante l’inibitoria, richiesta al giudice dagli interessati (candidati od esponenti del partito ingiustamente pretermessi, oppure semplici elettori), della presentazione delle liste o di candidati, in violazione delle norme statutarie, anche con richiesta di eventuale sospensione e rinvio della consultazione elettorale od esclusione della lista interessata. Inoltre, tenuto conto che i partiti ricevono prevalentemente finanziamenti statali, svolgono compiti pubblicistici e sono comunque già oggi per lo più tenuti, dalle rispettive norme (per ora solo) interne, a seguire procedimenti di tipo amministrativo, non è da escludere l’esperibilità della tutela cautelare anche dinanzi i Tribunali amministrativi regionali[12]. In questa linea interpretativa appare utile richiamare la giurisprudenza dell’A.G.O. che ha ammesso l’impugnazione da parte del singolo aderente anche delle determinazioni assunte dai partiti politici, per violazione di disposizioni di legge o di statuto[13]; anche con riferimento alla possibile esclusione dell’associato o alla stessa utilizzazione del nome o del simbolo del partito[14].

Si osserva, a tal proposito, che a norma dell’art. 23 cc. (applicabile analogicamente alle associazioni non riconosciute) “Le deliberazioni dell’assemblea contrarie alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto possono essere annullate su istanza degli organi dell’ente, di qualunque associato o del pubblico ministero. L’annullamento della deliberazione non pregiudica i diritti acquisiti dai terzi in buona fede in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione medesima. Il Presidente del Tribunale o il Giudice istruttore, sentiti gli amministratori dell’associazione, può sospendere, su istanza di colui che ha proposto l’impugnazione, la esecuzione della deliberazione impugnata, quando sussistono gravi motivi. Il decreto di sospensione deve essere motivato ed è notificato agli amministratori. L’esecuzione delle deliberazioni contrarie all’ordine pubblico o al buon costume può essere sospesa anche dall’autorità governativa”[15]. Quindi, dallo schema normativo dell’art. 23, si evince che la invalidità delle delibere assembleari deve essere oggetto di una pronuncia giurisdizionale, ad eccezione del caso di radicale inesistenza. A conferma di tale impostazione, depone anche un altro ordine di considerazioni, bene espresse da una, peraltro non recentissima, decisione secondo la quale “L’intervento del giudice ordinario nella vita dei partiti politici è ammissibile solo per il ripristino della legalità interna ed è circoscritto al controllo di legalità e conformità statutaria delle deliberazioni generali ed espulsive ai sensi degli art. 23, 24 e 36 c.c.”[16].

Né può avere alcuna rilevanza la presenza diffusa negli statuti dei partiti politici della clausola compromissoria che demanda alla giurisdizione domestica ogni tipologia di controversia che dovesse manifestarsi nella vita interna dell’associazione. Nella maggior parte dei casi, infatti, su dette clausole grava l’ipotesi di nullità, considerato che la stessa attribuisce la veste di arbitri ad una commissione nazionale di garanzia dei probiviri priva dei necessari requisiti di terzietà ed imparzialità, non essendo riconducibile la loro nomina alla volontà autonoma delle parti[17].

In disparte ogni ulteriore considerazione sull’ammissibilità giuridica di una previsione statutaria che rechi una clausola arbitrale puramente civilistica di risoluzione del potenziale contenzioso (così sottraendolo alla giustizia statuale) in una materia in cui non facilmente possono configurarsi controversie devolvibili ad arbitri, in considerazione della natura tendenzialmente pubblica e indisponibile delle questioni che si agitano.

In sostanza, l’intervento del Giudice nella vita interna dei partiti non si giustifica rispetto alla denuncia di “semplici” violazioni statutarie, ma diventa necessario in relazione alla lesione di diritti inviolabili, non “coperti” dalla tutela endoassociativa quali sono quelli di cui agli articoli 49 e 51 della Costituzione. Pertanto, qualora la scelta dei candidati da inserire nella liste elettorali per il rinnovo di qualsiasi organo istituzionale elettivo avvenga senza il rispetto di quelle regole di democrazia interna (rectius “metodo democratico”) che i partiti devono possedere e rispettare, perché imposte dall’art. 49 della Costituzione, l’eventuale sindacato del Giudice, non costituendo certamente una forma di interferenza sulla vita interna dei partiti, non entrerebbe in collisione con la libertà di associazione, atteso che “tale libertà associativa trova, del resto, nel momento elettorale la più genuina e significativa espressione, in modo che sia garantita per gli elettori <<la possibilità di concorrere democraticamente a determinare la composizione e la scelta degli organi politici rappresentativi>>”[18].

