x

x

L’infanticidio

Una delle tematiche criminologiche maggiormente discusse in questo periodo è l’infanticidio.

Questo crimine si riscontra per lo più in ambienti familiari e si definisce come delitto che riguarda l’omicidio dell’infante, termine con il quale si identifica il bambino che ancora non ha iniziato ad acquisire l’uso della parola.

Dal punto di vista giuridico, tale delitto esisteva già nell’epoca romana, quando era consentita l’uccisione del proprio infante, qualora si trattasse di bambini cd “mostri”, “deboli” o “deformi”.

Con l’avvento del Cristianesimo, invece, tale delitto ha assunto i caratteri di un crimine grave. Nelle codificazioni del XIX secolo, esso fu previsto come figura di illecito autonoma e più mite, qualora fosse determinato da ragioni d’onore o da particolari condizioni economiche e sociali della madre.

In particolare con il codice Zanardelli del 1889, l’infanticidio era disciplinato come circostanza attenuante dell’omicidio, laddove il fatto fosse commesso per causa d’onore e su di un bambino che non fosse nato da più di cinque giorni e comunque non fosse ancora iscritto allo stato civile. Con il codice Rocco, invece, fu disciplinato come forma di reato autonomo, strutturando la fattispecie sulla causa d’onore basata sull’esigenza di salvare l’onore sessuale della donna. Con il mutamento del costume e della morale pubblica, la causa d’onore è stata successivamente abrogata dal legislatore, con conseguente riformulazione del reato nei termini oggi vigenti ad opera della l. 5 agosto 1981, n. 442. Oggi, il codice penale riconosce e punisce l’infanticidio all’art. 578 in virtù della protezione del bene della vita. Tale articolo che disciplina come reato autonomo l’infanticidio in condizione di abbandono materiale e morale (che è una fattispecie speciale di omicidio in quanto, mancando il presupposto dell’abbandono, rimane applicabile la fattispecie dell’omicidio generale) equipara, come soggetti passivi, il neonato ed il feto durante il parto. Ne consegue dunque che il momento determinante per l’applicabilità delle norme sull’omicidio è l’inizio del parto, e quindi rilevante ai fini della tutela di tali norme è già la vita del feto, ossia il frutto del concepimento e della gestazione, pervenuto, però, alla fase del parto.

L’articolo in questione punisce la donna che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse allo stesso, con la reclusione da quattro a dodici anni. Tale articolo punisce, inoltre, coloro che concorrono nel reato con la reclusione non inferiore a ventuno anni, se essi hanno agito al solo scopo di favorire la madre. La pena può essere diminuita da un terzo a due terzi.

Dal punto di vista psicologico e criminologico, tale delitto è per lo più realizzato dalla donna per una serie di motivazioni. Una di questi è la realizzazione del crimine da parte di madri che sono solite maltrattare i figli, come può esserlo un agito impulsivo in risposta a pianti o urla del bimbo. Un’ altra può essere l’agire omissivo delle madri passive e negligenti, incapaci di affrontare i compiti della maternità relativi alle necessità vitali del figlio, commesso magari per deprivazione e trascuratezza, come la discuria, che è la disfunzione di cure inadeguate da parte di madri che hanno patologie gravi come la tossicodipendenza.

È bene rimarcare, però, che per la commissione di questo crimine abietto, la madre non è necessariamente malata di mente, priva cioè di capacità di intendere e di volere.

Fra le dinamiche particolari di questo reato, si annovera anche la c.d. sindrome di Medea, vale a dire l’omicidio attuato per vendetta del coniuge, in cui l’aggressività si sposta dall’oggetto effettivo di risentimento, il marito, verso il figlio, che rappresenta concretamente il frutto dell’unione. Un’altra motivazione, sia pure indiretta, è data dalla c.d. Sindrome di Münchhausen per procura, la quale è una forma di maltrattamento che consiste nell’inventare o procurare, per esempio somministrando sostanze dannose, sintomi patologici nel figlio, in modo da esporlo ad una serie di accertamenti, esami, interventi che finiscono poi per danneggiarlo o addirittura ucciderlo. Lo scopo recondito di questo meccanismo è la ricerca da parte della donna che maltratta di gratificazione e riconoscimenti, come madre modello sempre attenta alle problematiche sanitarie del figlio.

