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I servizi pubblici locali e le strategie dell’Ente pubblico: che fare?

Quali novità di rilievo presenta, per l’azione amministrativa degli Enti territoriali, la disciplina dei servizi locali dopo il decreto liberalizzazioni?

Come gestire la fase di transizione e di cambiamento in siffatta materia, che ormai si snoda tra obblighi e controlli, nonché tra vincoli e inaspettate opportunità?

Quali modelli gestionali e soluzioni organizzative si offrono oggi per un efficace disimpegno dei servizi locali sul territorio?

E ancora: come definire al meglio, in seno agli Enti locali, le necessarie scelte strategiche e le conseguenti procedure amministrative, nel contesto di un sistema organico sempre più articolato di controlli e responsabilità?

Sono queste alcune delle impegnative domande che molti Enti locali si pongono, rispetto a un quadro normativo che tuttora si ritrova in mezzo al guado.

È il caso di ricordare che, da qualche tempo ormai, i servizi pubblici locali si trovano nell’occhio del ciclone, senza regole stabili e prospettive certe per pianificare l’azione amministrativa che ne governi a regime la gestione sul territorio.

In tale precario orizzonte normativo, l’art. 23 bis del DL 25 giugno 2008, n. 112, convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133, in seguito completato con l’emanazione dello strumento regolamentare di cui al DPR n. 7 settembre 2010, n. 168, ha sicuramente rappresentato una pietra miliare nel faticoso cammino di riforma del quadro giuridico afferente l’organizzazione e la gestione dei servizi locali nel nostro paese.

Tuttavia, proprio nel momento fatidico in cui sembrava che si fosse consolidato un assetto stabile per la disciplina della materia, è sopravvenuto il referendum popolare del 12 giugno 2011, che ha cancellato con un colpo di spugna l’impianto fondato sull’art. 23 bis e ha reso necessario un nuovo intervento del Legislatore, che ha colmato il vuoto normativo con le nuove regole introdotte dal DL n. 138 del 13 agosto 2011, convertito in legge 14 settembre 2011, n. 148, poi modificate sia dalla legge 12 novembre 2011, n. 183 (Legge di Stabilità 2012), sia dal “pacchetto liberalizzazioni” varato con la legge 24 marzo 2012, n. 27.

Questa convulsa evoluzione normativa ha colto di sorpresa gli Enti locali, specie quelli che medio tempore avevano dato corso a scelte societarie di carattere strategico, oppure che avevano avviato gare pubbliche per l’affidamento di servizi locali o la dismissione di partecipazioni azionarie, facendo perno su un quadro normativo che è poi cambiato in itinere, nel guado delle complesse procedure amministrative intraprese.

Il punto d’arrivo costituito dal vigente quadro normativo in tema di servizi locali dopo l’entrata in vigore del c.d. decreto liberalizzazioni altro non è che l’epilogo di un lungo travagliato percorso che, non senza titubanze, incoerenze e contraddizioni, ha accompagnato per mano la storia del nostro paese nell’arco temporale nell’ultimo decennio.

Come si sa, l’Italia ha introdotto il patto di stabilità interno con l’art. 28 della legge n. 448/1998, (legge finanziaria 1999), prevedendo limiti e parametri a carico di ciascuna tipologia di Ente pubblico da prendere in considerazione per calcolare gli obiettivi assegnati a ciascun Ente, in modo che le limitazioni imposte al complesso degli Enti pubblici garantissero alla Repubblica, nel suo complesso, di mantenersi entro i limiti europei.

L’applicazione di tale meccanismo alla realtà del nostro territorio, che ha comportato la progressiva sottoposizione di vincoli stringenti all’attività finanziaria della Pubblica amministrazione, si è intrecciata con un singolare fenomeno – per alcuni aspetti paradossale – del diffuso ricorso, da parte dei soggetti pubblici, all’impiego del modello societario secondo gli schemi del codice civile, con l’obiettivo di attivare una esternalizzazione generalizzata di servizi e di funzioni.