L’affermazione di tali principi e di siffatte tutele aiutano ad evitare “il rischio che si vada verso una partitocrazia senza partito. O meglio nella quale contano soltanto i capi dei partiti, visto che questi (per l’affievolimento della vita democratica interna) non devono neanche rendere conto agli iscritti”[19]. Invero, “La norma costituzionale preclude, dunque, ai partiti politici e ai loro rappresentanti qualunque opera non solo di aperto sabotaggio ma anche di subdola, lenta e surrettizia erosione delle istituzioni democratiche, in quanto queste appartengono a tutti i cittadini (art. 1, 2° comma Costituzione) e certamente non ai loro rappresentanti politici…”[20]. Ora, in tale attività illecita di erosione non può non ricomprendersi il comportamento antidemocratico ed autoritario di chi detiene il potere in un determinato momento della vita del partito politico, posto che tale fenomeno consiste essenzialmente nella deliberata volontà di chi si trova alla guida del partito di non candidare persone in sintonia con l’establishment del partito. Né può diventare principio da recepire l’ossimoro “monarchia anarchica” coniato dal Ministro Giulio Tremonti per giustificare le scelte solitarie di un partito marcatamente carismatico come l’attuale PDL.

Inoltre, se lo scopo sociale del partito politico corrisponde al limite legale e virtuoso dei suoi dirigenti, l’atto ultra vires compiuto dal temerario dirigente di partito, non viola semplicemente il limite convenzionale dei poteri di rappresentanza, ma viola anche disposizioni di legge imperative di rango costituzionale (art. 49 ed art. 51 Cost.), derivandone, in linea di principio, la nullità dell’atto attraverso il quale il medesimo dirigente si è, ad esempio, assunto la responsabilità di decidere autonomamente le candidature di una competizione elettorale estromettendo chi ne avesse democraticamente fatto richiesta.

Così, il solitario dirigente di partito, oltre a violare formalmente e palesemente lo Statuto, impedirebbe, sostanzialmente, il corretto e trasparente processo di selezione delle candidature, attraverso scelte autonome, incomprensibili ed in violazione all’interesse prevalente che avrebbe dovuto essere sempre quello del rispetto sostanziale ed effettivo del principio democratico, quindi, oportet ut scandala eveniant. Lesione del diritto di elettorato passivo di ogni singolo aspirante alla candidatura, riconosciuto e garantito dall’art. 51 della Costituzione, di poter accedere, quale cittadino della Repubblica Italiana iscritto nelle liste elettorali del rispettivo Comune di residenza, alla carica pubblica elettiva in condizioni d’eguaglianza. Infatti il semplice cittadino in possesso dei requisiti richiesti dallo statuto del partito, vanterebbe un diritto perfetto all’ammissione alla candidatura, azionabile in giudizio[21]. Ciò sarebbe maggiormente da ritenere considerando che il partito politico è per tanti versi un’associazione “privilegiata” dai pubblici poteri, beneficiando tra l’altro del finanziamento pubblico: un’associazione, dunque, il cui “successo…discende in larga parte non dai meriti dell’associazione in sé, bensì dai poteri e dai diritti di cui essa gode, grazie a… provvedimenti della pubblica autorità”[22].

1.4 La risarcibilità del danno

L’accertata violazione di un diritto di elettorato passivo connesso ad un procedimento non democratico interno al partito politico può aprire le porte alla pretesa risarcitoria. La formazione delle liste dei candidati ad opera dei partiti politici, rientra nei poteri decisionali dell’associazione politica, onde può escludersi ex ante la titolarità di un diritto alla candidatura in capo al singolo associato, la cui posizione è riconducibile alla mera aspettativa di fatto, priva di rilevanza giuridica. Tuttavia, in giurisprudenza si registra un indirizzo secondo cui “Quando però, la candidatura sia stata promessa da un organo dell’associazione, che, come nel caso che ci occupa, in una situazione di indirizzi univoci e concordanti agisca per conto di quella, in tal modo suscitando nell’associato il legittimo affidamento, protrattosi nel tempo, circa la presentazione della sua candidatura, allora è configurabile il diritto al risarcimento del danno per la lesione dell’aspettativa, essendo ormai l’associato in una posizione giuridica tale da presumere fondatamente di essere candidato”[23].

La normativa sulla responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. ha la funzione di consentire il risarcimento del danno ingiusto, intendendosi come tale il danno arrecato non iure, il danno, cioè, inferto in assenza di una causa giustificativa, che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in particolare, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo. L’affidamento maturato nel cittadino al quale è stata offerta la candidatura è una posizione meritevole di tutela secondo l’ordinamento, indipendentemente dall’esistenza di un obbligo contrattuale in tal senso, come emerge dalle norme in tema di responsabilità precontrattuale, dai principi consolidati in tema di apparenza del diritto ed, in genere di tutela del terzo in buona fede (cfr. art. 1415), per cui la sua lesione può dar luogo alla tutela risarcitoria, in presenza di tutti gli elementi previsti dall’art. 2043 c.c..