Le madri di norma uccidono figli piccoli o appena nati, con dinamiche di perversione della sindrome di attaccamento/separazione o talora a causa di franca patologia. In ogni caso l’UNICEF ha segnalato che nel 2003, nei 27 paesi più industrializzati del mondo, sono morti 3500 bambini per le conseguenze di maltrattamenti fisici, perpetrati nell’80% dei casi dai genitori.

Uno studio approfondito fondato su di un progetto avviato dallo psicologo Stefano Cirillo e da un gruppo di operatori dell’USL 31 di Ferrara ha dimostrato che particolari casi sono riscontrabili nelle famiglie c.d. “multiproblematiche croniche”. Alcune di esse, per lo più abitanti in case fatiscenti, sono molto lontane da altri centri abitati ed il loro isolamento si fa sentire più per la loro condizione degradata che per un’obiettiva mancanza di collegamento.

Un’altra causa fondamentale di questo tipo di reato è la depressione nelle donne.

In particolar modo, è stato riscontrato che le neomamme sono sottoposte a reazioni emotive differenti, che a volte possono essere anche molto intense. Uno dei disagi frequenti è costituito dalle maternity blues, una forma depressiva lieve, dovuta probabilmente a cambiamenti ormonali, caratterizzata da tristezza, ansia, sbalzi d’umore, irritabilità, stanchezza, aumentata sensibilità e tendenza al pianto.

Lo stato d’animo delle mamme è quello di sentirsi poco coinvolte nei confronti del bambino, eccessivamente preoccupate per il suo benessere e incapaci di accudirlo in modo adeguato. Questo problema è molto diffuso e colpisce fino all’80% delle neomamme. Generalmente svanisce entro poche settimane, ma ha la capacità di indurre nella donna pensieri negativi su se stessa, sulla propria capacità genitoriale, sul proprio rapporto con il bambino, i quali possono sfociare nella forma più grave che è la depressione post-partum che colpisce il 10-15% delle donne in Italia e che può durare anche anni. Ovviamente ci sono donne più predisposte a sviluppare questa “malattia” per l’insorgenza di alcuni fattori che aiutano a scatenarla quali la presenza di problemi psichiatrici pregressi o disturbi psicologici durante la gravidanza, scarsa autostima, donne sole o con difficili relazioni di coppia, assenza di supporto sociale, basso livello socioeconomico. Questo, sovente, si verifica in quanto, subito dopo il parto la mamma deve affrontare un adattamento fisico e psicologico alla nuova situazione.

Nello specifico, la stanchezza è il sintomo riportato più frequentemente dalle mamme, dovuto a carenza di sonno e fatica nel prendersi cura del bambino. Altri problemi frequenti sono il mal di schiena, problemi sessuali, disturbi intestinali, incontinenza urinaria, dolore perineale, mal di testa, mastite e problemi legati all’allattamento.

In genere, la gravità di questi disturbi si riduce progressivamente nei primi mesi dopo il parto, ma circa un quarto delle donne dopo sei mesi non si è ancora ristabilita del tutto. Questa forma di malattia si caratterizza da un persistente umore depresso, sentimenti di inadeguatezza, fallimento, impotenza, confusione, ansia.

Le caratteristiche della mamma “depressa” sono: il ritiro sociale, la mancanza di interesse per attività prima gradite, scarsa cura personale, problemi dell’alimentazione e del sonno, diminuzione dell’energia e della motivazione ad intraprendere qualsiasi attività. Per quanto riguarda il comportamento nei confronti del bambino, si è riscontra distaccamento oppure eccessiva intrusione e poco rispetto dei suoi ritmi, oppure ossessiva preoccupazione per il neonato, nonché per la sua alimentazione e la sua salute.

Il problema di fondo è che spesso coloro le quali si trovano nel pieno di questa malattia non chiedono aiuto perché si vergognano. La vergogna nasce dal fatto che nella società l’evento della nascita dovrebbe comportare un periodo idilliaco, nel quale gli unici sentimenti consentiti dovrebbero essere la felicità e l’appagamento, quindi è inconcepibile che l’arrivo di un bambino possa essere un momento negativo, conseguentemente la neomamma deve essere felice e non ha diritto di avere dei problemi o di essere depressa. La vergogna è accentuata dal fatto che la mamma è la prima che pensa di non aver diritto di avere sentimenti negativi, pertanto si sente in colpa e si isola ancora di più. Difatti, quando abbiamo notizia di casi di infanticidio, spesso si apprende che chi conosceva la mamma assassina afferma di non essersi accorto che stesse male. Dal punto di vista bio-fisiologico la causa che fa sviluppare la depressione post-partum è il livello degli ormoni quali l’estrogeno e il progesterone che precipitano bruscamente nelle ore successive al parto.

