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Farmacie e “Parafarmacie”: i requisiti strutturali ed organizzativi e la questione della vendita dei medicinali soggetti a prescrizione ma non rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale

Il contesto di riferimento

Tutta la regolamentazione che afferisce al bene “farmaco” in Italia è piuttosto elaborata, complessa ed anche un po’ sintomatica dell’espansione normativa, veramente tutta italiana, che ha caratterizzato il periodo dello sviluppo economico nel dopoguerra. L’attenzione particolare del legislatore italiano si è focalizzata, nel tempo, non solo sul bene “farmaco”, ma soprattutto sulla professione del “farmacista” e sul servizio “di farmacia”, come conseguenza del fatto che l’assistenza sanitaria e farmaceutica in Italia è svolta direttamente dallo Stato; potremmo quindi affermare che la presenza di un interesse pubblico sottostante e così rilevante, ha necessariamente comportato l’invasione normativa nel settore.

In tale contesto si è tuttavia verificata l’inevitabile conseguenza di creare, dal punto di vista economico, una sensibile rigidità della professione e del mercato, che ormai da molti anni sono oggetto di tentativi di modifica, nella direzione di una maggior liberalizzazione che dovrebbe agevolare il mercato e soprattutto i cittadini consumatori.

La specificità italiana ha poi in questi ultimissimi anni spinto i tentativi di riforma verso un confronto a livello europeo che tuttavia, a parte qualche timida affermazione di principio, non ha ancora portato alla conferma della necessità di una radicale riforma[1], così tanto auspicata dai maggiori sostenitori dell’effettiva apertura del mercato.

La questione trova origine nella circostanza che la farmacia da moltissimi anni ha di fatto sensibilmente ridotto il suo ruolo, limitandosi a svolgere una funzione prevalentemente commerciale, per quanto concerne la farmacia privata territoriale, e prevalentemente organizzativa e di supporto sebbene con maggiori connotazioni di professionalità, per quanto concerne le farmacie ospedaliere. Queste ultime, essendo parte integrante della struttura sanitaria, svolgono un ruolo istituzionale importante di natura organizzativa (consentire la presenza dei medicamenti necessari alle tipologie di cure specifiche in essere presso la struttura ospedaliera), di supporto nell’elaborazione dei capitolati di gara per la fornitura di medicamenti), di aggiornamento e collaborazione con il personale medico ed infermieristico. In buona sostanza, almeno per quanto riguarda la farmacia territoriale, siamo molto lontani da quella sinergia professionale tra medico e farmacista (o speziale) risalente agli inizi del secolo scorso, quando il medico metteva a punto il medicamento di cui il proprio paziente necessitava, insieme al farmacista che deteneva le sostanze base ed aveva le conoscenze pratiche essenziali delle sostanze impiegate. Una collaborazione da cui tuttavia non si dovrebbe mai prescindere, come è stato messo in evidenza in uno studio britannico sul ruolo del farmacista nel prevenire o ridurre i rischi di eventuali errori medici nella prescrizione[2].

Ma la questione, con tutta evidenza, non riguarda l’indiscusso ed importante ruolo professionale del farmacista, quanto il tema della distribuzione o meglio la sua componente più spiccatamente commerciale che, in alcuni paesi come l’Italia, gode di un chiaro privilegio che da molti economisti è stato indicato come ostacolo ad una maggiore liberalizzazione del mercato a beneficio della concorrenza che, com’è noto, dovrebbe avere effetti benefici per il cittadino – consumatore - paziente.

Il Decreto Ministeriale del 9 marzo 2012 sui requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi delle cosiddette “parafarmacie”[3]

Il Decreto Ministeriale del 9 marzo 2012[4] ha stabilito i requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi degli esercizi commerciali di cui all’articolo 5, comma 1, del Decreto Legge 223 del 4 luglio 2006[5]: Si tratta dei requisiti che devono possedere gli esercizi commerciali che intendono vendere al pubblico, con la presenza continua di un farmacista, i farmaci per i quali è consentita la vendita al di fuori delle farmacie territoriali.

