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Indennità risarcitoria per illegittimità del termine: nuovo criterio e giudizio di Cassazione

Nota a Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 2 marzo 2012, n.3305

Abstract

The article examines the subject of the new remedies provided by the law (art.32, paragraphs 5–7, L. 183/2010) focuses on the compatibility of these with the Supreme Court proceedings.

Volendo ripercorrere l’iter normativo della disciplina sul criterio risarcitorio spettante al lavoratore, in caso di esito positivo del giudizio tendente ad accertare l’illegittimità del termine apposto a un contratto di lavoro subordinato e quindi della conseguente conversione in rapporto a tempo indeterminato, occorre rilevare che, prima dell’intervento della legge 4 novembre del 2010 n. 183, il criterio utilizzato era fondamentalmente quello della proporzionalità.

In particolare, in virtù della previgente disciplina (antecedente al 2008), al lavoratore spettava un risarcimento commisurato in proporzione al tempo intercorso tra la cessazione del rapporto di lavoro (decorrente dalla messa in mora del datore di lavoro) e il ripristino dello stesso.

La ratio di una tale previsione risiedeva nell’esigenza di evitare che il lavoratore, a causa delle lungaggini processuali, potesse subire un eccessivo aggravio delle sue condizioni economiche.

Un primo cambio di direzione verso la forfetizzazione del criterio risarcitorio si è avuto con il Decreto legge n. 112/2008, poi convertito in Legge n. 133/2008, il quale, inserendo l’art. 4 bis nel testo del Decreto legislativo n. 368/2001, aveva sostituito all’assunzione a tempo indeterminato un indennizzo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Tuttavia, tale sostituzione andava a penalizzare eccessivamente il lavoratore. Infatti, a fronte della precedente normativa che consentiva di ottenere non solo le retribuzioni non percepite e maturate durante il processo, ma anche la riassunzione in servizio a tempo indeterminato, il lavoratore si trovava ad avere, da quel momento, un’unica possibilità: quella di agire dinanzi al Giudice del lavoro al fine di ottenere un’indennità circoscritta entro determinati limiti quantitativi.

In seguito, con l’entrata in vigore della Legge n. 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro), se da un lato, il legislatore ha continuato a percorrere la strada della forfetizzazione, dall’altro ha cercato di conciliare i vari interessi sottesi al rapporto.

L’indennizzo non si va più a sostituire all’assunzione a tempo indeterminato del lavoratore, ma si va ad aggiungere a essa, rimediando così all’eccessiva onerosità della predetta disciplina del 2008.

Infatti, la novità rispetto alla disciplina precedente consiste da un lato, nel non aver parametrato la misura dell’importo risarcitorio alla durata del processo, dall’altro nell’aver posto tale rimedio accanto alla riammissione in servizio a tempo indeterminato e non in luogo di essa.

In particolare, l’attuale disciplina contenuta nell’art. 32, commi 5 – 7, della l. 183/2010, fissa in modo forfettario l’entità del risarcimento entro limiti quantitativi che vanno da un minimo di 2,5 a un massimo di 12 mensilità, rimettendo al giudice la determinazione della stessa in base ai parametri di cui all’art. 8 della Legge n. 604/1966 quali: il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’impresa, l’anzianità di servizio del lavoratore, il comportamento e le condizioni delle parti.

Ciò con evidente scopo di bilanciare l’interesse del lavoratore con quello del datore di lavoro, limitando, di fatto, l’entità del risarcimento dovuto da quest’ultimo e mantenendo, comunque, un nucleo di protezione a favore del primo.

Per quanto concerne, poi, l’ambito di operatività della disciplina in esame, il primo periodo del comma 7 dell’art. 32 prevede espressamente l’applicazione del nuovo criterio risarcitorio a tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della legge.

Tuttavia, riguardo a questi ultimi, sono sorti alcuni dubbi interpretativi circa l’applicabilità o meno della suddetta disciplina anche ai giudizi di legittimità.

Tali perplessità nascono principalmente dalla lettura del secondo periodo del comma 7 dell’art. 32, il quale per i giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge prevede che: “……ove necessario, ai soli fini della determinazione dell’indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e della relativa eccezione ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.”.

Orbene, nonostante il tenore letterale della norma richiami attività proprie del giudizio di merito e non di quello di legittimità, arrivare a escludere il giudizio di cassazione dall’ambito di operatività della norma in esame equivarrebbe a discriminare, irragionevolmente, tra loro situazioni sostanzialmente analoghe, in base alla circostanza, del tutto casuale, della pendenza della lite in una fase piuttosto che in un’altra, assoggettando le parti del rapporto di lavoro a un regime diverso a seconda che i processi pendano in primo, secondo oppure dinanzi al giudice di legittimità.

