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Brevi considerazioni in tema di opere d’arte di autenticità controversa

Un episodio tra i tanti. Nel marzo 2010 la Casa d’Asta francese Azur Encheres propose un piccolo quadro, di circa venticinque centimetri per trenta, come un’opera di una non meglio precisata “scuola del XIX sec.”, stimandone il valore in circa 100 euro. Una tela come altre, priva di particolare pregio artistico.

All’esito della gara, tuttavia, il dipinto, al netto delle commissioni e delle tasse, realizzò 350.000 euro: oltre 3500 volte l’importo della base d’asta.

Nessun giallo dietro l’incanto. Gli aggiudicatari (due noti mercanti parigini) avevano “semplicemente” intuito che il lotto in questione era, in realtà, un capolavoro del maestro del Romanticismo tedesco Caspar David Friedrich: una “Civetta su un albero” della quale si erano perse le tracce.

Il seguito è storia recente ed attiene alla cronaca giudiziaria, che narra la lite tra il precedente proprietario dell’opera e gli aggiudicatari (la vertenza, a quanto è dato sapere, è stata definita transattivamente e, a fine 2011, la tela è stata acquistata da un collezionista d’Oltralpe per la considerevole cifra di 6,5 milioni di euro).

Al di là della singolarità della vicenda, l’episodio ripropone il problema dei profili giuridici della vendita di un’opera d’arte di paternità controversa.

Il tema è, in effetti, di grande rilievo.

È noto, infatti, come sia frequente l’interesse ad appurare, anche giudizialmente, la paternità di un’opera d’arte (e ciò, in verità, a prescindere dal fatto che detto accertamento acceda ad una disputa tra alienante ed acquirente; si consideri, per esempio, che una statuizione di autenticità può essere funzionale ad un’operazione di divisione ereditaria, per stimare correttamente il valore della massa).

Senza addentrarci nei meandri di una tematica assai complessa e di non agevole comprensione per un lettore privo di adeguate cognizioni giuridiche, da un esame delle pronunce in materia si evince, tra gli altri, un dato: il ruolo spesso decisivo che ha l’indagine del consulente tecnico d’ufficio, ossia del perito scelto ad ausilio del Giudice.

La consulenza tecnica, lungi dall’essere un mezzo di prova, dovrebbe (limitarsi a) fornire al Giudice le cognizioni tecniche, che il predetto non possiede, necessarie per la definizione della lite.

In uno Stato di diritto non decide il consulente, ma il Giudice. Il quale, peraltro, non può dimenticarsi che la propria pronuncia deve fondarsi su precetti giuridici; ciò a dire, in altre parole, che, in una disputa relativa ad un’opera oggetto di compravendita affetta da vizi (si dia il caso, per esempio, di un dipinto in stato di conservazione differente da quello indicato nel “condition report”) il compratore dovrebbe comunque soccombere se decaduto dal diritto alla garanzia, per la mancata denunzia dei vizi nei termini di legge.

Non di rado, tuttavia, il giudicante (quasi sempre alieno dalle problematiche del mondo dell’arte) si limita a recepire acriticamente contenuti e conclusioni della perizia del consulente tecnico, e li trasfonde nella propria decisione; la valutazione giuridica in senso stretto cede, dunque, il passo alla sensibilità (quando non ai “personalismi”) del singolo perito.

Anche volendo ammettere che i consulenti operino, sempre e comunque, “in buona fede”, è evidente l’aleatorietà di simili contese, accentuata, peraltro, dal fatto che spesso l’attribuzione di un’opera ad un determinato artista viene compiuta facendo ricorso unicamente a parametri di tipo “estetico”, ossia valutando “l’affinità stilistica” del manufatto oggetto di indagine ad altri riferibili a quel dato autore (sulla base, anzitutto, dei c.d. “dati morelliani”).

È quasi superfluo rilevare che sarebbe preferibile che i Giudici, specie in relazione agli oggetti di antiquariato, richiedessero che, a corredo dell’opinione di un consulente, l’attribuzione fosse confortata da risultanze tecniche (per esempio attraverso l’impiego della termoluminescenza per le terracotte, del carbonio 14 per le opere lignee o attraverso l’analisi chimica dei pigmenti per i dipinti, e così via).

Ciò premesso, per tornare, senza pretesa di esaustività, al tema della tutela che l’ordinamento giuridico appresta nel caso di alienazione di opera d’arte di paternità controversa, secondo la più recente giurisprudenza la cessione di un’opera attribuita ad artista che, in realtà, non ne è stato l’autore, integra un’ipotesi di vendita di “aliud pro alio”, e legittima l’acquirente a richiedere la risoluzione del contratto per inadempimento, con la conseguente possibilità di pretendere, altresì, il risarcimento dei danni patiti.

Quando, tuttavia, è il venditore ad impugnare il contratto, giova muovere da una diversa ricostruzione giuridica della fattispecie: detta, infatti, se ben inquadrata, può essere ricondotta all’istituto dell’errore, e, per questa via, il mercante può tutelare i propri interessi senza eccessive preoccupazioni circa l’esito del giudizio.