Nonostante siano trascorsi ben sei anni da quando il Decreto Legge n. 223/06 (ai più noto come “Decreto Bersani”) aveva consentito la vendita dei farmaci cosiddetti per “automedicazione” presso gli esercizi commerciali diversi dalle farmacie territoriali, l’impulso alla regolamentazione per l’individuazione di requisiti tecnici è avvenuto solo all’indomani dell’entrata in vigore del Decreto Legge n. 201 del 6 dicembre 2011[6]. La riforma del 2006, infatti, nel consentire la vendita di tale categoria di farmaci negli esercizi commerciali, si era limitata a stabilire che essa avvenisse durante l’orario di apertura dell’esercizio commerciale ed in un apposito reparto, alla presenza e con l’assistenza personale e diretta al cliente di uno o più farmacisti abilitati all’esercizio della professione ed iscritti al relativo ordine professionale, senza attribuire una specifica delega regolamentare in materia di criteri e di requisiti che tali esercizi commerciali o locali avrebbero dovuto possedere. Ciò peraltro indusse alcune regioni ad intervenire fissando, nei limiti della loro competenza legislativa concorrenziale, i requisiti di natura strutturale ed organizzativa per tali esercizi commerciali. Tali interventi tuttavia non furono interpretati favorevolmente, in particolare dall’Antitrust che in più occasioni sostenne che le regioni avrebbero, di fatto, ecceduto l’ambito e le finalità della Legge[7].

Il Decreto pubblicato a fine aprile di quest’anno chiarisce definitivamente come devono essere strutturati gli spazi dedicati alla vendita dei farmaci e ribadisce, in maniera tuttavia ridondante, che anche per tali esercizi commerciali, diversi dalla farmacie tradizionalmente concepite, sono valide le norme in materia di vendita al pubblico dei medicinali, di farmacovigilanza e tracciabilità del farmaco[8]. La parte tecnica del Decreto è divisa in due parti, la parte A riguarda gli esercizi commerciali nei quali si vendono medicinali non soggetti a prescrizione medica, la parte B invece riguarda gli esercizi commerciali nei quali si vendono esclusivamente medicinali di automedicazione[9]. Per quanto concerne i requisiti strutturali lo spazio dedicato alla vendita deve poter consentire un accesso diretto e libero per i cittadini ai soli medicinali di automedicazione, alla presenza o con l’assistenza di uno o più farmacisti abilitati ed iscritti all’ordine professionale. Lo spazio dedicato alla vendita dei farmaci, qualunque essi siano, deve essere dedicato, ben indicato e separato dalle zone di vendita di altri prodotti. La temperatura del locale deve essere sempre inferiore ai 25 gradi centigradi e l’esercizio commerciale deve essere dotato di un sistema per la ricezione degli avvisi di ritiro o sequestro di medicinali diffusi dall’AIFA e dal Ministero della Salute, nonché una strumentazione idonea a garantire l’individuazione ed il ritiro di medicinali sequestrati, scaduti, non idonei o pericolosi. Importanti requisiti poi vengono stabiliti in materia di trasparenza, tra i quali in primo luogo l’obbligo di rendere noto agli utenti il nominativo del farmacista titolare e la necessità che il personale non farmacista indossi un camice che lo renda facilmente distinguibile dal personale farmacista il cui elenco nominativo, deve essere comunicato alla ASL territorialmente competente ed all’Ordine dei farmacisti.

Per quanto concerne poi i rapporti commerciali con la clientela, il Decreto dispone che il prezzo al pubblico dei medicinali deve essere sempre chiaramente reso noto ai clienti mediante listini o altre modalità equivalenti e ciò, aprendosi così il mercato alla concorrenza, dovrebbe comportare una maggior trasparenza nei confronti del consumatore che avrebbe la possibilità di scegliere anche valutando il parametro del prezzo. Nella stessa direzione di una maggior competitività, con l’obiettivo di agire ad un livello superiore della filiera, è la possibilità che viene concessa di praticare liberamente sconti sui prezzi di tutti i prodotti venduti, purchè tali sconti siano ben visibili ed esposti ed il consumatore abbia la possibilità di comprenderli facilmente.

L’Ordinanza del TAR Calabria, ossia la rimessione alla Corte Costituzionale; l’Ordinanza del TAR Lombardia, ossia la questione di compatibilità col Trattato dell’Unione.

Il contesto economico e normativo in materia di farmacia è notevolmente in fermento. Il Decreto Ministeriale sui requisiti tecnici delle parafarmacie si inserisce, per la verità, in un processo più ampio che ha come obiettivo l’allargamento del mercato concretizzatosi, peraltro con molte critiche da parte dei diretti interessati, con una sorta di de-listing di farmaci che non godono più della vendita esclusiva in farmacia ma possono ben essere proposti nelle parafarmacie[10].

Nell’ambito di tale processo, inconsapevolmente, si inserisce anche la recentissima ordinanza del TAR Calabria, sezione distaccata di Reggio Calabria, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 1, del Decreto Legge 223/2006, Legge di conversione 248/06 nella parte in cui non consente agli esercizi commerciali ivi previsti (parafarmacie) la vendita di medicinali di fascia C soggetti a prescrizione medica.

La questione trae il fatto da un farmacista, iscritto all’ordine professionale, e titolare di una parafarmacia, al quale è stata rigettata, dalla ASL territorialmente competente, la possibilità di vendita di farmaci in classe C).