L’ipotesi risarcitoria individuata dalla giurisprudenza citata è quella derivante dalla responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.. Ma non è da escludere anche quella derivante da danno da perdita di chance. Infatti, “secondo la più recente elaborazione giurisprudenziale, nei casi in cui ad un soggetto è preclusa in radice la partecipazione ad una gara o concorso, sicchè non è possibile dimostrare, ex post, né la certezza della vittoria, né la certezza della non vittoria, la situazione soggettiva tutelabile è la chance, cioè l’astratta possibilità di un esito favorevole”[24]. Si tratta non di una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a se stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione, onde la sua perdita, vale a dire la perdita della possibilità consistente di conseguire il risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura un danno concreto ed attuale[25]. Sulla scia di un autorevole dottrina e dell’orientamento dominante della giurisprudenza è stato affermato dalla Suprema Corte di Cassazione che la chance, come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, non è una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione. Ne consegue che la sua perdita, ossia la perdita della possibilità di conseguire un qualsivoglia risultato utile, deve essere provata la sussistenza[26].

Chi subisce un danno da perdita di chance può chiederne il ristoro o mediante la ripetizione dell’occasione perduta o per equivalente monetario[27]. Ma, poiché l’omessa richiesta della tutela reintegratoria non implica alcuna preclusione nella concessione del risarcimento per equivalente monetario[28], ben potrebbero gli aspiranti alla candidatura, ingiustamente estromessi dalle liste elettorali, chiedere il risarcimento del danno da perdita di chance per equivalente monetario, nonché per un indubbio danno rappresentato dalla perdita d’immagine e di prestigio politico e sociale, in quanto determinata non solo dalla mancata possibilità di partecipare alla competizione elettorale, ma dalla stessa divulgazione presso la rispettiva comunità di riferimento territoriale della notizia che ne ha incrinato e scalfito l’immagine sociale e politica.



[1] Piero Ignazi, “Primo round al centralismo berlusconiano”, Il Sole 24Ore, 25/04/2010.

[2] Michele Ainis, “Il divorzio tra partiti e regole”, Il Sole 24Ore, 19/03/2010 n. 77.

[3] Cons. di Stato, 13 marzo 2008, sent. n. 1053.

[4] Risoluzione del Parlamento Europeo sui partiti politici europei, approvata a Bruxelles il 23/03/2006, in Federalismi.it.

[5] Adriana Ciancio, “I Partiti europei e il processo di democratizzazione dell’Unione”, in Federalismi.it, 06/05/2009.

[6] Tar Lazio, sez. II, sent. 14/10/2009 n. 9895.

[7] Corte Cost. Ordinanza n. 79/2006 e n. 120/2009.

[8] Corte Cost. Ordinanza n. 79/2006.

[9] Idem.

[10] Savatore Curreri , “Non varcate quella soglia”, 18 aprile 2006 e Armando Mannino, “I partiti politici davanti alla Corte Costituzionale”, 3 maggio 2006 in Forum di Quaderni Costituzionali.

[11] Donato Messineo, “L’ammissione del cittadino ai partiti: osservazioni a margine del caso Pannella”, in liberalfondazione.it.

[12] Sergio Santoro, “La democrazia interna dei partiti”, in Giustizia-amministrativa.it.

[13] Tra le tante, si vedano, Trib. Roma, 18/08/2001; 3/06/1995.

[14] Trib. Roma, 21/03/1995; sez.III° civ. sent. 07/06/2004 n. 17791.

[15] Corte d’Appello Torino, 10/01/2003; Tribunale di Padova, 29/06/1995.

[16] Tribunale di Roma, 23/03/1995.

[17] A titolo esemplificativo si veda il caso di Alleanza Nazionale per il quale la nullità di detta clausola compromissoria prevista nello statuto di A.N. è stata acclarata dal Tribunale di Napoli con Ordinanza del 22/10/2003.

[18] Corte Cost. sent. n. 429/1995 e sent. 256/2010.

[19] Guido Campagna, “La democrazia nei partiti fra le riforme da valutare”, Il Sole 24Ore, 27/04/2010.

[20] Tar Catania, sentenze nn. 910/88 e 1181/2006.

[21] Bardusco, “L’ammissione del cittadino ai partiti”, Milano-Varese, 1967, 93 ss.

[22] Pace, “Problematica delle libertà costituzionali”, Padova 1992, 354 s. nt. 8 e 378 nt. 20.

[23] Tribunale di Roma, sez. III civ. sent. n. 7/06/2004 n. 17791.

[24] Tar Lazio, sede di Roma, sez. I°, 24/05/2006.

[25] Cass. Civ. sez. III, 4/03/2004, n. 4400.

[26] Cass. Civ. II° sez. sent. N. 3999/2003.

[27] Cass. Civ. sez. lav., 19/11/1997, n. 1522, richiamata da Cons. St. VI, 5/12/2005, n. 6960.

[28] Cons. St., n. 5500/2004 e Cons. St., 6960/2005.