Si verificano anche altri sintomi dovuti all’insorgere gradualmente di un senso di spossatezza prodotta dal travaglio del parto (come nel caso ad esempio di un parto cesareo e la conseguente necessità di riprendersi da un intervento chirurgico). A volte, la neomamma può inconsciamente accusare il figlio di aver rovinato il suo corpo per la gravidanza. Altro caso è l’aver vissuto eventi drammatici o stressanti, come l’aver subito violenze, che spesso si ripercuotono sui piccoli o riproponendo ai loro figli le violenze che loro stesse hanno subito oppure dissimulando e negando la gravidanza per arrivare poi alla fecalizzazione del neonato. Il caso è proprio di quei bambini che vengono abbandonati nelle discariche o nei cassonetti dei rifiuti.

Spesso si è in presenza di donne che hanno subito abusi sessuali, fisici o psichici durante l’infanzia, e che, magari, la gravidanza sia proprio la conseguenza di uno stupro subito. Difatti molte di queste donne scoprono la propria gravidanza tra il quinto e il sesto mese come motivo di negazione del proprio stato. Trattasi per la maggior parte di donne emarginate o che sono sole o abbandonate.

Questo problema è ampiamente sentito nella società di oggi.

Un contributo particolare va dato a quelle campagne di sensibilizzazione, come per esempio l’ O.N.Da (Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna) impegnato da tempo su questo fronte con “A Smile for Moms, un sorriso per le mamme” che è un progetto triennale, patrocinato della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero della Salute, il quale prevede una campagna multimediale e multicanale con un sito internet (www.depressionepostpartum.it) per avere informazioni, scambiare opinioni nei forum e chiedere pareri agli esperti. Grazie a queste iniziative il tasso di infanticidio è diminuito notevolmente, proprio perché la prevenzione post-partum si può e si deve attuare riconoscendo i fattori di rischio e i segnali.

Una delle tematiche criminologiche maggiormente discusse in questo periodo è l’infanticidio.

Questo crimine si riscontra per lo più in ambienti familiari e si definisce come delitto che riguarda l’omicidio dell’infante, termine con il quale si identifica il bambino che ancora non ha iniziato ad acquisire l’uso della parola.

Dal punto di vista giuridico, tale delitto esisteva già nell’epoca romana, quando era consentita l’uccisione del proprio infante, qualora si trattasse di bambini cd “mostri”, “deboli” o “deformi”.

Con l’avvento del Cristianesimo, invece, tale delitto ha assunto i caratteri di un crimine grave. Nelle codificazioni del XIX secolo, esso fu previsto come figura di illecito autonoma e più mite, qualora fosse determinato da ragioni d’onore o da particolari condizioni economiche e sociali della madre.

In particolare con il codice Zanardelli del 1889, l’infanticidio era disciplinato come circostanza attenuante dell’omicidio, laddove il fatto fosse commesso per causa d’onore e su di un bambino che non fosse nato da più di cinque giorni e comunque non fosse ancora iscritto allo stato civile. Con il codice Rocco, invece, fu disciplinato come forma di reato autonomo, strutturando la fattispecie sulla causa d’onore basata sull’esigenza di salvare l’onore sessuale della donna. Con il mutamento del costume e della morale pubblica, la causa d’onore è stata successivamente abrogata dal legislatore, con conseguente riformulazione del reato nei termini oggi vigenti ad opera della l. 5 agosto 1981, n. 442. Oggi, il codice penale riconosce e punisce l’infanticidio all’art. 578 in virtù della protezione del bene della vita. Tale articolo che disciplina come reato autonomo l’infanticidio in condizione di abbandono materiale e morale (che è una fattispecie speciale di omicidio in quanto, mancando il presupposto dell’abbandono, rimane applicabile la fattispecie dell’omicidio generale) equipara, come soggetti passivi, il neonato ed il feto durante il parto. Ne consegue dunque che il momento determinante per l’applicabilità delle norme sull’omicidio è l’inizio del parto, e quindi rilevante ai fini della tutela di tali norme è già la vita del feto, ossia il frutto del concepimento e della gestazione, pervenuto, però, alla fase del parto.

