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La distruzione dell’opera d’arte: quale tutela per l’autore?

“Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere”.

Così lo scrittore francese Henri-Marie Beyle (meglio conosciuto con lo pseudonimo di Stendhal) descrive nel libro “Napoli e Firenze: un viaggio da Milano a Reggio” l’episodio di cui fu vittima nel suo Grand Tour del 1817.

La sindrome di Stendhal è, oggi, un’affezione psicosomatica che provoca tachicardia, vertigini e senso di smarrimento in soggetti messi al cospetto di opere d’arte di straordinaria bellezza; secondo la letteratura medica, nelle manifestazioni più acute, può dar luogo ad atti d’isteria che portano alla distruzione delle opere.

Tra il serio e il faceto, mi chiedo se il proprietario di un’opera che ne sia affetto, e che distrugga, quindi, la predetta, possa o meno essere chiamato a risponderne nei confronti dell’autore.

Il quesito, invero tutt’altro che banale, impone una breve riflessione.

Tradizionalmente il diritto di proprietà viene ricordato come lo “ius utendi et abutendi”, con ciò valorizzando i poteri, quasi assoluti, di cui gode il proprietario.

Laddove la proprietà abbia ad oggetto un’opera d’arte, tuttavia, è da registrare una “compressione” del diritto dominicale, poiché l’ordinamento, indipendentemente dai diritti di utilizzazione economica dell’opera, riconosce il diritto dell’autore “di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione, ed a ogni atto a danno dell’opera stessa, che possano essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione” (cfr. art.20 L.633/1941, la legge sul diritto d’autore, di seguito “LDA”).

In verità, dato che il diritto di proprietà e il diritto d’autore hanno entrambi rango costituzionale, il loro rapporto non è di agevole composizione.

Che fare, pertanto, per dar soluzione all’interrogativo che ci siamo posti? In altre parole: il proprietario ha una signoria piena ed esclusiva sull’opera d’arte oggetto del proprio diritto ed è, pertanto, affrancato da responsabilità nei confronti di chicchessia o risponde nei confronti dell’autore per la distruzione dell’opera?

Secondo i più, il proprietario che dolosamente distrugga, in tutto o in parte, un’opera d’arte incorre in responsabilità.

Nel rinvenirne giustificazione, si afferma, in particolare, che la distruzione si rifletterebbe negativamente sulla reputazione dell’autore, perché detta ne impedirebbe la completa ricostruzione del percorso artistico.

A ben vedere, tuttavia, la conclusione che precede è da ripudiare.

Come già rilevato, la lettera dell’art. 20 LDA consente all’autore di opporsi ai (soli) atti a danno dell’opera che possano essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione: detto pregiudizio, a nostro avviso, non può essere “in re ipsa” nella distruzione della stessa (specie se l’opera è un lavoro, per così dire, “seriale”, come è dato trovare nella produzione di molti artisti contemporanei che, non appena un’opera sia premiata dal mercato, si attengono pedissequamente al clichè).

Nè militerebbe in modo decisivo a favore della tesi della responsabilità del proprietario il fatto che l’art. 833 c.c. vieta i cd. atti emulativi, ossia quelli che non hanno altro scopo che quello di nuocere o di recare molestia a terzi, atteso che, in difetto della prova della natura ingiuriosa per la personalità dell’autore, la distruzione dovrà essere ritenuta espressione dell’esercizio del diritto di proprietà.

Al quesito, pertanto, non si può dare una risposta valida in assoluto, dovendosi, viceversa, valutare il singolo episodio di danneggiamento per comprendere se da esso è stato arrecato, o meno, un vulnus all’onore o alla reputazione artistica dell’autore o se esso sia effettivo abuso del diritto di proprietà.

Com’è facile intuire, la distruzione di un’opera d’arte da parte del relativo proprietario è un’ipotesi, se non propriamente “di scuola” (spigolando nei repertori di giurisprudenza si rinvengono casi in cui opere furono distrutte poiché ritenute portatrici di influenze nefaste), di assai raro accadimento.

Non così, invece, per la distruzione (rectius, la cancellazione) di una dedica: ciò accade, con una certa frequenza, laddove l’opera sia oggetto di furto, allo scopo di celarne la provenienza per meglio collocarla sul mercato.

