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Gli avvocati degli enti pubblici. Ovvero l’eterno “bivio antinomico” fra autonomia della professione e rapporto dipendente

Nota a Consiglio di Stato, V, Sentenza 14 febbraio 2012, n. 730 e TAR Basilicata, I, Sentenza 28 febbraio 2012, n. 100

Sommario:

1. Premessa

2. L’avvocato pubblico

3. La sentenza del Consiglio di Stato, 14 febbraio 2012, n. 730 e TAR Basilicata, 28 febbraio 2012, n. 100

3.1 Questione di giurisdizione

3.2 Questioni di merito

4. Conclusioni.

1. Premessa

Sin dalla mitologia greca il tema della “doppiezza” costituisce un emblema etimologicamente e figurativamente straordinario.

Un essere mezzo uomo e mezzo animale riconduce ad una idea di soprannaturale che, per dimensioni e aspetto, appare assolutamente inconsueto, nel positivo e nel negativo, originando il concetto di hybrida, ovvero di incrocio tra generi, condizioni sociali diverse, storie, ecc., per il quale prevale spesso l’immaginario più del cognito.

Prevale, infatti, più l’immaginario che ciò che realmente si dovrebbe approfondire e conoscere, con riguardo alla particolare posizione dell’avvocato degli enti pubblici, monstrum dal doppio status, mezzo uomo e mezzo animale: un po’ avvocato e totalmente dipendente per il proprio datore di lavoro, un po’ dipendente e totalmente avvocato per il Consiglio nazionale forense, che considera tali professionisti una figura anomala solo quanto al pubblico impiego, anomalia che non esiste per quanto concerne l’avvocatura.

Figure anomale, dunque, come la progenie di Echidna, mostruosa donna con la parte inferiore del corpo serpentiforme, o la Sfinge, volto di donna o di uomo su corpo di leone, o i Satiri, dal volto umano e orecchie, corna, coda e zampe caprine, o le Sirene, figure ibrida con la parte superiore umana e quella inferiore di pesce, o il Minotauro, dalla testa di toro su corpo di uomo.

Questi ed altri gli esempi che si potrebbero riportare sull’esistenza del “bivio” dovuto alle antinomie da … anomia.

Lo stesso divario tra antinomie che avvertiva l’uomo dell’antichità quando si trovava al “bivio della scelta”, lo avvertono oggi sia coloro che sono chiamati ad operare nell’ambito professionale dipendente, che coloro che sono chiamati a dirimere del rapporto lavorativo e/o forense, nella totale latitanza del legislatore.

Proprio questo insieme di considerazioni porta alla conseguenza che, laddove il legislatore abdica al proprio ruolo, il giudice espande la propria competenza e genera “diritto”.

E’ questo il caso “normale” per gli avvocati degli enti pubblici, i quali -non potendo beneficiare di una chiara e limpida normativa che ne disciplini l’ordinamento, così come avviene per la sola Avvocatura dello Stato- devono la loro “regolamentazione” all’elaborazione giurisprudenziale, la quale ha oramai creato una disciplina curiale molto ben precisa in ordine alla “particolare” posizione degli avvocati degli enti pubblici diversi dallo Stato.

In questo “solco” si saluta con ritrovato entusiasmo la sentenza del Consiglio di Stato del 14 febbraio 2012, n. 730, nel cui giudizio l’Unione Nazionale Avvocati Enti Pubblici, è intervenuta a sostenere le ragioni di un collega avvocato pubblico nei confronti del proprio ente, in ciò marciando “a braccetto” con il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Salerno.

Il caso prendeva origine dal provvedimento (di macro organizzazione) con il quale l’Ente datore di lavoro aveva posto in essere la riorganizzazione dell’Ufficio legale a cui era preposto l’avvocato dell’Ente, ponendo in essere atti ritenuti dallo stesso e dal giudice amministrativo in primo grado, lesivi sia delle funzioni dell’Avvocatura che di quelle del suo dirigente.

La pronuncia del massimo Organo della Giustizia amministrativa offre diversi rilevanti spunti per riflettere -e fissare definitivamente alcuni “paletti”- sugli avvocati degli enti pubblici, in attesa di verificare quale esito abbia l’attività legislativa attualmente “cantierizzata” (ddl di riforma forense attualmente ripreso in Commissione Giustizia alla Camera e già approvato in via definitiva al Senato; decreto sulle liberalizzazioni, d’imminente voto al Senato).

2. L’Avvocato pubblico

Negli ultimi vent’anni vi è stata una intensa “corsa” da parte degli enti pubblici ad istituire propri “uffici legali interni” (a parte alcune realtà esistenti da oltre un secolo, come ad esempio Bologna, Roma, Napoli), tant’è che il numero degli iscritti nell’elenco speciale supera oramai le 6000 unità, con un fortissimo balzo in avanti nell’ultimo decennio.

Ciò pare rispondere ad una esigenza sopra a tutte: consentire agli enti pubblici di disporre di propri organi tecnico-legali, a somiglianza dell’Avvocatura dello Stato, per lo svolgimento di funzioni professionali strettamente connesse con i meccanismi interni dell’amministrazione (la c.d. “aderenza e vicinanza al fatto”).

Un “interessamento” a doppio senso. Vale a dire che anche da parte degli stessi avvocati dipendenti è sorta una maggior consapevolezza del proprio ruolo di fondamentale “cerniera” tra i diversi protagonisti del processo e di memoria storica della giurisprudenza dell’Ente.

Questa “primavera”, questo “risveglio”, ha tuttavia messo in luce un aspetto nevralgico: la mancanza di una disciplina sistematica, coerente e chiara del ruolo delle avvocature pubbliche e della posizione giuridica dell’avvocato, unico soggetto della P.A. sottoposto allo stesso tempo ai doveri del dipendente ed a quelli del professionista. Fatto, questo, che ha evidenziato, soprattutto negli ultimi anni, la molteplicità di problemi che tale doppio status comporta, in un ordinamento qual è quello attuale ove, in assenza di qualsivoglia norma disciplinante, occorre ricorrere troppo spesso al giudice per veder affermati diritti elementari, il quale oramai, in materia, ha soppiantato il legislatore.

Attualmente il dato normativo è sintetizzabile in una generalizzata incompatibilità dell’esercizio professionale di cui all’art. 3, 2° comma, RDL 1578/1933. E’ noto, infatti, che solo al 4° comma, lettera b), è contenuta un’eccezione all’incompatibilità con impieghi retribuiti per gli avvocati degli uffici legali istituiti presso gli enti pubblici, con riferimento alle cause ed agli affari propri dell’ente presso il quale prestano la propria opera.

Una prima focalizzazione è già emergente:

1) da un lato, la supplenza giurisprudenziale (rispetto all’assenza di norme) ha oramai sancito in maniera pacifica e definitiva che l’esercizio di attività di natura forense del dipendente avvocato avviene nella pienezza della professione;

2) dall’altro, la specifica limitazione delle facoltà proprie del libero professionista, sussistendo in capo all’avvocato dipendente obblighi giuridici che gli scaturiscono dal rapporto di lavoro.

Se, allora, l’assenza di una norma di legge che disciplini la professione forense del pubblico dipendente costituisce il primo dei problemi, il secondo evidenziato, ovvero il conflitto tra autonomia e subordinazione, rappresenta un grande punto di debolezza, con ricadute sulla qualificazione dell’attività svolta, che rischia di incidere sulle ragioni principali «della debolezza dell’Amministrazione, data dall’assenza o dall’insufficienza dei ruoli professionali», che «costringe le Amministrazioni ad affidarsi a soggetti esterni per tutte le attività che riguardano l’opera di specialisti. Il rimedio ipotizzabile è che i professionisti dipendenti iscritti agli albi vanno organizzati in corpi separati, con uno stato giuridico ed un trattamento economico che consentano di attrarre personale di preparazione adeguata. Non ci si deve illudere di poter acquisire le professionalità necessarie, se non si è poi disposti a pagare il loro prezzo, né che la corruzione abbia termine, finchè le Amministrazioni non abbiano superato questa loro debolezza».