“I partiti esistono non per se stessi ma per il popolo”

(Konrad Adenauer)

Sommario:

1.1 I partiti politici nell’Ordinamento comunitario

1.2 I partiti politici nella Costituzione italiana

1.3 La tutela giurisdizionale dei diritti politici

1.4 La risarcibilità del danno

Nonostante le fibrillazioni interne al centro-destra la crisi di governo sembra non emergere in modo significativo e le elezioni anticipate rappresentano un’ipotesi piuttosto remota. Tuttavia, i tecnici della politica sono già al lavoro per simulare scenari futuri di governi possibili e di maggioranze stabili. Com’è noto, infatti, l’attuale legge elettorale – cosiddetta “porcellum” - assegna ai partiti politici la nomina dei parlamentari attraverso l’indicazione nelle liste elettorali di Camera e Senato dei candidati (e futuri eletti) sulla base di scelte curate esclusivamente da chi governa i partiti politici, con notevole alterazione dei principi a fondamento del suffragio universale consacrati nell’art. 49 della Costituzione.

La questione della democrazia interna ai partiti è antica quanto i partiti stessi. In tale direzione appare più che attuale uno dei primi studi della scienza politica moderna, “La Sociologia del partito politico” elaborato da Roberto Michels nel lontano 1911. Il dilemma è sempre lo stesso e concerne “il rapporto tra libertà ed efficienza”[1]. Oggi, tale questione, in presenza di sistemi elettorali a prevalente contenuto maggioritario, è divenuta indispensabile per ristabilire l’effettività della sovranità popolare. Da qui l’esigenza di spostare l’asse dell’attenzione anche sul sistema valoriale e sui processi democratici interni ai partiti politici italiani. Ciò, in considerazione che, come ormai accertato in più di cinquant’anni, non corre buon sangue tra quanto previsto dalla Costituzione in ordine alle funzione dei partiti politici e l’applicazione delle regole interne ai medesimi. Difetti e vizi che accomunano tutti i partiti politici italiani a partire da quelli più grandi. Il PDL è nato nel 2007 dalla somma di AN e Forza Italia, violandone nel contempo i rispettivi statuti. In casa AN, la fusione a freddo è stata infatti decisa dall’assemblea nazionale e non dal congresso. Lo scioglimento di Forza Italia è stata addirittura deciso in solitudine dal suo Presidente Berlusconi sul predellino di una Mercedes a San Babila. Quanto al PD, è stato battezzato nello stesso anno da un’assemblea di 2.858 delegati, ma l’anno dopo lo stesso partito ha modificato il proprio statuto senza numero legale con solamente il 20% di presenti. Un’analisi del Prof. Augusto Barbera racconta iscrizioni fittizie, congressi fantasma, espulsioni illecite, votazioni truccate nelle seconda Repubblica al pari della prima[2].

Anche l’ultima tornata elettorale del 13 e 14 aprile 2008 per il rinnovo di Camera e Senato ci ha consegnato ulteriori spunti di riflessione in ordine ai principi di democrazia interna ai partiti politici, già oggetto di numerosi interventi presenti in dottrina. La scelta dei candidati da posizionare utilmente nelle liste per le elezioni politiche ha rappresentato infatti un vero banco di prova per il sistema democratico interno alle associazioni partitiche ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Un Parlamento formato da Deputati e Senatori non scelti dal popolo sovrano ma dalle oligarchìe interne ai partiti. Un sistema elettorale discutibilissimo (non a caso definito “porcellum”) che tuttavia, a giudizio del Consiglio di Stato, non configura la violazione di un diritto fondamentale del singolo cittadino, quale diritto di voto o di un interesse legittimo da tutelare davanti al giudice amministrativo. Infatti i cittadini-elettori possono lamentare esclusivamente scelte discrezionali del legislatore intese a configurare un procedimento elettivo con il quale, pur affidandosi ai partiti politici un potere esclusivo in ordine alla designazione dei candidati, non risultano tuttavia limitati né il pluralismo partitico né la scelta sulle opzioni di voto da parte del singolo elettore e, pertanto, il sistema stesso non appare di per sé idoneo ad incidere in modo diretto sulla libera espressione del voto del cittadino elettore[3].

1.1 I partiti politici nell’Ordinamento comunitario

La Carta dei diritti fondamentale dell’U.E., pubblicata nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee il 18/12/2000, all’articolo 12, comma 1, prevede che “Ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà di associazione a tutti i livelli, segnatamente in campo politico, sindacale e civico, il che implica il diritto di ogni individuo di fondare sindacati insieme con altri e di aderirvi per la difesa dei propri interessi”. Il 2° comma del medesimo articolo prevede che “I partiti politici a livello dell’Unione contribuiscono a esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione”.

I partiti politici, compresi i partkti lmlitici europei, rappresentano quindi un elemento fondamentale nella costruzione dello spazio politico europeo, utile alla democrazia a livello europeo[4]. Il Trattato di Lisbona, approvato il 13/12/2007, che modifica il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità Europea, nel contesto della disciplina delle “Disposizioni relative ai principi democratici”, individua i partiti politici quali elementi fondamentali che “contribuiscono a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione”.

