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L’infedeltà patrimoniale e il sistema di tutela penale in materia di conflitto di interessi

Con la riforma del diritto penale societario, il legislatore intende colmare le lacune della disciplina codicistica prevista per i casi di mala gestio degli amministratori.

Invero, nel periodo antecedente l’introduzione dei reati previsti e puniti dagli artt. 2634 e 2635 c.c. ex D. Lgs. n. 61/2002 e 2629-bis c.c. ai sensi della L. n. 262/2005, il fenomeno del conflitto di interessi veniva contrastato attraverso la dilatazione dell’ambito applicativo del reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p..

Peraltro, tale norma non era in grado di incriminare tutte le condotte esecutive degli organi gestori, focalizzandosi esclusivamente sui comportamenti uti dominus degli amministratori e non coprendo conseguentemente le ipotesi di operazioni a carattere negoziale degli stessi.

Inoltre, lo stesso art. 2631 c.c., successivamente abrogato dalla riforma in oggetto, si caratterizzava per un esasperato formalismo e non rispettava il principio di extrema ratio del diritto penale, determinando un’eccessiva anticipazione della soglia di tutela penale.

Questa scelta normativa rischiava, da un lato, di paralizzare l’azione degli amministratori, obbligati a non partecipare alla delibera assembleare nel caso di manifestazione del conflitto di interessi in una determinata operazione della società e, dall’altro, di criminalizzare condotte inoffensive in concreto.

Con l’entrata in vigore del D. Lgs. n. 61/2002 si assiste ad un processo di sostanziale riforma del sistema di tutela penale in materia di conflitto di interessi.

In particolare, i nuovi reati introdotti dagli artt. 2634 e 2635 c.c., così come l’intera disciplina dei reati societari, ad eccezione dell’art. 2638 c.c., si caratterizzano per la previsione rispettivamente di “un danno patrimoniale” e di “un nocumento” alla società, sancendo in tal modo la patrimonializzazione del diritto penale societario.

Analizzando nello specifico la struttura della fattispecie incriminatrice ex art. 2634 c.c., il presupposto della condotta è appunto la sussistenza di un conflitto di interessi tra i titolari del potere gestorio e la società cui gli stessi appartengono.

Tale fenomeno si fonda sui seguenti due elementi: la dissociazione tra la proprietà e la gestione del patrimonio sociale all’interno di una determinata compagine societaria; l’esistenza di un interesse extrasociale, che deve essere oggettivamente valutabile, attuale, concreto ed effettivo.

I soggetti attivi del reato in esame sono esclusivamente gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, cioè quegli attori che hanno un potere di gestione concreta del patrimonio sociale e che, pertanto, possono compiere un atto di disposizione dei beni sociali.

Ciò non esclude la rilevanza penale ex art. 110 c.p. delle condotte tenute da altri soggetti, che non hanno un ruolo di amministrazione attiva, come, ad esempio, i sindaci.

Dall’interpretazione letterale della condotta prevista dalla norma si evince che possono rispondere del reato di infedeltà patrimoniale anche l’amministratore unico e gli organi a composizione collegiale.

Inoltre, può escludersi la rilevanza penale di condotte sia omissive sia meramente organizzative in quanto queste ultime, come, ad esempio, le ipotesi di aumento del capitale sociale, di scissione o fusione della società, non comportano un concreto pregiudizio per il patrimonio sociale.

Il reato si caratterizza per la previsione di un dolo specifico, esteso al concetto di vantaggio, nel quale sono quindi ricompresi anche casi che prescindono dall’arricchimento patrimoniale, come il prestigio personale, ed abbinato al dolo intenzionale dell’agente.

La scelta di tale forma intensa del dolo generico è stata criticata dalla dottrina in quanto, escludendo il dolo eventuale, si restringerebbe eccessivamente l’ambito applicativo della norma in esame.

Come evidenziato in precedenza, si tratta di un reato di evento poiché il compimento dell’atto di disposizione dei beni sociali deve concretizzarsi in un danno per il patrimonio sociale.