Più volte è intervenuto il CNF (Consiglio Nazionale Forense) proprio sul punto del particolare status dell’iscritto nell’elenco speciale e dell’impatto di questa singolarità con la disciplina deontologica e il rispetto degli obblighi, oneri e diritti che spettano ad ogni avvocato. Sino a qualche anno fa, a causa dell’interpretazione stricto sensu della norma, il CNF considerava tali professionisti una figura anomala, ma si badi bene, con riguardo al pubblico impiego e non un’anomalia rispetto all’avvocatura, dato che la norma considera i legali degli enti pubblici avvocati a tutti gli effetti, con la sola particolarità del “cliente unico” rappresentato dall’ente datore di lavoro.

Quindi, ai sensi dell’odierno art. 3, RDL del ’33, la duplice veste dell’avvocato dipendente è:

a) quella “strumentale” di pubblico dipendente con le attribuzioni e conseguenze del rapporto d’impiego;

b) l’altra “essenziale” di avvocato, fornito di jus postulandi, anche se per un unico cliente.

Sempre il CNF ritiene questo secondo tratto (essenzialità) prevalente sulla strumentalità, perchè speciale nella sua rilevanza, rispetto a quello comune, generale dell’impiegato.

Per questi ed altri motivi -che non sto ad approfondire, ma solo elencare (rimborso iscrizione all’albo, oneri riflessi, autonomia e indipendenza, onorari di causa, orario di lavoro, contrattazione separata, ecc)- non è più procrastinabile un intervento riformatore organico, moderno, adeguato alle nuove caratteristiche delle amministrazioni in relazione alle attività professionali in esse esercitate ed adeguato altresì all’evoluzione della professione in genere.

Quantità di sentenze amministrative, di Cassazione, di pronunce del CNF, concordano sulla imprescindibile necessità di garantire agli avvocati l’autonomia, l’indipendenza e l’estraneità dal resto della macchina amministrativa, ai fini del mantenimento dell’iscrizione all’Elenco speciale annesso all’Albo. E’ la legge del 1933 che lo prevede. Dunque dovrebbe essere chiaro, senza neppure altri interventi del legislatore: è un mero problema di gerarchia delle fonti, per le quali una legge generale (quale può essere quella sul pubblico impiego o il testo unico degli enti locali), non può derogare una legge speciale (legge professionale forense), tanto più che questa gode di protezione costituzionale (art. 33, comma 5, Cost.), e dunque gerarchicamente sovraordinata a qualsiasi altra fonte del diritto.

Ciò che non è normale, è che per affermare tali principi -per l’appunto di rango costituzionale- gli avvocati degli enti pubblici debbano far ricorso molto spesso all’Autorità giudiziaria, con buona pace per il rispetto da parte delle P.A. dei principi di buona amministrazione e di economicità.

Perché un’Avvocatura interna, autonoma ed indipendente? La crescita degli enti, le riforme federaliste iniziate invero sin dalla modifica del Titolo V della Costituzione, la complessità dei compiti istituzionali ad essi affidati la rilevanza degli interessi, l’insostenibilità dei costi delle prestazioni professionali necessarie in via continuativa e non sporadica, la necessità inderogabile di contenimento della spesa pubblica, costituiscono alcune delle principali ragioni per le quali è quanto mai attuale e insostituibile l’assistenza legale specialistica negli affari pubblici.

Se si pensa alla quotidiana collaborazione fra le “parti” che operano a presidio dell’amministrazione della legalità e della giustizia (cioè giudici, avvocati del libero foro e avvocati pubblici), ecco che allora divengono elementi di grande importanza la costante presenza e disponibilità degli avvocati, la loro specializzazione, la loro “vicinanza al fatto”, i loro sforzi per la ricerca della “qualità amministrativa” dei provvedimenti posti in essere dagli enti, il tutto per il perseguimento del pubblico interesse e non il semplice interesse del proprio cliente; si pensi allo sforzo per evitare le difese ad oltranza, quando non giustificate, certamente non rispettose dell’interesse pubblico e della buona amministrazione, e il miglior utilizzo dei vari istituti deflattivi del contenzioso, quali l’autotutela, laddove possibile. Se manca autonomia decisionale ed indipendenza dalla politica e dall’amministrazione, tutto ciò rischia di essere vanificato.

Ma si pensi anche ai risparmi di spesa che tutto ciò comporta, pur elevando la qualità delle prestazioni in considerazione di quanto detto. Cosa che, coi tempi che corrono, non è di poco conto!

3. Le sentenze del Consiglio di Stato, 14 febbraio 2012, n. 730 e TAR Basilicata, 28 febbraio 2012, n. 100

A pochi mesi dalla sentenza del TAR Lazio n. 3222/2011, che ha suscitato una forte indignazione per i toni ed il tenore delle opinioni espresse, in quanto neppure lontanamente consone al prestigio ed alla sobrietà proprie della magistratura amministrativa, il Consiglio di Stato è intervenuto confermando l’orientamento univoco della giurisprudenza civile, amministrativa, ed ordinamentale. Ad esso ha fatto seguito il Tribunale amministrativo della Basilicata.

Di fatto viene ribadita la funzione di elemento specializzato, di “cerniera”, fra i diversi protagonisti del processo e dell’azione amministrativa nel suo complesso, dalla sua genesi al suo epilogo, dell’avvocatura pubblica, che vuole proiettare sempre più nel futuro, nella modernizzazione la P.A., riappropriandosi del suo passato, ovvero delle motivazioni per le quali è “nata”: il bisogno di assicurare all’ente pubblico lo stabile consiglio di uomini (… e donne) di legge, avvertito come ho detto sin da epoca remota. Basta rammentare che proprio l’avvocatura degli enti locali ha formato oggetto di una specifica analisi da parte di tre «saggi» (i prof. Cassese, amministrativista di Roma, Pizzorno, sociologo, e Arcidiacono, costituzionalista di Catania), chiamati a comporre il c.d. “Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione”, istituito con decreto n. 211 del 30.9.1996 dall’allora Presidente della Camera dei Deputati Luciano Violante.

Il Rapporto redatto da costoro sul tema è emblematico, attesi i problemi analizzati come patologici degli enti locali: «Una delle ragioni principali della corruzione è la debolezza dell’Amministrazione, data dall’assenza o dall’insufficienza dei ruoli professionali. Essa costringe le Amministrazioni ad affidarsi a soggetti esterni per tutte le attività che riguardano l’opera di specialisti. Il rimedio ipotizzabile è che i professionisti dipendenti iscritti agli albi vanno organizzati in corpi separati, con uno stato giuridico ed un trattamento economico che consentano di attrarre personale di preparazione adeguata. Non ci si deve illudere di poter acquisire le professionalità necessarie, se non si è poi disposti a pagare il loro prezzo, né che la corruzione abbia termine, finchè le Amministrazioni non abbiano superato questa loro debolezza».

Ecco allora chiarito il ruolo in cui è impegnata l’Avvocatura degli enti locali: offrire ai propri colleghi, ai giudici, ai cittadini un punto fermo a baluardo della legittimità o, ancor di più, un ruolo di nemica di chi attenta alla corruzione della P.A., per impedire al proprio cliente/datore di lavoro di esser debole, e renderla il più possibile impermeabile, contribuendo quotidianamente, ma con professionalità, tenacia e dedizione al miglioramento della giustizia. Ed è un ruolo che non si differenzia da quello rivestito dagli avvocati dello Stato, anch’essi impegnati a difendere la P.A. con funzioni identiche: contenziosa e consultiva.

Il Consiglio di Stato, con l’odierna recente sentenza, esamina la disciplina della professione forense del 1933, nel cui particolare interspazio esistente fra l’Avvocatura e il libero Foro chiamato “eccezione all’incompatibilità” vengono ascritti gli avvocati dipendenti di enti pubblici, prendendo le mosse dal preliminare esame della questione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in materia di pubblico impiego.

3.1. Questione di giurisdizione

Il tema della “giurisdizione” ha visto più volte la giurisprudenza amministrativa chiamata a risolvere i problemi che la riforma del pubblico impiego ha apportato al riguardo, soprattutto sotto il profilo della sua corretta individuazione in conseguenza della c.d. “privatizzazione” del pubblico impiego.

La giurisprudenza amministrativa generalmente distingue, ai fini del riparto di giurisdizione, se le controversie sono relative al rapporto di lavoro in atto, da quelle relative all’attività procedurale amministrativa finalizzata all’instaurazione dei rapporti stessi, avendo avuto modo in ogni occasione di ritenere le prime devolute all’autorità giurisdizionale ordinaria, mentre le seconde al giudice amministrativo.