La collocazione di tale disposizione nell’ambito del Capo II dedicato alle “Libertà” “manifesta l’ampio rilievo che si intende attribuire ai partiti politici, destinati a non esaurire la propria attività con riferimento alla formazione del parlamento, ma sollecitati a dispiegare il proprio intervento in relazione a tutte le occasioni e ad ogni forma in cui può manifestarsi la partecipazione politica dei cittadini comunitari”[5].

Il ruolo fondamentale che le Istituzioni europee attribuiscono ai partiti politici sembra fuori discussione, tuttavia – a differenza di quanto accade nell’ordinamento italiano, dalla lettura delle citate disposizioni non emerge alcun richiamo ai principi democratici che dovrebbero regolare ed orientare la vita interna ai medesimi.

1.2 I partiti politici nella Costituzione italiana

L’art. 49 della Costituzione prevede che “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Per il successivo art. 51 “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Due disposizioni costituzionali che concorrono ad irrobustire il diritto di elettorato passivo di ogni cittadino ad assumere cariche elettive ed a determinare le politiche pubbliche anche per il tramite dei partiti politici.

Quali organizzazioni proprie della società civile e protagonisti indefettibili della vita politica ed istituzionale dello Stato italiano, i partiti politici godono quindi di una sfera di attribuzioni riservata e protetta perché “titolari ex lege di alcune pubbliche funzioni, in quanto ciò riguarda le elezioni, il funzionamento dei corpi rappresentativi ed il contributo dei cittadini, con metodo democratico, alla formazione della politica nazionale, ossia della funzione d’indirizzo politico”[6] ma non come poteri dello Stato ai quali riconoscere, ai fini dell’art. 134 Cost., “la natura di organi competenti a dichiarare la volontà di un potere dello Stato per la delimitazione di una sfera di attribuzioni determinata da norme costituzionali”[7].

Le funzioni da loro svolte, oltrechè pubbliche, sono anche costituzionalmente rilevanti, perché trovano fondamento nel citato art. 49 Cost.. Esse non possono quindi essere lese dall’autonomia, cosiddetta interna, riconosciuta ai partiti senza con ciò ledere il ruolo fondamentale che la Costituzione assegna agli stessi. I partiti politici sono infatti il principale, se non unico, strumento attraverso cui si esprime il pluralismo politico dei cittadini, i quali, loro tramite, possono partecipare quotidianamente alla determinazione della politica nazionale. Al riguardo è decisivo rilevare che “i partiti politici sono garantiti dalla carta costituzionale – nella prospettiva dei diritto dei cittadini di associarsi – quali strumenti di rappresentanza di interessi politicamente organizzati; diritto di associazione al quale si ricollega la garanzia del pluralismo”[8].

I partiti, quindi, concorrono alla formazione e manifestazione della volontà popolare e sono strumento fondamentale per la partecipazione politica e democratica. Le funzioni attribuite ai medesimi nel procedimento elettorale – deposito contrassegni delle candidature individuali e di lista, raccolta firme, selezione delle candidature, presentazione delle liste, campagna elettorale, applicazione della par condicio – costituiscono l’unico modo costituzionalmente possibile e legittimo perché nelle odierne democrazie rappresentative il popolo possa esercitare la propria sovranità, cioè per “raccordare”, come dice la Corte Costituzionale[9], democrazia e rappresentanza politica. Il ruolo fondamentale svolto dai partiti nel procedimento elettorale assume quindi natura non solo pubblica ma anche costituzionale perché costituisce la principale modalità di esercizio del ruolo attribuito ai partiti dall’art. 49 Cost.[10].

Peraltro, proprio in relazione a tali funzioni, i partiti godono di finanziamento pubblico. In tale contesto non appare inconferente evidenziare che l’Italia ha il primato europeo di paese con i costi più elevati della politica: 295 milioni l’anno contro i 130 della Germania, gli 80 della Spagna, i 75 della Francia e i 4 della Gran Bretagna dove il finanziamento pubblico è riconosciuto solo ai partiti politici d’opposizione.

1.3 La tutela giurisdizionale dei diritti politici

E’ di tutta evidenza come l’effettiva possibilità, per i cittadini, di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale abbia necessità di una serie di garanzie che investono anche vicende interne ai partiti politici. Nell’attuale sistema politico, la selezione dei candidati (e futuri eletti) alle cariche politiche è affidata esclusivamente agli organi di partito, con notevole alterazione dei principi a fondamento del suffragio universale consacrati nell’art. 48 della Costituzione. La democrazia interna ai partiti, nei sistemi elettorali a prevalente contenuto maggioritario, è divenuta, quindi, indispensabile per ristabilire l’effettività della sovranità popolare. L’organizzazione interna dei partiti, infatti, non può essere indifferente nelle relazioni giuridiche, e la giustiziabilità di talune pretese si profila sullo sfondo dell’attività dei partiti. Non si tratta (tanto) di riproporre le vessate questioni circa il controllo pubblico (id est: amministrativo alla stregua della disciplina legislativa) sui partiti, ma di “leggere” le relazioni tra singolo e associazioni privilegiate, valorizzando le logiche proprie del diritto comune dei rapporti interprivati, il quale non a caso si impernia sulla tutela delle posizioni soggettive e – di conseguenza – sui poteri del giudice[11].