Un episodio tra i tanti. Nel marzo 2010 la Casa d’Asta francese Azur Encheres propose un piccolo quadro, di circa venticinque centimetri per trenta, come un’opera di una non meglio precisata “scuola del XIX sec.”, stimandone il valore in circa 100 euro. Una tela come altre, priva di particolare pregio artistico.

All’esito della gara, tuttavia, il dipinto, al netto delle commissioni e delle tasse, realizzò 350.000 euro: oltre 3500 volte l’importo della base d’asta.

Nessun giallo dietro l’incanto. Gli aggiudicatari (due noti mercanti parigini) avevano “semplicemente” intuito che il lotto in questione era, in realtà, un capolavoro del maestro del Romanticismo tedesco Caspar David Friedrich: una “Civetta su un albero” della quale si erano perse le tracce.

Il seguito è storia recente ed attiene alla cronaca giudiziaria, che narra la lite tra il precedente proprietario dell’opera e gli aggiudicatari (la vertenza, a quanto è dato sapere, è stata definita transattivamente e, a fine 2011, la tela è stata acquistata da un collezionista d’Oltralpe per la considerevole cifra di 6,5 milioni di euro).

Al di là della singolarità della vicenda, l’episodio ripropone il problema dei profili giuridici della vendita di un’opera d’arte di paternità controversa.

Il tema è, in effetti, di grande rilievo.

È noto, infatti, come sia frequente l’interesse ad appurare, anche giudizialmente, la paternità di un’opera d’arte (e ciò, in verità, a prescindere dal fatto che detto accertamento acceda ad una disputa tra alienante ed acquirente; si consideri, per esempio, che una statuizione di autenticità può essere funzionale ad un’operazione di divisione ereditaria, per stimare correttamente il valore della massa).

Senza addentrarci nei meandri di una tematica assai complessa e di non agevole comprensione per un lettore privo di adeguate cognizioni giuridiche, da un esame delle pronunce in materia si evince, tra gli altri, un dato: il ruolo spesso decisivo che ha l’indagine del consulente tecnico d’ufficio, ossia del perito scelto ad ausilio del Giudice.

La consulenza tecnica, lungi dall’essere un mezzo di prova, dovrebbe (limitarsi a) fornire al Giudice le cognizioni tecniche, che il predetto non possiede, necessarie per la definizione della lite.

In uno Stato di diritto non decide il consulente, ma il Giudice. Il quale, peraltro, non può dimenticarsi che la propria pronuncia deve fondarsi su precetti giuridici; ciò a dire, in altre parole, che, in una disputa relativa ad un’opera oggetto di compravendita affetta da vizi (si dia il caso, per esempio, di un dipinto in stato di conservazione differente da quello indicato nel “condition report”) il compratore dovrebbe comunque soccombere se decaduto dal diritto alla garanzia, per la mancata denunzia dei vizi nei termini di legge.

Non di rado, tuttavia, il giudicante (quasi sempre alieno dalle problematiche del mondo dell’arte) si limita a recepire acriticamente contenuti e conclusioni della perizia del consulente tecnico, e li trasfonde nella propria decisione; la valutazione giuridica in senso stretto cede, dunque, il passo alla sensibilità (quando non ai “personalismi”) del singolo perito.

Anche volendo ammettere che i consulenti operino, sempre e comunque, “in buona fede”, è evidente l’aleatorietà di simili contese, accentuata, peraltro, dal fatto che spesso l’attribuzione di un’opera ad un determinato artista viene compiuta facendo ricorso unicamente a parametri di tipo “estetico”, ossia valutando “l’affinità stilistica” del manufatto oggetto di indagine ad altri riferibili a quel dato autore (sulla base, anzitutto, dei c.d. “dati morelliani”).

È quasi superfluo rilevare che sarebbe preferibile che i Giudici, specie in relazione agli oggetti di antiquariato, richiedessero che, a corredo dell’opinione di un consulente, l’attribuzione fosse confortata da risultanze tecniche (per esempio attraverso l’impiego della termoluminescenza per le terracotte, del carbonio 14 per le opere lignee o attraverso l’analisi chimica dei pigmenti per i dipinti, e così via).

Ciò premesso, per tornare, senza pretesa di esaustività, al tema della tutela che l’ordinamento giuridico appresta nel caso di alienazione di opera d’arte di paternità controversa, secondo la più recente giurisprudenza la cessione di un’opera attribuita ad artista che, in realtà, non ne è stato l’autore, integra un’ipotesi di vendita di “aliud pro alio”, e legittima l’acquirente a richiedere la risoluzione del contratto per inadempimento, con la conseguente possibilità di pretendere, altresì, il risarcimento dei danni patiti.

Quando, tuttavia, è il venditore ad impugnare il contratto, giova muovere da una diversa ricostruzione giuridica della fattispecie: detta, infatti, se ben inquadrata, può essere ricondotta all’istituto dell’errore, e, per questa via, il mercante può tutelare i propri interessi senza eccessive preoccupazioni circa l’esito del giudizio.