Dalla cennata distinzione elaborata dalla “curia” si può ulteriormente sviscerare il problema, rammentando che il Consiglio di Stato lega in modo ancor più saldo il criterio di riparto della giurisdizione alla “nascita” del rapporto rispetto al quale, la stipula del relativo contratto, assume valore costitutivo. Da qui la distinzione tra “aspetto organizzativo” e “aspetto gestionale” del rapporto.

La normativa in materia, originariamente stabilita nel d.lgs. n. 29 del 1993, oltre che dall’impianto normativo costituito dal dlgs n. 546/1993, dal dlgs n. 80 del 1998 e dal dlgs n. 387/98, e’ stata poi assunta nel d.lgs. n. 267/2000, per ciò che attiene gli enti locali, ed ulteriormente perfezionata ad opera del d.lgs. n. 165 del 2001, con riguardo ad ogni rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, ed infine modificata con le recentissime leggi “Brunetta”.

Allo stato dell’arte, pertanto, se è vero che il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici è contrattualizzato e privatizzato, è altrettanto vero che l’organizzazione datoriale in cui viene prestato è quella pubblica, con tutto ciò che tale aggettivo comporta.

La sentenza in commento, al fine di dirimere la questione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sollevata dall’Ente appellante, tratta della distinzione tra provvedimenti di macro-organizzazione, che in quanto attività di organizzazione degli uffici di carattere pubblico resta sottoposta ad un regime pubblicistico, e provvedimenti di micro-organizzazione, che quale attività operativa e di gestione del personale riveste natura privatistica e, dunque, resta assoggettata alla regole civilistiche. In ciò ricorrendo nuovamente la distinzione tra aspetto organizzativo e gestionale del rapporto, da cui più sopra si era partiti.

In sostanza, il giudice d’appello svolge un lavoro molto analitico, poiché si concentra, fra i risvolti dei provvedimenti impugnati, su quelli che possono essere considerati gli interessi di natura organizzatoria del rapporto sotteso, evidenziando la assoluta differenza con la posizione personale dell’avvocato dipendente.

Ciò svuoterebbe di contenuto eventuali diverse tesi e, in particolare commenti, diretti ad applicare astrattamente lo spartiacque della “stipula del contratto di lavoro” quale sintomo dell’aspetto privatistico del rapporto, con conseguente attrazione di ogni situazione interveniente alla giurisdizione ordinaria. Non solo. Evidenzierebbe la non corretta e profonda conoscenza delle peculiarità che, istituita una avvocatura, obbligano l’ente pubblico a dotarla di propria autonomia funzionale, di professionisti posti in sostanziale estraneità dall’apparato amministrativo, in posizione di indipendenza da tutti i settori previsti in organico e con esclusione di ogni attività di gestione (TAR Lazio, 737/1999; Cass. 10178/1990, CNF 76/2001, CNF 278/2000; Cass. SU n. 1268/2000; Cass. SU 10367/1998; Cass. 16629/2009; Cass. 18359/2009). Così come costituisce un falso problema ricorrere alla partizione “dirigenza” o “dipendenza” generica, per avallare teorie metagiuridiche sull’esercizio della professione forense all’interno di una pubblica amministrazione.

Nella specie, il Giudice amministrativo d’appello ha riscontrato come non fosse in questione la posizione lavorativa personale dell’avvocato dipendente, poiché ricorrendo quel caso (fa l’esempio il giudice della destinazione a diverso ufficio), verrebbe in evidenza, ai sensi del d. lgs. n. 165 del 2001, la giurisdizione ordinaria.

Al contrario, la controversia esaminata dal Consiglio di Stato era incentrata sulla legittimità o meno del provvedimento di macro-organizzazione posto in essere dalla PA, ed in particolar modo la parte di natura organizzatoria i cui effetti, dispiegati anche nei confronti dell’Ufficio Legale, evidenziavano una chiara posizione di interesse legittimo e, conseguentemente, la giurisdizione del giudice amministrativo, come ritenuto correttamente dal giudice d’appello, anche in considerazione dell’”interesse pubblico” che deve sorreggere ogni determinazione organizzativa da parte degli enti, ai sensi dell’art. 5, d.lgs. 165/2001.

3.2 Questioni di merito

Uno dei punti focali dell’appello affrontato dal Consiglio di Stato, che costituisce anche un punto nevralgico della materia, riguarda il potere di coordinamento e di sovrintendenza dell’Avvocatura da parte del direttore generale o di altro dirigente dell’Ente.

Come si è detto in apertura, l’unico riferimento normativo si trova nell’art.3, R.D. n. 1578/1933, la c.d. “legge professionale forense”, il quale dopo aver precisato, al secondo comma, che l’esercizio della professione di avvocato è “incompatibile con qualunque impiego od ufficio retribuito con stipendio sul bilancio dello Stato, delle Province, dei Comuni”, prosegue prevedendo una eccezione per “gli avvocati degli uffici legali istituiti sotto qualsiasi denominazione ed in qualsiasi modo presso gli enti di cui allo stesso secondo comma, per quanto concerne le cause e gli affari propri dell’ente presso il quale prestano la loro opera”, i quali, a differenza degli avvocati del libero foro, devono essere iscritti dall’Ordine di appartenenza in un “elenco speciale annesso all’albo”, al fine di rendere percepibile anche visivamente l’eccezione.

Si è poi dato atto del consolidato orientamento giurisprudenziale sulla disposizione, a mente del quale l’iscrizione all’elenco speciale ex art. 3, r.d. 1578/1933, è condizionato alla ricorrenza del duplice, concorrente presupposto, ovvero la “costituzione” di un ufficio legale organicamente autonomo e la “esclusività” dell’espletamento dell’attività di assistenza, rappresentanza e difesa dell’ente pubblico presso il quale presta la propria opera, nelle cause e negli affari dell’ente stesso, con sostanziale estraneità all’apparato amministrativo, in posizione di indipendenza da tutti i settori previsti in organico e con esclusione di ogni attività di gestione.

L’anomia che segna una siffatta rilevante funzione, ha ricevuto importanti interpretazioni giurisprudenziali che ne hanno demarcato un confine piuttosto importante, non soltanto di natura soggettiva (cioè il riconoscimento di uno status particolare agli avvocati pubblici, in assenza del quale verrebbe meno la persistenza stessa della loro iscrizione all’Elenco), quanto piuttosto di natura oggettiva, ben più problematica sul piano del riconoscimento pratico, ma di importante spessore: la collocazione delle avvocature nella struttura dell’Ente pubblico che sia al tempo stesso autonoma e indipendente e valga a consentire ed assicurare il libero esercizio delle peculiari funzioni.

Proprio queste peculiarità contrastano di fatto, di diritto e giurisprudenzialmente, con molteplici tentativi posti in essere dalle PA, tesi ad inserire gli avvocati o gli uffici legali, con vincolo di subordinazione gerarchica (potere gerarchico-funzionale e non già gerarchico-professionale), nelle strutture amministrative dell’Ente.

Sul punto la giurisprudenza amministrativa più recente, in linea con quella passata, ha posto pietre miliari. Ora il Consiglio di Stato, con la sentenza del 14 febbraio 2012, ha aggiunto ulteriori “miglia” nell’affermazione di un principio deontologico e di buon senso, prima ancora che di diritto: “L’esistenza di un’autonoma articolazione organica dell’Ufficio legale dell’ente risulta indispensabile perché l’attività professionale, ancorché svolta in forma di lavoro dipendente, deve essere esercitata, in conformità alle disposizioni che la disciplinano, con modalità che assicurino oltre alla libertà nell’esercizio dell’attività di difesa, insita nella figura professionale, anche l’autonomia del professionista. A tal fine l’istituzione di un ufficio legale nell’ambito di un ente determina l’insorgenza di una struttura che si differenzia da ogni altro centro operativo e postula una diretta connessione unicamente con il vertice decisionale dell’Ente stesso, al di fuori, quindi, di ogni altra intermediazione (Cfr. Cons. Stato, sez. V, 16.9.2004 n. 6023; TAR Molise Campobasso, 9.1.2002 n. 1).