Il TAR calabrese nel motivare la fondatezza della questione di legittimità, in relazione agli articoli 3 e 41 della Costituzione, sembra voler partire riferendosi alla distinzione tra la “professione del farmacista” e “l’attività di farmacia”. Un distinzione che mira a distinguere le prerogative della professione e lo status di chi esercita professionalmente tale attività e le caratteristiche precipue dell’attività di farmacia che è attività di impresa, rispetto alla quale la complessa regolamentazione pubblicistica è preordinata ad assicurare e controllare l’accesso dei cittadini ai prodotti medicinali ed in tal senso a garantire la tutela della salute[11]. Nell’ambito della “attività di farmacia” si realizza la vendita dei farmaci e così anche la prestazione dell’assistenza farmaceutica che fa capo al Servizio Sanitario Nazionale e di cui il farmacista territoriale è investito, dalla legislazione pubblicistica. Tale attività di assistenza farmaceutica consiste, notoriamente, nel dispensare all’assistito, su presentazione di ricetta medica, specialità medicinali nei limiti fissati dai livelli essenziali di assistenza e dunque con onere a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Ne consegue che, se da un lato nell’attività di farmacia si svolge anche un ruolo generale di “utilità sociale” e a “fini sociali” in quanto su incarico della ASL competente si dispensano farmaci con onere a carico del SSN, dall’altro non può negarsi il fatto che la libertà economica privata può essere limitata solo per ragioni di utilità sociale. Peraltro, già alla luce della normativa vigente[12], per i farmaci non dispensati dal SSN ma soggetti a prescrizione medica, il farmacista “tradizionale” si limita a consegnare il farmaco al paziente-cliente che presenta la ricetta medica, previa verifica della corrispondenza tra il farmaco prescritto ed il farmaco consegnato.

Appare emblematico il passaggio dell’ordinanza laddove afferma che “ma se il legislatore ha ritenuto che i farmacisti delle c.d. parafarmacie possono, in piena autonomia, vendere i farmaci che non necessitano di ricetta medica, ritenendo che tali soggetti siano muniti di conoscenze scientifiche e di professionalità adeguate ad esercitare tale incombenza, non si vedono le ragioni per cui gli stessi soggetti non possano vendere i farmaci di c.d. fascia C, la cui utilizzabilità da parte di uno specifico cliente dipende non da un’esclusiva valutazione del farmacista (come per i farmaci da banco e per i farmaci per i quali non è richiesta la ricetta medica), ma da un controllo “a monte”, affidato al medico che ha effettuato la prescrizione.”

A ciò si aggiungerebbe, a detta del medesimo TAR calabrese, che alcune previsioni che la legge impone in materia di vendita di farmaci, come l’obbligo della tracciabilità del farmaco e, sarebbe il caso di aggiungere anche l’attività di farmacovigilanza, vengono soddisfatte dalle nuovissime norme riguardanti le parafarmacie[13] . Mentre, risulterebbe ingiustificato il divieto di vendita dei farmaci in fascia C) per motivi di controllo della spesa pubblica, in quanto tali farmaci, come è facile intuire, non sono a carico dell’assistenza sanitaria statale.

L’Ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale da parte del TAR Calabria arriva qualche settimana dopo la decisione del TAR Lombardia di rinviare alla Corte di Giustizia Europea la medesima questione del divieto di vendita dei farmaci in fascia c) alle parafarmacie, in quanto ritenuto apparentemente in contrasto con l’articolo 49 del Trattato dell’Unione[14]. L’ordinanza del giudice lombardo ha la finalità di verificare la coerenza della norma italiana con quella europea, ma a differenza di quanto accadrà nel giudizio instaurato presso il giudice calabrese, non potrà verificare e quindi sindacare nel merito la scelta del legislatore italiano e lo strumento dispositivo scelto per perseguire le medesime finalità di tutela della salute e la liberta d’impresa.

Certamente una semplice considerazione s’impone. Nel momento in cui lo sforzo del legislatore si muove verso un tentativo di modernizzazione del sistema gli attori, a tratti insoddisfatti, agiscono nel tentativo di portare ogni argomentazione possibile a sostenere i propri interessi[15].

Fermo restando infatti, che l’oggetto della contesa è un bene assolutamente importante e fondamentale per la vita dell’uomo, ossia il “farmaco”, rimane da stabilire quale ruolo attribuire a chi invece professionalmente è chiamato a gestirlo dinanzi ad un consumatore, che non potrà mai essere un “consumatore”, inteso nel senso lessicale del termine. Non possiamo trascurare il fatto che, a prescindere dal regime di classificazione e dal regime di rimborso, un uso improprio del farmaco può causare, a volte, effetti spiacevoli. Per tale motivo i necessari interventi diretti a rendere il sistema più moderno e competitivo non dovrebbero trascurare le professionalità coinvolte ma anche e soprattutto il sistema organizzato per la distribuzione e la vendita.