Del resto, una simile discriminazione è stata già censurata da parte della Corte Costituzionale con Sentenza n. 214 del 2009, con riferimento alla circostanza della pendenza di una lite (trattando dell’art. 4Bis Decreto legislativo n.368/2001 introdotto dal Decreto legge n. 112/2009 convertito in Legge n. 133/2008).

Inoltre, tale conclusione non trova ostacolo nel riferimento, fatto dalla norma, alla fissazione di un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni e all’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art 421 c.p.c.

Infatti, in virtù della sua collocazione nel secondo periodo del comma 7, dell’art. 32, lo stesso va letto quale affermazione del primo periodo del medesimo comma il quale prevede, come detto, l’applicabilità del nuovo criterio a tutti i giudizi compresi quelli in corso alla data di entrata in vigore della legge.

Attraverso siffatta interpretazione, la volontà del legislatore appare chiara. Essa è diretta non tanto a segnalare all’interprete un’incompatibilità del giudizio di legittimità rispetto ad attività proprie del merito, quanto a disciplinare gli effetti della norma una volta ripristinata la sede di merito mediante cassazione con rinvio, conseguente, appunto, all’applicazione dello “ius supervenies” sancita nel primo periodo del comma7.

Sulla base di tali argomentazioni, proponendo una lettura costituzionalmente orientata della norma in questione, già in precedenza sostenuta con Ordinanza interlocutoria del 28 gennaio 2011 n. 2112, la Suprema Corte di Cassazione, con sent. del 2 marzo 2012 n. 3305, ha ribadito che in tema di risarcimento dovuto al lavoratore in caso di conversione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato, il combinato disposto dei commi 5 e 7 dell’art. 32 della L. 183/2010 è applicabile anche in sede di legittimità.

Nel caso specifico, su una controversia avente ad oggetto il “dies a quo” da cui dovesse considerarsi in mora il datore di lavoro, ai fini della determinazione del risarcimento dovuto al lavoratore, la Suprema Corte ha ritenuto che l’applicabilità al caso di specie dello “ius supervenies” costituito dal comma 5 dell’art. 32 della L.183/2010 rendesse irrilevante ogni discussione sulla “mora accipiendi” del datore di lavoro, poiché detta norma prevede una tutela risarcitoria quantificata secondo parametri diversi.

Abstract

The article examines the subject of the new remedies provided by the law (art.32, paragraphs 5–7, L. 183/2010) focuses on the compatibility of these with the Supreme Court proceedings.

Volendo ripercorrere l’iter normativo della disciplina sul criterio risarcitorio spettante al lavoratore, in caso di esito positivo del giudizio tendente ad accertare l’illegittimità del termine apposto a un contratto di lavoro subordinato e quindi della conseguente conversione in rapporto a tempo indeterminato, occorre rilevare che, prima dell’intervento della legge 4 novembre del 2010 n. 183, il criterio utilizzato era fondamentalmente quello della proporzionalità.

In particolare, in virtù della previgente disciplina (antecedente al 2008), al lavoratore spettava un risarcimento commisurato in proporzione al tempo intercorso tra la cessazione del rapporto di lavoro (decorrente dalla messa in mora del datore di lavoro) e il ripristino dello stesso.

La ratio di una tale previsione risiedeva nell’esigenza di evitare che il lavoratore, a causa delle lungaggini processuali, potesse subire un eccessivo aggravio delle sue condizioni economiche.

Un primo cambio di direzione verso la forfetizzazione del criterio risarcitorio si è avuto con il Decreto legge n. 112/2008, poi convertito in Legge n. 133/2008, il quale, inserendo l’art. 4 bis nel testo del Decreto legislativo n. 368/2001, aveva sostituito all’assunzione a tempo indeterminato un indennizzo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Tuttavia, tale sostituzione andava a penalizzare eccessivamente il lavoratore. Infatti, a fronte della precedente normativa che consentiva di ottenere non solo le retribuzioni non percepite e maturate durante il processo, ma anche la riassunzione in servizio a tempo indeterminato, il lavoratore si trovava ad avere, da quel momento, un’unica possibilità: quella di agire dinanzi al Giudice del lavoro al fine di ottenere un’indennità circoscritta entro determinati limiti quantitativi.

In seguito, con l’entrata in vigore della Legge n. 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro), se da un lato, il legislatore ha continuato a percorrere la strada della forfetizzazione, dall’altro ha cercato di conciliare i vari interessi sottesi al rapporto.