Appare pertanto illegittima l’articolazione organica dettata con l’impugnata delibera, non potendo l’ufficio legale essere posto alle dipendenze del Settore Staff e, quindi, del suo Dirigente, il Segretario Generale del Comune, proprio perché la salvaguardia dell’autonomia e indipendenza dell’attività professionale in discorso, esclude che possa esservi una subordinazione gerarchica ed una ingerenza nella trattazione degli affari giuridico legali attinenti specificamente nelle competenze che il professionista può svolgere in virtù della sua iscrizione all’albo, competenze non rinvenibili nella figura del Segretario Generale (ovvero Dirigente amministrativo), che non postula la specifica preparazione professionale garantita dall’iscrizione all’albo” (TAR Sardegna, II sez., n. 7/2008).

Il TAR della Basilicata si è espresso sulle medesime questioni, entrando nel merito della necessità o meno di mantenere all’Avvocatura comunale una struttura caratterizzata da autonomia rispetto all’apparato burocratico-gerarchico dell’Ente, e sul contenuto di tale autonomia ed indipendenza ai fini del mantenimento dell’iscrizione nell’elenco speciale annesso all’Albo forense, riservata agli avvocati che svolgono la professione in qualità di dipendenti degli enti pubblici, come previsto dall’art. 3, LP.

In entrambe le pronunce in commento si sono lambiti questi temi. Ma s’è fatto di più, poiché si è analizzato il confine stesso dello "ius postulandi" nell’ipotesi di Avvocatura posta alle dipendenze di un direttore generale o segretario, intangibile sul piano sostanziale da parte di costoro, “in quanto lo stesso è la esplicazione in concreto di una qualità giuridica, quella di essere abilitato a parlare davanti ai giudici”, ma messo in discussione sul piano operativo-gestionale.

In disparte la questione trattata dal TAR della Basilicata sulla distinzione fra apicalità di natura dirigenziale o di natura funzionale dell’Avvocatura all’interno della struttura degli enti locali, distinzione fondata sulla dimensione degli enti, anche in questo caso vengono sanciti due importanti principi: 1) “ogni Comune che ha alle proprie dipendenze avvocati professionisti, deve collocare la struttura dell’Avvocatura comunale come un’articolazione organica autonoma in posizione di dipendenza funzionale esclusivamente nei confronti dei vertici decisionali del Comune, cioè al di fuori della struttura amministrativa vera e propria, in quanto tale collocazione è l’unica in grado di garantire l’autonomia dell’ufficio legale e l’indipendenza professionale dell’Avvocato nei confronti sia dell’organo politico, sia dell’apparato amministrativo del Comune” (in tal senso anche TAR Sicilia, IV, 3 maggio 2008, n. 726); 2) “soltanto la contrattazione collettiva, relativa alle Amministrazioni Statali, prevede la “rotazione” degli incarichi dirigenziali (cfr. per es. art. 13 CCNL per il quadriennio 1998-2001, sottoscritto il 5.4.2001). (…). Mentre negli Enti Locali, anche di maggiori dimensioni, i laureati in Giurisprudenza possono ricoprire soltanto pochi posti dirigenziali, afferenti all’area amministrativa, per cui gli Enti Locali sono costretti ad indire appositi concorsi, finalizzati alla copertura di un preciso posto dirigenziale, prevedendo prove concorsuali, attinenti alle specifiche materie di competenza del settore, al quale dovrà essere preposto il Dirigente da assumere. Infatti, ad un Dirigente comunale, laureato in Giurisprudenza, non può, con il criterio della “rotazione” degli incarichi dirigenziali, essere conferita la responsabilità di un settore tecnico o di un altro settore, che si occupa di materie, che non sono state oggetto del concorso, vinto dallo stesso Dirigente comunale, laureato in Giurisprudenza. Pertanto, alla ricorrente non può essere imposta l’assegnazione di un altro incarico dirigenziale, in quanto ha superato un apposito concorso, finalizzato alla selezione ed individuazione di un posto di Dirigente Avvocato”.

Principi, questi sopra specificati, che fanno da corollario, poiché si muovono nel medesimo solco, a quelli sanciti in via definitiva e nomofilattica dal Consiglio di Stato.

Ha, infatti, concluso il Consiglio di Stato per l’illegittimità della “sottoposizione dell’Ufficio legale alle direttive e agli ordini del direttore generale”, in quanto se egli “può intervenire a coordinare gli uffici (tutti gli uffici, anche quello legale), non può indubbiamente andare ad interferire sull’organizzazione interna degli stessi e sulle modalità di organizzazione del lavoro dei medesimi, innanzitutto perché si tratta di un’attività tecnica (in senso giuridico) e, poi, perché gli uffici legali degli enti pubblici devono necessariamente godere di quella particolare autonomia di pensiero e di organizzazione che sola può consentire l’esplicazione corretta e proficua della loro attività”.

Infine, il Consiglio di Stato ha ritenuto infondato il motivo d’appello forse più spinoso e centrale, con argomentazioni chiare, coraggiose e perfettamente in linea con la legge forense da un lato, ma altresì con la disciplina che regola l’Avvocatura dello Stato, ai cui organi tecnico-legali l’avvocato degli enti pubblici (diversi dallo Stato) non si differenzia: il potere di auto-organizzazione dell’Amministrazione quale forma di piena discrezionalità riconosciutagli direttamente dalla legge.

Al riguardo, il giudice d’appello ha correttamente riconosciuto come tale potere non possa essere “censurato in sede di legittimità, in quanto altrimenti verrebbe vanificata quella potestà della pubblica amministrazione di darsi quell’organizzazione che ritiene più coerente per il raggiungimento degli interessi pubblici che le sono commessi dall’ordinamento in ciascuna fase storica”, riconoscendo altresì onestamente che “l’Amministrazione pubblica gode, ai sensi dell’art. 97 della Costituzione, di un ampio margine di auto-organizzazione degli uffici e del personale, il che è stato ulteriormente ribadito dalla legge n. 127 del 1997 che, nel modificare l’art. 51 della legge n. 142 del 1990, ha modificato la competenza ad adottare il regolamento degli uffici e dei servizi, attribuendolo (unico fra tutti i regolamenti) alla Giunta, proprio per porre in evidenza che la organizzazione degli uffici degli enti locali è vicenda operativa intrinsecamente collegata con il potere operativo e non può sottostare alle discussioni di un’approvazione assembleare”.

Tuttavia, nel riconoscere come non possa essere messo in discussione tale potere in sede giurisdizionale, ha altresì osservato come “l’esercizio in concreto di tale discrezionalità non è senza limiti, altrimenti essa si tramuterebbe in una incondizionata licenza, senza alcun limite e senza alcuna possibilità di controllo”, riscontrando in tale ampia discrezionalità almeno due limiti:

1) limite della ragionevolezza, intendo “che, qualora si dovessero riscontrare patenti violazione dell’ordine logico e si dovesse individuare una organizzazione che non si presenta rispettosa dei principi di cui all’art. 97 Cost., allora l’esame del provvedimento di macro-organizzazione diventa non solo necessario, ma addirittura indispensabile”;

2) limite del rispetto delle statuizioni esistenti, vale a dire “delle guarentigie attribuite a determinate categorie di soggetti operanti nell’ambito della pubblica amministrazione”.

Precisa il Consiglio di Stato che, nel caso sottoposto alla propria valutazione, “non può non evidenziarsi che la normativa attualmente vigente (con particolare riferimento, oltre alla natura dell’attività tipica di un ufficio legale, ricavabile dal principi generali dell’ordinamento giuridico, dall’art. 3 del r.d. n. 1578 del 1933 e dall’art. 15, comma 2, della legge n. 70 del 1975), prevede che gli uffici legali degli enti pubblici devono godere di autonomia e di indipendenza, per cui, al di là delle scelte politiche, la parte squisitamente tecnica non può essere sottoposta né a condizionamenti, né a valutazioni che possano in qualche modo svilirne il modo di essere. Indubbiamente, l’Ufficio legale è sempre un ufficio dell’Amministrazione e non può sottrarsi alle indicazioni degli organi di vertice, nel senso di agire al di fuori di quelle indicazioni, ma tali indicazioni non possono mai intaccare la visione autonoma delle vicende che sono sottoposte alla sua cognizione”.