Alla previsione di tale evento si ricollega anche l’ultimo comma dell’art. 2634 c.c., che prescrive la procedibilità a querela della persona offesa, ponendo, di conseguenza, dei problemi applicativi in ordine alla corretta individuazione del soggetto legittimato.

Secondo parte della dottrina, la proposizione della querela deve essere votata dall’assemblea dei soci.

Questa tesi, però, potrebbe aprire la strada ad ipotesi di c.d. “mercanteggiamento” tra la società ed i singoli amministratori e non tiene conto del termine di tre mesi previsto dall’art. 124 c.p. rapportato ai tempi di convocazione dell’assemblea stessa.

La giurisprudenza, invece, sembra ammettere la possibilità che a proporre la querela sia anche il socio “uti singulo”.

Il secondo comma dell’art. 2634 c.c. incrimina, invece, il c.d. “conflitto esterno” dei soggetti titolari del potere gestorio in relazione ai c.d. patrimoni gestiti.

Secondo parte della dottrina, tale norma riduce l’ambito operativo della disposizione ex art. 167 T.U.I.F., che si applicherebbe, pertanto, esclusivamente agli intermediari finanziari non societari.

Il terzo comma rappresenta, invece, una delle novità più importanti della riforma in quanto introduce per la prima volta nell’ordinamento giuridico la rilevanza del fenomeno dei gruppi societari attraverso la teoria dei vantaggi compensativi.

Secondo l’orientamento maggioritario della dottrina, nel caso in cui un’operazione nell’immediato dannosa per una società controllata o collegata sia successivamente compensata dai vantaggi economici derivanti dall’appartenenza al gruppo, l’esclusione dell’ingiustizia del profitto conseguito dall’amministratore infedele rappresenterebbe un elemento tipizzante della fattispecie e non un causa di non punibilità legata ad una scelta politico-criminale del legislatore.

Da tale qualificazione dovrebbe discendere l’applicazione del terzo comma dell’art. 2634 c.c. anche ad altre norme incriminatici come l’art. 646 c.p. o l’art. 223 L. fall., nella parte in cui richiama appunto il reato societario in esame.

La giurisprudenza, invece, soprattutto in ambito fallimentare, tende a negare tale estensione, ribadendo l’autonomia giuridica ed economica delle singole società appartenenti al gruppo.

È opportuno, però, sottolineare che l’elisione del dolo specifico può operare solo quando i vantaggi siano conseguiti o fondatamente prevedibili, cioè ancorati ad elementi certi ed oggettivi, e vi sia una proporzionalità tra il danno subito dalla controllata e i vantaggi derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo.

Analizzata la struttura del reato di cui all’art. 2634 c.c., occorre infine individuarne i rapporti intercorrenti con l’art. 646 c.p. e l’art. 2635 c.c..

Secondo l’orientamento prevalente della dottrina, confermato dalla giurisprudenza di legittimità più recente, tra i reati di infedeltà patrimoniale e di appropriazione indebita sussiste un rapporto di specialità reciproca.

Pertanto, nella materia dei reati societari residua uno spazio di operatività del reato previsto dall’art. 646 c.p. nel caso in cui non si accerti un preesistente e autonomo conflitto di interessi dell’amministratore.

In merito, infine, ai rapporti con l’art. 2635 c.c., si osserva che questa disposizione prevede tra i soggetti agenti anche i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari ex L. n. 262/2005, i sindaci e i responsabili di revisione.

La ratio di tale estensione è legata alle modalità esecutive della condotta, cioè il compimento o l’omissione di atti in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio.

L’art. 2635, quindi, incrimina anche le condotte omissive e quelle meramente organizzative.

Lo stesso evento, qualificato come “nocumento”, richiama aspetti che possono anche non ricollegarsi ad un pregiudizio patrimoniale diretto per la società, come, ad esempio, la lesione dell’immagine societaria.

Possiamo individuare un’ulteriore differenza strutturale nell’elemento soggettivo previsto dall’art. 2635 c.c., che sembra ricomprendere anche le ipotesi di dolo eventuale, non richiedendo una forma particolarmente intensa del dolo generico.

Ma il tratto distintivo principale del reato di infedeltà patrimoniale a seguito di dazione o promessa di utilità è la sussistenza del “pactum sceleris”, che qualifica questa particolare forma di corruzione privata.