Ebbene, nel difficile dialogo tra lo Stato e gli Enti locali, il fenomeno testé descritto ha indotto a un vero e proprio equivoco istituzionale, foriero di pesanti conseguenze per l’avvenire del Paese e tale da pregiudicare i più elementari criteri di chiarezza e trasparenza nella rappresentazione delle linee di sviluppo dell’intera economia nazionale.

Mentre infatti, nella fase iniziale, lo Stato si adoperava per incentivare la nascita delle società a partecipazione pubblica locale – si pensi, per esempio, al procedimento agevolato di trasformazione in società per azioni delle aziende speciali costituite ai sensi dell’articolo 22, comma 3, lettera C), della legge 8 giugno 1990, n. 142, mediante atto unilaterale del Consiglio comunale (art. 17, comma 51, della legge 15 maggio 1997, n. 127) – nel convincimento che l’esternalizzazione dei servizi pubblici coincidesse per principio con una gestione più snella ed efficiente, nonché implicasse sempre un contenimento di costi rispetto a quelli che avrebbero altrimenti sostenuto gli Enti locali mediante la gestione diretta, questi ultimi, d’altro canto, approfittavano senza indugi del favor legis accordato al modulo societario, allo scopo (ancorché non dichiarato!) di esternalizzare i costi dei servizi – in primis quelli del personale – senza più conteggiarli nei loro bilanci, eludendo così, per questa subdola via, le “forche caudine” del patto di stabilità interno.

La Corte dei conti ha però ripetutamente censurato questo tipo di manovre, osservando che “la mancata considerazione dei risultati delle società partecipate totalmente o maggioritariamente insieme con quelle dell’Ente pubblico di riferimento comporta la possibilità che si creino situazioni occulte di debito che, prima o poi, finiscono col gravare sulla collettività pubblica e sul mancato rispetto degli impegni che lo Stato (...) ha assunto nei confronti dell’Unione Europea e degli altri Stati europei”.

Ne consegue che “anche in presenza di una esternalizzazione sostanziale di un’attività o di un servizio nei confronti di un ente effettivamente privato, qualora l’ente territoriale insieme all’attività o al servizio eroghi somme di denaro a qualsivoglia titolo, detti importi debbono essere calcolati al fine del rispetto dei limiti di spesa stabiliti dalla normativa sul Patto di stabilità interno” (Corte dei conti, sez. regionale di controllo Lombardia, parere 30 ottobre 2006, n. 17).

Questa stessa materia è stata in seguito oggetto di numerosi interventi da parte del giudice contabile, il quale ha più volte ricordato agli Enti locali che l’intento del legislatore “è evidentemente quello, da un lato, di ridurre l’incidenza delle spese di personale nell’amministrazione degli Enti locali ai fini del rispetto degli obiettivi di finanza pubblica con riferimento al patto di stabilità interno, dall’altro impedire che lo schema organizzativo delle cosiddette “esternalizzazioni” venga utilizzato dagli enti sostanzialmente per eludere i vincoli di finanza pubblica, anziché per perseguire obiettivi di maggiore efficienza, efficacia ed economicità nella gestione dei servizi pubblici” (Corte dei conti, sez. controllo Lombardia, parere n. 79 del 22 ottobre 2008).

È stato pure sottolineato che “l’esternalizzazione non può in alcun modo costituire la risposta per aggirare un divieto o una sanzione legislativa, in quanto costituisce una scelta gestionale (...) subordinata al preventivo accertamento da parte dell’Ente dei costi e dei benefici da essa derivanti, giustificabile solo nella misura in cui risulti la soluzione preferibile in termini di efficienza, efficacia ed economicità rispetto alla gestione diretta del servizio (c.d. valutazione make or buy), anche con riferimento alle ricadute sui cittadini in un’ottica di lungo periodo.