[1] Sulle recenti pronunce giurisprudenziali in materia di farmacie si legga “Le Farmacie nel diritto dell’economia” di Nicola C. Salerno sulla rivista Il Diritto dell’Economia n. 1/2011, nel quale si evidenzia che il presunto contrasto tra le sentenza della Corte di Giustizia e le posizioni della AGCM espresse in varie occasioni è solo apparente.

[2] Farmacista33 del 4 maggio 2012 da cui, per comodità di lettura, si estrae il testo della notizia: “Se i medici di famiglia commettono errori nella prescrizioni di farmaci, con un’incidenza in un anno pari a un paziente su sei interessato e un picco del 38% nel caso di over 75, la soluzione arriva dalle farmacie, che potrebbero garantire, grazie ai loro controlli sulle ricette, una riduzione di questi valori del 50%. A sostenerlo è la Royal Pharmaceutical Society che ha commentato i dati di uno studio sugli errori commessi dai medici di famiglia, condotto in Gran Bretagna su 1.200 pazienti dal General Medical Council. Da quanto emerge, si tratta di errori che nella stragrande maggioranza dei casi non sono seri (lo sono solo nel 4% delle volte) e che per lo più sono causati da informazioni non complete o dosi e tempi di somministrazione errati. Ma il dato più interessante è che, secondo gli studiosi, l’impatto dell’errore riesce, per lo più, a non essere rilevante grazie al fatto che la prescrizione del medico viene corretta per tempo dal farmacista. Da qui allora l’appello della Royal Pharmaceutical Society per avviare una maggiore collaborazione che veda lavorare il farmacista fianco a fianco con il medico di famiglia ed effettuare un controllo su ciascuna ricetta, spendendo anche più tempo con i pazienti, con una consulenza che potrebbe essere condotta, a seconda della gravità della patologia del paziente, in un’area riservata e dedicata.”

[3] E’ doveroso richiamare l’attenzione sul fatto che il termine “parafarmacia” non ha una definizione normativa.

[4] Gazzetta Ufficiale n. 95 del 23 aprile 2012.

[5] Legge di conversione n. 248 del 4 agosto 2006.

[6] Legge di conversione n. 214 del 22 dicembre 2001 recante “disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici”.

[7] Si veda sulla questione la Segnalazione dell’AGCM del 6 agosto 2007 (AS413) nella quale l’Autorità ricorda le critiche avanzate alla regione Lazio, Puglia e Sicilia. Queste due ultime regioni avevano introdotto l’obbligo di disporre di un registratore di cassa dedicato, nonché l’obbligo per gli esercizi commerciali di dotarsi di un apposito reparto per la vendita di tali farmaci separata da una parete o da una vetrata.

[8] Anche tali esercizi commerciali hanno pertanto l’obbligo di inviare al responsabile della farmacovigilanza delle aziende sanitarie locali tutte le segnalazioni relative alla sospette reazioni avverse o inattese di cui dovesse avere notizia nell’ambito della loro attività. Inoltre anche tali esercizi commerciali partecipano al sistema informativo sanitario (NSIS) sulla tracciabilità del farmaco.

[9] I farmaci senza obbligo di prescrizione medica si dividono in due categorie: i SOP che sono quei farmaci che il farmacista può consigliare al consumatore/paziente per la cura di affezioni minori e gli OTC (dall’inglese “over the counter”, letteralmente “sopra il banco”), anche definiti di “automedicazione” che possono essere scelti e richiesti dal consumatore, cfr. articolo 87, comma 3, lettera e), nonché l’articolo 98 del D Lgs 219/06.

[10] Si veda l’articolo 32 del Decreto Legge 201/2011 (Legge di conversione 214/11) ed il successivo Decreto del Ministero della Salute del 18 aprile 2012 che ha individuato la lista dei medicinali che passano dalla classe c) (obbligo di ricetta ma non dispensati con oneri a carico del SSN) alla classe dei SOP ed OTC e pertanto vendibili anche al di fuori della farmacie “tradizionali”.

[11] Cfr. anche Corte Costituzionale 10 marzo 2006 n. 87

[12] Si veda l’articolo 87, comma 1, del D Lgs 219/06.

[13] Si veda a tal fine proprio il Decreto Ministeriale supra illustrato sui requisiti strutturali.

[14] TAR Lombardia, sez III, ordinanza n. 895 del 22 marzo 2012

[15] A dire il vero, su questo aspetto, la disamina potrebbe ben ampliarsi alle altre questione ancora aperte e su cui il legislatore sarà chiamato ad agire, come la riforma del sistema di remunerazione delle farmacie e le farmacie dei servizi.