Con la riforma del diritto penale societario, il legislatore intende colmare le lacune della disciplina codicistica prevista per i casi di mala gestio degli amministratori.

Invero, nel periodo antecedente l’introduzione dei reati previsti e puniti dagli artt. 2634 e 2635 c.c. ex D. Lgs. n. 61/2002 e 2629-bis c.c. ai sensi della L. n. 262/2005, il fenomeno del conflitto di interessi veniva contrastato attraverso la dilatazione dell’ambito applicativo del reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p..

Peraltro, tale norma non era in grado di incriminare tutte le condotte esecutive degli organi gestori, focalizzandosi esclusivamente sui comportamenti uti dominus degli amministratori e non coprendo conseguentemente le ipotesi di operazioni a carattere negoziale degli stessi.

Inoltre, lo stesso art. 2631 c.c., successivamente abrogato dalla riforma in oggetto, si caratterizzava per un esasperato formalismo e non rispettava il principio di extrema ratio del diritto penale, determinando un’eccessiva anticipazione della soglia di tutela penale.

Questa scelta normativa rischiava, da un lato, di paralizzare l’azione degli amministratori, obbligati a non partecipare alla delibera assembleare nel caso di manifestazione del conflitto di interessi in una determinata operazione della società e, dall’altro, di criminalizzare condotte inoffensive in concreto.

Con l’entrata in vigore del D. Lgs. n. 61/2002 si assiste ad un processo di sostanziale riforma del sistema di tutela penale in materia di conflitto di interessi.

In particolare, i nuovi reati introdotti dagli artt. 2634 e 2635 c.c., così come l’intera disciplina dei reati societari, ad eccezione dell’art. 2638 c.c., si caratterizzano per la previsione rispettivamente di “un danno patrimoniale” e di “un nocumento” alla società, sancendo in tal modo la patrimonializzazione del diritto penale societario.

Analizzando nello specifico la struttura della fattispecie incriminatrice ex art. 2634 c.c., il presupposto della condotta è appunto la sussistenza di un conflitto di interessi tra i titolari del potere gestorio e la società cui gli stessi appartengono.

Tale fenomeno si fonda sui seguenti due elementi: la dissociazione tra la proprietà e la gestione del patrimonio sociale all’interno di una determinata compagine societaria; l’esistenza di un interesse extrasociale, che deve essere oggettivamente valutabile, attuale, concreto ed effettivo.

I soggetti attivi del reato in esame sono esclusivamente gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, cioè quegli attori che hanno un potere di gestione concreta del patrimonio sociale e che, pertanto, possono compiere un atto di disposizione dei beni sociali.

Ciò non esclude la rilevanza penale ex art. 110 c.p. delle condotte tenute da altri soggetti, che non hanno un ruolo di amministrazione attiva, come, ad esempio, i sindaci.

Dall’interpretazione letterale della condotta prevista dalla norma si evince che possono rispondere del reato di infedeltà patrimoniale anche l’amministratore unico e gli organi a composizione collegiale.

Inoltre, può escludersi la rilevanza penale di condotte sia omissive sia meramente organizzative in quanto queste ultime, come, ad esempio, le ipotesi di aumento del capitale sociale, di scissione o fusione della società, non comportano un concreto pregiudizio per il patrimonio sociale.

Il reato si caratterizza per la previsione di un dolo specifico, esteso al concetto di vantaggio, nel quale sono quindi ricompresi anche casi che prescindono dall’arricchimento patrimoniale, come il prestigio personale, ed abbinato al dolo intenzionale dell’agente.

La scelta di tale forma intensa del dolo generico è stata criticata dalla dottrina in quanto, escludendo il dolo eventuale, si restringerebbe eccessivamente l’ambito applicativo della norma in esame.

Come evidenziato in precedenza, si tratta di un reato di evento poiché il compimento dell’atto di disposizione dei beni sociali deve concretizzarsi in un danno per il patrimonio sociale.

Alla previsione di tale evento si ricollega anche l’ultimo comma dell’art. 2634 c.c., che prescrive la procedibilità a querela della persona offesa, ponendo, di conseguenza, dei problemi applicativi in ordine alla corretta individuazione del soggetto legittimato.