La mancanza o la superficialità di tali complesse analisi preventive può costituire un sintomo dell’intento elusivo, oltre che possibile causa di danno per l’Ente” (Corte dei conti, sez. controllo Veneto, parere n. 52 dell’11 maggio 2009).

Alla luce di questi insistenti e ripetuti richiami della Corte dei conti, nel più recente periodo si è finalmente assistito a una netta inversione di tendenza del legislatore statale in ordine all’impiego delle società pubbliche per la gestione dei servizi – una vera e propria capitolazione, si potrebbe dire, rispetto alle precedenti linee d’azione di segno opposto – emersa dapprima con l’obbligo imposto agli Enti locali di alienare le società e le partecipazioni societarie relative ad attività non strettamente necessarie al perseguimento delle finalità istituzionali (art. 3, commi 27 e seguenti della legge 24 dicembre 2007, n. 244), e culminata, da ultimo, con il divieto a ricorrere allo strumento societario per i Comuni di minori dimensioni (art. 14, comma 32, del decreto legge n. 78/2010, convertito nella legge n. 122 del 30 luglio 2010).

Non ci si è ancora resi conto, forse, del fatto che il disposto di cui all’art. 14, comma 32 è suscettibile di alterare completamente, nel nostro paese, l’assetto dei rapporti tra gli Enti locali e le rispettive società partecipate.

Per fare soltanto un esempio, ci si può domandare: può oggi un Comune con numero di abitanti minore a 30.000 costituire una società in house per la gestione di servizi strumentali, quale quella relativa alle attività di accertamento, riscossione e gestione dei tributi?

L’incertezza interpretativa sottesa al quesito posto nasce dal fatto che l’articolo 14, comma 32, del Dl 78/2010, nel far divieto ai Comuni con popolazione inferiore a 30 mila abitanti di costituire nuove società, mantiene fermi gli effetti dell’articolo 3, commi 27, 28 e 29 della legge 24 dicembre 2007, n. 244, a norma del quale, se da un lato è vietata per qualsiasi Ente locale la costituzione di società che non siano strettamente strumentali alle relative finalità istituzionali, d’altro lato resta pur sempre ammessa la costituzione di società partecipate che forniscono servizi di interesse generale.

L’argomento è stato fonte di opinioni divergenti, e negli ultimi anni il dubbio interpretativo è stato affrontato da varie sezioni regionali della Corte dei Conti, nell’esercizio delle funzioni di consulenza a favore delle Amministrazioni locali.

In effetti, le prime pronunce della sezione Puglia (in particolare le delibere n. 76/2010/PAR e n. 129/2010/PAR) affermavano che anche i Comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti potessero costituire società di capitali, se finalizzate alla gestione di servizi pubblici locali. In seguito, però, altri pareri si sono orientati in modo opposto (in particolare la delibera n. 92/2010/PAR della Sez. Controllo Piemonte e la delibera n. 861/2010/PAR della Sez. Controllo Lombardia), seguendo un’interpretazione decisamente più restrittiva dell’articolo 14, comma 32.

Tale indirizzo è stato alla fine recepito dalla stessa Sez. Puglia, che con delibera n. 12/2011/PAR ha anch’essa ritenuto che “i comuni inferiori a 30.000 abitanti non possano, in assoluto, costituire società, né detenere più alcuna partecipazione azionaria". Questo punto d’arrivo è stato quindi ripreso dall’Autorità dei lavori pubblici, la quale ha affermato che per effetto dell’articolo 14 comma 32 sopra citato è da escludersi la possibilità che un Comune con meno di 30.000 abitanti possa costituire una società mista ai sensi dall’articolo 52 comma 5 lettera b) n. 4 del Dlgs 446/1997 per la gestione del servizio di accertamento e riscossione dei tributi (delibera n. 83 del 6 ottobre 2011).

Si deve altresì segnalare che, per quanto la norma non preveda sanzioni per il caso d’inottemperanza, il relativo divieto non va sottovalutato, dacché in rapporto alle azioni intraprese dall’Ente al di fuori delle sue competenze istituzionali possono sorgere profili di responsabilità per danno erariale, come la magistratura contabile ha ormai da tempo rilevato (v. Corte dei conti, sez. I, 30 settembre 1991, n. 300).