L’articolo in questione punisce la donna che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse allo stesso, con la reclusione da quattro a dodici anni. Tale articolo punisce, inoltre, coloro che concorrono nel reato con la reclusione non inferiore a ventuno anni, se essi hanno agito al solo scopo di favorire la madre. La pena può essere diminuita da un terzo a due terzi.

Dal punto di vista psicologico e criminologico, tale delitto è per lo più realizzato dalla donna per una serie di motivazioni. Una di questi è la realizzazione del crimine da parte di madri che sono solite maltrattare i figli, come può esserlo un agito impulsivo in risposta a pianti o urla del bimbo. Un’ altra può essere l’agire omissivo delle madri passive e negligenti, incapaci di affrontare i compiti della maternità relativi alle necessità vitali del figlio, commesso magari per deprivazione e trascuratezza, come la discuria, che è la disfunzione di cure inadeguate da parte di madri che hanno patologie gravi come la tossicodipendenza.

È bene rimarcare, però, che per la commissione di questo crimine abietto, la madre non è necessariamente malata di mente, priva cioè di capacità di intendere e di volere.

Fra le dinamiche particolari di questo reato, si annovera anche la c.d. sindrome di Medea, vale a dire l’omicidio attuato per vendetta del coniuge, in cui l’aggressività si sposta dall’oggetto effettivo di risentimento, il marito, verso il figlio, che rappresenta concretamente il frutto dell’unione. Un’altra motivazione, sia pure indiretta, è data dalla c.d. Sindrome di Münchhausen per procura, la quale è una forma di maltrattamento che consiste nell’inventare o procurare, per esempio somministrando sostanze dannose, sintomi patologici nel figlio, in modo da esporlo ad una serie di accertamenti, esami, interventi che finiscono poi per danneggiarlo o addirittura ucciderlo. Lo scopo recondito di questo meccanismo è la ricerca da parte della donna che maltratta di gratificazione e riconoscimenti, come madre modello sempre attenta alle problematiche sanitarie del figlio.

Le madri di norma uccidono figli piccoli o appena nati, con dinamiche di perversione della sindrome di attaccamento/separazione o talora a causa di franca patologia. In ogni caso l’UNICEF ha segnalato che nel 2003, nei 27 paesi più industrializzati del mondo, sono morti 3500 bambini per le conseguenze di maltrattamenti fisici, perpetrati nell’80% dei casi dai genitori.

Uno studio approfondito fondato su di un progetto avviato dallo psicologo Stefano Cirillo e da un gruppo di operatori dell’USL 31 di Ferrara ha dimostrato che particolari casi sono riscontrabili nelle famiglie c.d. “multiproblematiche croniche”. Alcune di esse, per lo più abitanti in case fatiscenti, sono molto lontane da altri centri abitati ed il loro isolamento si fa sentire più per la loro condizione degradata che per un’obiettiva mancanza di collegamento.

Un’altra causa fondamentale di questo tipo di reato è la depressione nelle donne.

In particolar modo, è stato riscontrato che le neomamme sono sottoposte a reazioni emotive differenti, che a volte possono essere anche molto intense. Uno dei disagi frequenti è costituito dalle maternity blues, una forma depressiva lieve, dovuta probabilmente a cambiamenti ormonali, caratterizzata da tristezza, ansia, sbalzi d’umore, irritabilità, stanchezza, aumentata sensibilità e tendenza al pianto.

Lo stato d’animo delle mamme è quello di sentirsi poco coinvolte nei confronti del bambino, eccessivamente preoccupate per il suo benessere e incapaci di accudirlo in modo adeguato. Questo problema è molto diffuso e colpisce fino all’80% delle neomamme. Generalmente svanisce entro poche settimane, ma ha la capacità di indurre nella donna pensieri negativi su se stessa, sulla propria capacità genitoriale, sul proprio rapporto con il bambino, i quali possono sfociare nella forma più grave che è la depressione post-partum che colpisce il 10-15% delle donne in Italia e che può durare anche anni. Ovviamente ci sono donne più predisposte a sviluppare questa “malattia” per l’insorgenza di alcuni fattori che aiutano a scatenarla quali la presenza di problemi psichiatrici pregressi o disturbi psicologici durante la gravidanza, scarsa autostima, donne sole o con difficili relazioni di coppia, assenza di supporto sociale, basso livello socioeconomico. Questo, sovente, si verifica in quanto, subito dopo il parto la mamma deve affrontare un adattamento fisico e psicologico alla nuova situazione.