Sicché, il rispetto della sopra citata norma può dirsi soddisfatto per la giurisprudenza (e il CNF) non solo quando sussista un’apposita ed autonoma struttura deputata all’assolvimento delle peculiari funzioni degli avvocati dipendenti di enti pubblici, ma anche quando a questi ultimi sia garantita l’indispensabile indipendenza nell’esercizio dello jus postulandi, in modo

Sommario:

1. Premessa

2. L’avvocato pubblico

3. La sentenza del Consiglio di Stato, 14 febbraio 2012, n. 730 e TAR Basilicata, 28 febbraio 2012, n. 100

3.1 Questione di giurisdizione

3.2 Questioni di merito

4. Conclusioni.

1. Premessa

Sin dalla mitologia greca il tema della “doppiezza” costituisce un emblema etimologicamente e figurativamente straordinario.

Un essere mezzo uomo e mezzo animale riconduce ad una idea di soprannaturale che, per dimensioni e aspetto, appare assolutamente inconsueto, nel positivo e nel negativo, originando il concetto di hybrida, ovvero di incrocio tra generi, condizioni sociali diverse, storie, ecc., per il quale prevale spesso l’immaginario più del cognito.

Prevale, infatti, più l’immaginario che ciò che realmente si dovrebbe approfondire e conoscere, con riguardo alla particolare posizione dell’avvocato degli enti pubblici, monstrum dal doppio status, mezzo uomo e mezzo animale: un po’ avvocato e totalmente dipendente per il proprio datore di lavoro, un po’ dipendente e totalmente avvocato per il Consiglio nazionale forense, che considera tali professionisti una figura anomala solo quanto al pubblico impiego, anomalia che non esiste per quanto concerne l’avvocatura.

Figure anomale, dunque, come la progenie di Echidna, mostruosa donna con la parte inferiore del corpo serpentiforme, o la Sfinge, volto di donna o di uomo su corpo di leone, o i Satiri, dal volto umano e orecchie, corna, coda e zampe caprine, o le Sirene, figure ibrida con la parte superiore umana e quella inferiore di pesce, o il Minotauro, dalla testa di toro su corpo di uomo.

Questi ed altri gli esempi che si potrebbero riportare sull’esistenza del “bivio” dovuto alle antinomie da … anomia.

Lo stesso divario tra antinomie che avvertiva l’uomo dell’antichità quando si trovava al “bivio della scelta”, lo avvertono oggi sia coloro che sono chiamati ad operare nell’ambito professionale dipendente, che coloro che sono chiamati a dirimere del rapporto lavorativo e/o forense, nella totale latitanza del legislatore.

Proprio questo insieme di considerazioni porta alla conseguenza che, laddove il legislatore abdica al proprio ruolo, il giudice espande la propria competenza e genera “diritto”.

E’ questo il caso “normale” per gli avvocati degli enti pubblici, i quali -non potendo beneficiare di una chiara e limpida normativa che ne disciplini l’ordinamento, così come avviene per la sola Avvocatura dello Stato- devono la loro “regolamentazione” all’elaborazione giurisprudenziale, la quale ha oramai creato una disciplina curiale molto ben precisa in ordine alla “particolare” posizione degli avvocati degli enti pubblici diversi dallo Stato.

In questo “solco” si saluta con ritrovato entusiasmo la sentenza del Consiglio di Stato del 14 febbraio 2012, n. 730, nel cui giudizio l’Unione Nazionale Avvocati Enti Pubblici, è intervenuta a sostenere le ragioni di un collega avvocato pubblico nei confronti del proprio ente, in ciò marciando “a braccetto” con il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Salerno.

Il caso prendeva origine dal provvedimento (di macro organizzazione) con il quale l’Ente datore di lavoro aveva posto in essere la riorganizzazione dell’Ufficio legale a cui era preposto l’avvocato dell’Ente, ponendo in essere atti ritenuti dallo stesso e dal giudice amministrativo in primo grado, lesivi sia delle funzioni dell’Avvocatura che di quelle del suo dirigente.

La pronuncia del massimo Organo della Giustizia amministrativa offre diversi rilevanti spunti per riflettere -e fissare definitivamente alcuni “paletti”- sugli avvocati degli enti pubblici, in attesa di verificare quale esito abbia l’attività legislativa attualmente “cantierizzata” (ddl di riforma forense attualmente ripreso in Commissione Giustizia alla Camera e già approvato in via definitiva al Senato; decreto sulle liberalizzazioni, d’imminente voto al Senato).

2. L’Avvocato pubblico

Negli ultimi vent’anni vi è stata una intensa “corsa” da parte degli enti pubblici ad istituire propri “uffici legali interni” (a parte alcune realtà esistenti da oltre un secolo, come ad esempio Bologna, Roma, Napoli), tant’è che il numero degli iscritti nell’elenco speciale supera oramai le 6000 unità, con un fortissimo balzo in avanti nell’ultimo decennio.

Ciò pare rispondere ad una esigenza sopra a tutte: consentire agli enti pubblici di disporre di propri organi tecnico-legali, a somiglianza dell’Avvocatura dello Stato, per lo svolgimento di funzioni professionali strettamente connesse con i meccanismi interni dell’amministrazione (la c.d. “aderenza e vicinanza al fatto”).

Un “interessamento” a doppio senso. Vale a dire che anche da parte degli stessi avvocati dipendenti è sorta una maggior consapevolezza del proprio ruolo di fondamentale “cerniera” tra i diversi protagonisti del processo e di memoria storica della giurisprudenza dell’Ente.

Questa “primavera”, questo “risveglio”, ha tuttavia messo in luce un aspetto nevralgico: la mancanza di una disciplina sistematica, coerente e chiara del ruolo delle avvocature pubbliche e della posizione giuridica dell’avvocato, unico soggetto della P.A. sottoposto allo stesso tempo ai doveri del dipendente ed a quelli del professionista. Fatto, questo, che ha evidenziato, soprattutto negli ultimi anni, la molteplicità di problemi che tale doppio status comporta, in un ordinamento qual è quello attuale ove, in assenza di qualsivoglia norma disciplinante, occorre ricorrere troppo spesso al giudice per veder affermati diritti elementari, il quale oramai, in materia, ha soppiantato il legislatore.

Attualmente il dato normativo è sintetizzabile in una generalizzata incompatibilità dell’esercizio professionale di cui all’art. 3, 2° comma, RDL 1578/1933. E’ noto, infatti, che solo al 4° comma, lettera b), è contenuta un’eccezione all’incompatibilità con impieghi retribuiti per gli avvocati degli uffici legali istituiti presso gli enti pubblici, con riferimento alle cause ed agli affari propri dell’ente presso il quale prestano la propria opera.

Una prima focalizzazione è già emergente:

1) da un lato, la supplenza giurisprudenziale (rispetto all’assenza di norme) ha oramai sancito in maniera pacifica e definitiva che l’esercizio di attività di natura forense del dipendente avvocato avviene nella pienezza della professione;

2) dall’altro, la specifica limitazione delle facoltà proprie del libero professionista, sussistendo in capo all’avvocato dipendente obblighi giuridici che gli scaturiscono dal rapporto di lavoro.

Se, allora, l’assenza di una norma di legge che disciplini la professione forense del pubblico dipendente costituisce il primo dei problemi, il secondo evidenziato, ovvero il conflitto tra autonomia e subordinazione, rappresenta un grande punto di debolezza, con ricadute sulla qualificazione dell’attività svolta, che rischia di incidere sulle ragioni principali «della debolezza dell’Amministrazione, data dall’assenza o dall’insufficienza dei ruoli professionali», che «costringe le Amministrazioni ad affidarsi a soggetti esterni per tutte le attività che riguardano l’opera di specialisti. Il rimedio ipotizzabile è che i professionisti dipendenti iscritti agli albi vanno organizzati in corpi separati, con uno stato giuridico ed un trattamento economico che consentano di attrarre personale di preparazione adeguata. Non ci si deve illudere di poter acquisire le professionalità necessarie, se non si è poi disposti a pagare il loro prezzo, né che la corruzione abbia termine, finchè le Amministrazioni non abbiano superato questa loro debolezza».

Più volte è intervenuto il CNF (Consiglio Nazionale Forense) proprio sul punto del particolare status dell’iscritto nell’elenco speciale e dell’impatto di questa singolarità con la disciplina deontologica e il rispetto degli obblighi, oneri e diritti che spettano ad ogni avvocato. Sino a qualche anno fa, a causa dell’interpretazione stricto sensu della norma, il CNF considerava tali professionisti una figura anomala, ma si badi bene, con riguardo al pubblico impiego e non un’anomalia rispetto all’avvocatura, dato che la norma considera i legali degli enti pubblici avvocati a tutti gli effetti, con la sola particolarità del “cliente unico” rappresentato dall’ente datore di lavoro.