Per tornare comunque ai nostri giorni, è interessante notare che l’intervento dell’Esecutivo in materia di liberalizzazioni, intrapreso e messo in atto con grande fermezza, è stato preceduto agli inizi dell’anno 2012 da una segnalazione dell’Antitrust, che in vista della crescita economica aveva appunto auspicato, da parte del Governo e del Parlamento, soluzioni innovative idonee a incrementare la concorrenza nei servizi locali, nelle professioni, nelle banche e assicurazioni, nelle autostrade e aeroporti, nonché in molti altri settori vitali dell’economia nazionale, sottolineando il fatto che “l’urgenza della crisi richiede di non indugiare e di attuare gli interventi di immediata applicazione”.

Tra questi interventi urgenti il Presidente dell’Authority non aveva esitato ad annoverare la liberalizzazione dei servizi pubblici locali erogati dai Comuni, sostenendo, in particolare, che nel settore del trasporto locale va introdotto il meccanismo delle gare, il quale consente “servizi a costi certi, senza la presenza della politica che a volte è fonte di inefficienza e corruzione”.

Il Presidente aveva chiesto, al riguardo, anche interventi sulla Pubblica amministrazione, affermando che “il costo vero è dato da una burocrazia lenta e farraginosa, che è il vero onere per chi vuole investire in Italia”.

Fatto sta che, in linea con queste aspettative e con puntualità rispetto ai tempi annunciati, il Governo Monti ha emanato il decreto legge n. 1 del 20 gennaio 2012 per la liberalizzazione delle attività economiche (pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 24 gennaio 2012).

La nuova organizzazione dei servizi pubblici locali che emerge dalla conversione in legge del DL sulle liberalizzazioni appare destinata a incidere in profondità il tessuto sociale italiano, non soltanto per quanto riguarda la configurazione dei rapporti tra gli Enti locali e le rispettive società partecipate, ma anche per quel che concerne le modalità strutturali di erogazione dei servizi, che per lungo tempo hanno contrassegnato lo sviluppo e l’economia del nostro territorio.

Ora si può considerare definitivamente superato l’incidente di percorso che nel 2011 ha imposto una brusca frenata al processo di liberalizzazione dei servizi pubblici locali, con l’abrogazione, a seguito di referendum popolare, dell’art. 23-bis del Dl 112/2008 convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133, di cui più sopra si è fatto cenno.

In luogo della disciplina organica dei servizi locali che quest’ultima norma recava, il Legislatore, come già abbiamo detto, si è preso cura di riscrivere le regole del gioco con l’approvazione di un nuovo quadro normativo, introdotto dapprima con l’art. 4 del DL n. 13 agosto 2011, n. 138 convertito in legge n. 148/2011, in seguito messo a punto con le varie modifiche di cui abbiamo fatto cenno.

In relazione a tale processo legislativo che si è sviluppato in una logica di work in progress, resta da aggiungere l’ultimo tassello del mosaico, costituito dal regolamento attuativo dell’art. 4 in parola volto a fornire, secondo il disposto che lo prevede, “le ulteriori misure necessarie ad assicurare la piena attuazione” della norma in parola (art. 4, comma 33-ter).

Si può ritenere, alla luce di queste riflessioni, che per gli Enti locali sia giunto il momento di fare i conti con una disciplina normativa organica e compiuta in materia di servizi pubblici, la quale attende ora di trovare applicazione sul territorio, mediante procedure e adempimenti di notevole complessità, da attuarsi entro termini stringenti e ravvicinati.

Considerazioni queste, che inducono a privilegiare, tra gli obiettivi degli Enti locali, la formazione professionale dei relativi Amministratori e funzionari i quali, oggi più che mai, sono chiamati ad affrontare le sfide di un cambiamento veramente decisivo per il futuro del nostro paese.