In assenza di un’organica disciplina legislativa del problema, attuativa dell’art. 49 Cost., il rimedio comunemente ritenuto esperibile, in caso di violazioni in materia, è quello ordinario dell’art. 700 c.p.c., mediante l’inibitoria, richiesta al giudice dagli interessati (candidati od esponenti del partito ingiustamente pretermessi, oppure semplici elettori), della presentazione delle liste o di candidati, in violazione delle norme statutarie, anche con richiesta di eventuale sospensione e rinvio della consultazione elettorale od esclusione della lista interessata. Inoltre, tenuto conto che i partiti ricevono prevalentemente finanziamenti statali, svolgono compiti pubblicistici e sono comunque già oggi per lo più tenuti, dalle rispettive norme (per ora solo) interne, a seguire procedimenti di tipo amministrativo, non è da escludere l’esperibilità della tutela cautelare anche dinanzi i Tribunali amministrativi regionali[12]. In questa linea interpretativa appare utile richiamare la giurisprudenza dell’A.G.O. che ha ammesso l’impugnazione da parte del singolo aderente anche delle determinazioni assunte dai partiti politici, per violazione di disposizioni di legge o di statuto[13]; anche con riferimento alla possibile esclusione dell’associato o alla stessa utilizzazione del nome o del simbolo del partito[14].

Si osserva, a tal proposito, che a norma dell’art. 23 cc. (applicabile analogicamente alle associazioni non riconosciute) “Le deliberazioni dell’assemblea contrarie alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto possono essere annullate su istanza degli organi dell’ente, di qualunque associato o del pubblico ministero. L’annullamento della deliberazione non pregiudica i diritti acquisiti dai terzi in buona fede in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione medesima. Il Presidente del Tribunale o il Giudice istruttore, sentiti gli amministratori dell’associazione, può sospendere, su istanza di colui che ha proposto l’impugnazione, la esecuzione della deliberazione impugnata, quando sussistono gravi motivi. Il decreto di sospensione deve essere motivato ed è notificato agli amministratori. L’esecuzione delle deliberazioni contrarie all’ordine pubblico o al buon costume può essere sospesa anche dall’autorità governativa”[15]. Quindi, dallo schema normativo dell’art. 23, si evince che la invalidità delle delibere assembleari deve essere oggetto di una pronuncia giurisdizionale, ad eccezione del caso di radicale inesistenza. A conferma di tale impostazione, depone anche un altro ordine di considerazioni, bene espresse da una, peraltro non recentissima, decisione secondo la quale “L’intervento del giudice ordinario nella vita dei partiti politici è ammissibile solo per il ripristino della legalità interna ed è circoscritto al controllo di legalità e conformità statutaria delle deliberazioni generali ed espulsive ai sensi degli art. 23, 24 e 36 c.c.”[16].

Né può avere alcuna rilevanza la presenza diffusa negli statuti dei partiti politici della clausola compromissoria che demanda alla giurisdizione domestica ogni tipologia di controversia che dovesse manifestarsi nella vita interna dell’associazione. Nella maggior parte dei casi, infatti, su dette clausole grava l’ipotesi di nullità, considerato che la stessa attribuisce la veste di arbitri ad una commissione nazionale di garanzia dei probiviri priva dei necessari requisiti di terzietà ed imparzialità, non essendo riconducibile la loro nomina alla volontà autonoma delle parti[17].

In disparte ogni ulteriore considerazione sull’ammissibilità giuridica di una previsione statutaria che rechi una clausola arbitrale puramente civilistica di risoluzione del potenziale contenzioso (così sottraendolo alla giustizia statuale) in una materia in cui non facilmente possono configurarsi controversie devolvibili ad arbitri, in considerazione della natura tendenzialmente pubblica e indisponibile delle questioni che si agitano.

In sostanza, l’intervento del Giudice nella vita interna dei partiti non si giustifica rispetto alla denuncia di “semplici” violazioni statutarie, ma diventa necessario in relazione alla lesione di diritti inviolabili, non “coperti” dalla tutela endoassociativa quali sono quelli di cui agli articoli 49 e 51 della Costituzione. Pertanto, qualora la scelta dei candidati da inserire nella liste elettorali per il rinnovo di qualsiasi organo istituzionale elettivo avvenga senza il rispetto di quelle regole di democrazia interna (rectius “metodo democratico”) che i partiti devono possedere e rispettare, perché imposte dall’art. 49 della Costituzione, l’eventuale sindacato del Giudice, non costituendo certamente una forma di interferenza sulla vita interna dei partiti, non entrerebbe in collisione con la libertà di associazione, atteso che “tale libertà associativa trova, del resto, nel momento elettorale la più genuina e significativa espressione, in modo che sia garantita per gli elettori <<la possibilità di concorrere democraticamente a determinare la composizione e la scelta degli organi politici rappresentativi>>”[18].