Secondo parte della dottrina, la proposizione della querela deve essere votata dall’assemblea dei soci.

Questa tesi, però, potrebbe aprire la strada ad ipotesi di c.d. “mercanteggiamento” tra la società ed i singoli amministratori e non tiene conto del termine di tre mesi previsto dall’art. 124 c.p. rapportato ai tempi di convocazione dell’assemblea stessa.

La giurisprudenza, invece, sembra ammettere la possibilità che a proporre la querela sia anche il socio “uti singulo”.

Il secondo comma dell’art. 2634 c.c. incrimina, invece, il c.d. “conflitto esterno” dei soggetti titolari del potere gestorio in relazione ai c.d. patrimoni gestiti.

Secondo parte della dottrina, tale norma riduce l’ambito operativo della disposizione ex art. 167 T.U.I.F., che si applicherebbe, pertanto, esclusivamente agli intermediari finanziari non societari.

Il terzo comma rappresenta, invece, una delle novità più importanti della riforma in quanto introduce per la prima volta nell’ordinamento giuridico la rilevanza del fenomeno dei gruppi societari attraverso la teoria dei vantaggi compensativi.

Secondo l’orientamento maggioritario della dottrina, nel caso in cui un’operazione nell’immediato dannosa per una società controllata o collegata sia successivamente compensata dai vantaggi economici derivanti dall’appartenenza al gruppo, l’esclusione dell’ingiustizia del profitto conseguito dall’amministratore infedele rappresenterebbe un elemento tipizzante della fattispecie e non un causa di non punibilità legata ad una scelta politico-criminale del legislatore.

Da tale qualificazione dovrebbe discendere l’applicazione del terzo comma dell’art. 2634 c.c. anche ad altre norme incriminatici come l’art. 646 c.p. o l’art. 223 L. fall., nella parte in cui richiama appunto il reato societario in esame.

La giurisprudenza, invece, soprattutto in ambito fallimentare, tende a negare tale estensione, ribadendo l’autonomia giuridica ed economica delle singole società appartenenti al gruppo.

È opportuno, però, sottolineare che l’elisione del dolo specifico può operare solo quando i vantaggi siano conseguiti o fondatamente prevedibili, cioè ancorati ad elementi certi ed oggettivi, e vi sia una proporzionalità tra il danno subito dalla controllata e i vantaggi derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo.

Analizzata la struttura del reato di cui all’art. 2634 c.c., occorre infine individuarne i rapporti intercorrenti con l’art. 646 c.p. e l’art. 2635 c.c..

Secondo l’orientamento prevalente della dottrina, confermato dalla giurisprudenza di legittimità più recente, tra i reati di infedeltà patrimoniale e di appropriazione indebita sussiste un rapporto di specialità reciproca.

Pertanto, nella materia dei reati societari residua uno spazio di operatività del reato previsto dall’art. 646 c.p. nel caso in cui non si accerti un preesistente e autonomo conflitto di interessi dell’amministratore.

In merito, infine, ai rapporti con l’art. 2635 c.c., si osserva che questa disposizione prevede tra i soggetti agenti anche i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari ex L. n. 262/2005, i sindaci e i responsabili di revisione.

La ratio di tale estensione è legata alle modalità esecutive della condotta, cioè il compimento o l’omissione di atti in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio.

L’art. 2635, quindi, incrimina anche le condotte omissive e quelle meramente organizzative.

Lo stesso evento, qualificato come “nocumento”, richiama aspetti che possono anche non ricollegarsi ad un pregiudizio patrimoniale diretto per la società, come, ad esempio, la lesione dell’immagine societaria.

Possiamo individuare un’ulteriore differenza strutturale nell’elemento soggettivo previsto dall’art. 2635 c.c., che sembra ricomprendere anche le ipotesi di dolo eventuale, non richiedendo una forma particolarmente intensa del dolo generico.

Ma il tratto distintivo principale del reato di infedeltà patrimoniale a seguito di dazione o promessa di utilità è la sussistenza del “pactum sceleris”, che qualifica questa particolare forma di corruzione privata.