Quali novità di rilievo presenta, per l’azione amministrativa degli Enti territoriali, la disciplina dei servizi locali dopo il decreto liberalizzazioni?

Come gestire la fase di transizione e di cambiamento in siffatta materia, che ormai si snoda tra obblighi e controlli, nonché tra vincoli e inaspettate opportunità?

Quali modelli gestionali e soluzioni organizzative si offrono oggi per un efficace disimpegno dei servizi locali sul territorio?

E ancora: come definire al meglio, in seno agli Enti locali, le necessarie scelte strategiche e le conseguenti procedure amministrative, nel contesto di un sistema organico sempre più articolato di controlli e responsabilità?

Sono queste alcune delle impegnative domande che molti Enti locali si pongono, rispetto a un quadro normativo che tuttora si ritrova in mezzo al guado.

È il caso di ricordare che, da qualche tempo ormai, i servizi pubblici locali si trovano nell’occhio del ciclone, senza regole stabili e prospettive certe per pianificare l’azione amministrativa che ne governi a regime la gestione sul territorio.

In tale precario orizzonte normativo, l’art. 23 bis del DL 25 giugno 2008, n. 112, convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133, in seguito completato con l’emanazione dello strumento regolamentare di cui al DPR n. 7 settembre 2010, n. 168, ha sicuramente rappresentato una pietra miliare nel faticoso cammino di riforma del quadro giuridico afferente l’organizzazione e la gestione dei servizi locali nel nostro paese.

Tuttavia, proprio nel momento fatidico in cui sembrava che si fosse consolidato un assetto stabile per la disciplina della materia, è sopravvenuto il referendum popolare del 12 giugno 2011, che ha cancellato con un colpo di spugna l’impianto fondato sull’art. 23 bis e ha reso necessario un nuovo intervento del Legislatore, che ha colmato il vuoto normativo con le nuove regole introdotte dal DL n. 138 del 13 agosto 2011, convertito in legge 14 settembre 2011, n. 148, poi modificate sia dalla legge 12 novembre 2011, n. 183 (Legge di Stabilità 2012), sia dal “pacchetto liberalizzazioni” varato con la legge 24 marzo 2012, n. 27.

Questa convulsa evoluzione normativa ha colto di sorpresa gli Enti locali, specie quelli che medio tempore avevano dato corso a scelte societarie di carattere strategico, oppure che avevano avviato gare pubbliche per l’affidamento di servizi locali o la dismissione di partecipazioni azionarie, facendo perno su un quadro normativo che è poi cambiato in itinere, nel guado delle complesse procedure amministrative intraprese.

Il punto d’arrivo costituito dal vigente quadro normativo in tema di servizi locali dopo l’entrata in vigore del c.d. decreto liberalizzazioni altro non è che l’epilogo di un lungo travagliato percorso che, non senza titubanze, incoerenze e contraddizioni, ha accompagnato per mano la storia del nostro paese nell’arco temporale nell’ultimo decennio.

Come si sa, l’Italia ha introdotto il patto di stabilità interno con l’art. 28 della legge n. 448/1998, (legge finanziaria 1999), prevedendo limiti e parametri a carico di ciascuna tipologia di Ente pubblico da prendere in considerazione per calcolare gli obiettivi assegnati a ciascun Ente, in modo che le limitazioni imposte al complesso degli Enti pubblici garantissero alla Repubblica, nel suo complesso, di mantenersi entro i limiti europei.

L’applicazione di tale meccanismo alla realtà del nostro territorio, che ha comportato la progressiva sottoposizione di vincoli stringenti all’attività finanziaria della Pubblica amministrazione, si è intrecciata con un singolare fenomeno – per alcuni aspetti paradossale – del diffuso ricorso, da parte dei soggetti pubblici, all’impiego del modello societario secondo gli schemi del codice civile, con l’obiettivo di attivare una esternalizzazione generalizzata di servizi e di funzioni.