Il contesto di riferimento

Tutta la regolamentazione che afferisce al bene “farmaco” in Italia è piuttosto elaborata, complessa ed anche un po’ sintomatica dell’espansione normativa, veramente tutta italiana, che ha caratterizzato il periodo dello sviluppo economico nel dopoguerra. L’attenzione particolare del legislatore italiano si è focalizzata, nel tempo, non solo sul bene “farmaco”, ma soprattutto sulla professione del “farmacista” e sul servizio “di farmacia”, come conseguenza del fatto che l’assistenza sanitaria e farmaceutica in Italia è svolta direttamente dallo Stato; potremmo quindi affermare che la presenza di un interesse pubblico sottostante e così rilevante, ha necessariamente comportato l’invasione normativa nel settore.

In tale contesto si è tuttavia verificata l’inevitabile conseguenza di creare, dal punto di vista economico, una sensibile rigidità della professione e del mercato, che ormai da molti anni sono oggetto di tentativi di modifica, nella direzione di una maggior liberalizzazione che dovrebbe agevolare il mercato e soprattutto i cittadini consumatori.

La specificità italiana ha poi in questi ultimissimi anni spinto i tentativi di riforma verso un confronto a livello europeo che tuttavia, a parte qualche timida affermazione di principio, non ha ancora portato alla conferma della necessità di una radicale riforma[1], così tanto auspicata dai maggiori sostenitori dell’effettiva apertura del mercato.

La questione trova origine nella circostanza che la farmacia da moltissimi anni ha di fatto sensibilmente ridotto il suo ruolo, limitandosi a svolgere una funzione prevalentemente commerciale, per quanto concerne la farmacia privata territoriale, e prevalentemente organizzativa e di supporto sebbene con maggiori connotazioni di professionalità, per quanto concerne le farmacie ospedaliere. Queste ultime, essendo parte integrante della struttura sanitaria, svolgono un ruolo istituzionale importante di natura organizzativa (consentire la presenza dei medicamenti necessari alle tipologie di cure specifiche in essere presso la struttura ospedaliera), di supporto nell’elaborazione dei capitolati di gara per la fornitura di medicamenti), di aggiornamento e collaborazione con il personale medico ed infermieristico. In buona sostanza, almeno per quanto riguarda la farmacia territoriale, siamo molto lontani da quella sinergia professionale tra medico e farmacista (o speziale) risalente agli inizi del secolo scorso, quando il medico metteva a punto il medicamento di cui il proprio paziente necessitava, insieme al farmacista che deteneva le sostanze base ed aveva le conoscenze pratiche essenziali delle sostanze impiegate. Una collaborazione da cui tuttavia non si dovrebbe mai prescindere, come è stato messo in evidenza in uno studio britannico sul ruolo del farmacista nel prevenire o ridurre i rischi di eventuali errori medici nella prescrizione[2].

Ma la questione, con tutta evidenza, non riguarda l’indiscusso ed importante ruolo professionale del farmacista, quanto il tema della distribuzione o meglio la sua componente più spiccatamente commerciale che, in alcuni paesi come l’Italia, gode di un chiaro privilegio che da molti economisti è stato indicato come ostacolo ad una maggiore liberalizzazione del mercato a beneficio della concorrenza che, com’è noto, dovrebbe avere effetti benefici per il cittadino – consumatore - paziente.

Il Decreto Ministeriale del 9 marzo 2012 sui requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi delle cosiddette “parafarmacie”[3]

Il Decreto Ministeriale del 9 marzo 2012[4] ha stabilito i requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi degli esercizi commerciali di cui all’articolo 5, comma 1, del Decreto Legge 223 del 4 luglio 2006[5]: Si tratta dei requisiti che devono possedere gli esercizi commerciali che intendono vendere al pubblico, con la presenza continua di un farmacista, i farmaci per i quali è consentita la vendita al di fuori delle farmacie territoriali.

Nonostante siano trascorsi ben sei anni da quando il Decreto Legge n. 223/06 (ai più noto come “Decreto Bersani”) aveva consentito la vendita dei farmaci cosiddetti per “automedicazione” presso gli esercizi commerciali diversi dalle farmacie territoriali, l’impulso alla regolamentazione per l’individuazione di requisiti tecnici è avvenuto solo all’indomani dell’entrata in vigore del Decreto Legge n. 201 del 6 dicembre 2011[6]. La riforma del 2006, infatti, nel consentire la vendita di tale categoria di farmaci negli esercizi commerciali, si era limitata a stabilire che essa avvenisse durante l’orario di apertura dell’esercizio commerciale ed in un apposito reparto, alla presenza e con l’assistenza personale e diretta al cliente di uno o più farmacisti abilitati all’esercizio della professione ed iscritti al relativo ordine professionale, senza attribuire una specifica delega regolamentare in materia di criteri e di requisiti che tali esercizi commerciali o locali avrebbero dovuto possedere. Ciò peraltro indusse alcune regioni ad intervenire fissando, nei limiti della loro competenza legislativa concorrenziale, i requisiti di natura strutturale ed organizzativa per tali esercizi commerciali. Tali interventi tuttavia non furono interpretati favorevolmente, in particolare dall’Antitrust che in più occasioni sostenne che le regioni avrebbero, di fatto, ecceduto l’ambito e le finalità della Legge[7].