Quindi, ai sensi dell’odierno art. 3, RDL del ’33, la duplice veste dell’avvocato dipendente è:

a) quella “strumentale” di pubblico dipendente con le attribuzioni e conseguenze del rapporto d’impiego;

b) l’altra “essenziale” di avvocato, fornito di jus postulandi, anche se per un unico cliente.

Sempre il CNF ritiene questo secondo tratto (essenzialità) prevalente sulla strumentalità, perchè speciale nella sua rilevanza, rispetto a quello comune, generale dell’impiegato.

Per questi ed altri motivi -che non sto ad approfondire, ma solo elencare (rimborso iscrizione all’albo, oneri riflessi, autonomia e indipendenza, onorari di causa, orario di lavoro, contrattazione separata, ecc)- non è più procrastinabile un intervento riformatore organico, moderno, adeguato alle nuove caratteristiche delle amministrazioni in relazione alle attività professionali in esse esercitate ed adeguato altresì all’evoluzione della professione in genere.

Quantità di sentenze amministrative, di Cassazione, di pronunce del CNF, concordano sulla imprescindibile necessità di garantire agli avvocati l’autonomia, l’indipendenza e l’estraneità dal resto della macchina amministrativa, ai fini del mantenimento dell’iscrizione all’Elenco speciale annesso all’Albo. E’ la legge del 1933 che lo prevede. Dunque dovrebbe essere chiaro, senza neppure altri interventi del legislatore: è un mero problema di gerarchia delle fonti, per le quali una legge generale (quale può essere quella sul pubblico impiego o il testo unico degli enti locali), non può derogare una legge speciale (legge professionale forense), tanto più che questa gode di protezione costituzionale (art. 33, comma 5, Cost.), e dunque gerarchicamente sovraordinata a qualsiasi altra fonte del diritto.

Ciò che non è normale, è che per affermare tali principi -per l’appunto di rango costituzionale- gli avvocati degli enti pubblici debbano far ricorso molto spesso all’Autorità giudiziaria, con buona pace per il rispetto da parte delle P.A. dei principi di buona amministrazione e di economicità.

Perché un’Avvocatura interna, autonoma ed indipendente? La crescita degli enti, le riforme federaliste iniziate invero sin dalla modifica del Titolo V della Costituzione, la complessità dei compiti istituzionali ad essi affidati la rilevanza degli interessi, l’insostenibilità dei costi delle prestazioni professionali necessarie in via continuativa e non sporadica, la necessità inderogabile di contenimento della spesa pubblica, costituiscono alcune delle principali ragioni per le quali è quanto mai attuale e insostituibile l’assistenza legale specialistica negli affari pubblici.

Se si pensa alla quotidiana collaborazione fra le “parti” che operano a presidio dell’amministrazione della legalità e della giustizia (cioè giudici, avvocati del libero foro e avvocati pubblici), ecco che allora divengono elementi di grande importanza la costante presenza e disponibilità degli avvocati, la loro specializzazione, la loro “vicinanza al fatto”, i loro sforzi per la ricerca della “qualità amministrativa” dei provvedimenti posti in essere dagli enti, il tutto per il perseguimento del pubblico interesse e non il semplice interesse del proprio cliente; si pensi allo sforzo per evitare le difese ad oltranza, quando non giustificate, certamente non rispettose dell’interesse pubblico e della buona amministrazione, e il miglior utilizzo dei vari istituti deflattivi del contenzioso, quali l’autotutela, laddove possibile. Se manca autonomia decisionale ed indipendenza dalla politica e dall’amministrazione, tutto ciò rischia di essere vanificato.

Ma si pensi anche ai risparmi di spesa che tutto ciò comporta, pur elevando la qualità delle prestazioni in considerazione di quanto detto. Cosa che, coi tempi che corrono, non è di poco conto!

3. Le sentenze del Consiglio di Stato, 14 febbraio 2012, n. 730 e TAR Basilicata, 28 febbraio 2012, n. 100

A pochi mesi dalla sentenza del TAR Lazio n. 3222/2011, che ha suscitato una forte indignazione per i toni ed il tenore delle opinioni espresse, in quanto neppure lontanamente consone al prestigio ed alla sobrietà proprie della magistratura amministrativa, il Consiglio di Stato è intervenuto confermando l’orientamento univoco della giurisprudenza civile, amministrativa, ed ordinamentale. Ad esso ha fatto seguito il Tribunale amministrativo della Basilicata.

Di fatto viene ribadita la funzione di elemento specializzato, di “cerniera”, fra i diversi protagonisti del processo e dell’azione amministrativa nel suo complesso, dalla sua genesi al suo epilogo, dell’avvocatura pubblica, che vuole proiettare sempre più nel futuro, nella modernizzazione la P.A., riappropriandosi del suo passato, ovvero delle motivazioni per le quali è “nata”: il bisogno di assicurare all’ente pubblico lo stabile consiglio di uomini (… e donne) di legge, avvertito come ho detto sin da epoca remota. Basta rammentare che proprio l’avvocatura degli enti locali ha formato oggetto di una specifica analisi da parte di tre «saggi» (i prof. Cassese, amministrativista di Roma, Pizzorno, sociologo, e Arcidiacono, costituzionalista di Catania), chiamati a comporre il c.d. “Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione”, istituito con decreto n. 211 del 30.9.1996 dall’allora Presidente della Camera dei Deputati Luciano Violante.

Il Rapporto redatto da costoro sul tema è emblematico, attesi i problemi analizzati come patologici degli enti locali: «Una delle ragioni principali della corruzione è la debolezza dell’Amministrazione, data dall’assenza o dall’insufficienza dei ruoli professionali. Essa costringe le Amministrazioni ad affidarsi a soggetti esterni per tutte le attività che riguardano l’opera di specialisti. Il rimedio ipotizzabile è che i professionisti dipendenti iscritti agli albi vanno organizzati in corpi separati, con uno stato giuridico ed un trattamento economico che consentano di attrarre personale di preparazione adeguata. Non ci si deve illudere di poter acquisire le professionalità necessarie, se non si è poi disposti a pagare il loro prezzo, né che la corruzione abbia termine, finchè le Amministrazioni non abbiano superato questa loro debolezza».

Ecco allora chiarito il ruolo in cui è impegnata l’Avvocatura degli enti locali: offrire ai propri colleghi, ai giudici, ai cittadini un punto fermo a baluardo della legittimità o, ancor di più, un ruolo di nemica di chi attenta alla corruzione della P.A., per impedire al proprio cliente/datore di lavoro di esser debole, e renderla il più possibile impermeabile, contribuendo quotidianamente, ma con professionalità, tenacia e dedizione al miglioramento della giustizia. Ed è un ruolo che non si differenzia da quello rivestito dagli avvocati dello Stato, anch’essi impegnati a difendere la P.A. con funzioni identiche: contenziosa e consultiva.

Il Consiglio di Stato, con l’odierna recente sentenza, esamina la disciplina della professione forense del 1933, nel cui particolare interspazio esistente fra l’Avvocatura e il libero Foro chiamato “eccezione all’incompatibilità” vengono ascritti gli avvocati dipendenti di enti pubblici, prendendo le mosse dal preliminare esame della questione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in materia di pubblico impiego.

3.1. Questione di giurisdizione

Il tema della “giurisdizione” ha visto più volte la giurisprudenza amministrativa chiamata a risolvere i problemi che la riforma del pubblico impiego ha apportato al riguardo, soprattutto sotto il profilo della sua corretta individuazione in conseguenza della c.d. “privatizzazione” del pubblico impiego.

La giurisprudenza amministrativa generalmente distingue, ai fini del riparto di giurisdizione, se le controversie sono relative al rapporto di lavoro in atto, da quelle relative all’attività procedurale amministrativa finalizzata all’instaurazione dei rapporti stessi, avendo avuto modo in ogni occasione di ritenere le prime devolute all’autorità giurisdizionale ordinaria, mentre le seconde al giudice amministrativo.