Nello specifico, la stanchezza è il sintomo riportato più frequentemente dalle mamme, dovuto a carenza di sonno e fatica nel prendersi cura del bambino. Altri problemi frequenti sono il mal di schiena, problemi sessuali, disturbi intestinali, incontinenza urinaria, dolore perineale, mal di testa, mastite e problemi legati all’allattamento.

In genere, la gravità di questi disturbi si riduce progressivamente nei primi mesi dopo il parto, ma circa un quarto delle donne dopo sei mesi non si è ancora ristabilita del tutto. Questa forma di malattia si caratterizza da un persistente umore depresso, sentimenti di inadeguatezza, fallimento, impotenza, confusione, ansia.

Le caratteristiche della mamma “depressa” sono: il ritiro sociale, la mancanza di interesse per attività prima gradite, scarsa cura personale, problemi dell’alimentazione e del sonno, diminuzione dell’energia e della motivazione ad intraprendere qualsiasi attività. Per quanto riguarda il comportamento nei confronti del bambino, si è riscontra distaccamento oppure eccessiva intrusione e poco rispetto dei suoi ritmi, oppure ossessiva preoccupazione per il neonato, nonché per la sua alimentazione e la sua salute.

Il problema di fondo è che spesso coloro le quali si trovano nel pieno di questa malattia non chiedono aiuto perché si vergognano. La vergogna nasce dal fatto che nella società l’evento della nascita dovrebbe comportare un periodo idilliaco, nel quale gli unici sentimenti consentiti dovrebbero essere la felicità e l’appagamento, quindi è inconcepibile che l’arrivo di un bambino possa essere un momento negativo, conseguentemente la neomamma deve essere felice e non ha diritto di avere dei problemi o di essere depressa. La vergogna è accentuata dal fatto che la mamma è la prima che pensa di non aver diritto di avere sentimenti negativi, pertanto si sente in colpa e si isola ancora di più. Difatti, quando abbiamo notizia di casi di infanticidio, spesso si apprende che chi conosceva la mamma assassina afferma di non essersi accorto che stesse male. Dal punto di vista bio-fisiologico la causa che fa sviluppare la depressione post-partum è il livello degli ormoni quali l’estrogeno e il progesterone che precipitano bruscamente nelle ore successive al parto.

Si verificano anche altri sintomi dovuti all’insorgere gradualmente di un senso di spossatezza prodotta dal travaglio del parto (come nel caso ad esempio di un parto cesareo e la conseguente necessità di riprendersi da un intervento chirurgico). A volte, la neomamma può inconsciamente accusare il figlio di aver rovinato il suo corpo per la gravidanza. Altro caso è l’aver vissuto eventi drammatici o stressanti, come l’aver subito violenze, che spesso si ripercuotono sui piccoli o riproponendo ai loro figli le violenze che loro stesse hanno subito oppure dissimulando e negando la gravidanza per arrivare poi alla fecalizzazione del neonato. Il caso è proprio di quei bambini che vengono abbandonati nelle discariche o nei cassonetti dei rifiuti.

Spesso si è in presenza di donne che hanno subito abusi sessuali, fisici o psichici durante l’infanzia, e che, magari, la gravidanza sia proprio la conseguenza di uno stupro subito. Difatti molte di queste donne scoprono la propria gravidanza tra il quinto e il sesto mese come motivo di negazione del proprio stato. Trattasi per la maggior parte di donne emarginate o che sono sole o abbandonate.

Questo problema è ampiamente sentito nella società di oggi.

Un contributo particolare va dato a quelle campagne di sensibilizzazione, come per esempio l’ O.N.Da (Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna) impegnato da tempo su questo fronte con “A Smile for Moms, un sorriso per le mamme” che è un progetto triennale, patrocinato della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero della Salute, il quale prevede una campagna multimediale e multicanale con un sito internet (www.depressionepostpartum.it) per avere informazioni, scambiare opinioni nei forum e chiedere pareri agli esperti. Grazie a queste iniziative il tasso di infanticidio è diminuito notevolmente, proprio perché la prevenzione post-partum si può e si deve attuare riconoscendo i fattori di rischio e i segnali.