Il Decreto pubblicato a fine aprile di quest’anno chiarisce definitivamente come devono essere strutturati gli spazi dedicati alla vendita dei farmaci e ribadisce, in maniera tuttavia ridondante, che anche per tali esercizi commerciali, diversi dalla farmacie tradizionalmente concepite, sono valide le norme in materia di vendita al pubblico dei medicinali, di farmacovigilanza e tracciabilità del farmaco[8]. La parte tecnica del Decreto è divisa in due parti, la parte A riguarda gli esercizi commerciali nei quali si vendono medicinali non soggetti a prescrizione medica, la parte B invece riguarda gli esercizi commerciali nei quali si vendono esclusivamente medicinali di automedicazione[9]. Per quanto concerne i requisiti strutturali lo spazio dedicato alla vendita deve poter consentire un accesso diretto e libero per i cittadini ai soli medicinali di automedicazione, alla presenza o con l’assistenza di uno o più farmacisti abilitati ed iscritti all’ordine professionale. Lo spazio dedicato alla vendita dei farmaci, qualunque essi siano, deve essere dedicato, ben indicato e separato dalle zone di vendita di altri prodotti. La temperatura del locale deve essere sempre inferiore ai 25 gradi centigradi e l’esercizio commerciale deve essere dotato di un sistema per la ricezione degli avvisi di ritiro o sequestro di medicinali diffusi dall’AIFA e dal Ministero della Salute, nonché una strumentazione idonea a garantire l’individuazione ed il ritiro di medicinali sequestrati, scaduti, non idonei o pericolosi. Importanti requisiti poi vengono stabiliti in materia di trasparenza, tra i quali in primo luogo l’obbligo di rendere noto agli utenti il nominativo del farmacista titolare e la necessità che il personale non farmacista indossi un camice che lo renda facilmente distinguibile dal personale farmacista il cui elenco nominativo, deve essere comunicato alla ASL territorialmente competente ed all’Ordine dei farmacisti.

Per quanto concerne poi i rapporti commerciali con la clientela, il Decreto dispone che il prezzo al pubblico dei medicinali deve essere sempre chiaramente reso noto ai clienti mediante listini o altre modalità equivalenti e ciò, aprendosi così il mercato alla concorrenza, dovrebbe comportare una maggior trasparenza nei confronti del consumatore che avrebbe la possibilità di scegliere anche valutando il parametro del prezzo. Nella stessa direzione di una maggior competitività, con l’obiettivo di agire ad un livello superiore della filiera, è la possibilità che viene concessa di praticare liberamente sconti sui prezzi di tutti i prodotti venduti, purchè tali sconti siano ben visibili ed esposti ed il consumatore abbia la possibilità di comprenderli facilmente.

L’Ordinanza del TAR Calabria, ossia la rimessione alla Corte Costituzionale; l’Ordinanza del TAR Lombardia, ossia la questione di compatibilità col Trattato dell’Unione.

Il contesto economico e normativo in materia di farmacia è notevolmente in fermento. Il Decreto Ministeriale sui requisiti tecnici delle parafarmacie si inserisce, per la verità, in un processo più ampio che ha come obiettivo l’allargamento del mercato concretizzatosi, peraltro con molte critiche da parte dei diretti interessati, con una sorta di de-listing di farmaci che non godono più della vendita esclusiva in farmacia ma possono ben essere proposti nelle parafarmacie[10].

Nell’ambito di tale processo, inconsapevolmente, si inserisce anche la recentissima ordinanza del TAR Calabria, sezione distaccata di Reggio Calabria, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 1, del Decreto Legge 223/2006, Legge di conversione 248/06 nella parte in cui non consente agli esercizi commerciali ivi previsti (parafarmacie) la vendita di medicinali di fascia C soggetti a prescrizione medica.

La questione trae il fatto da un farmacista, iscritto all’ordine professionale, e titolare di una parafarmacia, al quale è stata rigettata, dalla ASL territorialmente competente, la possibilità di vendita di farmaci in classe C).