Quid iuris, in questo caso? La cancellazione della dedica è, o meno, attività contraffattoria, punibile ai sensi del D.Lgs. 42/2004 (il “Codice dei beni culturali e del paesaggio”)?

In una celebre vicenda riguardante un dipinto di Antonio Bueno la Suprema Corte, annullando la condanna pronunziata in Appello, ha escluso la configurabilità della contraffazione.

Si legge nella parte motiva del provvedimento che “la dedica non è tratto essenziale dell’opera, bensì semplicemente esprime la volontà dell’autore dell’opera di offrirla a taluno in segno di omaggio, affetto o similari, e nel contempo trasferisce al destinatario il titolo (donazione) di proprietà; si pone, dunque, per non costituire il risultato di un lavoro intellettuale o di un’attività artistica, al di fuori dell’opera, tanto che, in genere, ed in ispecie nei dipinti, trova solitamente fisica collocazione sul retro della medesima”.

L’argomentazione non convince.

Ed invero, secondo un’opinione largamente condivisa, che trova aperta conferma nei ready made di Duchamp e nelle Brillo Boxes di Warhol, è arte tutto ciò che l’artista pensa come tale: accedendo a questa tesi la dedica fa, dunque, parte dell’opera ed è da essa inseparabile (come, peraltro, la dottrina più attenta non ha mancato di rilevare).

Condividiamo l’assunto che precede (Ernst Gombrich afferma efficacemente che “non c’è l’arte, ma ci sono solo gli artisti e le loro opere”), che, tuttavia, riteniamo possa essere meglio precisato operando il distinguo che segue.

Nulla quaestio, per quanto riferito, se l’opera viene creata per il destinatario della dedica; per le medesime ragioni, non ci sentiamo, invece, di ritenere la dedica parte dell’opera qualora la predetta venga dedicata in tempi successivi (come avviene nell’ipotesi, tutt’altro che infrequente, in cui l’artista eterni, a mezzo della dedica, il collegamento tra un soggetto (spesso l’acquirente) e un’opera già facente parte della propria produzione.

“Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere”.

Così lo scrittore francese Henri-Marie Beyle (meglio conosciuto con lo pseudonimo di Stendhal) descrive nel libro “Napoli e Firenze: un viaggio da Milano a Reggio” l’episodio di cui fu vittima nel suo Grand Tour del 1817.

La sindrome di Stendhal è, oggi, un’affezione psicosomatica che provoca tachicardia, vertigini e senso di smarrimento in soggetti messi al cospetto di opere d’arte di straordinaria bellezza; secondo la letteratura medica, nelle manifestazioni più acute, può dar luogo ad atti d’isteria che portano alla distruzione delle opere.

Tra il serio e il faceto, mi chiedo se il proprietario di un’opera che ne sia affetto, e che distrugga, quindi, la predetta, possa o meno essere chiamato a risponderne nei confronti dell’autore.

Il quesito, invero tutt’altro che banale, impone una breve riflessione.

Tradizionalmente il diritto di proprietà viene ricordato come lo “ius utendi et abutendi”, con ciò valorizzando i poteri, quasi assoluti, di cui gode il proprietario.

Laddove la proprietà abbia ad oggetto un’opera d’arte, tuttavia, è da registrare una “compressione” del diritto dominicale, poiché l’ordinamento, indipendentemente dai diritti di utilizzazione economica dell’opera, riconosce il diritto dell’autore “di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione, ed a ogni atto a danno dell’opera stessa, che possano essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione” (cfr. art.20 L.633/1941, la legge sul diritto d’autore, di seguito “LDA”).

In verità, dato che il diritto di proprietà e il diritto d’autore hanno entrambi rango costituzionale, il loro rapporto non è di agevole composizione.

Che fare, pertanto, per dar soluzione all’interrogativo che ci siamo posti? In altre parole: il proprietario ha una signoria piena ed esclusiva sull’opera d’arte oggetto del proprio diritto ed è, pertanto, affrancato da responsabilità nei confronti di chicchessia o risponde nei confronti dell’autore per la distruzione dell’opera?