L’indennizzo non si va più a sostituire all’assunzione a tempo indeterminato del lavoratore, ma si va ad aggiungere a essa, rimediando così all’eccessiva onerosità della predetta disciplina del 2008.

Infatti, la novità rispetto alla disciplina precedente consiste da un lato, nel non aver parametrato la misura dell’importo risarcitorio alla durata del processo, dall’altro nell’aver posto tale rimedio accanto alla riammissione in servizio a tempo indeterminato e non in luogo di essa.

In particolare, l’attuale disciplina contenuta nell’art. 32, commi 5 – 7, della l. 183/2010, fissa in modo forfettario l’entità del risarcimento entro limiti quantitativi che vanno da un minimo di 2,5 a un massimo di 12 mensilità, rimettendo al giudice la determinazione della stessa in base ai parametri di cui all’art. 8 della Legge n. 604/1966 quali: il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’impresa, l’anzianità di servizio del lavoratore, il comportamento e le condizioni delle parti.

Ciò con evidente scopo di bilanciare l’interesse del lavoratore con quello del datore di lavoro, limitando, di fatto, l’entità del risarcimento dovuto da quest’ultimo e mantenendo, comunque, un nucleo di protezione a favore del primo.

Per quanto concerne, poi, l’ambito di operatività della disciplina in esame, il primo periodo del comma 7 dell’art. 32 prevede espressamente l’applicazione del nuovo criterio risarcitorio a tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della legge.

Tuttavia, riguardo a questi ultimi, sono sorti alcuni dubbi interpretativi circa l’applicabilità o meno della suddetta disciplina anche ai giudizi di legittimità.

Tali perplessità nascono principalmente dalla lettura del secondo periodo del comma 7 dell’art. 32, il quale per i giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge prevede che: “……ove necessario, ai soli fini della determinazione dell’indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e della relativa eccezione ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.”.

Orbene, nonostante il tenore letterale della norma richiami attività proprie del giudizio di merito e non di quello di legittimità, arrivare a escludere il giudizio di cassazione dall’ambito di operatività della norma in esame equivarrebbe a discriminare, irragionevolmente, tra loro situazioni sostanzialmente analoghe, in base alla circostanza, del tutto casuale, della pendenza della lite in una fase piuttosto che in un’altra, assoggettando le parti del rapporto di lavoro a un regime diverso a seconda che i processi pendano in primo, secondo oppure dinanzi al giudice di legittimità.

Del resto, una simile discriminazione è stata già censurata da parte della Corte Costituzionale con Sentenza n. 214 del 2009, con riferimento alla circostanza della pendenza di una lite (trattando dell’art. 4Bis Decreto legislativo n.368/2001 introdotto dal Decreto legge n. 112/2009 convertito in Legge n. 133/2008).

Inoltre, tale conclusione non trova ostacolo nel riferimento, fatto dalla norma, alla fissazione di un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni e all’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art 421 c.p.c.

Infatti, in virtù della sua collocazione nel secondo periodo del comma 7, dell’art. 32, lo stesso va letto quale affermazione del primo periodo del medesimo comma il quale prevede, come detto, l’applicabilità del nuovo criterio a tutti i giudizi compresi quelli in corso alla data di entrata in vigore della legge.

Attraverso siffatta interpretazione, la volontà del legislatore appare chiara. Essa è diretta non tanto a segnalare all’interprete un’incompatibilità del giudizio di legittimità rispetto ad attività proprie del merito, quanto a disciplinare gli effetti della norma una volta ripristinata la sede di merito mediante cassazione con rinvio, conseguente, appunto, all’applicazione dello “ius supervenies” sancita nel primo periodo del comma7.

Sulla base di tali argomentazioni, proponendo una lettura costituzionalmente orientata della norma in questione, già in precedenza sostenuta con Ordinanza interlocutoria del 28 gennaio 2011 n. 2112, la Suprema Corte di Cassazione, con sent. del 2 marzo 2012 n. 3305, ha ribadito che in tema di risarcimento dovuto al lavoratore in caso di conversione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato, il combinato disposto dei commi 5 e 7 dell’art. 32 della L. 183/2010 è applicabile anche in sede di legittimità.

Nel caso specifico, su una controversia avente ad oggetto il “dies a quo” da cui dovesse considerarsi in mora il datore di lavoro, ai fini della determinazione del risarcimento dovuto al lavoratore, la Suprema Corte ha ritenuto che l’applicabilità al caso di specie dello “ius supervenies” costituito dal comma 5 dell’art. 32 della L.183/2010 rendesse irrilevante ogni discussione sulla “mora accipiendi” del datore di lavoro, poiché detta norma prevede una tutela risarcitoria quantificata secondo parametri diversi.