L’affermazione di tali principi e di siffatte tutele aiutano ad evitare “il rischio che si vada verso una partitocrazia senza partito. O meglio nella quale contano soltanto i capi dei partiti, visto che questi (per l’affievolimento della vita democratica interna) non devono neanche rendere conto agli iscritti”[19]. Invero, “La norma costituzionale preclude, dunque, ai partiti politici e ai loro rappresentanti qualunque opera non solo di aperto sabotaggio ma anche di subdola, lenta e surrettizia erosione delle istituzioni democratiche, in quanto queste appartengono a tutti i cittadini (art. 1, 2° comma Costituzione) e certamente non ai loro rappresentanti politici…”[20]. Ora, in tale attività illecita di erosione non può non ricomprendersi il comportamento antidemocratico ed autoritario di chi detiene il potere in un determinato momento della vita del partito politico, posto che tale fenomeno consiste essenzialmente nella deliberata volontà di chi si trova alla guida del partito di non candidare persone in sintonia con l’establishment del partito. Né può diventare principio da recepire l’ossimoro “monarchia anarchica” coniato dal Ministro Giulio Tremonti per giustificare le scelte solitarie di un partito marcatamente carismatico come l’attuale PDL.

Inoltre, se lo scopo sociale del partito politico corrisponde al limite legale e virtuoso dei suoi dirigenti, l’atto ultra vires compiuto dal temerario dirigente di partito, non viola semplicemente il limite convenzionale dei poteri di rappresentanza, ma viola anche disposizioni di legge imperative di rango costituzionale (art. 49 ed art. 51 Cost.), derivandone, in linea di principio, la nullità dell’atto attraverso il quale il medesimo dirigente si è, ad esempio, assunto la responsabilità di decidere autonomamente le candidature di una competizione elettorale estromettendo chi ne avesse democraticamente fatto richiesta.

Così, il solitario dirigente di partito, oltre a violare formalmente e palesemente lo Statuto, impedirebbe, sostanzialmente, il corretto e trasparente processo di selezione delle candidature, attraverso scelte autonome, incomprensibili ed in violazione all’interesse prevalente che avrebbe dovuto essere sempre quello del rispetto sostanziale ed effettivo del principio democratico, quindi, oportet ut scandala eveniant. Lesione del diritto di elettorato passivo di ogni singolo aspirante alla candidatura, riconosciuto e garantito dall’art. 51 della Costituzione, di poter accedere, quale cittadino della Repubblica Italiana iscritto nelle liste elettorali del rispettivo Comune di residenza, alla carica pubblica elettiva in condizioni d’eguaglianza. Infatti il semplice cittadino in possesso dei requisiti richiesti dallo statuto del partito, vanterebbe un diritto perfetto all’ammissione alla candidatura, azionabile in giudizio[21]. Ciò sarebbe maggiormente da ritenere considerando che il partito politico è per tanti versi un’associazione “privilegiata” dai pubblici poteri, beneficiando tra l’altro del finanziamento pubblico: un’associazione, dunque, il cui “successo…discende in larga parte non dai meriti dell’associazione in sé, bensì dai poteri e dai diritti di cui essa gode, grazie a… provvedimenti della pubblica autorità”[22].

1.4 La risarcibilità del danno

L’accertata violazione di un diritto di elettorato passivo connesso ad un procedimento non democratico interno al partito politico può aprire le porte alla pretesa risarcitoria. La formazione delle liste dei candidati ad opera dei partiti politici, rientra nei poteri decisionali dell’associazione politica, onde può escludersi ex ante la titolarità di un diritto alla candidatura in capo al singolo associato, la cui posizione è riconducibile alla mera aspettativa di fatto, priva di rilevanza giuridica. Tuttavia, in giurisprudenza si registra un indirizzo secondo cui “Quando però, la candidatura sia stata promessa da un organo dell’associazione, che, come nel caso che ci occupa, in una situazione di indirizzi univoci e concordanti agisca per conto di quella, in tal modo suscitando nell’associato il legittimo affidamento, protrattosi nel tempo, circa la presentazione della sua candidatura, allora è configurabile il diritto al risarcimento del danno per la lesione dell’aspettativa, essendo ormai l’associato in una posizione giuridica tale da presumere fondatamente di essere candidato”[23].

La normativa sulla responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. ha la funzione di consentire il risarcimento del danno ingiusto, intendendosi come tale il danno arrecato non iure, il danno, cioè, inferto in assenza di una causa giustificativa, che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in particolare, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo. L’affidamento maturato nel cittadino al quale è stata offerta la candidatura è una posizione meritevole di tutela secondo l’ordinamento, indipendentemente dall’esistenza di un obbligo contrattuale in tal senso, come emerge dalle norme in tema di responsabilità precontrattuale, dai principi consolidati in tema di apparenza del diritto ed, in genere di tutela del terzo in buona fede (cfr. art. 1415), per cui la sua lesione può dar luogo alla tutela risarcitoria, in presenza di tutti gli elementi previsti dall’art. 2043 c.c..