Ebbene, nel difficile dialogo tra lo Stato e gli Enti locali, il fenomeno testé descritto ha indotto a un vero e proprio equivoco istituzionale, foriero di pesanti conseguenze per l’avvenire del Paese e tale da pregiudicare i più elementari criteri di chiarezza e trasparenza nella rappresentazione delle linee di sviluppo dell’intera economia nazionale.

Mentre infatti, nella fase iniziale, lo Stato si adoperava per incentivare la nascita delle società a partecipazione pubblica locale – si pensi, per esempio, al procedimento agevolato di trasformazione in società per azioni delle aziende speciali costituite ai sensi dell’articolo 22, comma 3, lettera C), della legge 8 giugno 1990, n. 142, mediante atto unilaterale del Consiglio comunale (art. 17, comma 51, della legge 15 maggio 1997, n. 127) – nel convincimento che l’esternalizzazione dei servizi pubblici coincidesse per principio con una gestione più snella ed efficiente, nonché implicasse sempre un contenimento di costi rispetto a quelli che avrebbero altrimenti sostenuto gli Enti locali mediante la gestione diretta, questi ultimi, d’altro canto, approfittavano senza indugi del favor legis accordato al modulo societario, allo scopo (ancorché non dichiarato!) di esternalizzare i costi dei servizi – in primis quelli del personale – senza più conteggiarli nei loro bilanci, eludendo così, per questa subdola via, le “forche caudine” del patto di stabilità interno.

La Corte dei conti ha però ripetutamente censurato questo tipo di manovre, osservando che “la mancata considerazione dei risultati delle società partecipate totalmente o maggioritariamente insieme con quelle dell’Ente pubblico di riferimento comporta la possibilità che si creino situazioni occulte di debito che, prima o poi, finiscono col gravare sulla collettività pubblica e sul mancato rispetto degli impegni che lo Stato (...) ha assunto nei confronti dell’Unione Europea e degli altri Stati europei”.

Ne consegue che “anche in presenza di una esternalizzazione sostanziale di un’attività o di un servizio nei confronti di un ente effettivamente privato, qualora l’ente territoriale insieme all’attività o al servizio eroghi somme di denaro a qualsivoglia titolo, detti importi debbono essere calcolati al fine del rispetto dei limiti di spesa stabiliti dalla normativa sul Patto di stabilità interno” (Corte dei conti, sez. regionale di controllo Lombardia, parere 30 ottobre 2006, n. 17).

Questa stessa materia è stata in seguito oggetto di numerosi interventi da parte del giudice contabile, il quale ha più volte ricordato agli Enti locali che l’intento del legislatore “è evidentemente quello, da un lato, di ridurre l’incidenza delle spese di personale nell’amministrazione degli Enti locali ai fini del rispetto degli obiettivi di finanza pubblica con riferimento al patto di stabilità interno, dall’altro impedire che lo schema organizzativo delle cosiddette “esternalizzazioni” venga utilizzato dagli enti sostanzialmente per eludere i vincoli di finanza pubblica, anziché per perseguire obiettivi di maggiore efficienza, efficacia ed economicità nella gestione dei servizi pubblici” (Corte dei conti, sez. controllo Lombardia, parere n. 79 del 22 ottobre 2008).

È stato pure sottolineato che “l’esternalizzazione non può in alcun modo costituire la risposta per aggirare un divieto o una sanzione legislativa, in quanto costituisce una scelta gestionale (...) subordinata al preventivo accertamento da parte dell’Ente dei costi e dei benefici da essa derivanti, giustificabile solo nella misura in cui risulti la soluzione preferibile in termini di efficienza, efficacia ed economicità rispetto alla gestione diretta del servizio (c.d. valutazione make or buy), anche con riferimento alle ricadute sui cittadini in un’ottica di lungo periodo.

La mancanza o la superficialità di tali complesse analisi preventive può costituire un sintomo dell’intento elusivo, oltre che possibile causa di danno per l’Ente” (Corte dei conti, sez. controllo Veneto, parere n. 52 dell’11 maggio 2009).