Dalla cennata distinzione elaborata dalla “curia” si può ulteriormente sviscerare il problema, rammentando che il Consiglio di Stato lega in modo ancor più saldo il criterio di riparto della giurisdizione alla “nascita” del rapporto rispetto al quale, la stipula del relativo contratto, assume valore costitutivo. Da qui la distinzione tra “aspetto organizzativo” e “aspetto gestionale” del rapporto.

La normativa in materia, originariamente stabilita nel d.lgs. n. 29 del 1993, oltre che dall’impianto normativo costituito dal dlgs n. 546/1993, dal dlgs n. 80 del 1998 e dal dlgs n. 387/98, e’ stata poi assunta nel d.lgs. n. 267/2000, per ciò che attiene gli enti locali, ed ulteriormente perfezionata ad opera del d.lgs. n. 165 del 2001, con riguardo ad ogni rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, ed infine modificata con le recentissime leggi “Brunetta”.

Allo stato dell’arte, pertanto, se è vero che il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici è contrattualizzato e privatizzato, è altrettanto vero che l’organizzazione datoriale in cui viene prestato è quella pubblica, con tutto ciò che tale aggettivo comporta.

La sentenza in commento, al fine di dirimere la questione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sollevata dall’Ente appellante, tratta della distinzione tra provvedimenti di macro-organizzazione, che in quanto attività di organizzazione degli uffici di carattere pubblico resta sottoposta ad un regime pubblicistico, e provvedimenti di micro-organizzazione, che quale attività operativa e di gestione del personale riveste natura privatistica e, dunque, resta assoggettata alla regole civilistiche. In ciò ricorrendo nuovamente la distinzione tra aspetto organizzativo e gestionale del rapporto, da cui più sopra si era partiti.

In sostanza, il giudice d’appello svolge un lavoro molto analitico, poiché si concentra, fra i risvolti dei provvedimenti impugnati, su quelli che possono essere considerati gli interessi di natura organizzatoria del rapporto sotteso, evidenziando la assoluta differenza con la posizione personale dell’avvocato dipendente.

Ciò svuoterebbe di contenuto eventuali diverse tesi e, in particolare commenti, diretti ad applicare astrattamente lo spartiacque della “stipula del contratto di lavoro” quale sintomo dell’aspetto privatistico del rapporto, con conseguente attrazione di ogni situazione interveniente alla giurisdizione ordinaria. Non solo. Evidenzierebbe la non corretta e profonda conoscenza delle peculiarità che, istituita una avvocatura, obbligano l’ente pubblico a dotarla di propria autonomia funzionale, di professionisti posti in sostanziale estraneità dall’apparato amministrativo, in posizione di indipendenza da tutti i settori previsti in organico e con esclusione di ogni attività di gestione (TAR Lazio, 737/1999; Cass. 10178/1990, CNF 76/2001, CNF 278/2000; Cass. SU n. 1268/2000; Cass. SU 10367/1998; Cass. 16629/2009; Cass. 18359/2009). Così come costituisce un falso problema ricorrere alla partizione “dirigenza” o “dipendenza” generica, per avallare teorie metagiuridiche sull’esercizio della professione forense all’interno di una pubblica amministrazione.

Nella specie, il Giudice amministrativo d’appello ha riscontrato come non fosse in questione la posizione lavorativa personale dell’avvocato dipendente, poiché ricorrendo quel caso (fa l’esempio il giudice della destinazione a diverso ufficio), verrebbe in evidenza, ai sensi del d. lgs. n. 165 del 2001, la giurisdizione ordinaria.

Al contrario, la controversia esaminata dal Consiglio di Stato era incentrata sulla legittimità o meno del provvedimento di macro-organizzazione posto in essere dalla PA, ed in particolar modo la parte di natura organizzatoria i cui effetti, dispiegati anche nei confronti dell’Ufficio Legale, evidenziavano una chiara posizione di interesse legittimo e, conseguentemente, la giurisdizione del giudice amministrativo, come ritenuto correttamente dal giudice d’appello, anche in considerazione dell’”interesse pubblico” che deve sorreggere ogni determinazione organizzativa da parte degli enti, ai sensi dell’art. 5, d.lgs. 165/2001.

3.2 Questioni di merito

Uno dei punti focali dell’appello affrontato dal Consiglio di Stato, che costituisce anche un punto nevralgico della materia, riguarda il potere di coordinamento e di sovrintendenza dell’Avvocatura da parte del direttore generale o di altro dirigente dell’Ente.

Come si è detto in apertura, l’unico riferimento normativo si trova nell’art.3, R.D. n. 1578/1933, la c.d. “legge professionale forense”, il quale dopo aver precisato, al secondo comma, che l’esercizio della professione di avvocato è “incompatibile con qualunque impiego od ufficio retribuito con stipendio sul bilancio dello Stato, delle Province, dei Comuni”, prosegue prevedendo una eccezione per “gli avvocati degli uffici legali istituiti sotto qualsiasi denominazione ed in qualsiasi modo presso gli enti di cui allo stesso secondo comma, per quanto concerne le cause e gli affari propri dell’ente presso il quale prestano la loro opera”, i quali, a differenza degli avvocati del libero foro, devono essere iscritti dall’Ordine di appartenenza in un “elenco speciale annesso all’albo”, al fine di rendere percepibile anche visivamente l’eccezione.

Si è poi dato atto del consolidato orientamento giurisprudenziale sulla disposizione, a mente del quale l’iscrizione all’elenco speciale ex art. 3, r.d. 1578/1933, è condizionato alla ricorrenza del duplice, concorrente presupposto, ovvero la “costituzione” di un ufficio legale organicamente autonomo e la “esclusività” dell’espletamento dell’attività di assistenza, rappresentanza e difesa dell’ente pubblico presso il quale presta la propria opera, nelle cause e negli affari dell’ente stesso, con sostanziale estraneità all’apparato amministrativo, in posizione di indipendenza da tutti i settori previsti in organico e con esclusione di ogni attività di gestione.

L’anomia che segna una siffatta rilevante funzione, ha ricevuto importanti interpretazioni giurisprudenziali che ne hanno demarcato un confine piuttosto importante, non soltanto di natura soggettiva (cioè il riconoscimento di uno status particolare agli avvocati pubblici, in assenza del quale verrebbe meno la persistenza stessa della loro iscrizione all’Elenco), quanto piuttosto di natura oggettiva, ben più problematica sul piano del riconoscimento pratico, ma di importante spessore: la collocazione delle avvocature nella struttura dell’Ente pubblico che sia al tempo stesso autonoma e indipendente e valga a consentire ed assicurare il libero esercizio delle peculiari funzioni.

Proprio queste peculiarità contrastano di fatto, di diritto e giurisprudenzialmente, con molteplici tentativi posti in essere dalle PA, tesi ad inserire gli avvocati o gli uffici legali, con vincolo di subordinazione gerarchica (potere gerarchico-funzionale e non già gerarchico-professionale), nelle strutture amministrative dell’Ente.

Sul punto la giurisprudenza amministrativa più recente, in linea con quella passata, ha posto pietre miliari. Ora il Consiglio di Stato, con la sentenza del 14 febbraio 2012, ha aggiunto ulteriori “miglia” nell’affermazione di un principio deontologico e di buon senso, prima ancora che di diritto: “L’esistenza di un’autonoma articolazione organica dell’Ufficio legale dell’ente risulta indispensabile perché l’attività professionale, ancorché svolta in forma di lavoro dipendente, deve essere esercitata, in conformità alle disposizioni che la disciplinano, con modalità che assicurino oltre alla libertà nell’esercizio dell’attività di difesa, insita nella figura professionale, anche l’autonomia del professionista. A tal fine l’istituzione di un ufficio legale nell’ambito di un ente determina l’insorgenza di una struttura che si differenzia da ogni altro centro operativo e postula una diretta connessione unicamente con il vertice decisionale dell’Ente stesso, al di fuori, quindi, di ogni altra intermediazione (Cfr. Cons. Stato, sez. V, 16.9.2004 n. 6023; TAR Molise Campobasso, 9.1.2002 n. 1).