Il TAR calabrese nel motivare la fondatezza della questione di legittimità, in relazione agli articoli 3 e 41 della Costituzione, sembra voler partire riferendosi alla distinzione tra la “professione del farmacista” e “l’attività di farmacia”. Un distinzione che mira a distinguere le prerogative della professione e lo status di chi esercita professionalmente tale attività e le caratteristiche precipue dell’attività di farmacia che è attività di impresa, rispetto alla quale la complessa regolamentazione pubblicistica è preordinata ad assicurare e controllare l’accesso dei cittadini ai prodotti medicinali ed in tal senso a garantire la tutela della salute[11]. Nell’ambito della “attività di farmacia” si realizza la vendita dei farmaci e così anche la prestazione dell’assistenza farmaceutica che fa capo al Servizio Sanitario Nazionale e di cui il farmacista territoriale è investito, dalla legislazione pubblicistica. Tale attività di assistenza farmaceutica consiste, notoriamente, nel dispensare all’assistito, su presentazione di ricetta medica, specialità medicinali nei limiti fissati dai livelli essenziali di assistenza e dunque con onere a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Ne consegue che, se da un lato nell’attività di farmacia si svolge anche un ruolo generale di “utilità sociale” e a “fini sociali” in quanto su incarico della ASL competente si dispensano farmaci con onere a carico del SSN, dall’altro non può negarsi il fatto che la libertà economica privata può essere limitata solo per ragioni di utilità sociale. Peraltro, già alla luce della normativa vigente[12], per i farmaci non dispensati dal SSN ma soggetti a prescrizione medica, il farmacista “tradizionale” si limita a consegnare il farmaco al paziente-cliente che presenta la ricetta medica, previa verifica della corrispondenza tra il farmaco prescritto ed il farmaco consegnato.

Appare emblematico il passaggio dell’ordinanza laddove afferma che “ma se il legislatore ha ritenuto che i farmacisti delle c.d. parafarmacie possono, in piena autonomia, vendere i farmaci che non necessitano di ricetta medica, ritenendo che tali soggetti siano muniti di conoscenze scientifiche e di professionalità adeguate ad esercitare tale incombenza, non si vedono le ragioni per cui gli stessi soggetti non possano vendere i farmaci di c.d. fascia C, la cui utilizzabilità da parte di uno specifico cliente dipende non da un’esclusiva valutazione del farmacista (come per i farmaci da banco e per i farmaci per i quali non è richiesta la ricetta medica), ma da un controllo “a monte”, affidato al medico che ha effettuato la prescrizione.”

A ciò si aggiungerebbe, a detta del medesimo TAR calabrese, che alcune previsioni che la legge impone in materia di vendita di farmaci, come l’obbligo della tracciabilità del farmaco e, sarebbe il caso di aggiungere anche l’attività di farmacovigilanza, vengono soddisfatte dalle nuovissime norme riguardanti le parafarmacie[13] . Mentre, risulterebbe ingiustificato il divieto di vendita dei farmaci in fascia C) per motivi di controllo della spesa pubblica, in quanto tali farmaci, come è facile intuire, non sono a carico dell’assistenza sanitaria statale.

L’Ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale da parte del TAR Calabria arriva qualche settimana dopo la decisione del TAR Lombardia di rinviare alla Corte di Giustizia Europea la medesima questione del divieto di vendita dei farmaci in fascia c) alle parafarmacie, in quanto ritenuto apparentemente in contrasto con l’articolo 49 del Trattato dell’Unione[14]. L’ordinanza del giudice lombardo ha la finalità di verificare la coerenza della norma italiana con quella europea, ma a differenza di quanto accadrà nel giudizio instaurato presso il giudice calabrese, non potrà verificare e quindi sindacare nel merito la scelta del legislatore italiano e lo strumento dispositivo scelto per perseguire le medesime finalità di tutela della salute e la liberta d’impresa.

Certamente una semplice considerazione s’impone. Nel momento in cui lo sforzo del legislatore si muove verso un tentativo di modernizzazione del sistema gli attori, a tratti insoddisfatti, agiscono nel tentativo di portare ogni argomentazione possibile a sostenere i propri interessi[15].

Fermo restando infatti, che l’oggetto della contesa è un bene assolutamente importante e fondamentale per la vita dell’uomo, ossia il “farmaco”, rimane da stabilire quale ruolo attribuire a chi invece professionalmente è chiamato a gestirlo dinanzi ad un consumatore, che non potrà mai essere un “consumatore”, inteso nel senso lessicale del termine. Non possiamo trascurare il fatto che, a prescindere dal regime di classificazione e dal regime di rimborso, un uso improprio del farmaco può causare, a volte, effetti spiacevoli. Per tale motivo i necessari interventi diretti a rendere il sistema più moderno e competitivo non dovrebbero trascurare le professionalità coinvolte ma anche e soprattutto il sistema organizzato per la distribuzione e la vendita.