Alla luce di questi insistenti e ripetuti richiami della Corte dei conti, nel più recente periodo si è finalmente assistito a una netta inversione di tendenza del legislatore statale in ordine all’impiego delle società pubbliche per la gestione dei servizi – una vera e propria capitolazione, si potrebbe dire, rispetto alle precedenti linee d’azione di segno opposto – emersa dapprima con l’obbligo imposto agli Enti locali di alienare le società e le partecipazioni societarie relative ad attività non strettamente necessarie al perseguimento delle finalità istituzionali (art. 3, commi 27 e seguenti della legge 24 dicembre 2007, n. 244), e culminata, da ultimo, con il divieto a ricorrere allo strumento societario per i Comuni di minori dimensioni (art. 14, comma 32, del decreto legge n. 78/2010, convertito nella legge n. 122 del 30 luglio 2010).

Non ci si è ancora resi conto, forse, del fatto che il disposto di cui all’art. 14, comma 32 è suscettibile di alterare completamente, nel nostro paese, l’assetto dei rapporti tra gli Enti locali e le rispettive società partecipate.

Per fare soltanto un esempio, ci si può domandare: può oggi un Comune con numero di abitanti minore a 30.000 costituire una società in house per la gestione di servizi strumentali, quale quella relativa alle attività di accertamento, riscossione e gestione dei tributi?

L’incertezza interpretativa sottesa al quesito posto nasce dal fatto che l’articolo 14, comma 32, del Dl 78/2010, nel far divieto ai Comuni con popolazione inferiore a 30 mila abitanti di costituire nuove società, mantiene fermi gli effetti dell’articolo 3, commi 27, 28 e 29 della legge 24 dicembre 2007, n. 244, a norma del quale, se da un lato è vietata per qualsiasi Ente locale la costituzione di società che non siano strettamente strumentali alle relative finalità istituzionali, d’altro lato resta pur sempre ammessa la costituzione di società partecipate che forniscono servizi di interesse generale.

L’argomento è stato fonte di opinioni divergenti, e negli ultimi anni il dubbio interpretativo è stato affrontato da varie sezioni regionali della Corte dei Conti, nell’esercizio delle funzioni di consulenza a favore delle Amministrazioni locali.

In effetti, le prime pronunce della sezione Puglia (in particolare le delibere n. 76/2010/PAR e n. 129/2010/PAR) affermavano che anche i Comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti potessero costituire società di capitali, se finalizzate alla gestione di servizi pubblici locali. In seguito, però, altri pareri si sono orientati in modo opposto (in particolare la delibera n. 92/2010/PAR della Sez. Controllo Piemonte e la delibera n. 861/2010/PAR della Sez. Controllo Lombardia), seguendo un’interpretazione decisamente più restrittiva dell’articolo 14, comma 32.

Tale indirizzo è stato alla fine recepito dalla stessa Sez. Puglia, che con delibera n. 12/2011/PAR ha anch’essa ritenuto che “i comuni inferiori a 30.000 abitanti non possano, in assoluto, costituire società, né detenere più alcuna partecipazione azionaria". Questo punto d’arrivo è stato quindi ripreso dall’Autorità dei lavori pubblici, la quale ha affermato che per effetto dell’articolo 14 comma 32 sopra citato è da escludersi la possibilità che un Comune con meno di 30.000 abitanti possa costituire una società mista ai sensi dall’articolo 52 comma 5 lettera b) n. 4 del Dlgs 446/1997 per la gestione del servizio di accertamento e riscossione dei tributi (delibera n. 83 del 6 ottobre 2011).

Si deve altresì segnalare che, per quanto la norma non preveda sanzioni per il caso d’inottemperanza, il relativo divieto non va sottovalutato, dacché in rapporto alle azioni intraprese dall’Ente al di fuori delle sue competenze istituzionali possono sorgere profili di responsabilità per danno erariale, come la magistratura contabile ha ormai da tempo rilevato (v. Corte dei conti, sez. I, 30 settembre 1991, n. 300).