Secondo i più, il proprietario che dolosamente distrugga, in tutto o in parte, un’opera d’arte incorre in responsabilità.

Nel rinvenirne giustificazione, si afferma, in particolare, che la distruzione si rifletterebbe negativamente sulla reputazione dell’autore, perché detta ne impedirebbe la completa ricostruzione del percorso artistico.

A ben vedere, tuttavia, la conclusione che precede è da ripudiare.

Come già rilevato, la lettera dell’art. 20 LDA consente all’autore di opporsi ai (soli) atti a danno dell’opera che possano essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione: detto pregiudizio, a nostro avviso, non può essere “in re ipsa” nella distruzione della stessa (specie se l’opera è un lavoro, per così dire, “seriale”, come è dato trovare nella produzione di molti artisti contemporanei che, non appena un’opera sia premiata dal mercato, si attengono pedissequamente al clichè).

Nè militerebbe in modo decisivo a favore della tesi della responsabilità del proprietario il fatto che l’art. 833 c.c. vieta i cd. atti emulativi, ossia quelli che non hanno altro scopo che quello di nuocere o di recare molestia a terzi, atteso che, in difetto della prova della natura ingiuriosa per la personalità dell’autore, la distruzione dovrà essere ritenuta espressione dell’esercizio del diritto di proprietà.

Al quesito, pertanto, non si può dare una risposta valida in assoluto, dovendosi, viceversa, valutare il singolo episodio di danneggiamento per comprendere se da esso è stato arrecato, o meno, un vulnus all’onore o alla reputazione artistica dell’autore o se esso sia effettivo abuso del diritto di proprietà.

Com’è facile intuire, la distruzione di un’opera d’arte da parte del relativo proprietario è un’ipotesi, se non propriamente “di scuola” (spigolando nei repertori di giurisprudenza si rinvengono casi in cui opere furono distrutte poiché ritenute portatrici di influenze nefaste), di assai raro accadimento.

Non così, invece, per la distruzione (rectius, la cancellazione) di una dedica: ciò accade, con una certa frequenza, laddove l’opera sia oggetto di furto, allo scopo di celarne la provenienza per meglio collocarla sul mercato.

Quid iuris, in questo caso? La cancellazione della dedica è, o meno, attività contraffattoria, punibile ai sensi del D.Lgs. 42/2004 (il “Codice dei beni culturali e del paesaggio”)?

In una celebre vicenda riguardante un dipinto di Antonio Bueno la Suprema Corte, annullando la condanna pronunziata in Appello, ha escluso la configurabilità della contraffazione.

Si legge nella parte motiva del provvedimento che “la dedica non è tratto essenziale dell’opera, bensì semplicemente esprime la volontà dell’autore dell’opera di offrirla a taluno in segno di omaggio, affetto o similari, e nel contempo trasferisce al destinatario il titolo (donazione) di proprietà; si pone, dunque, per non costituire il risultato di un lavoro intellettuale o di un’attività artistica, al di fuori dell’opera, tanto che, in genere, ed in ispecie nei dipinti, trova solitamente fisica collocazione sul retro della medesima”.

L’argomentazione non convince.

Ed invero, secondo un’opinione largamente condivisa, che trova aperta conferma nei ready made di Duchamp e nelle Brillo Boxes di Warhol, è arte tutto ciò che l’artista pensa come tale: accedendo a questa tesi la dedica fa, dunque, parte dell’opera ed è da essa inseparabile (come, peraltro, la dottrina più attenta non ha mancato di rilevare).

Condividiamo l’assunto che precede (Ernst Gombrich afferma efficacemente che “non c’è l’arte, ma ci sono solo gli artisti e le loro opere”), che, tuttavia, riteniamo possa essere meglio precisato operando il distinguo che segue.

Nulla quaestio, per quanto riferito, se l’opera viene creata per il destinatario della dedica; per le medesime ragioni, non ci sentiamo, invece, di ritenere la dedica parte dell’opera qualora la predetta venga dedicata in tempi successivi (come avviene nell’ipotesi, tutt’altro che infrequente, in cui l’artista eterni, a mezzo della dedica, il collegamento tra un soggetto (spesso l’acquirente) e un’opera già facente parte della propria produzione.