L’ipotesi risarcitoria individuata dalla giurisprudenza citata è quella derivante dalla responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.. Ma non è da escludere anche quella derivante da danno da perdita di chance. Infatti, “secondo la più recente elaborazione giurisprudenziale, nei casi in cui ad un soggetto è preclusa in radice la partecipazione ad una gara o concorso, sicchè non è possibile dimostrare, ex post, né la certezza della vittoria, né la certezza della non vittoria, la situazione soggettiva tutelabile è la chance, cioè l’astratta possibilità di un esito favorevole”[24]. Si tratta non di una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a se stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione, onde la sua perdita, vale a dire la perdita della possibilità consistente di conseguire il risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura un danno concreto ed attuale[25]. Sulla scia di un autorevole dottrina e dell’orientamento dominante della giurisprudenza è stato affermato dalla Suprema Corte di Cassazione che la chance, come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, non è una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione. Ne consegue che la sua perdita, ossia la perdita della possibilità di conseguire un qualsivoglia risultato utile, deve essere provata la sussistenza[26].

Chi subisce un danno da perdita di chance può chiederne il ristoro o mediante la ripetizione dell’occasione perduta o per equivalente monetario[27]. Ma, poiché l’omessa richiesta della tutela reintegratoria non implica alcuna preclusione nella concessione del risarcimento per equivalente monetario[28], ben potrebbero gli aspiranti alla candidatura, ingiustamente estromessi dalle liste elettorali, chiedere il risarcimento del danno da perdita di chance per equivalente monetario, nonché per un indubbio danno rappresentato dalla perdita d’immagine e di prestigio politico e sociale, in quanto determinata non solo dalla mancata possibilità di partecipare alla competizione elettorale, ma dalla stessa divulgazione presso la rispettiva comunità di riferimento territoriale della notizia che ne ha incrinato e scalfito l’immagine sociale e politica.



[1] Piero Ignazi, “Primo round al centralismo berlusconiano”, Il Sole 24Ore, 25/04/2010.

[2] Michele Ainis, “Il divorzio tra partiti e regole”, Il Sole 24Ore, 19/03/2010 n. 77.

[3] Cons. di Stato, 13 marzo 2008, sent. n. 1053.

[4] Risoluzione del Parlamento Europeo sui partiti politici europei, approvata a Bruxelles il 23/03/2006, in Federalismi.it.

[5] Adriana Ciancio, “I Partiti europei e il processo di democratizzazione dell’Unione”, in Federalismi.it, 06/05/2009.

[6] Tar Lazio, sez. II, sent. 14/10/2009 n. 9895.

[7] Corte Cost. Ordinanza n. 79/2006 e n. 120/2009.

[8] Corte Cost. Ordinanza n. 79/2006.

[9] Idem.

[10] Savatore Curreri , “Non varcate quella soglia”, 18 aprile 2006 e Armando Mannino, “I partiti politici davanti alla Corte Costituzionale”, 3 maggio 2006 in Forum di Quaderni Costituzionali.

[11] Donato Messineo, “L’ammissione del cittadino ai partiti: osservazioni a margine del caso Pannella”, in liberalfondazione.it.

[12] Sergio Santoro, “La democrazia interna dei partiti”, in Giustizia-amministrativa.it.

[13] Tra le tante, si vedano, Trib. Roma, 18/08/2001; 3/06/1995.

[14] Trib. Roma, 21/03/1995; sez.III° civ. sent. 07/06/2004 n. 17791.

[15] Corte d’Appello Torino, 10/01/2003; Tribunale di Padova, 29/06/1995.

[16] Tribunale di Roma, 23/03/1995.

[17] A titolo esemplificativo si veda il caso di Alleanza Nazionale per il quale la nullità di detta clausola compromissoria prevista nello statuto di A.N. è stata acclarata dal Tribunale di Napoli con Ordinanza del 22/10/2003.

[18] Corte Cost. sent. n. 429/1995 e sent. 256/2010.

[19] Guido Campagna, “La democrazia nei partiti fra le riforme da valutare”, Il Sole 24Ore, 27/04/2010.

[20] Tar Catania, sentenze nn. 910/88 e 1181/2006.

[21] Bardusco, “L’ammissione del cittadino ai partiti”, Milano-Varese, 1967, 93 ss.

[22] Pace, “Problematica delle libertà costituzionali”, Padova 1992, 354 s. nt. 8 e 378 nt. 20.

[23] Tribunale di Roma, sez. III civ. sent. n. 7/06/2004 n. 17791.

[24] Tar Lazio, sede di Roma, sez. I°, 24/05/2006.

[25] Cass. Civ. sez. III, 4/03/2004, n. 4400.

[26] Cass. Civ. II° sez. sent. N. 3999/2003.

[27] Cass. Civ. sez. lav., 19/11/1997, n. 1522, richiamata da Cons. St. VI, 5/12/2005, n. 6960.

[28] Cons. St., n. 5500/2004 e Cons. St., 6960/2005.