Per tornare comunque ai nostri giorni, è interessante notare che l’intervento dell’Esecutivo in materia di liberalizzazioni, intrapreso e messo in atto con grande fermezza, è stato preceduto agli inizi dell’anno 2012 da una segnalazione dell’Antitrust, che in vista della crescita economica aveva appunto auspicato, da parte del Governo e del Parlamento, soluzioni innovative idonee a incrementare la concorrenza nei servizi locali, nelle professioni, nelle banche e assicurazioni, nelle autostrade e aeroporti, nonché in molti altri settori vitali dell’economia nazionale, sottolineando il fatto che “l’urgenza della crisi richiede di non indugiare e di attuare gli interventi di immediata applicazione”.

Tra questi interventi urgenti il Presidente dell’Authority non aveva esitato ad annoverare la liberalizzazione dei servizi pubblici locali erogati dai Comuni, sostenendo, in particolare, che nel settore del trasporto locale va introdotto il meccanismo delle gare, il quale consente “servizi a costi certi, senza la presenza della politica che a volte è fonte di inefficienza e corruzione”.

Il Presidente aveva chiesto, al riguardo, anche interventi sulla Pubblica amministrazione, affermando che “il costo vero è dato da una burocrazia lenta e farraginosa, che è il vero onere per chi vuole investire in Italia”.

Fatto sta che, in linea con queste aspettative e con puntualità rispetto ai tempi annunciati, il Governo Monti ha emanato il decreto legge n. 1 del 20 gennaio 2012 per la liberalizzazione delle attività economiche (pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 24 gennaio 2012).

La nuova organizzazione dei servizi pubblici locali che emerge dalla conversione in legge del DL sulle liberalizzazioni appare destinata a incidere in profondità il tessuto sociale italiano, non soltanto per quanto riguarda la configurazione dei rapporti tra gli Enti locali e le rispettive società partecipate, ma anche per quel che concerne le modalità strutturali di erogazione dei servizi, che per lungo tempo hanno contrassegnato lo sviluppo e l’economia del nostro territorio.

Ora si può considerare definitivamente superato l’incidente di percorso che nel 2011 ha imposto una brusca frenata al processo di liberalizzazione dei servizi pubblici locali, con l’abrogazione, a seguito di referendum popolare, dell’art. 23-bis del Dl 112/2008 convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133, di cui più sopra si è fatto cenno.

In luogo della disciplina organica dei servizi locali che quest’ultima norma recava, il Legislatore, come già abbiamo detto, si è preso cura di riscrivere le regole del gioco con l’approvazione di un nuovo quadro normativo, introdotto dapprima con l’art. 4 del DL n. 13 agosto 2011, n. 138 convertito in legge n. 148/2011, in seguito messo a punto con le varie modifiche di cui abbiamo fatto cenno.

In relazione a tale processo legislativo che si è sviluppato in una logica di work in progress, resta da aggiungere l’ultimo tassello del mosaico, costituito dal regolamento attuativo dell’art. 4 in parola volto a fornire, secondo il disposto che lo prevede, “le ulteriori misure necessarie ad assicurare la piena attuazione” della norma in parola (art. 4, comma 33-ter).

Si può ritenere, alla luce di queste riflessioni, che per gli Enti locali sia giunto il momento di fare i conti con una disciplina normativa organica e compiuta in materia di servizi pubblici, la quale attende ora di trovare applicazione sul territorio, mediante procedure e adempimenti di notevole complessità, da attuarsi entro termini stringenti e ravvicinati.

Considerazioni queste, che inducono a privilegiare, tra gli obiettivi degli Enti locali, la formazione professionale dei relativi Amministratori e funzionari i quali, oggi più che mai, sono chiamati ad affrontare le sfide di un cambiamento veramente decisivo per il futuro del nostro paese.