Appare pertanto illegittima l’articolazione organica dettata con l’impugnata delibera, non potendo l’ufficio legale essere posto alle dipendenze del Settore Staff e, quindi, del suo Dirigente, il Segretario Generale del Comune, proprio perché la salvaguardia dell’autonomia e indipendenza dell’attività professionale in discorso, esclude che possa esservi una subordinazione gerarchica ed una ingerenza nella trattazione degli affari giuridico legali attinenti specificamente nelle competenze che il professionista può svolgere in virtù della sua iscrizione all’albo, competenze non rinvenibili nella figura del Segretario Generale (ovvero Dirigente amministrativo), che non postula la specifica preparazione professionale garantita dall’iscrizione all’albo” (TAR Sardegna, II sez., n. 7/2008).

Il TAR della Basilicata si è espresso sulle medesime questioni, entrando nel merito della necessità o meno di mantenere all’Avvocatura comunale una struttura caratterizzata da autonomia rispetto all’apparato burocratico-gerarchico dell’Ente, e sul contenuto di tale autonomia ed indipendenza ai fini del mantenimento dell’iscrizione nell’elenco speciale annesso all’Albo forense, riservata agli avvocati che svolgono la professione in qualità di dipendenti degli enti pubblici, come previsto dall’art. 3, LP.

In entrambe le pronunce in commento si sono lambiti questi temi. Ma s’è fatto di più, poiché si è analizzato il confine stesso dello "ius postulandi" nell’ipotesi di Avvocatura posta alle dipendenze di un direttore generale o segretario, intangibile sul piano sostanziale da parte di costoro, “in quanto lo stesso è la esplicazione in concreto di una qualità giuridica, quella di essere abilitato a parlare davanti ai giudici”, ma messo in discussione sul piano operativo-gestionale.

In disparte la questione trattata dal TAR della Basilicata sulla distinzione fra apicalità di natura dirigenziale o di natura funzionale dell’Avvocatura all’interno della struttura degli enti locali, distinzione fondata sulla dimensione degli enti, anche in questo caso vengono sanciti due importanti principi: 1) “ogni Comune che ha alle proprie dipendenze avvocati professionisti, deve collocare la struttura dell’Avvocatura comunale come un’articolazione organica autonoma in posizione di dipendenza funzionale esclusivamente nei confronti dei vertici decisionali del Comune, cioè al di fuori della struttura amministrativa vera e propria, in quanto tale collocazione è l’unica in grado di garantire l’autonomia dell’ufficio legale e l’indipendenza professionale dell’Avvocato nei confronti sia dell’organo politico, sia dell’apparato amministrativo del Comune” (in tal senso anche TAR Sicilia, IV, 3 maggio 2008, n. 726); 2) “soltanto la contrattazione collettiva, relativa alle Amministrazioni Statali, prevede la “rotazione” degli incarichi dirigenziali (cfr. per es. art. 13 CCNL per il quadriennio 1998-2001, sottoscritto il 5.4.2001). (…). Mentre negli Enti Locali, anche di maggiori dimensioni, i laureati in Giurisprudenza possono ricoprire soltanto pochi posti dirigenziali, afferenti all’area amministrativa, per cui gli Enti Locali sono costretti ad indire appositi concorsi, finalizzati alla copertura di un preciso posto dirigenziale, prevedendo prove concorsuali, attinenti alle specifiche materie di competenza del settore, al quale dovrà essere preposto il Dirigente da assumere. Infatti, ad un Dirigente comunale, laureato in Giurisprudenza, non può, con il criterio della “rotazione” degli incarichi dirigenziali, essere conferita la responsabilità di un settore tecnico o di un altro settore, che si occupa di materie, che non sono state oggetto del concorso, vinto dallo stesso Dirigente comunale, laureato in Giurisprudenza. Pertanto, alla ricorrente non può essere imposta l’assegnazione di un altro incarico dirigenziale, in quanto ha superato un apposito concorso, finalizzato alla selezione ed individuazione di un posto di Dirigente Avvocato”.

Principi, questi sopra specificati, che fanno da corollario, poiché si muovono nel medesimo solco, a quelli sanciti in via definitiva e nomofilattica dal Consiglio di Stato.

Ha, infatti, concluso il Consiglio di Stato per l’illegittimità della “sottoposizione dell’Ufficio legale alle direttive e agli ordini del direttore generale”, in quanto se egli “può intervenire a coordinare gli uffici (tutti gli uffici, anche quello legale), non può indubbiamente andare ad interferire sull’organizzazione interna degli stessi e sulle modalità di organizzazione del lavoro dei medesimi, innanzitutto perché si tratta di un’attività tecnica (in senso giuridico) e, poi, perché gli uffici legali degli enti pubblici devono necessariamente godere di quella particolare autonomia di pensiero e di organizzazione che sola può consentire l’esplicazione corretta e proficua della loro attività”.

Infine, il Consiglio di Stato ha ritenuto infondato il motivo d’appello forse più spinoso e centrale, con argomentazioni chiare, coraggiose e perfettamente in linea con la legge forense da un lato, ma altresì con la disciplina che regola l’Avvocatura dello Stato, ai cui organi tecnico-legali l’avvocato degli enti pubblici (diversi dallo Stato) non si differenzia: il potere di auto-organizzazione dell’Amministrazione quale forma di piena discrezionalità riconosciutagli direttamente dalla legge.

Al riguardo, il giudice d’appello ha correttamente riconosciuto come tale potere non possa essere “censurato in sede di legittimità, in quanto altrimenti verrebbe vanificata quella potestà della pubblica amministrazione di darsi quell’organizzazione che ritiene più coerente per il raggiungimento degli interessi pubblici che le sono commessi dall’ordinamento in ciascuna fase storica”, riconoscendo altresì onestamente che “l’Amministrazione pubblica gode, ai sensi dell’art. 97 della Costituzione, di un ampio margine di auto-organizzazione degli uffici e del personale, il che è stato ulteriormente ribadito dalla legge n. 127 del 1997 che, nel modificare l’art. 51 della legge n. 142 del 1990, ha modificato la competenza ad adottare il regolamento degli uffici e dei servizi, attribuendolo (unico fra tutti i regolamenti) alla Giunta, proprio per porre in evidenza che la organizzazione degli uffici degli enti locali è vicenda operativa intrinsecamente collegata con il potere operativo e non può sottostare alle discussioni di un’approvazione assembleare”.

Tuttavia, nel riconoscere come non possa essere messo in discussione tale potere in sede giurisdizionale, ha altresì osservato come “l’esercizio in concreto di tale discrezionalità non è senza limiti, altrimenti essa si tramuterebbe in una incondizionata licenza, senza alcun limite e senza alcuna possibilità di controllo”, riscontrando in tale ampia discrezionalità almeno due limiti:

1) limite della ragionevolezza, intendo “che, qualora si dovessero riscontrare patenti violazione dell’ordine logico e si dovesse individuare una organizzazione che non si presenta rispettosa dei principi di cui all’art. 97 Cost., allora l’esame del provvedimento di macro-organizzazione diventa non solo necessario, ma addirittura indispensabile”;

2) limite del rispetto delle statuizioni esistenti, vale a dire “delle guarentigie attribuite a determinate categorie di soggetti operanti nell’ambito della pubblica amministrazione”.

Precisa il Consiglio di Stato che, nel caso sottoposto alla propria valutazione, “non può non evidenziarsi che la normativa attualmente vigente (con particolare riferimento, oltre alla natura dell’attività tipica di un ufficio legale, ricavabile dal principi generali dell’ordinamento giuridico, dall’art. 3 del r.d. n. 1578 del 1933 e dall’art. 15, comma 2, della legge n. 70 del 1975), prevede che gli uffici legali degli enti pubblici devono godere di autonomia e di indipendenza, per cui, al di là delle scelte politiche, la parte squisitamente tecnica non può essere sottoposta né a condizionamenti, né a valutazioni che possano in qualche modo svilirne il modo di essere. Indubbiamente, l’Ufficio legale è sempre un ufficio dell’Amministrazione e non può sottrarsi alle indicazioni degli organi di vertice, nel senso di agire al di fuori di quelle indicazioni, ma tali indicazioni non possono mai intaccare la visione autonoma delle vicende che sono sottoposte alla sua cognizione”.

Sicché, il rispetto della sopra citata norma può dirsi soddisfatto per la giurisprudenza (e il CNF) non solo quando sussista un’apposita ed autonoma struttura deputata all’assolvimento delle peculiari funzioni degli avvocati dipendenti di enti pubblici, ma anche quando a questi ultimi sia garantita l’indispensabile indipendenza nell’esercizio dello jus postulandi, in modo