[1] Sulle recenti pronunce giurisprudenziali in materia di farmacie si legga “Le Farmacie nel diritto dell’economia” di Nicola C. Salerno sulla rivista Il Diritto dell’Economia n. 1/2011, nel quale si evidenzia che il presunto contrasto tra le sentenza della Corte di Giustizia e le posizioni della AGCM espresse in varie occasioni è solo apparente.

[2] Farmacista33 del 4 maggio 2012 da cui, per comodità di lettura, si estrae il testo della notizia: “Se i medici di famiglia commettono errori nella prescrizioni di farmaci, con un’incidenza in un anno pari a un paziente su sei interessato e un picco del 38% nel caso di over 75, la soluzione arriva dalle farmacie, che potrebbero garantire, grazie ai loro controlli sulle ricette, una riduzione di questi valori del 50%. A sostenerlo è la Royal Pharmaceutical Society che ha commentato i dati di uno studio sugli errori commessi dai medici di famiglia, condotto in Gran Bretagna su 1.200 pazienti dal General Medical Council. Da quanto emerge, si tratta di errori che nella stragrande maggioranza dei casi non sono seri (lo sono solo nel 4% delle volte) e che per lo più sono causati da informazioni non complete o dosi e tempi di somministrazione errati. Ma il dato più interessante è che, secondo gli studiosi, l’impatto dell’errore riesce, per lo più, a non essere rilevante grazie al fatto che la prescrizione del medico viene corretta per tempo dal farmacista. Da qui allora l’appello della Royal Pharmaceutical Society per avviare una maggiore collaborazione che veda lavorare il farmacista fianco a fianco con il medico di famiglia ed effettuare un controllo su ciascuna ricetta, spendendo anche più tempo con i pazienti, con una consulenza che potrebbe essere condotta, a seconda della gravità della patologia del paziente, in un’area riservata e dedicata.”

[3] E’ doveroso richiamare l’attenzione sul fatto che il termine “parafarmacia” non ha una definizione normativa.

[4] Gazzetta Ufficiale n. 95 del 23 aprile 2012.

[5] Legge di conversione n. 248 del 4 agosto 2006.

[6] Legge di conversione n. 214 del 22 dicembre 2001 recante “disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici”.

[7] Si veda sulla questione la Segnalazione dell’AGCM del 6 agosto 2007 (AS413) nella quale l’Autorità ricorda le critiche avanzate alla regione Lazio, Puglia e Sicilia. Queste due ultime regioni avevano introdotto l’obbligo di disporre di un registratore di cassa dedicato, nonché l’obbligo per gli esercizi commerciali di dotarsi di un apposito reparto per la vendita di tali farmaci separata da una parete o da una vetrata.

[8] Anche tali esercizi commerciali hanno pertanto l’obbligo di inviare al responsabile della farmacovigilanza delle aziende sanitarie locali tutte le segnalazioni relative alla sospette reazioni avverse o inattese di cui dovesse avere notizia nell’ambito della loro attività. Inoltre anche tali esercizi commerciali partecipano al sistema informativo sanitario (NSIS) sulla tracciabilità del farmaco.

[9] I farmaci senza obbligo di prescrizione medica si dividono in due categorie: i SOP che sono quei farmaci che il farmacista può consigliare al consumatore/paziente per la cura di affezioni minori e gli OTC (dall’inglese “over the counter”, letteralmente “sopra il banco”), anche definiti di “automedicazione” che possono essere scelti e richiesti dal consumatore, cfr. articolo 87, comma 3, lettera e), nonché l’articolo 98 del D Lgs 219/06.

[10] Si veda l’articolo 32 del Decreto Legge 201/2011 (Legge di conversione 214/11) ed il successivo Decreto del Ministero della Salute del 18 aprile 2012 che ha individuato la lista dei medicinali che passano dalla classe c) (obbligo di ricetta ma non dispensati con oneri a carico del SSN) alla classe dei SOP ed OTC e pertanto vendibili anche al di fuori della farmacie “tradizionali”.

[11] Cfr. anche Corte Costituzionale 10 marzo 2006 n. 87

[12] Si veda l’articolo 87, comma 1, del D Lgs 219/06.

[13] Si veda a tal fine proprio il Decreto Ministeriale supra illustrato sui requisiti strutturali.

[14] TAR Lombardia, sez III, ordinanza n. 895 del 22 marzo 2012

[15] A dire il vero, su questo aspetto, la disamina potrebbe ben ampliarsi alle altre questione ancora aperte e su cui il legislatore sarà chiamato ad agire, come la riforma del sistema di remunerazione delle farmacie e le farmacie dei servizi.